Nečaev – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:40:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR” di Alessandro Bertante https://www.carmillaonline.com/2022/02/14/mordi-e-fuggi-il-romanzo-delle-br-di-alessandro-bertante/ Mon, 14 Feb 2022 22:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70522 di Paolo Lago

Alessandro Bertante, Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Baldini+Castoldi, Milano, 2022, pp. 205, euro 17,00.

In Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Alessandro Bertante, con la consueta maestria, presenta un altro dei suoi personaggi ‘dannati’ e solitari, implacabili camminatori metropolitani sull’orlo di inferni, instancabili attraversatori di frontiere in scenari contemporanei che sembrano già crudeli rappresentazioni di distopie in atto. Il protagonista Alberto Boscolo è un personaggio di finzione incastonato in uno spaccato storico reale: la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la fondazione e le [...]]]> di Paolo Lago

Alessandro Bertante, Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Baldini+Castoldi, Milano, 2022, pp. 205, euro 17,00.

In Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Alessandro Bertante, con la consueta maestria, presenta un altro dei suoi personaggi ‘dannati’ e solitari, implacabili camminatori metropolitani sull’orlo di inferni, instancabili attraversatori di frontiere in scenari contemporanei che sembrano già crudeli rappresentazioni di distopie in atto. Il protagonista Alberto Boscolo è un personaggio di finzione incastonato in uno spaccato storico reale: la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la fondazione e le prime azioni delle Brigate Rosse. Bertante incentra la sua narrazione sulla fase aurorale delle BR, quando queste ultime erano ancora uno dei tanti gruppi della sinistra extraparlamentare, e neppure particolarmente violento. Come l’autore sottolinea in una sua intervista a “Fahrenheit”, il romanzo ci offre delle immagini assai lontane da ciò che potremmo immaginarci oggi pensando alle Brigate Rosse, associate sempre all’efferatezza dei cosiddetti “anni di piombo” nonché al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro. Le BR che emergono dalle pagine di Mordi e fuggi sono un gruppo extraparlamentare impegnato soprattutto in atti dimostrativi e altamente radicato nelle fabbriche e nei quartieri più popolari e proletari, nei quali contribuiva anche all’occupazione degli stabili: «Eravamo il gruppo estremista responsabile degli attentati incendiari ai padroni ma anche uomini e donne che lavoravano nei quartieri e si facevano volere bene dai proletari».

Il personaggio di Alberto Boscolo – continua l’autore nell’intervista – si ispira a uno dei due brigatisti delle origini che hanno lasciato quasi subito la lotta armata e che non sono mai stati identificati. Non sarebbe azzardato, perciò, definire Mordi e fuggi (il titolo viene dalla frase che i brigatisti scrissero sul cartello appeso al collo del dirigente della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini durante il suo ‘sequestro-lampo’) come un romanzo storico che mette in scena uno spazio e un tempo preciso: Milano fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta. E allora, sotto i nostri occhi, fra le lotte e le contestazioni operaie e studentesche, scorrono alcuni degli eventi più tragici e luttuosi di quel periodo come la strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969, o l’assassinio di Giuseppe Pinelli. Gli eventi reali (in cui incontriamo i veri protagonisti di quegli anni, Renato Curcio, Mara Cagol, «il Mega» alias Alberto Franceschini) accaduti in quel periodo non sono però scrutati per mezzo di uno sguardo freddo e distaccato, ma vengono raccontati con partecipazione emotiva da un personaggio che, in essi, si trova immerso fino al collo. Perché il ventenne Alberto Boscolo, come già accennato, non è poi troppo diverso da altri personaggi di Bertante: irrequieti fino al limite della ‘dannazione’, immersi in un universo sociale contemporaneamente amato e odiato, tormentati dalle proprie scelte passate e future, condannati a osservare la realtà per mezzo di uno sguardo ipersensibile e partecipato (caratteristica, questa, che Mordi e fuggi – offrendo per di più uno spaccato storico reale – ha in comune con il “New Italian Epic” delineato da Wu Ming 1).

