nazismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una Bestia tira l’altra https://www.carmillaonline.com/2025/02/08/una-bestia-tira-laltra/ Sat, 08 Feb 2025 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86684 di Franco Pezzini

John Symonds, La testa di Medusa. Conversazioni fra Aleister Crowley e Adolf Hitler, ed. orig. 1991, con Appendice di Giorgio Ritter, trad. e note di Furio Morroni, pp. 323, € 18, Tre Editori, Roma 2024.

Ci sono temi che per un autore diventano ossessioni: sia perché a furia di incalzarli garantiscono un reddito di posizione apprezzabile, sia perché a un certo punto entrano a influire su un gioco identitario – in forme varie. Questo è il caso del rapporto tra John Symonds (1914-2006) e quell’Aleister Crowley che, conosciutolo nel 1946 come giornalista e romanziere, un po’ frettolosamente lo [...]]]> di Franco Pezzini

John Symonds, La testa di Medusa. Conversazioni fra Aleister Crowley e Adolf Hitler, ed. orig. 1991, con Appendice di Giorgio Ritter, trad. e note di Furio Morroni, pp. 323, € 18, Tre Editori, Roma 2024.

Ci sono temi che per un autore diventano ossessioni: sia perché a furia di incalzarli garantiscono un reddito di posizione apprezzabile, sia perché a un certo punto entrano a influire su un gioco identitario – in forme varie. Questo è il caso del rapporto tra John Symonds (1914-2006) e quell’Aleister Crowley che, conosciutolo nel 1946 come giornalista e romanziere, un po’ frettolosamente lo nomina proprio esecutore testamentario un anno prima di spegnersi settantaduenne il 1° dicembre 1947. Ma Aleister è fisicamente allo sfascio e quel giovane, rampante uomo di penna gli pare promettente.

Se avessero parlato di più, forse non l’avrebbe scelto. Inizialmente affascinato, Symonds si disgusterà via via delle idee e pratiche inanellate dal mago in una vita di eccessi sì – specialmente a proposito di sesso e droghe – ma anche di cultura e genialità che a Crowley vanno riconosciute insieme a spregiudicatezza, narcisismo e megalomania. Col risultato che le biografie che Symonds scriverà su di lui, pur ricchissime di dati e importanti per preservarne la memoria – The Great Beast (1952), The Magic of Aleister Crowley (1958), The King of the Shadow Realm (1989) e The Beast 666 (1997) – suoneranno tanto critiche da farlo considerare come il più ostile dei suoi biografi (così Israel Regardie).

Assieme a Kenneth Grant, Symonds curerà e ripubblicherà anche l’autobiografia di Crowley e varie altre sue opere, e verrà cooptato come consulente per il leggendario Man, Myth & Magic (1970): specialmente in un’epoca in cui la vulgata demonizza ancora banalmente il profilo dell’autodefinita Bestia 666, liquidandolo come satanista e mago nero da feuilleton, le competenze di Symonds sono preziose per correggere il tiro sulle peculiarità anche a dispetto di una certa malevolenza. Si può discutere sull’affermazione che senza quei testi il vecchio Aleister sarebbe stato dimenticato, a fronte dei vari filoni di interessi verso di lui emersi in chiave pop e controculturale (Anger, l’underground, la musica…): ma certamente si tratta di ricerche preziosamente documentate e che quel successo hanno sostenuto.

D’altra parte è un fatto che se oggi ricordiamo Symonds non è – specialmente fuori dall’Inghilterra – per i suoi numerosi romanzi romantici, psicologici o per bambini, per il resto della sua saggistica o la sua produzione teatrale, ma essenzialmente per le opere su Crowley.

Compreso questo romanzo, che si può definire serenamente fantastico. Non solo e non tanto per la pretesa di Aleister di rendere invisibile chi egli voglia – qui fantasiosamente acquisita come capacità effettiva – o per altre trovate di magia, ma per la messa in scena di un suo incontro con Hitler storicamente solo ipotetico. A dispetto infatti di voci del mondo dell’esoterismo, come il fantasioso Guénon che in una lettera a Evola (1949) collega la beffarda sparizione di Crowley in Portogallo con un viaggio “a Berlino per ricoprirvi il ruolo di consigliere segreto presso Hitler, che era allora agli inizi”, si tratta di speculazioni intriganti quanto storicamente indimostrate (per non dire infondate). Che i due possano essersi incrociati a Berlino, beh, persino Indiana Jones si imbatte in Hitler per recuperare il diario con le info sul Graal, ma tutto rientra nella confusa nebulosa di affabulazioni sul nazismo magico e le istanze controiniziatiche (termine caro a Guénon) delle due Bestie.

È pur vero che, senza scomodare le storie su Crowley collaboratore dei servizi britannici – forse un mero informatore, come potevano realisticamente fidarsi di un agente simile? – la sua speranza che qualche governo non cristiano sposasse la dottrina del Thelema doveva avere sfiorato tutti, dal fascismo (che lo caccerà dalla Sicilia) al nazismo ai soviet: e si rimanda agli studi fondamentali di Marco Pasi, in particolare Aleister Crowley e la tentazione della politica, Franco Angeli, Milano 1999, ed. aggiornata in lingua inglese Aleister Crowley and the Temptation of Politics, Routledge, London – New York 2014.

Più interessante dunque che ingolfarsi nella sciarada delle implausibilità storiche di un confronto come quello descritto è il ragionare sullo specifico del testo quale romanzo, apparso in 350 copie per la leggendaria Mandrake Press all’inizio degli anni Novanta. Paradossalmente – a dispetto di un passo narrativo fin troppo pudico e perbenino per il comportamento e le pratiche di Crowley – comico e tragico: le atrocità del nazismo in ascesa e i siparietti della Bestia tra camere da letto e vassoi di pasticcini si contrappuntano in modo straniante, fascinosamente grottesco. Hitler, con le sue eruzioni emotive, alterna fragilità penose e tossicità superomistiche: e di fronte a lui il mago risulta un equilibrato maestro di vita. Ora, questo registro un po’ sghembo per cui non si capisce mai se il passo successivo guarderà la farsa o l’orrore (e dal finale dedicato all’orrore Crowley si dilegua), rappresenta forse sul piano letterario l’aspetto più intrigante, e la scrittura fresca e godibile porta avanti il lettore. Premesso che si tratta di un libro molto criticato (si è osservato che l’autore avrebbe potuto utilizzare meglio le sue competenze sulla Bestia) merita invece lodare questa proposta gustosa nel catalogo ricco e suggestivo Tre Editori, ottimamente curata, tradotta e annotata: trattandosi di un titolo ogni tanto citato, è interessante per il pubblico italiano poter accostarlo direttamente e cogliere l’occasione per riflettere meglio sulla costruzione di un mito Crowley impastato di stranezze almeno quanto il suo oggetto.

Chiaro che Symonds resta Symonds: così come espurga dalle descrizioni dei rapporti di Crowley con le donne sottomano qualunque tipo di oscenità (mostrandolo anzi sempre garbato e dignitoso, amabilmente ironico e un po’ birichino tra madame filohitleriane in fregola), così allo stesso modo sul panorama di Berlino la sua lente è quella del moderato anglosassone, che considera parificabili tout court quanto a minacciosità l’estrema destra e l’estrema sinistra. E si disinteressa quasi totalmente – tranne qualche cenno nella conferenza dell’O.T.O. all’inizio, con il cameo di Albin Grau, produttore e scenografo del Nosferatu di Murnau – a quel ricchissimo, febbricitante, lisergico e talora morboso mondo culturale di Weimar frequentato da Crowley con Isherwood e tanti altri nomi eccellenti. Peccato, perché lì la magia c’era davvero.

]]>
Nuovi mostri: s’avanza il liberal-nazismo? https://www.carmillaonline.com/2025/02/04/nuovi-mostri-savanza-il-liberal-nazismo/ Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86764 di Gennaro Scala

È necessario sottrarsi al gioco di specchi tra sinistra e destra imperialistiche. Pensiamo a un Saviano che maledice Musk, ma non ha niente da dire sul genocidio in Palestina, o, al fatto ovvio che il “saluto romano” di Musk non intaccherà la stretta alleanza tra Usa e Israele (in merito difeso su X da Netanyahu, quale “grande amico di Israele”), ecc.

Tuttavia, non prendere sul serio e ignorare il plateale gesto di Musk neanche convince. Innanzitutto, eviterei il “dibattito” se Musk è fascista o nazista, visto che fino a qualche a tempo fa era in ottimi rapporti [...]]]> di Gennaro Scala

È necessario sottrarsi al gioco di specchi tra sinistra e destra imperialistiche. Pensiamo a un Saviano che maledice Musk, ma non ha niente da dire sul genocidio in Palestina, o, al fatto ovvio che il “saluto romano” di Musk non intaccherà la stretta alleanza tra Usa e Israele (in merito difeso su X da Netanyahu, quale “grande amico di Israele”), ecc.

Tuttavia, non prendere sul serio e ignorare il plateale gesto di Musk neanche convince. Innanzitutto, eviterei il “dibattito” se Musk è fascista o nazista, visto che fino a qualche a tempo fa era in ottimi rapporti con l’amministrazione Biden, fin quando non ha deciso di cambiare cavallo, puntando su quello vincente. È evidente un uso puramente strumentale delle ideologie, da parte di questi personaggi, che non credono in nulla, al fine di raggiungere determinati scopi. Chiediamoci invece quali obiettivi politici persegue Musk nell’ambito dell’amministrazione Trump. Analizziamo il “saluto romano” che in quanto gesto simbolico condensa diversi significati. Musk ha voluto richiamarsi al saluto alla bandiera americana, il “saluto di Bellamy”, introdotto nel 1892, e poi abbandonato durante la seconda guerra mondiale perché troppo simile a quello nazista, e sostituito con il gesto della mano sul cuore. Il gesto di Musk, come si vede nei filmati, unisce le due forme di saluto. Ma, siccome il “saluto romano” non era in uso  il riferimento inequivocabile è proprio al “saluto romano” (che tra i romani invece non era in uso in ambito politico come ci informano gli storici). La vicenda ha assunto dei connotati che diremmo comico-grotteschi, se non si trattasse di personaggi con un enorme potere, stile la gag  “Hitler Tony” di Lillo e Greg, quando Musk ha postato su X  le foto di Obama, della Clinton, della Harris immortalati nel “saluto fascista”, mentre, in realtà, stavano salutando la folla. Invece, Musk ha proprio inteso fare il “saluto romano”, ma poi nega l’evidenza … è Hitler Tony (per chi non ha visto la gag è facile da ritrovare in internet).

Musk fa una sorta di sintesi tra le due “tradizioni” (quella americana e quella fascista-nazista). Mettiamo quindi in relazione il gesto con i rapporti stabiliti recentemente da Musk con le destre “populiste” europee, con Farage, con Meloni e in particolare focalizzerei sull’intervista con Alice Weidel, leader di AfD, durante la quale la politica tedesca l’ha sparata grossa, sostenendo che “Hitler era comunista”. L’idiozia dell’affermazione è dovuta allo sforzo di mantenersi nel campo liberale. Ma è uno sforzo che può essere una reazione al non detto dell’intervista, che, come credo si possa ben ipotizzare, è il proposito muskiano di utilizzare le destre europee, compreso il nostalgismo fascista e nazista, presente sia in Fratelli d’Italia che in AfD, in funzione anti-russa. In particolare, al fine armare e indirizzare la Germania contro la Russia. Il che potrebbe causare l’utilizzo delle armi atomiche tattiche della Russia contro la Germania. Attualmente, l’AfD sarebbe per dei buoni rapporti con la Russia, ma lo era anche FdI della Meloni, prima di andare al governo.

D’altronde sarebbe una politica ben in continuità con l’utilizzo dei movimenti neo-nazisti e banderisti in Ucraina. Quindi la frattura con l’amministrazione Biden è più apparente che reale, si tratta piuttosto di  una mutazione della pelle del serpente.

Nell’ “infosfera” mediatica (ormai prevelantemente internettiana) è diventata dominante un’atmosfera generale di abolizione del confine tra finzione e realtà (una delle caratteristiche del totalitarismo, secondo Hannah Arendt), Trump proclama di voler annettere Canada, Groenlandia, e Canale di Panama, mentre, come annunciano i media ufficiali, Google, in ottemperanza al “nuovo corso” trumpiano, modificherà per gli utenti statunitensi il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America”, Musk si produce nel “saluto romano”, ma non vengono presi sul serio. Invece, intendo fare il contrario, per cui abbandonerò il campo del presente senza storia del mondo dei “social” per un’analisi storica e strutturale molto a “volo d’uccello” (magari come abbozzo di una successiva analisi più dettagliata), partendo piuttosto da lontano. Nonostante il mito di Roma nella propaganda fascista e nazista, esiste una notevole diversità tra la civiltà greco-romana , in quanto il fascismo ad es. sulla questione razziale è addirittura antitetico alla cultura romana che è stata tra le civiltà meno razziste della storia, come ha mostrato in varie occasioni lo storico Andrea Giardina. L’ideologia nazista è pagano-nordica più che romana, anzi avversa a quella parte del romanesimo quale sede del cattolicesimo. Era immersa in quell’avversione per la romanitas che va da Hegel a Heidegger, espressione di un germanesimo che produsse la gigantesca statua di Arminio eretta in Germania durante l’800. Si tratta di una frattura culturale tra Europa del Nord ed Europa latina che Dostojevskjj definì l’“eterno protestantesimo” dei tedeschi che faceva risalire ad Arminio, eroe dei Germani nella battaglia di Teutoburgo contro i Romani. È nota, nell’ambito degli studi sull’ideologia razziale, la distinzione tra un razzismo gerarchico, su base universalistica, di matrice cattolica che contempla l’inclusione dell’Altro su base inegualitaria, e il razzismo differenzialista di matrice protestante che contempla la separazione e la segregazione, e in ultima istanza, lo sterminio dell’Altro. Vedi in merito la diversa sorte delle popolazioni indigene dell’America del Nord rispetto a quelle del Sud. L’ideologia razziale biologistica del nazismo fu erede maggiormente del secondo tipo di razzismo.

Sui rapporti tra gli Usa e la Germania nazista esiste una vasta letteratura. Non solo riguardo al reclutamento dei ex-nazisti in funzione anti-comunista da parte della Cia nel dopoguerra, che ha, tra gli altri, dato i suoi frutti in Ucraina. In ambito sociologico, vi è stata la “critica della cultura di massa”, (vedi in merito il mio libro su Bruno Bettelheim, consultabile su www.gennaroscala.it) che aveva analizzato continuità e affinità tra nazismo e “società di massa” statunitense nel dopoguerra (non solo Scuola di Francoforte, vedi es. Charles Wright Mills che riprendeva il saggio di Kracauer sugli impiegati applicandolo alla società statunitense). Il motivo per cui ci si concentrava sui media era dovuto al fatto che l’invenzione della radio, del cinema e poi della televisione introduceva un cambiamento complessivo nell’assetto delle nazioni moderne. Se lo stato-nazione moderno si caratterizza per la concentrazione del potere coercitivo e del potere economico, la “cultura di massa” introduceva la concentrazione del potere ideologico. Cambiando la prospettiva si potrebbe dire che non gli Usa hanno ripreso alcuni aspetti del “totalitarismo nazista”, piuttosto che nazismo e comunismo sovietico, secondo il principio della rivalità mimetica tra gli stati, abbiano ripreso, in forma rozza e imperfetta, alcuni aspetti della “società di massa” statunitense, dove essa si presenta nella forma compiuta, senza abbandonare la forma esteriore democratica, pur essendo una ferrea oligarchia con un controllo capillare sulla società. Questo perché la “società di massa” consentiva una forma di mobilitazione della società in una forma qualitativamente diversa rispetto al passato, con i suoi risvolti sul piano della capacità militare, da cui il tentativo di imitare gli Usa delle potenze che gli si opponevano. Non a caso Hitler diceva che la propaganda politica deve assomigliare alla réclame di una saponetta.

La “critica della società di massa” fu tuttavia estremizzata. Gli autori cinematografici, ad es., hanno dovuto fare i conti con la necessità di rappresentare il sentire popolare, pena l’insuccesso, per cui non si può liquidare tutta la produzione dell’“industria culturale” come pura e semplice propaganda mirante al condizionamento culturale, per cui va corretto il punto di vista “apocalittico” di un Adorno, quale ultimo esponente di una cultura europea che veniva a dissolversi di fronte all’avvento della “cultura di massa” (anche Pasolini ebbe un atteggiamento simile). Ma non bisogna dimenticare che la propaganda c’è soprattutto dove non si vede, nel cinema, nella musica, e che vi è sì qualcosa di buono ma in mezzo ad un mare di prodotti scadenti e anche dannosi.

Dopo radio, cinema e televisione è arrivato internet, il quale, con l’avvento dei social media e dell’AI (la cosiddetta intelligenza artificiale), consente un controllo ancora più capillare, che vede un salto qualitativo nell’ambito del sistema mediatico (una trasformazione che è ancora tutta da capire sul piano analitico). Musk è espressione del mondo di internet, e tutto il GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple, i nuovi “padroni del vapore”) si sta riallineando dietro di lui. Il suo scatto nel saluto nazista non può non fare pensare ad una delle scene iconiche del cinema del dopoguerra, Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove, nel titolo originale) che ha inconsapevolmente imitato, a dimostrazione della forza dei simboli prodotti dalla cultura cinematografica. Quando, sul palco dell’inaugurazione della presidenza Trump, gli parte il braccio, sembra proprio la materializzazione del personaggio cinematografico. Tra l’altro, Musk come Stranamore è uno che si propone come apportatore di soluzioni “tecniche” geniali.

Se il secolo scorso vide l’irrompere, nell’ambito della competizione imperialistica, il mostro dello Stato razziale (Behemot, secondo il titolo di un libro di Franz Neumann), negli Usa vediamo il capitale finanziario che si fa stato. Continuiamo ad utilizzare il termine liberismo, ma, come scrive Alessandro Volpi (I Padroni del mondo) è difficile anche parlare di capitalismo nel regime di monopolio stabilito dal dominio dei grandi fondi azionari. La “genialità” di Musk, in questo contesto, non è la più convincente spiegazione del suo successo. “Tesla, infatti, vende circa un milione di auto e vale, appunto, mille miliardi in Borsa, mentre Volkswagen, che di auto ne produce quasi 10 milioni, vale un decimo. Qualcosa non torna. L’enigma si chiarisce tenendo presente che l’andamento del titolo Tesla è stato sapientemente pilotato dai grandi fondi, come Vanguard, che è il secondo azionista della società di Musk”.

L’auto-caricatura inconsapevole messa in scena da Musk è segno di una tragedia che ancora una volta si ripresenta in farsa? Il gesto di Musk è “solo” un pezzo della madman strategy? Gli Usa non sono più quelli dei primi decenni del dopoguerra, ma non esistono neanche quelle forze della cultura popolare che si erano espresse ad es. nel film di Kubrick, capaci di correggere gli eccessi del regime. In determinati frangenti, tra potenze atomiche, la farsa può essere altrettanto pericolosa, e tramutarsi di nuovo in tragedia, per cui non è da sottovalutare, ma da valutare con attenzione il significato del gesto di Musk.

Nel tentativo di trascinare le nazioni europee in una guerra diretta contro la Russia gli Usa si giocano molto. Se il progetto non riesce con la Germania, vedremo un’accelerazione del loro declino. Un conto è il prezzo, già alquanto salato, del conflitto “per procura”, tutt’altro sarebbe un conflitto diretto. Nel caso il progetto si realizzasse dovremo fare i conti con un nuovo mostro.

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 27 – Crisi europea, guerra, riformismo nazionalista e critica radicale dell’utopia capitale https://www.carmillaonline.com/2025/01/02/il-nuovo-disordine-mondiale-27-crisi-del-capitale-guerra-riformismo-nazionalista-e-critica-radicale-dellesistente/ Thu, 02 Jan 2025 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86178 di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata [...]]]> di Sandro Moiso

“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data” (Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù volontaria, 1548-1552)

E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata nel suo contrario.

Un’utopia che, per quanto “concreta” e già interagente nella Storia, ha, come qualsiasi altra, la necessità di delineare dei piani e delle prospettive di perfezionamento e realizzazione del proprio sogno di un mondo ideale. In cui, però, la perfezione corrisponde alla massimizzazione dei profitti e dello sfruttamento della forza lavoro a favore dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta da parte di pochi.

Per questo motivo, per giungere alla critica radicale di quella che Giorgio Cesarano1 definiva l’”Utopia capitale”, è sempre utile leggere e interpretare le voci dei suoi difensori, motivo per cui può rendersi necessaria la lettura di un articolo di Matthew Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, pubblicato su «Politico» a fine dicembre.

Karnitschnig è un giornalista che ha lavorato come redattore per Bloomberg, Reuters e Business Week, per poi trasferirsi al «Wall Street Journal» e diventare in seguito capo dell’ufficio tedesco dello stesso quotidiano finanziario, con sede a Berlino. Con il lancio della filiale europea del portale statunitense «Politico» con il gruppo Axel Springer nel 2015, è diventato capo dell’ufficio tedesco di Politico.eu. Per precisione è qui giusto ricordare che «Politico» è un quotidiano on line fondato negli Stati Uniti nel 2007, diventato in breve tempo uno dei media più importanti della politica di Washington e successivamente acquisito nel 2021 dalla Axel Springer Verlag.

In tale articolo Matthew Karnitschnig si accontenta, per così dire, di tracciare il ritratto di una crisi economica europea che definisce giustamente come apocalittica e che in gran parte dipende dalle differenti scelte fatte dall’economia americana rispetto a quella europea nel corso degli ultimi decenni.