Probabilmente, anche lui è un «sopravvissuto» come Alessio Slaviero, personaggio io narrante che incontriamo in altre opere dell’autore, da Nina dei lupi (2011) fino a La magnifica orda (2012) e Estate crudele (2013). Un personaggio attanagliato dalla solitudine, ‘eversivo’ cultore dell’erranza metropolitana, incanaglito abitatore di soffitte e mansarde nel centro di Milano. Come Alessio Slaviero o come il protagonista de Gli ultimi ragazzi del secolo (2016), Alberto Boscolo compie lunghe camminate per Milano tratteggiate come vere e proprie imprese epiche. Lo sguardo ipersensibile di questi personaggi attua una vera e propria trasfigurazione della realtà; Boscolo, come Slaviero, si immagina di essere un cavaliere errante, un guerriero epico che combatte per la libertà (non a caso, nel libro viene spesso richiamato il paradigma mitico di Robin Hood). La stessa sintassi, frammentata in sintagmi lenti e solenni, dominati dall’anafora, mima l’incedere della narrazione epica (si legga, ad esempio, questa frase: «[…] siamo coraggiosi e temerari, siamo sprezzanti del pericolo. Siamo le Brigate Rosse»). La camminata si trasforma allora in un procedimento stilistico che, guardando a modelli illustri, permette il dipanarsi dell’incedere narrativo. Comunque, a monte delle erranze metropolitane (che, dalla flânerie ottocentesca fino alla «nomadologia» di Deleuze e Guattari possiedono una forte impronta sovversiva) dei personaggi di Bertante, più che l’epica, molto probabilmente, c’è il romanzo dell’Ottocento. Le stesse camminate metropolitane si avvicinano a quelle di diversi personaggi dostoevskijani, a cominciare da Raskol’nikov. È lo stesso Boscolo, del resto, a paragonarsi al protagonista di Delitto e castigo in un impeto di “mitomania” letteraria, in un momento in cui, dopo la scoperta e la cattura di alcuni suoi compagni, si chiude in casa sentendosi braccato:

Bruciai nel lavandino tutti i documenti in mio possesso: volantini, carta d’identità falsa, comunicati delle BR. Ma ancora non bastava, dovevo sedarmi per calmare la tensione prima di trasformarmi in una specie di caricatura di Raskol’nikov, privo di qualsiasi senso di colpa o tormento esistenziale ma comunque febbricitante e imprigionato fra le quattro mura di una mansarda. Scesi in strada e, muovendomi come una spia in territorio nemico, percorsi un centinaio di metri per raggiungere la bottiglieria di corso Genova, come al solito affollata di gente. Entrai e comprai una fiaschetta di grappa da mezzo litro. Tornato a casa, cominciai subito a bere, stolto e metodico fino a ottenere un poco di tregua dai pensieri ossessivi. Mi addormentai ubriaco, sdraiato sul piccolo divano della cucina.

Pure se «caricatura» di Raskol’nikov (i modelli alti sono sempre irraggiungibili), Boscolo si muove in spazi molto simili a quelli del personaggio di Dostoevskij: la strada, spazio di incontri buoni o cattivi, una soffitta, piccola e stretta (simile a una bara o a una tomba secondo Bachtin), le osterie dove si reca a bere e dove si dischiudono nuovi incontri e nuovi percorsi narrativi. La ‘letterarietà’ del personaggio è indiscutibile: esce in preda all’angoscia, va in una bottiglieria affollata e compra della grappa per poi ubriacarsi da solo in casa, azioni che davvero non compierebbe un lucido militante delle BR in clandestinità, col rischio di essere arrestato. E, parlando di Dostoevskij, non si può non ricordare I demoni (ispirato alle vicende politiche e sociali che ruotano attorno alla cellula rivoluzionaria di Nečaev) le cui atmosfere sembrano assai presenti in Mordi e fuggi mentre lo stesso Boscolo potrebbe apparire come una «caricatura» del ‘demonico’ Stavrogin. E dai personaggi dostoevskijani Boscolo sembra mutuare anche la sua angoscia devastante che, ubriaco o febbricitante, gli fa percorrere dimesse spazialità urbane (anche i personaggi ‘angosciati’ dello scrittore russo sono spesso caratterizzati come febbricitanti).