Prima di iniziarne la lettura è però sempre meglio ricordare che già Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito comunista (1848), avevano colto nel capitalismo la sua capacità fondamentale di unificare il mercato mondiale. Ciò che allora era ancora un fenomeno destinato a concentrare nelle mani del capitale europeo, inglese soprattutto, una parte considerevole della ricchezza mondiale, oggi è diventato normale, coinvolgendo un maggior numero di attori nella competizione per l’accaparramento dei mercati e della ricchezza planetaria. Così, mentre tutti si affannano ancora a disquisire sulla fine o meno della globalizzazione, occorre ricordare che Engels in un suo testo tardivo aveva individuato nello sviluppo capitalistico cinese il momento culminante nella marcia espansiva del capitalismo e Rosa Luxemburg, proprio nel suo testo L’accumulazione del capitale (1913), aveva colto i precisi limiti del mercato mondiale e la necessità dell’imperialismo come fase della concorrenza spietata tra i differenti capitalismi nazionali, obbligati proprio da questa ad abbattere ogni confine di carattere nazionale sia fuori che dentro casa.

L’uso intensivo del termine globalizzazione, purtroppo, ha nascosto da qualche decennio a questa parte queste semplici scoperte vecchie più di un secolo, per dipingere una situazione di novità che di tal fatta non porta con sé proprio nulla. Compreso l’uso smoderato degli strumenti finanziari per compensare le difficoltà e i ritardi di un’accumulazione contesa ormai fra troppi player.

Se negli anni Novanta, infatti, la globalizzazione era sembrata lo strumento più avanzato del controllo del capitalismo occidentale sul resto del mondo, appare ora chiaro che, come aveva affermato Giulio Tremonti sulla rivista «Aspenia» già allora, la miseria delle buste paga dell’Oriente non soltanto europeo ha finito col rientrare nelle buste paga dell’Occidente. Ovvero il basso costo del lavoro in tanta parte del mondo, e soprattutto in alcuni dei paesi più industrializzati posti al di là dei confini dell’Occidente (Cina e India per esempio), ha finito col rendersi necessario anche là dove per una breve occasione storica, la seconda metà del XX secolo, la classe operaia e i lavoratori in genere avevano potuto usufruire di alti salari e notevoli garanzie di carattere sociale.

Alla fine del secondo conflitto mondiale erano stati proprio gli Stati Uniti a premere sull’Europa affinché fosse realizzato un sistema di welfare utile a stabilizzare i rapporti tra le classi per abbassare la conflittualità sociale e aumentare i consumi interni, in un momento in cui prima della ripresa europea e italo-tedesca in particolare a seguito delle ricostruzioni post-belliche, gli Stati Uniti rappresentavano, con i loro stabilimenti intonsi, la fabbrica del mondo, sia per quanto riguardava i consumi materiali che per quelli immateriali (cinema, spettacolo, musica, etc.).

Sfuggivano a questo schema, certo, i paesi dell’Europa orientale o del cosiddetto «socialismo reale» in cui però le garanzie sociali erano accompagnate da una produttività lavorativa bassa e rivolta più alla produzione di beni legati alla produzione di beni e a quella dell’industria pesante, che non alla produzione e al consumo di massa, strumenti invece indispensabili per la costruzione di una comunità basata sui principi dell'”utopia capitale” (qui). Il tutto aggravato da una spesa militare molto elevata per poter mantenere paritari i rapporti di forza con l’Occidente all’interno della Guerra Fredda o presunta tale.

Sono quelli che gli storici dell’economia chiamano i «Trenta ruggenti», gli anni che vanno dal 1945 al 1975 e che vedono il capitale occidentale, europeo e nordamericano, dominare la scena economica mondiale. Anni in cui la protesta operaia e le lotte sociali, per quanto combattive, potevano ancora essere accontentate nelle loro richieste di fondo. Sia che si trattasse di miglioramenti sul piano lavorativo e salariale che su quello, formale, dei diritti.

Anni in cui i partiti di sinistra, almeno in Occidente e in Europa in particolare, poterono immaginare di governare il corso degli eventi socio-economici e politici insieme a quelli di centro e centro-destra, spingendo per soluzioni socialdemocratiche condivise con i partiti centristi e di carattere repressivo nei confronti dell’estremismo di sinistra. Il tutto con il corollario di un’estrema destra che tornava svolgere il ruolo di arma di riserva per mantenere al loro posto le spinte più estreme in direzione del rinnovamento.

Questo quadro, qui estremamente semplificato per ragioni di spazio e tempo, si incrinò a partire dalla metà degli anni Settanta, quando le vittorie delle lotte anticoloniali iniziarono a ridurre non tanto l’influenza dell’imperialismo occidentale sul resto del mondo quanto, piuttosto, le entrate e i sovrapprofitti di cui anche la classe operaia occidentale aveva potuto usufruire grazie al basso costo delle materie prime e del plusvalore massicciamente estorto in altre parti del globo o in paesi ancora non del tutto autonomi nel loro rapporto con il centro dell’accumulazione mondiale.

Primo momento in cui, come adesso2, gli Stati Uniti iniziarono ad approfittare di una crisi energetica, allora principalmente petrolifera, di cui a fare le spese fu, ancora una volta come ai nostri giorni, l’Europa occidentale nel suo insieme, sprovvista com’era di materie prime come gas e petrolio. Materie intorno alle quali lo scontro tra i teorici di un’autonomia energetica europea e dipendenti e rappresentanti delle Sette sorelle si era fatto particolarmente virulento e non soltanto sotterraneo se si pensa all’eliminazione dell’italiano Enrico Mattei. Fondatore dell’ENI e promotore di accordi con l’Algeria, appena giunta all’indipendenza, per il suo gas e il suo petrolio.

Sette sorelle fu una definizione coniata proprio da Enrico Mattei, per indicare le compagnie petrolifere che formavano il Consorzio per l’Iran e che dominarono la produzione petrolifera mondiale dagli anni 1940 sino alla cosiddetta crisi del 1973. La nascita delle Sette sorelle può essere fatta risalire alla firma degli accordi di Achnacarry siglati nel 1928 fra i rappresentanti delle compagnie petrolifere Royal Dutch Shell, Standard Oil of New Jersey (poi Exxon) e la Anglo-Persian Oil Company (APOC, diventata poi British Petroleum), cui si aggiunsero in seguito: Mobil, Chevron, Gulf e Texaco. E fu proprio questo l’accordo che Mattei osò sfidare, pagandone le conseguenze il 27 ottobre 1962, in un incidente aereo dalle modalità mai sufficientemente chiarite, ma in cui furono probabilmente coinvolti servizi segreti francesi e anglo-americani.

A far precipitare la situazione era stata la decisione dell’Eni di riconoscere ai paesi produttori di petrolio del Nord Africa e del Vicino Oriente il 75 % anziché il 50 % delle royalty. Oltre a intaccare i profitti delle Sette sorelle, l’iniziativa configurava una politica estera italiana conflittuale col Paese guida dell’Occidente e cogli stessi equilibri determinati dalla seconda guerra mondiale. Nei progetti dell’imprenditore l’Italia, povera di materie prime e privata delle colonie, avrebbe dovuto ricostituire una propria zona d’influenza nel bacino del Mediterraneo, cioè in un’area che Usa, Gran Bretagna e Francia consideravano di loro esclusiva pertinenza. Mentre, a partire dal 1958, Mattei aveva proceduto all’acquisto di ingenti quantitativi di petrolio sovietico.

Tutte scelte rispetto alle quali il Dipartimento di Stato USA aveva risposto bollando la politica energetica dell’Eni come neutralista, terzomondista e incubatrice di sentimenti anticoloniali e anti occidentali. A far precipitare la situazione concorsero, da ultimo, l’appoggio accordato da Mattei a un progetto di lega fra alcuni paesi arabi del Nord Africa, un suo possibile incontro con esponenti libici interessati a detronizzare re Idris e a concedere all’Eni i diritti di ricerca petrolifera detenuti da società americane, e un incontro coi governanti algerini in calendario per i primi di novembre[ del 1962. In particolare quest’ultimo era visto con particolare preoccupazione dalla Francia che, con gli accordi di Evian del 18 marzo 1962, riteneva di essersi assicurata l’esclusiva degli idrocarburi algerini.

Chiuso, a solo titolo di esempio degli scontri inter-imperialistici per il controllo delle materie prime, il capitolo Mattei, occorre ritornare a quello che è il motivo di fondo di questa riflessione ovvero l’analisi della situazione economico-politica attuale e le sue possibili conseguenze di classe. In America e in Europa. Europa che, come ai tempi di Mattei, non ha visto diminuire affatto le sue divisioni e dispute nazionali e imperiali, ma che comunque ha perso molte chance di rendersi indipendente dall’azione statunitense.

Due destini interni, prima di tutto, all’Occidente, che come stringhe di un DNA politico ed economico si avvolgono l’una all’altra senza soluzione di continuità e senza altra soluzione che un collasso di una delle due parti o dell’Occidente intero. Da qui le differenti analisi, per impostazione politica e scopi, che ne scaturiscono. Spesso accomunate, però, dal sentore di una crisi cui l’unica uscita sembra essere quella di una guerra allargata (su scala mondiale).

Una prospettiva, quest’ultima, che prevede il coinvolgimento delle classi meno abbienti, di quella media impoverita e di quella operaia, nel nazionalismo guerriero, che si promette unico capace di difenderne gli interessi, in un mondo di cui l’Occidente ha contribuito ad abbattere i confini. Così da spingere, con le differenti forme di populismo nazionalista a ristabilire i privilegi perduti. Sia che si tratti della classe operaia che ha votato per Trump, sia delle simpatie di un parte della stessa nei confronti dei populismi e dei partiti di destra in Europa. Dove, occorre ricordarlo sempre, il semplice coinvolgimento della stessa classe negli ideali del nazionalismo populista o fascista, non significa che questi siano rivendicabili anche a sinistra oppure interpretabili come manifestazioni politiche di ripresa della lotta di classe. Come sintomi del disagio, sia negli USA che in Europa, sicuramente ma non come base per possibili future alleanze.

Da questo punto di vista l’articolo di Matthew Karnitschnig è efficace nel rivelare il piano del capitale, in tutta la sua possibile spietatezza, e vedremo subito il perché, tralasciando le minacce dell’amministrazione Trump, che pure aprono l’articolo di Karnitschnig, e concentrando l’attenzione su ciò che l’analista espone con ferrea lucidità.

Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi. Anche se l’UE è concentrata su Trump e su ciò che potrebbe fare in futuro, quando si tratta dell’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, tutto ciò che sta facendo con le sue persistenti minacce tariffarie e la sua ampollosità sta alzando il sipario sul traballante modello economico europeo. Se l’Europa avesse una base economica più solida e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poca influenza sul continente.
Il grado in cui l’Europa ha perso terreno rispetto agli Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è mozzafiato. Il divario nel PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato oppure, secondo altri parametri, è aumentato del 30%, principalmente a causa della minore crescita della produttività nell’UE. In parole povere, gli europei non lavorano abbastanza. Un dipendente tedesco medio, ad esempio, lavora più del 20% in meno rispetto ai suoi colleghi americani.
Un’ulteriore causa del calo della produttività in Europa è l’incapacità delle imprese di innovare.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi, ad esempio, spendono più del doppio di quanto spendono le aziende tecnologiche europee in ricerca e sviluppo. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività della tecnologia europea è rimasta stagnante. […] “L’Europa è in ritardo nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura”, ha detto Christine Lagarde nel suo discorso a Parigi. È un eufemismo. L’Europa non è solo in ritardo, non è nemmeno in gara. [poiché] è rimasta molto indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. L’Europa non ha mai raggiunto il suo obiettivo di spendere il 3% del PIL in ricerca e sviluppo, il principale motore dell’innovazione economica. In effetti, la spesa per tale ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%, più o meno dove era nel 2000. [Così] gli investimenti dell’Europa in ricerca e sviluppo “non sono solo troppo pochi, ma una quantità considerevole sta fluendo nelle aree sbagliate”3.

Alcuni lettori potrebbero a questo punto storcere il naso di fronte a quello che lo scomparso Emilio Quadrelli avrebbe definito come una sorta di “determinismo economico”, ma è soltanto a partire dal piano del capitale che è possibile comprendere quale sarà il terreno di scontro per la classe nell’immediato futuro e quali le possibili iniziative da prendere e le parole d’ordine con cui accompagnarle. Senza l’illusione di trovarle già belle pronte nella minestra riscaldata della democrazia compartecipativa o, peggio ancora, della destra cosiddetta sociale e populista. Ma continuiamo con la lettura di Karnitschnig.

È qui che entra in gioco la Germania. Il piccolo sporco segreto della spesa europea in R&S è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti confluisce in un settore: l’automotive.
[…] Se non altro, l’Europa è stata abbastanza coerente. Nel 2003, i principali investitori aziendali in ricerca e sviluppo nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens, il gigante tedesco dell’ingegneria. Nel 2022 erano Mercedes, VW e Bosch, il produttore tedesco di componenti per auto. […] Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in ricerca e sviluppo nel settore automobilistico, le decantate case automobilistiche tedesche sono riuscite in qualche modo a perdere il treno dei veicoli elettrici. Questo fallimento è al centro del malessere economico della Germania, come dimostra il recente annuncio di VW che avrebbe chiuso alcuni stabilimenti tedeschi per la prima volta nella sua storia. Il settore automobilistico tedesco, che impiega circa 800.000 persone a livello nazionale, è stato la linfa vitale della sua economia per decenni, contribuendo più di qualsiasi altro settore alla crescita del paese. […] La crisi del mondo automobilistico tedesco è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per far fronte a una serie di altre sfide complicate che stanno minando il suo potenziale economico. Il più grande: un uno-due tra una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati. […] Detto questo, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando i lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in senso positivo. Solo nelle ultime settimane, aziende del calibro di VW, Ford e il produttore di acciaio ThyssenKrupp, solo per citarne alcuni, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti4. Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti del mondo, al costo della manodopera e alla regolamentazione onerosa, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente alzando la posta in gioco e delocalizzando in altre regioni. Quasi il 40 per cento delle aziende industriali tedesche sta prendendo in considerazione una mossa del genere, secondo un recente sondaggio5.

All’interno di un quadro del genere è chiaro che le minacce di Trump potrebbero avere conseguenze disastrose come sottolinea l’articolo pubblicato su «Repubblica» il 20 dicembre e già precedentemente citato.

Le possibili nuove restrizioni sulle importazioni di auto europee negli USA potrebbero costare 25 mila posti alle case automobilistiche. È quanto riporta lo Spiegel riportando i risultati di un’analisi della società di consulenza manageriale Kearney. Secondo il rapporto, fino a 25 mila posti di lavoro sarebbero a rischio presso Volkswagen, Mercedes-Benz, Bmw e Stellantis che hanno un business particolarmente grande negli Stati Uniti, così come i 1.000 maggiori fornitori europei, anche se alcuni dei produttori producono negli stabilimenti statunitensi.
“Ogni anno vengono esportati circa 640.000 Veicoli dall’Europa agli Stati Uniti: a seconda dello scenario, i dazi potrebbero portare a perdite di fatturato comprese tra 3,2 e 9,8 miliardi di dollari a livello di produttore, il che a sua volta avrebbe un impatto sui fornitori” spiega Nils Kuhlwein, partner di Kearney. In un primo scenario, le tariffe saranno trasferite integralmente ai clienti statunitensi. Il calcolo mostra che con tariffe del 10, 15 o 20 per cento, la domanda di veicoli importati potrebbe diminuire di 60.000 a 185.000 unità. Ciò significherebbe perdite di vendite per i produttori a prezzi di vendita di fabbrica fino a 9,8 miliardi di dollari, per i fornitori fino a 7,3 miliardi di dollari. Se le case automobilistiche trasferissero invece le tariffe ai loro fornitori, i loro risultati potrebbero diminuire fino a 3,1 miliardi di euro se venissero trasferiti i costi aggiuntivi del 60%, il che metterebbe in pericolo 25 mila posti di lavoro6.

A questo punto conviene esporre le ultime considerazioni di Karnitschnig sulla gravità e le ragioni di fondo della “crisi europea” per poi poter tirare le fila di quale potrebbe essere il futuro che ci aspetta in quanto europei e le contraddizioni su cui far conto per un’eventuale, ma per ora scarsamente visibile, ripresa della lotta di classe.

Essendo la più grande economia dell’UE, le disgrazie economiche della Germania si stanno ripercuotendo in tutto il blocco. Ciò è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni le case automobilistiche e i macchinari tedeschi hanno trasformato nella loro fabbrica de facto. Che tu acquisti una Mercedes, una BMW o una VW, ci sono buone probabilità che il motore o il telaio dell’auto siano stati forgiati in Ungheria, Slovacchia o Polonia.
Ciò che rende la crisi dell’industria automobilistica tedesca così intrattabile per l’Europa è che il continente non ha nient’altro su cui contare. Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.
Nel 2003, le aziende che hanno investito di più in ricerca e sviluppo negli Stati Uniti sono state Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, è la volta di Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook). Dato il livello dominante di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo della tecnologia, è difficile vedere come la tecnologia europea possa mai giocare nella stessa lega, tanto meno recuperare.
Uno dei motivi è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il capitale di rischio. Ma il bacino di capitale di rischio in Europa è una frazione di quello che è negli Stati Uniti. Solo nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il FMI.
Invece di investire i loro soldi nel futuro, gli europei preferiscono lasciarli in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro di risparmi europei vengono lentamente divorati dall’inflazione.
[…] Quindi, se le auto e l’IT sono fuori, l’UE potrebbe semplicemente appoggiarsi alle tecnologie del 19° secolo in cui ha sempre eccelso come le macchine e i treni, giusto? Sfortunatamente, è qui che entrano in gioco i cinesi. Secondo una recente analisi della BCE, il numero di settori in cui le imprese cinesi competono direttamente con le aziende dell’eurozona, molte delle quali sono produttrici di macchinari, è salito da circa un quarto nel 2002 ai due quinti di oggi.
Con l’Europa che si trova ad affrontare una crescita stagnante, una competitività in calo e le tensioni con Washington – per citare solo alcuni punti critici – ci si potrebbe aspettare un robusto dibattito pubblico su un ampio programma di riforme.
Magari. Il rapporto di Draghi ha avuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente e poi è stato rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, il suono perpetuo dei campanelli d’allarme da parte del FMI e della BCE cade nel vuoto.[…] Ciò è probabilmente dovuto al fatto che gli europei non stanno davvero provando alcun dolore, almeno non ancora.
Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, è in testa a tutte le classifiche globali per quanto riguarda la generosità dei sistemi di protezione sociale dei suoi membri. Con il peggioramento delle prospettive economiche della regione, tuttavia, gli europei si trovano di fronte a un brusco risveglio. [Mentre] paesi come la Francia, […] avranno difficoltà a mantenere un generoso stato sociale. Parigi spende attualmente più del 30% del PIL per la spesa sociale, tra le le più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono molto indietro.
Se le fortune economiche dell’Europa non si invertiranno presto, questi paesi dovranno affrontare alcune decisioni difficili [Così] Il risultato probabile è una radicalizzazione della politica […] Il cui successo è tanto più inquietante se si considera che il peggio delle sofferenze economiche deve probabilmente ancora venire7.

Potrebbero bastare queste righe di Karnitschnig a delineare il quadro di quanto sta avvenendo in Europa, intorno a noi. Ma chi scrive, per amor del vero e non soltanto per rigirare, per così dire, il coltello nella piaga politica, intende sfruttare il quadro illustrato dal giornalista tedesco-americano per sottolineare come questo esprima un punto di vista preciso, quello del capitale e della sua utopia e, ancor più, di quello europeo se vorrà risollevarsi dalla situazione di scarsa competitività in cui si trova attualmente. Un quadro pienamente allineato con quello già esposto da Mario Draghi alcune settimane or sono e in cui la ricostruzione delle catene del valore è già pienamente evidente di per sé. Un quadro che ci mostra come lo stesso capitalismo sia oggi sempre più deciso a non concedere alcunché alla spesa sociale o al miglioramento e protezione delle condizioni di lavoro e dei diritti collettivi reali. Come dire: non c’è più trippa per i gatti, non illudiamoci.

Qualsiasi illusoria alleanza o ammucchiata elettorale, in un contesto in cui non è più possibile aspirare per via parlamentare alle conquiste ottenute nel corso dei fatidici “Trenta ruggenti“, non farà altro che dare fiato ai movimenti nazionalisti e populisti di destra o rosso-bruni che della fasulla promessa della difesa del risparmio europeo, degli interessi nazionali (facendo finta che questi davvero corrispondano a quelli delle classi sociali meno abbienti) e dei confini giuridici e politici che li racchiudono hanno fatto la loro bandiera. Bandiera che non può assolutamente essere fatta propria da chi ancora voglia rovesciare l’ordine economico e sociale esistente.

Non possono più esistere interessi comuni in Europa tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro. Fin dai tempi della Comune di Parigi del 1871 che chiuse, almeno in questo continente, definitivamente la porta a qualsiasi ipotesi di collaborazione tra interessi contrapposti come quelli di classi storicamente nemiche giurate. Furono il fascismo, il nazismo e la pratica poltica dell’Internazionale ex-comunista stalinizzata a riproporre, purtroppo con successo, quell’ipotesi negli anni Venti e Trenta e con i processi resistenziali a prolungarla ancora oltre il secondo dopoguerra. Ma il trionfo di quell’ipotesi di collaborazione tra le classi significò, esattamente come nel caso del Primo macello imperialista ad opera delle socialdemocrazie, la partecipazione e il coinvolgimento in una guerra per la spartizione del mercato mondiale tra le più atroci e devastanti della Storia trascorsa fino ad allora. Sempre in nome, sostanzialmente, di un’utopia già condannata a morte dalle sue stesse insanabili contraddizioni.