Lo spazio in cui avviene l’azione narrativa di Mordi e fuggi, come già osservato, possiede una collocazione precisa: Milano, che il personaggio percorre in lungo e in largo, dal centro alla periferia. I luoghi in cui avviene la narrazione sono sempre affrescati con precisione, dalle periferie ai quartieri del Giambellino e di Lorenteggio, da Piazza Duomo a via Tadino fino a Piazza Fontana. Il romanzo si apre con Boscolo che, in una fredda mattina di novembre, sta facendo volantinaggio all’ingresso di una fabbrica sulla circonvallazione ovest, vicino alla casa dei genitori che ha lasciato da tempo. Anche lo stesso spazio milanese, a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, assume connotazioni quasi mitiche, perennemente caratterizzato come freddo e avvolto dalla nebbia; uno spazio e un tempo – sembra – ormai sconosciuti e dimenticati: «Faceva sempre molto freddo in quegli anni, ogni giorno le città si risvegliavano al buio, coperte da una fitta nebbia che la luce dei lampioni non riusciva a spezzare». Del resto, si tratta dello stesso spazio tratteggiato ne Gli ultimi ragazzi del secolo in cui, in forma autobiografica, lo scrittore ripercorre la sua infanzia e adolescenza (la casa natale, anche qui, si trova vicino alla circonvallazione ovest; ma echi autobiografici sono presenti in quasi tutti i romanzi di Bertante: i nomi dei personaggi Alessio e Alberto, non a caso, hanno le stesse due lettere iniziali del nome Alessandro). Anche la Milano dell’infanzia, ne Gli ultimi ragazzi del secolo, appare sempre connotata da inverni freddissimi, allontanati in un ricordo che si fa mito, e la stessa città finisce per somigliare a quella, nebbiosa e malinconica, che vediamo in Milano calibro 9 (1972) di Fernando Di Leo, film ispirato alle suggestive atmosfere narrative di Giorgio Scerbanenco.

Ma quello spazio del mito – nonostante la formidabile temperie culturale e sociale degli anni Settanta, ancora di là da venire – sembra già possedere in sé i segni di una lenta decadenza: la Milano nebbiosa, fredda, solcata da lotte e contestazioni, sta per lasciare lentamente il passo alla Milano “da bere” degli anni Ottanta. Boscolo giunge in Piazza Duomo «completamente stralunato» e si ritrova in uno spazio che, sulla scia di un nuovo pervasivo consumo di massa, è destinato inesorabilmente a mutare: «Le grandi insegne pubblicitarie illuminate dal neon di fronte alla cattedrale raccontavano di una nuova esaltante stagione commerciale inneggiante all’alcolismo: Cinzano, Vov, China Martini, Fernet Branca, Vermouth Bosca erano lusinghe viziose appena mitigate dalla universalità popolare della Coca-Cola e dal rassicurante paesaggio piccolo-borghese delle Collezioni Facis». La città è destinata a trasformarsi nella «Milano Metropoli degli anni Ottanta», falcidiata dall’eroina e dalle televisioni private, cantata da Bertante ne Gli ultimi ragazzi del secolo. E Alberto Boscolo? In che modo si avvia verso questi nuovi anni di disimpegno, una volta abbandonata la lotta armata? Cos’altro sappiamo di lui? Come scrive l’autore in una nota finale «per il lettore», «nessun brigatista del nucleo storico rivelò la sua vera identità. Cosa che non faremo nemmeno noi».