Difendere l’interesse nazionale come alcuni, a sinistra e a destra, ancora fanno non significa altro che preparare una guerra in cui i cittadini e i lavoratori dovrebbero accettare qualsiasi sacrificio, pur di difendere i loro meschini e sempre irraggiungibili interessi individuali. Una rivendicazione che in qualche modo già sta alla base di tanto razzismo e di tanta xenofobia, utili soltanto a dividere un proletariato sempre più variegato, impoverito e in costante ricomposizione, sia sul piano internazionale che su quello interno ad ogni singolo paese.

In un contesto in cui l’utopia capitale, che per alcuni era giunta a un tal punto di sviluppo da far parlare della “fine della Storia“, un’idea che rispecchiava l’ottimismo culturale appartenente all’epoca del suo trionfo apparente8, quando sembrava che stesse per aprirsi un’era di prosperità globale, garantita dai valori liberal-democratici, ha rivelato l’errore insito nel sogno che ciò fosse possibile e nell’illusione «che il modello si sarebbe auto-perpetuato come un eterno punto di riferimento per l’umanità»9.

Una situazione foriera di sempre più devastanti guerre imperialiste e, dal punto di vista del rovesciamento dell’attuale modo di produzione o della sua difesa ad oltranza, di guerre civili inevitabili. In cui soltanto l’audacia della rivendicazione dell’internazionalismo al di sopra di ogni confine, del rifiuto della guerra e dei compromessi in nome degli interessi nazionali e la negazione radicale dei principi su cui si basa la forza dell’utopia capitale, fondendo insieme nella prassi rivoluzionaria la soggettività barbara della lotta di classe e l’oggettività delle condizioni date, potrà contribuire al superamento definitivo di tutto ciò che ancora opprime la maggioranza delle donne, dei lavoratori e dei giovani, migranti e non, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico.


  1. Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e soprattutto, a partire dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine esistente costituitosi in Italia proprio tra il ’68 e il ’77.  

  2. Si vedano in proposito le minacce di Trump sui dazi e sull’obbligo di acquisto di gas e petrolio americano da parte dei paesi europei: Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, «la Repubblica», Affari & Finanza -20 dicembre 2024. Minaccia comunque già anticipata nelle dichiarazioni di Ursula von der Leyen che ha dichiarato a novembre, con una più che evidente menzogna sui costi, che l’Ue prenderà in considerazione la possibilità di acquistare più gas dagli Stati Uniti: «Riceviamo ancora molto Gnl dalla Russia e perché non sostituirlo con quello americano, che è più economico per noi e fa scendere i prezzi dell’energia», «Corriere della sera», 20 dicembre 2024. In un contesto in cui gli Stati Uniti sono già il principale fornitore di Gnl e petrolio dell’Ue. Nella prima metà del 2024, hanno fornito circa il 48% delle importazioni di Gnl del blocco, rispetto al 16% della Russia.  

  3. M. Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, «Politico», dicembre 2024.  

  4. Nel corso delle ultime settimane è stato però annunciato un accordo sindacale sulla base del quale alcune dcine di migliaia di lavoratori lasceranno il lavoro su base volontaria mentre la chiusura degli stabilimenti è momentaneamente rimandata. Accordo giunto in seguito alla crisi del governo semaforo di Sholz che anticipa elezioni politiche che di qui a qualche mese potrebbero stravolgere ilquadro poltico tedesco.  

  5. M. Karnitschnig, cit.  

  6. Trump minaccia l’Europa: “Dazi senza fine se non aumenteranno gli acquisti di gas e petrolio da noi”, cit.  

  7. M. Karnitschnig, cit.  

  8. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, 1992.  

  9. G. Segre, Perché siamo alla fine della fine della storia, «La Stampa», 27 dicembre 2024.  

]]>
Avanti barbari!/7 – Contro lo Stato razziale integrale https://www.carmillaonline.com/2024/10/09/avanti-barbari-7-contro-lo-stato-razziale-integrale/ Wed, 09 Oct 2024 20:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84745 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 168, 17,00 euro

A giudizio dell’autore di questa recensione, e nonostante i dubbi su alcune delle proposte contenute nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi nella collana hic sunt leones, Houria Bouteldja, della quale proprio qui su Carmilla era stato recensito anche il precedente testo pubblicato in Italia I bianchi, gli ebrei e noi (qui), rappresenta una delle voci più interessanti tra tutti/e coloro che hanno deciso di fare i conti non soltanto con il fallimento delle proposte politiche ancorate alla critica del capitalismo e alla necessità di superamento dello stesso ad opera della lotta di classe, ma anche con i bagliori di razzismo ancora presenti all’interno dei medesimi percorsi di analisi politica.

Per iniziare occorre ricordare che «razza e razzismo sono le grandi questioni della modernità globale. Hanno forgiato il mondo per come lo conosciamo, con il suo carico di diseguaglianze, oppressione, discriminazioni, orrori.[…] La nuova collana prende di petto il tema, proponendosi di affrontarlo fuori da stereotipi e luoghi comuni, a partire da un presupposto: il razzismo non riguarda l’”altro”, ma ognuno di noi». Mentre il titolo italiano del testo traduce con il termine maranza quel Beaufs et barbares che ne costituisce il titolo originale francese. Come viene spiegato nella nota in apertura, se i barbari sono

i soggetti razzializzati e non addomesticabili delle banlieue, il termine beaufs – come viene argomentato nel libro – ha una forte specificità legata al contesto francese. Cosi vengono definiti, con uno stigma di classe, i proletari bianchi delle periferie, ancor più umiliati, impoveriti e marginalizzati dalla crisi. Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a bifolchi. Mentre «Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale.»(( Nota editoriale. Perché maranza in Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 7-8. )).

Ed è proprio in questo vuoto di rappresentanza del linguaggio politico tradizionale, soprattutto a sinistra, che si inserisce il discorso dell’autrice. Che fa della possibile e auspicabile alleanza tra bifolchi bianchi metropolitani e giovani e ribelli barbari immigrati il cuore della sua analisi e del suo programma. Una sfida di cui il titolo, che sostituisce il più tradizionale proletari con maranza, restituisce bene l’idea.

Un’analisi che si sviluppa, orizzontalmente, attraverso i concetti di razza, classe e genere per individuare come questi siano, nel contesto dell’attività di controllo del capitale sulla società e delle resistenze che gli si oppongono dal basso, perfettamente sovrapponibili. In un contesto in cui la razzializzazione è servita anche a definire i limiti di classe e di genere.

In senso verticale si sviluppa invece l’analisi storica di come il capitale sia riuscito, all’interno di una repressione diffusa di ogni tipo di resistenza e di impoverimento progressivo messo in atto nei confronti di interi continenti, popoli, donne e classi sociali deprivate di qualsiasi forma di effficace rappresentanza o di potere reale, per quanto limitato nel tempo e nello spazio, a separare tra di loro i soggetti e in particolare il proletariato bianco da quello proveniente da altri contesti culturali. Insomma di come sia riuscito a contrapporre i bifolchi ai barbari.

Un’analisi che inizia dall’espansione coloniale europea e dal susseguente sterminio di interi popoli oppure della loro riduzione in schiavitù e che vede, con Marx, come questa sia stata la base della modernità dello sviluppo capitalistico e non una permanenza del passato in una società che si voleva moderna. Una rilettura della Storia ormai assodata non solo dagli studi de-coloniali, cui si fa ampio riferimento, ma anche prima dalle interpretazioni più radicali, sia in ambito “bianco” che “nero”, delle trasformazioni avvenute, a vantaggio del capitalismo occidentale e coloniale, nel periodo intercorso tra il 1492, data simbolo della “scoperta” e conquista del continente americano, e la Rivoluzione industriale con tutti i suoi effetti sulle società sia nell’Ovest che nell’Est, nel Sud come al Nord del pianeta.

E’ un punto questo che chi qui scrive tiene particolarmente a sottolineare, poiché praticamente attraverso l’instaurazione dei confini, ma ancor prima dei diritti monarchici e imperiali, sia laici che ecclesiastici, tutto il pianeta e suoi abitanti sono stati progressivamente colonizzati dal capitale prima mercantile, poi industriale e, successivamente, finanziario proprio a partire da quello che, nell’immaginario storico-politico, è stato il principale beneficiario di quella espansione: l’Europa, prima, e l’Occidente Atlantico, poi.

Un processo in cui l’unione tra azione repressiva armata e religiosa di carattere inquisitoriale ha posto le basi di ciò che la Bouteldja definisce, sulla base dell’uso di alcune categorie gramsciane, come “Stato razziale integrale”. Una forma sociale di organizzazione e controllo, soprattutto della forza lavoro, in cui il razzismo non è un errore, ma uno, e forse il principale, degli elementi fondativi.

Elemento che, una volta avviati i processi di formazione, e contemporanea resistenza, della classe operaia o, più genericamente, del proletariato industriale e non, diventerà essenziale al fine di dividere ciò che, una volta unito, potrebbe diventare il definitivo affossatore del modo di produzione capitalistico e dei suoi funzionari in doppio petto e in divisa.

Questa divisione, che si affermerà nel tempo attraverso quello che l’autrice definisce come il “salario della bianchezza”, ovvero forme di vantaggio di carattere economico e politico-giuridico, ha inizio, si potrebbe dire, con la fine del capitalismo mercantile e l’inizio di quello prettamente industriale, di cui la rivoluzione della macchina a vapore e e quella francese segneranno l’inizio. Proprio la seconda, con tutti i suoi roboanti proclami a favore di Liberté, Égalité, Fraternité, affondava però le sue radici in una ricchezza accumulata con lo sfruttamento del lavoro schiavistico nelle colonie che in quell’epoca vide anche la magnifica, e per un periodo vincente, rivoluzione degli schiavi haitiani guidati di Toussaint Louverture.

Era chiaro che l’eventuale alleanza tra proletariato in formazione “bianco”, che già era stato protagonista delle spinte più avanzate della Grande rivoluzione1, e schiavi “neri” o, se si preferisce anche in questo caso, “proletariato in formazione razzializzato” avrebbe potuto rappresentare un pericolo mortale per l’emergente società della borghesia produttiva.

Ma, non a caso, sarà soltanto la Terza repubblica, sorta in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 e l’esperienza della comune di Parigi, a rivelare la sua identità razziale e coloniale per eccellenza, sorta su quello che Sadri Kiari chiama il “patto razziale”.

Una repubblica che dà vita allo Stato-nazione, la sovrastruttura che condensa i nuovi rapporti di forza all’interno dello Stato, ripartiti come segue: predominio della borghesia sulle classi subalterne, predominio delle classi subalterne sulle razze inferiori. Da queste asimmetrie nasceranno poi le due grandi opposizioni al blocco borghese: con l’emergere della classe operaia, certamente integrata nel progetto nazionale ma economicamente antagonista al polo borghese, e con quella dei dannati della terra, esclusi dal progetto nazionale e antagonisti ai poli borghese e proletario in virtù della loro funzione nella divisione internazionale del lavoro2.

Un patto razziale che storicamente ha avuto origine, come già si accennava precedentemente, ancor prima delle Terza repubblica e che si è articolato attraverso una serie di “conquiste”, non solo in Francia, che daranno vita al “patto sociale” necessario per la diffusione dell’idea di “popolo sovrano” sorta dalla Rivoluzione francese.

L’unita nazionale è un imperativo economico, ma anche un imperativo di guerra. E’ proprio in questo periodo che all’interno delle metropoli coloniali si crea il patto sociale, corollario del patto nazionale, sotto forma di diritti sociali e politici. Si considerino dunque:
1789: Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – Francia
1825: Riconoscimento dei sindacati – Gran Bretagna
1841: Divieto di lavoro per i bambini sotto gli 8 anni – Francia
1853: Limitazione della giornata lavorativa a 8 ore per donne e bambini – Gran Bretagna
1864: Diritto di sciopero – Francia
1875: Diritto di sciopero – Gran Bretagna
1884: Riconoscimento dei sindacati – Francia
1890: Riposo settimanale il sabato e la domenica – Gran Bretagna
1906: Un giorno di riposo settimanale – Francia
1910: Generalizzazione della giornata lavorativa di 10 ore – Francia3.

Ed è intorno a queste conquiste, pur dovute alle lotte dei proletari di fabbrica e non, che si articolerà il progetto di una democrazia razziale che vedrà esclusi i dannati della terra dai “privilegi” conquistati dai lavoratori e le lavoratrici bianchi/e. Sia nelle metropoli che nelle colonie. Una divisione che spingerà i lavoratori presunti nativi e bianchi a prendere sempre più le distanze dai loro fratelli “colorati” e a vederli come nemici e competitori proprio sulla base di salari e trattamenti destinati ad abbassare il costo di un parte della forza lavoro e forzatamente accettati.

Su questa differenziazione si creerà una situazione di presunta superiorità che i partiti dell’opportunismo socialdemocratico, alla fine del XIX secolo, e “comunisti”, nel corso del XX fino ed oltre la guerra d’Algeria, che soltanto la ripresa delle lotte generalizzate della fine degli anni ‘60, si pensi a quelle degli operai della Renault di Flins, avrebbe momentaneamente superato.

Proprio il 1945, data dell’ipotetica “liberazione” dal giogo nazista sulla Francia e sull’Europa e che aveva visto la subalternità d’azione delle forze della sinistra tradizionale agli interessi della borghesia nazionale, avrebbe segnato la data di un’ulteriore svolta nella storia del patto sociale/razziale.

L’8 maggio viene ripristinata la Repubblica, lo Stato di diritto succede a Vichy, ma si commettono ancora massacri coloniali, questa volta a Setif e Guelma in Algeria, che causano decine di migliaia di morti, cosi come in Siria e successivamente in Madagascar e in Camerun. Tutte le contraddizioni dello Stato razziale si cristallizzano in questa data dell’8 maggio 1945. Mentre i lavoratori francesi hanno ottenuto le ferie pagate nel 1936, il «piano completo» di sicurezza sociale volto a garantire a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza in tutti i casi in cui non siano in grado di procurarseli mediante il lavoro, proposto dal Consiglio nazionale della Resistenza, viene adottato nell’ottobre 1945. Il preambolo della Quarta Repubblica riconosce a tutti il diritto alla protezione della salute, alla sicurezza materiale, al riposo e al tempo libero. Non c’è dubbio che la lotta di classe abbia pagato di fronte a un padronato indebolito da cinque anni di leale e zelante collaborazione con i nazisti (importanti movimenti di sciopero operaio si verificano soprattutto nel 1947), ma l’oppressione dei popoli colonizzati non viene messa in discussione, cosi come il privilegio della classe operaia bianca. Proprio come la Rivoluzione haitiana prima di esse, le Rivoluzioni vietnamita e algerina scuotono l’architettura dello Stato razziale senza tuttavia abbatterla4.

Privilegi e differenziazioni che, come spiega ancora bene l’autrice saranno progressivamente spazzati via dalla crisi di competitività del capitalismo occidentale e dalle politiche economiche dell’Unione Europea che si rivelerà, per un lato, un vero e proprio super-Stato razzial

L’Unione europea svolgerà un ruolo centrale nel rafforzare l’Europa bianca nel mondo. La modifica, il 10 settembre 2019, della denominazione della carica da “commissario europeo per la migrazione” a “commissario per la protezione del modo di vita europeo“ è stata una sorta di consapevole ammissione. Poiché questo è ciò che rappresenta il progetto di costruzione europea: un mezzo per gli Stati europei di trovare un’altra via per rafforzare e garantire la propria posizione egemonica nel mondo, mentre vedono svanire le loro colonie. Le istituzioni europee sono solo l’espressione cristallizzata delle classi dominanti nazionali, il cui potere e in parte trasferito a livello sovranazionale. […]. Il consolidamento economico e politico degli Stati nazionali europei passa quindi senza dubbio attraverso il consolidamento della Ue. I gruppi identitari mobilitati dietro lo slogan «Difendi l’Europa» non si sbagliano, la difesa della bianchezza non spetta più ai soli Stati nazionali. Pertanto, il rafforzamento del razzismo e dell’estrema destra nella Ue non avviene nonostante le politiche dell’Unione, ma proprio a causa di esse… Inoltre, l’estrema destra si accomoda perfettamente nella Ue, sperando addirittura di diventare maggioritaria (in Svezia, Polonia, Ungheria, Italia, forse in Francia…)[…] Diviene esplicito un aspetto già evidenziato negli anni Ottanta da René Gallissot, che ricordava come, di fronte ai processi di decolonizzazione e alle migrazioni, l’identità nazionale dovesse essere accompagnata da un’identità di “natura culturale”: «la difesa dell’identità francese è allo stesso tempo quella dell’identità europea, quella di una civiltà superiore la cui essenza è attribuita per eredità»5.

Mentre dall’altro, a fronte di un blocco occidentale in declino, per la prima volta:

Se esiste un doppio processo in atto nella costruzione europea, il rafforzamento da un lato di «questa identità intorno alla chiusura europea, bianca e cristiana» […] questo processo avviene a scapito del patto sociale. Se le borghesie nazionali erano finora riuscite a universalizzare i propri interessi associando la classe operaia a un patto sociale/razziale relativamente equilibrato, la Ue non permette più, nell’ambito della competizione serrata con le potenze capitalistiche emergenti, di offrire gli stessi vantaggi alle classi subalterne a livello europeo. La Ue è tecnocratica, antidemocratica e antisociale. In breve, essa mette in discussione il dispositivo generale dello Stato razziale integrale, che tra l’altro traeva legittimità anche dal suo braccio sociale. In tal modo, rompe il consenso che ha fatto la fortuna dello Stato-nazione e crea dissensi sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, cosi come all’interno delle classi sacrificate.
Lo Stato non si fonda più soltanto sul patto razziale, di cui i governanti lucidi temono l’usura. La nuova questione è: come mantenere il potere e proseguire la metodica demolizione del compromesso storico tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, mentre cresce una rabbia sociale che prende di mira anzitutto la politica liberale del governo e le istituzioni dello Stato? Ecco la risposta: il razzismo6.

E proprio a questo punto può prendere avvio la proposta rivoluzionaria della Bouteldja ovvero quella di cercare di riunire beaufs e barbares, apparenti nemici per la pelle, soprattutto i primi nei confronti dei secondi anche al di fuori dell’Europa, per rivitalizzare un’unità di classe dal basso che sola potrà offrire qualche speranza di superamento dell’attuale esistente. E proprio qui sta l’interesse della proposta analitica dell’autrice e militante.

Purtroppo, a parere di chi scrive, tale proposta è inficiata a livello teorico e programmatico da alcune lacune non di poco conto. Prima di tutto il riferimento, per quanto riguarda l’interpretazione marxista, ad autori come Antonio Gramsci (per il passato) o Domenico Losurdo (per il presente) che dall’ambito del capitalismo nazionale e del socialismo nazionalistico non hanno mai saputo uscire, a differenza di altri come, mi perdonino i lettori la sua ennesima riproposizione, Amadeo Bordiga che già negli ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista7. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale erazziale criticato dalla Bouteldja.

Proprio questo può essere anche il motivo di una lettura sostanzialmente errata sia del ruolo della controrivoluzione nazista e fascista che più che spingere all’indietro la ruota della Storia, come pare di capire dalle righe che l’autrice franco-algerina dedica loro, costituirono invece potenti mezzi di ammodernamento e centralizzazione del capitale, di cui la “nazionalizzazione razziale delle masse” costituì un elemento con cui siamo costretti a fare i conti ancora oggi e non solo per merito delle scelte politiche della UE.

Politiche cui l’autrice guarda con un occhio ancora ispirato a un socialismo nazionale, ovvero affascinato dal mito del “socialismo in un solo paese”, che già ha impedito in passato alle rivoluzioni anti-coloniali di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna realizzandone soltanto le istanze borghesi e che, oggi, appare non più proponibile, e con l’altro influenzato da istanze elettorali portate avanti da compagini “politiche” improvvisate e prive di una chiara visione del divenire delle attuali contraddizioni interimperialistiche, capitalistiche e di classe, come la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il fronte popolare ad essa riconducibile hanno dimostrato nelle recenti elezioni francesi che, dopo tanto berciare antifascista, hanno contribuito soltanto a mantenere ancora in sella un Macron già di per sé finito nella pattumiera della Storia.
Un’influenza, quella elettorale, che ha contribuito forse ad appannare lo sguardo, di solito estremamente lucido, della Bouteldja e l’efficacia di un testo comunque interessante e, per molti versi, necessario.


  1. Si vedano il sempre utile A. Mathiez, Carovita e lotte sociali nella rivoluzione francese. Dalla Costituente al Terrore, Edizioni Res Gestae, Milano 2015 (ed. originale francese 1973 con il titolo La vie chère et le mouvement social sous le Terreur) e D. Guérin, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, Vol. I e II,La Salamandra, Milano 1979 (ed. originale francese 1973: Bourgeois et bras nus 1793-1795).  

  2. H. Bouteldja, op. cit., p.50.  

  3. Ivi, p. 52.  

  4. Ibidem, p. 55.  

  5. Ivi, pp. 56-57.  

  6. Ibid, pp. 57-58.  

  7. Si vedano soltanto, ma gli articoli sarebbero innumerevoli, A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, serie di articoli comparsi sul quindicinale «il programma comunista» dal n. 16 (11-25 settembre) al n. 20 (6-20 novembre) del 1953 e in seguito raccolti in un volume dallo stesso titolo dalle Edizioni Iskra, Milano 1976.  