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Nel ventre della bestia https://www.carmillaonline.com/2014/04/10/nel-ventre-della-bestia/ Wed, 09 Apr 2014 22:15:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14008 di Sandro Moiso nelventredellabestia

Jack Henry Abbott, Nel ventre della bestia, DeriveApprodi, 2014, pp. 192, euro 15,00

A più di trent’anni dalla sua comparsa sulla scena letteraria americana e a trentadue dalla sua prima edizione italiana1, DeriveApprodi torna meritoriamente a pubblicare, nella nuova traduzione di Lanfranco Caminiti, uno dei libri più importanti, forse il più importante, scritto dall’interno dell’Inferno carcerario americano. Anche se Jack Henry Abbott, di cui saranno narrate le vicende poco più avanti, non è stato il primo detenuto a descrivere l’universo concentrazionario delle prigioni americane dal punto di vista di un prigioniero.

Caryl Chessman [...]]]> di Sandro Moiso nelventredellabestia

Jack Henry Abbott, Nel ventre della bestia, DeriveApprodi, 2014, pp. 192, euro 15,00

A più di trent’anni dalla sua comparsa sulla scena letteraria americana e a trentadue dalla sua prima edizione italiana1, DeriveApprodi torna meritoriamente a pubblicare, nella nuova traduzione di Lanfranco Caminiti, uno dei libri più importanti, forse il più importante, scritto dall’interno dell’Inferno carcerario americano. Anche se Jack Henry Abbott, di cui saranno narrate le vicende poco più avanti, non è stato il primo detenuto a descrivere l’universo concentrazionario delle prigioni americane dal punto di vista di un prigioniero.

Caryl Chessman l’aveva già fatto con una serie di libri2, scritti e pubblicati negli anni ‘50 nel tentativo di rinviare o fermare l’esecuzione della pena capitale, poi avvenuta nel 1960.
Mentre Edward Bunker si affermò come apprezzato scrittore di crime novel proprio a partire dalla sua esperienza carceraria3 , fino a giungere a diventare ispiratore e musa del primo film di Quentin Tarantino: Reservoir Dogs.

L’elenco potrebbe ancora continuare, ma Abbott è, forse, l’unico a portare la testimonianza di un’intera vita passata tra riformatorio e carcere: ”Sono nato il 21 gennaio 1944, in una base militare a Oscoda, Michigan. Dalla nascita sono stato affidato a questa o quella famiglia. A scuola non ho finito la sesta elementare. A nove anni ho iniziato a trascorrere lunghi periodi in luoghi di detenzione minorile […] Adesso ho trentasette anni. Da quando ne ho dodici sono stato libero nove mesi e mezzo in tutto […] Ho calcolato che in tutto ho passato in isolamento quattordici o quindici anni” (pag. 23).

Il libro traeva origine, come rivela Norman Mailer nella prefazione, da una serie di lettere inviate da Jack Abbott allo stesso Mailer mentre questo stava scrivendo “Il canto del boia4 , un testo in cui si descrivevano gli avvenimenti che avevano portato all’arresto e all’esecuzione di Gary Gilmore, nell’intento (riuscito) di riaprire il dibattito sulla pena di morte in America . Mailer non era nuovo a questo tipo di iniziative, essendosi già mobilitato negli anni cinquanta, con molti altri scrittori ed intellettuali, per la revisione del processo Chessman.

Caryl Whittier Chessman era stato “definitivamente” arrestato a 27 anni, avendone passati molti tra riformatori per minori e prigioni. Prima delle vicende che lo portarono alla morte, Chessman era stato protagonista di rapine, furti con e senza scasso, probabilmente l’omicidio e svariati altri crimini. In carcere Caryl Chessman aveva scelto di difendersi da sé dall’accusa per rapina, sequestro ed abuso sessuale per cui rischiava la pena capitale e proprio questa auto-difesa aveva costituito il tema di quasi tutti i suoi libri. Nonostante la sua rivendicata innocenza fu però giustiziato, dopo aver ottenuto ben otto rinvii dell’esecuzione nell’arco di 12 anni, il 2 maggio 1960 alle 10 del mattino. Nello stesso momento dall’ufficio del giudice che si era occupato del caso, informato che una rivista aveva scoperto nuove prove a favore del condannato, arrivava una chiamata per l’ennesima sospensione all’appuntamento col boia. Ma era troppo tardi così, alle 10:12 di quello stesso giorno, Chessman fu dichiarato morto.