]]>
Passeggiare a Berlino https://www.carmillaonline.com/2024/09/24/__trashed/ Tue, 24 Sep 2024 05:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84505 di Domenico Gallo

Ogni persona che, a partire dalla Porta di Brandeburgo, si diriga verso Alexanderplatz, percorrendo la storica Unter den Linden, si trova a un certo punto a un crocevia della storia. È un tratto senza i tigli in cui il cortile della Humboldt-Universität fronteggia l’ampio spazio vuoto di quella che oggi è Bebelplatz. Il 10 maggio del 1933, quando ancora la piazza non era stata dedicata ad August Bebel, il fondatore del Sozialdemokratische Arbeiterpartei, si chiamava Opernplatz ed è stato il luogo in cui i giovani nazionalsocialisti della Deutsche Studentenschaft, accompagnati da professori, SA, SS e spettatori eccitati, [...]]]> di Domenico Gallo

Ogni persona che, a partire dalla Porta di Brandeburgo, si diriga verso Alexanderplatz, percorrendo la storica Unter den Linden, si trova a un certo punto a un crocevia della storia. È un tratto senza i tigli in cui il cortile della Humboldt-Universität fronteggia l’ampio spazio vuoto di quella che oggi è Bebelplatz. Il 10 maggio del 1933, quando ancora la piazza non era stata dedicata ad August Bebel, il fondatore del Sozialdemokratische Arbeiterpartei, si chiamava Opernplatz ed è stato il luogo in cui i giovani nazionalsocialisti della Deutsche Studentenschaft, accompagnati da professori, SA, SS e spettatori eccitati, all’apice della campagna di purificazione dalle opere contrarie allo “spirito tedesco”, diedero luogo al rogo dei libri, i Bücherverbrennungen. Nonostante la pioggia, i libri, che erano stati rastrellati nei giorni precedenti dalle biblioteche sulla base di una lista molto accurata, vennero gettati tra le fiamme alimentate dalla benzina all’interno di uno studiato rituale. Fu Joseph Goebbels a dirigere la sceneggiata del Bücherverbrennung di Berlino pronunciando le motivazioni che avrebbero dovuto giustificare la più generale messa al bando di quelle letture.

Contro la lotta di classe e il materialismo, per la comunità di popolo e uno stile di vita idealista!
Consegno al fuoco gli scritti di Marx e Kautsky.  Contro il decadimento e la rovina morale! Per la disciplina e la morale nella famiglia e nello stato!
Consegno alle fiamme gli scritti di Heinrich Mann, Ernst Glaeser e Erich Kästner. Contro l’opportunismo e il tradimento politico, per la dedizione totale al popolo e allo stato!
Consegno al fuoco gli scritti di Friedrich Wilhelm Foerster. Contro la sopravvalutazione delle pulsioni istintive che sfibra l’animo, per la nobiltà dell’anima umana!
Consegno alle fiamme gli scritti di Sigmund Freud. Contro la falsificazione della nostra storia e la degradazione delle sue grandi figure, per l’ossequio al nostro passato!
Consegno alle fiamme gli scritti di Emil Ludwig e Werner Hegemann. Contro il giornalismo nemico del popolo di stampo democratico-giudaico, per la partecipazione responsabile al lavoro di costruzione nazionale!
Consegno alle fiamme gli scritti di Theodor Wolff e Georg Bernhard. Contro il tradimento letterario dei soldati della Grande Guerra, per l’educazione del popolo per la propria autodifesa!
Consegno alle fiamme gli scritti di Erich Maria Remarque. Contro la arrogante adulterazione della lingua tedesca, per la cura del bene più prezioso del nostro popolo!
Consegno alle fiamme gli scritti di Alfred Kerr. Contro l’impudenza e la presunzione, per l’attenzione e l’ossequio allo spirito immortale del popolo tedesco!
Inghiotti, fiamma, anche le opere di Tucholsky e Ossietzky!

Lo scrittore per ragazzi e pacifista Erich Kästner era presente al rogo e sentì scandire il proprio nome mentre i suoi volumi venivano gettati tra le fiamme assieme a quelli di Franz Kafka, Herbert George Welles, Jack London, Joseph Conrad, Aldous Huxley, Ernst Hemingway, Bertold Brecht e molti altri. Le cronache raccontano che furono oltre 20.000 i volumi bruciati e che gli spettatori sarebbero arrivati a 40.000, ma il dato interessante è che nel mese di maggio del 1933 la corposa lista dei libri proibiti comportò che questi vennero capillarmente ritirati dalle biblioteche di tutta la Germania, sopravvivendo solo nascosti nelle case private.

Institut für Sexualwissenschaft, maggio 1033

Il rogo di Berlino fu solo il più noto di una serie di incendi rituali che già si erano diffusi in Germania a partire da Dresda, per essere ripetuti a Monaco di Baviera, Lipsia, Düsseldorf, Heidelberg, Münster, Wuppertal, Magdeburgo, Würzburg e in altri centri più piccoli. I libri bruciati a Berlino provenivano dalla straordinaria biblioteca del vicino Institut für Sexualwissenschaft, l’Istituto di Sessuologia che Magnus Hirschfeld aveva fondato nel 1919 e che si situava sul bordo del Tiergarten, vicino all’attuale Hannah-Arendt-Straße, a un centinaio di metri dal Denkmal für die im Nationalsozialismus verfolgten Homosexuellen, il parallelepipedo opera di Michael Elmgreen e Ingar Dragset che costituisce il memoriale dedicato agli omosessuali vittime del nazismo, e il luogo dove i corpi di Hitler ed Eva Braun sono stati bruciati, oggi un piazzale che funge da posteggio e tra le cui erbacce i cani degli abitanti di questo quartiere elegante lasciano i loro bisogni. Un cartellone molto approfondito e rigoroso di informazione storica intitolato “Miti e testimonianze storiche del bunker di Hitler” marca sobriamente su di un lato del posteggio il luogo in cui la coppia criminale  è stata bruciata con difficoltà da due ufficiali intermedi delle SS.

Bebelplatz che si era ritrovata nel settore sovietico di Berlino, era un grande spazio tra il Teatro dell’Opera e la facoltà di legge che si contraddistingueva per la povertà di segni che ricordavano il rogo. Un monumento quasi invisibile, solo un pannello trasparente collocato da Micha Ullman sul selciato che consentiva di intravedere un sotterraneo di librerie vuote e, poco lontano, una targa con dei versi di Heinrich Heine: “Quando vengono bruciati i libri, alla fine verranno bruciate anche le persone”.

La Humboldt-Universität, al contrario, trabocca del proprio passato. Fondata nel 1810 come Universität zu Berlin, dal 1828 prese il nome di Friedrich-Wilhelms-Universität, anche se i berlinesi la chiamavano familiarmente Universität unter den Linden, e nel 1949, nell’anno in cui venne fondata la DDR, ottenne il nome attuale. Una targa posta sotto una finestra che si affaccia sul marciapiede ricorda gli anni dedicati da Max Planck all’insegnamento e alla scoperta della costante h, mentre davanti all’inferriata, come due leoni di guardia, si ergono le statue marmoree dei fratelli Wilhelm e Alexander von Humboldt; linguista e filosofo il primo, naturalista ed esploratore il secondo. Figure austere dell’aristocrazia prussiana ma progressisti e innovatori, i von Humboldt hanno condiviso l’università con le più importanti figure della Germania, filosofi e intellettuali come Fichte, Hegel, Schopenhauer, Schelling, Benjamin, Marx, Engels, Bismarck, Heine, Döblin, Liebknecht, ma anche il francese de Saussure, fino al dottorato onorario conferito all’attivista afroamericano W.E.B. Du Bois. Nel cortile altre tre statue, il marmo classico per il fisico Hermann von Helmholtz, tra i fondatori della termodinamica, e due bronzi essenziali dalle linee contemporanee per Max Planck e per l’esile figura di Lise Meitner, l’ultima arrivata nel prato. Lise Meitner, austriaca ed ebrea, era stata allieva di Ludwig Boltzmann e collaborò con Otto Hahn agli studi di fisica nucleare che condussero alla fissione dell’atomo e all’assegnazione del premio Nobel per fisica del 1944. Docente di fisica sperimentale fino al 1933, il nazismo le proibì l’insegnamento, e visse nell’università il dramma della nazistificazione della scienza tedesca fino al 1938, anno in cui fuggì in Svezia grazie alla collaborazione di Hahn.

L’università di Berlino fu il centro dell’estenuante lotta di Planck contro il dilagare dell’ideologia nazista e la delirante campagna “epistemologica” dei Deutsche Physiker, anche noti come i seguaci dell’Arische Physik. Secondo la critica portata avanti con violenza dal movimento politico nazista creato da due premi Nobel come Philip Lenard e Johannes Stark, gli ebrei praticavano una scienza diversa da quella dei veri tedeschi, una fisica matematicizzata e astratta, mentre la cultura ariana richiedeva un approccio diretto, tipico della fisica sperimentale, in cui il fisico si scontrava con la Natura per carpirne i segreti. Una concezione mistica che facevano provenire dalla “Naturphilosophie” di Goethe e che, pur senza gli eccessi del nazismo, ha oggi ancora molti seguaci tra le culture irrazionaliste e New Age. Fu soprattutto la relatività ristretta, formulata da Albert Einstein nel 1905, a essere stata oggetto di attacchi politici da parte di membri del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, il Partito Nazional-Socialista dei Lavoratori Tedeschi, che la giudicavano il paradigma di una concezione ebraica della scienza. Planck e la e Deutsche Physikalische Gesellschaft, la Società di fisica tedesca di cui era un membro autorevole, si impegnarono nella difesa della relatività anche partecipando a dibattiti organizzati dai Deutsche Physiker, spesso caratterizzati da provocazioni e aggressioni verbali. La relatività generale, ovviamente, non era neppure lontanamente compresa dai detrattori di Einstein, e il “linciaggio” si limitava alla relatività speciale che era, già all’epoca della sua prima pubblicazione nel settembre del 1905 sulla rivista Annalen der Physik, completamente accettata dalla comunità scientifica mondiale, con l’esclusione di pochi casi patologici. La Deutsche Physikalische Gesellschaft, che raccoglieva i fisici tedeschi dal 1845, ha rappresentato un’associazione che con ostinazione e coraggio si è contrapposta al nazionalsocialismo e alle sue leggi, pur agendo sempre all’interno del settore della formazione e della ricerca e senza mai arrivare a una critica politica complessiva del nazismo, ma dal nascere della cultura nazista affrontò e tentò di contenere il gruppo minoritario dei Deutsche Physik. La legge per il ripristino del servizio civile professionale, traduzione della norma nota come “Gesetz zur Wiederherstellung des Berufsbeamtentums”, in vigore dal 7 aprile 1933, e quindi quasi contemporanea al Bücherverbrennung, aveva stabilito che ebrei e oppositori politici dovevano essere licenziati dalla Pubblica amministrazione. Inizialmente le facoltà di fisica tedesche e gli enti di ricerca ritardarono l’applicazione della norma, mentre la Deutsche Physikalische Gesellschaft impiegò anni a espellere i fisici affiliati di origine ebraica. Per il presidente dell’Associazione Max von Laue, la persecuzione di Galileo e la censura delle sue teorie basate sul sistema eliocentrico equivalevano agli attacchi che i Deutsche Physik portavano alla presunta “fisica ebraica” e alla teoria della relatività speciale. Plank, presidente della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft per la scienza dal 1930 al 1937, consentì segretamente a ebrei e antifascisti di lavorare all’interno degli istituti per molti anni. Intanto Stark e i Deutsche Physiker continuavano ad attaccare Plank, ma anche, Arnold Sommerfeld e Werner Heisenberg, definito come un tedesco portatore del pensiero ebreo. Nel 1944, a seguito del fallito l’attentato a Hitler da parte dei sui sostenitori delusi della classe dirigente e militare tedesca, meglio noto come il tentativo di colpo di stato Operazione Walkiria, il figlio di Planck, Erwin, fu arrestato dalla Gestapo, processato, condannato a morte e impiccato nella prigione Plötzensee di Berlino.