Abbott rivela da subito un altro intento. Si è politicizzato in carcere, come George Jackson5 , e non vuole tanto sostenere la propria innocenza, che non può esistere per il sistema giudiziario borghese, quanto, piuttosto, rivelare le condizioni di vita e repressione presenti all’interno del ventre della bestia, nel cuore e nella pancia dell’imperialismo statunitense. E delle conseguenze che queste hanno sulla vita, la psiche e i comportamenti dei detenuti di lungo periodo come lo stesso autore.

In qualche modo ho provato a trasmetterle le sensazioni – lei forse direbbe: la pressione atmosferica – di cosa davvero comporti essere un condannato a lunga pena in una prigione americana. Voglio essere ancora più preciso. Ho provato a comunicarle cosa significhi stare in carcere dopo aver passato la propria giovinezza in istituti di pena” (pag. 19)

Così la prigione mi sta strappando dentro. Ogni giorno mi ferisce. Ogni giorno mi porta sempre più lontano dalla mia vita. E non sono nemmeno in grado di capire come stia accadendo questa mia dissoluzione. In ogni caso, non posso fermarla […] Sento la vergogna e l’odio. Se le circostanze mi costringono a stare in mezzo ad altri detenuti, a stento mi trattengo dall’aggredirli. Sento una tale ostilità, in tale odio, da non riuscire in alcun modo a trattenere la rabbia. Per tutti questi anni non ho fatto altro che sentirla. Paranoia […] La paranoia è la malattia contratta nelle prigioni. Non è la ragione delle mie condanne al riformatorio e al carcere. E’ l’effetto, non la causa” (pp. 20 – 21)

Abbott, come afferma esplicitamente nel testo, non intende presentarsi come un martire. O come un eroe: “Non sono un intellettuale, perché i miei pensieri per me sono anzitutto un predicato dell’azione […] Le ho detto all’inizio che non ero, per così dire, un tipo simpatico. Non ho mai provato ad abbellire alcunché. Non ho mai provato a piacerle […] La mia vita non è una «saga» e mi offende che lei usi un termine simile. Io non mi sento «eroico»” (pag.39)

Ed è proprio questa auto-riflessione sul proprio essere o, meglio, sull’essere dell’individuo detenuto a costituire la parte più interessante del testo. La più vera, la più tragica, la più disperata. Il misto di marxismo-leninismo e di anarchismo individualista che segna i giudizi più politici, le citazioni da Engels, Marx e da altri classici del movimento comunista ed operaio costituiscono, più che lo sfondo ideologico, l’unica cortina ideale che l’autore sembra voler lasciare tra il proprio essere reale e il mondo a cui intende rivelarsi. Meglio ancora: disvelarsi.

Questa storia delle emozioni è la faccia nascosta, oscura dei detenuti cresciuti dallo Stato. L’orribile punto debole che ciascuno nasconde a chiunque altro […] E’ il manto dell’orgoglio, dell’integrità, dell’onore. E’ la considerazione che d’istinto abbiamo per la violenza, la forza. E’ quello che ci rende efficaci, uomini il cui giudizio ha un impatto sugli altri, sul mondo: pericolosi assassini che agiscono da soli e senza alcuna emozione, che agiscono seguendo dei calcoli e dei principi, per vendicarsi, stabilire e difendere i propri principi compiendo degli omicidi che in genere eludono i processi giudiziari. Questa è per i detenuti allevati dallo Stato la concezione della virilità” (pag. 30)
necaev
Non a caso, forse, una delle figure che compare nelle pagine è quella tragica di Nečaev: rivoluzionario, assassino, provocatore infiltrato nelle file dell’anarchismo russo della seconda metà dell’ottocento o soltanto pazzo e paranoico?6 Non c’è tenerezza da perdere nelle pagine di Abbott e per questo il testo si rivela come il più sconvolgente, ancora adesso, sull’esperienza carceraria. E il più vicino all’esperienza dei detenuti di lungo periodo di ogni angolo del mondo. Anche qui nella democratica Italia del “fine pena mai”.

Il modello che emuliamo è un individuo fanaticamente arrogante e psicotico che non riesce neppure ad immaginare cosa sia il perdono, la pietà o la tolleranza, perché non ha esperienza di questi valori. Le sue emozioni non capiscono cosa significhino questi valori., ma li immagina come una serie di «debolezze»” (pag. 30)

Così, in questo contesto, anche l’apprendimento e l’acculturazione diventano un fatto meramente individuale, mentre la cultura diventa un’arma: “il sapere viene dall’esperienza, e i libri possono solo aiutare a capire l’esperienza. Non è solo una mia personale considerazione, ma l’esperienza di qualsiasi autorità carceraria: i più pericolosi detenuti – e intendo dire in senso «fisico» – sono «lettori e scrittori» […] I libri sono pericolosi dove c’è ingiustizia. Ho scontato giorni di pena solo per aver fatto richiesta di libri […] E’ questo il motivo per cui hanno instaurato dei «programmi educativi» in carcere, così possiamo imparare solo quello che loro vogliono che impariamo. E’ un punto d’orgoglio per me il fatto di non essere mai stato in una scuola in prigione” (pp. 36 – 37)
jack abbott1

In virtù di questo libro, e grazie alla mobilitazione intellettuale che si era creata in suo favore per il tramite di Norman Mailer, Abbott poté uscire dal carcere all’inizio del giugno 1981. Ma proprio il contenuto del testo era destinato a non costituire altro se non una sorta di lungo prologo al tragico epilogo del percorso dello scrittore-detenuto.

Sei settimane dopo, proprio il giorno prima che il New York Times ne pubblicasse una positiva recensione, Jack uccise a coltellate un cameriere ventiduenne a seguito di un banale litigio. Gli fu comminata una pena da 15 anni a vita per omicidio preterintenzionale. La vedova del cameriere avrebbe incassato negli anni tutti i proventi derivanti dai diritti d’autore sulle vendite di “Nel ventre della bestia”.
Nel 2002 Abbott si impiccò in cella con strisce di lenzuola e lacci per scarpe.

La mia scheda di detenuto registra più atti di violenza denunciati dalle guardie di ognuno dei 25.000 detenuti federali attualmente in carcere, e io non sono colpevole dei nove decimi delle accuse. Tuttavia non posso fare nulla riguardo a questo. Se domani fossi picchiato a morte, la mia scheda andrebbe davanti al procuratore che indaga – e il mio «passato di violenza» giustificherebbe i miei assassini. Nei fatti, il regime carcerario può commettere qualsiasi atrocità nei miei confronti, e la mia «scheda» servirà a assoluzione” (pp. 33 – 34)


  1. Mondadori 1982 

  2. Caryl Chessman, Cella 2455 braccio della morte (1954). Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005; La legge mi vuole morto (1955). Milano, Rizzoli; Il volto della giustizia (1957). Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007; Violenza è la mia legge (1959). Milano Rizzoli  

  3. Edward Bunker, Come una bestia feroce, (1973) Mondadori 1996 oppure, sempre dello stesso autore, Educazione di una canaglia, (2000) Einaudi 2002  

  4. Norman Mailer, The Executioner’s Song, Premio Pulitzer nel 1980 

  5. cui dedica il suo libro insieme a Gary Gilmore e a molti altri detenuti deceduti in carcere 

  6. Si veda in proposito Michael Confino, Il catechismo del rivoluzionario, Adelphi 1976 – 2014  

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