Max Plank alle celebrazioni per il 25° anniversario della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft, 1936

Il sacrificio di Planck, con il suo tanto dibattuto “rimanere al proprio posto”, consisteva in una lotta per consentire che i posti di comando dell’università e delle società scientifiche rimanessero saldamente in mano a fisici che non erano nazisti affiliati ai Deutsche Physik. Per salvare la fisica tedesca, nella speranza di giorni in cui sarebbe stata nuovamente libera, menomata dalla fuga e dall’arresto degli scienziati ebrei e degli oppositori politici, Planck, in prima persona, sacrificò tutta la sua autorevolezza in un processo di mediazione durato anni. Significativo è il racconto del fisico Paul Peter Ewald riportato da John L. Heilbron nella biografia di Planck I dilemmi di Max Planck che descrive cosa accadde durante una cerimonia ufficiale. “Planck, che era in piedi sul palco, sollevò la mano a mezza altezza e poi la lasciò cadere. Tornò a sollevarla e a lasciala cadere. Poi, alla fine, la mano si decise a sollevarsi e Planck disse: ‘Heil Hitler’”. Tuttavia l’apparente cedimento al nazismo di Planck non era neppure lontanamente sufficiente ad accontentare la fazione degli Deutsche Physik e Stark, da una testata come Das Schwarze Korps, il settimanale delle SS, lo accusava di essere un “weiße juden”, un “ebreo bianco”, ovvero un tedesco che è ebreo al di là della sua appartenenza genetica alla razza nordica, un ebreo nel carattere, nelle emozioni e nello spirito, colpevole di aiutare gli scienziati ebrei a sfuggire dalla giusta emarginazione in cui li ponevano le norme naziste. Seguendo le indicazioni di Plank e della Physikalische Gesellschaft, la maggior parte dei fisici tedeschi scelse l’atteggiamento di minima concessione possibile per non essere sanzionati, ma non furono esenti da critiche sia da parte degli scienziati in esilio sia nel dibattito sulla denazistificazione iniziato dopo la fine della Guerra.

Entrando nell’atrio della Humboldt-Universität il ribollire di segni si fa ancora più complesso. Sul muro di marmo, in lettere d’oro, spicca la citazione dell’undicesima tesi su Feuerbach redatta da Karl Marx nel 1845. “Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kommt aber darauf an, sie zu verändern”, ovvero la celeberrima sentenza che recita: “Finora i filosofi hanno variamente interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”. L’austerità e la classicità dell’atrio, ora percorso da studenti di tutto il mondo e da professori vestiti in maniera informale, inevitabilmente rimandano alla perversa utopia della DDR, con la sua diretta e inesauribile retorica, le diffuse ammonizioni, le aspirazioni mancate, il controllo totale dei cittadini e delle istituzioni. Berlino è disseminata di icone del socialismo burocratico, dal poco lontano Marx-Engels-Forum, meta delle foto dei nostalgici del comunismo, al Ernst-Thälmann-Park a Prentzlauer Berg, fino al Sowjetisches Ehrenmal di Treptower Park, il sacrario dell’Armata Rossa. La città ha scelto di essere un museo permanente delle proprie ferite, e, laddove ne è rimasto un segno, l’ha cristallizzato, l’ha denudato ed esposto. È come se il tempo rallentasse e accelerasse, prima denso e all’improvviso rarefatto, in modo che Berlino induca ai propri abitanti un continuo esercizio di memoria. Sulle scale della Humboldt-Universität la lunga galleria di ritratti, dipinti e fotografie, che ricordano i molti studiosi celebri che come studenti o professori hanno trascorso i loro giorni in quelle stanze, è un omaggio severo alla dedizione, al sacrificio, all’intelligenza. Oltre ai 29 premi Nobel sono esposti i volti di persone che hanno lasciato segni indelebili nella cultura umana. Solo il ritratto scarmigliato di Einstein richiama qualcosa di frivolo e allegro come le abituali immagini delle t-shirt, ma la collezione più recente è dedicata alle donne della Humboldt. Tra tutte spicca ancora Lise Meitner, evidentemente condannata ai riconoscimenti tardivi, vicino a lei, Marie-Elisabeth Lüders, la militante per i diritti civili che fu la prima donna a ottenere il dottorato in scienze politiche della Germania, e la teologa Liselotte Richter, ma l’ultimo ritratto, verso la fine del corridoio in penombra, è dedicato a una delle figure a cui l’università, nella rilettura di se stessa, rende l’omaggio più importante. Il volto tondo di Liselotte Hermann, camicia bianca e cravatta scura, la frangetta nera e gli occhiali, è quello di una giovane di poco più di trent’anni. Comunista, studente e madre, come è ricordata nei monumenti che le sono stati dedicati durante la DDR, aveva studiato all’università di Berlino mentre era militante del KPD, il Kommunistische Partei Deutschlands. Negli anni che precedono la presa del potere nazionalsocialista, Lotte, chimica e biologa, era sempre stata in prima linea nella difesa di studenti e di docenti ebrei e antifascisti, e firmataria di appelli contro le crescenti discriminazioni che avvenivano all’interno dell’università. Nel 1933 fa parte del gruppo di 111 studenti e lavoratori comunisti espulsi per l’attività politica antifascista, in applicazione della Legge per il ripristino del servizio civile professionale, e Lotte inizia immediatamente a militare nella Resistenza clandestina. Alla fine del 1933, il suo compagno, Fritz Rau, anche lui un “widerstandskämpfer”, un combattente della Resistenza, viene catturato, torturato e ucciso nel carcere di Moabit, mentre lei è incinta. La foto che la ricorda nel Gedenkstätte Deutscher Widerstand, il Museo della Resistenza tedesca di Berlino, dedicato alle centinaia di migliaia di tedeschi antifascisti che non si sono arresi, la ritrae sorridente con il bambino in braccio. Nel 1935 Lilo viene arrestata e il nucleo armato a cui apparteneva smantellato. Il 20 giugno 1938 la studente modello Lilo Hermann viene ghigliottinata nel carcere di Plötzensee. È la prima donna madre a cui la Gestapo riserva il crudele trattamento e il suo corpo verrà inviato ai laboratori dell’università a cui aveva dedicato tanta passione per esperimenti.

La resistenza di Lotte Herrmann ha dato lo spunto a molti ricordi, oltre alla lapide commemorativa allo Stadtgarten di Stoccarda, città dove aveva militato tra i comunisti, Friedrich Wolf è stato autore di un poema dedicato alla sua vita musicato da Paul Dessau nel 1954. Nel 1987 è la volta del film della DEFA, l’istituzione di produzione cinematografica della DDR, Die erste Reihe. Bilder vom Berliner Widerstand, La prima fila, Immagini della resistenza berlinese, trasmesso dalla TV di stato. Per la Repubblica Democratica la figura di Lotte Herrmann è stata l’icona fondamentale di una donna completa, militante eroica e ostinata, comunista, madre al di fuori della famiglia, coraggiosa di fronte alla tortura e a una morte atroce, che non ha tradito i compagni di lotta della Resistenza. E a lei sono state dedicate diverse istituzioni come la Pädagogische Hochschule Liselotte Herrmann, scuole e asili, fino a emettere un francobollo con la sua immagine. Oggi il suo nome ritorna nei circoli politici e tra i collettivi radicali.

Lilo è ricordata anche nel monumento collocato nel cortile settentrionale della Humboldt-Universität, un gruppo marmoreo dedicato “a coloro che sono caduti nella lotta al nazismo: la vostra morte per noi è un impegno”. Gli altri membri della Resistenza antifascista tra studenti e dipendenti della Humboldt-Universität sono: Arvid e Mildred Harnack, Liane Berkowitz, Ursula Goetze, Eva-Maria Bruch, Rosemarie Terwiel, Horst Heilmann, Ferdinand Thomas, Dietrich Bonhoeffer, George Graoscurth, Walter Arndt. Erano zoologi, economisti, studiosi di scienze politiche, chimico-fisici, teologi e studenti, alcuni di loro era membri dell’organizzazione comunista clandestina Rote Kapelle, nota come Orchestra Rossa, altri vennero arrestati e uccisi per l’attentato incendiario alla mostra antisovietica Das Sowietparadies che era stata allestita a poche centinaia di metri dall’università.

Das Sowietparadies, ironicamente Il Paradiso sovietico, era il titolo di una grande mostra pubblica di propaganda anticomunista allestita nel Lustgarten, lo spazio aperto tra la cattedrale di Berlino e il colonnato dell’Altes Museum.  Oltre un milione di visitatori si mise in coda tra l’8 maggio e il 21 giugno 1942 per entrare nelle tende che costituivano i padiglioni della mostra voluta da Goebbles. Basata su ricostruzioni artefatte che utilizzavano per interpretare i cittadini dell’Unione Sovietica i prigionieri di guerra imprigionati nel lager di Sachsenhausen, posizionato a nord di Berlino, la mostra intendeva dimostrare lo stato di arretratezza e povertà in cui versava la popolazione sovietica.

Il giorno 17 maggio, un gruppo della Resistenza guidato da Harro Schulze-Boysen e Fritz Thiel, collegato all’organizzazione comunista Rote Kapelle, aveva attaccato in tutta Berlino manifestini che riportavano “Mostra permanente / Il PARADISO NAZISTA / Fame di guerra Bugie della Gestapo / Per quanto ancora?”.

Il giorno successivo il gruppo della Resistenza ebraico-comunista Herbert Baum, guidato da Herbert e Marianne Baum, tenta di incendiare i padiglioni di Das Sowietparadies danneggiandoli solo parzialmente. L’immediata reazione a queste due azioni della Resistenza fu durissima. La settimana successiva cinquecento ebrei berlinesi furono trasferiti al campo di concentramento di Sachsenhausen dalle strutture di detenzione diffuse in città. Dopo pochi giorni 250 prigionieri del lager vengono uccisi per vendetta. Herbert Baum viene catturato e torturato a morte nel carcere di Moabit, sua moglie ghigliottinata a Plötzensee, altri membri uccisi in una vasta azione di repressione.

La Humboldt-Universität ha scelto di celebrare quelle eccezionali generazioni di scienziati e umanisti, prussiani ed ebrei, conservatori come Planck e progressisti come Einstein, che hanno trasformato la visione del mondo e della realtà sottolineando l’enorme sacrificio di sangue versato durante gli anni plumbei del nazismo. Sono proprio gli anni di cui parla Margaret Von Trotta nel suo film Die bleierne Zeit, frettolosamente tradotto in italiano come Anni di piombo. Forse Gli anni plumbei avrebbe offerto un maggiore rigore filologico alle intenzioni della regista, ovvero un riferimento diretto a quei pesanti e soffocanti anni Settanta in cui la Germania ancora viveva le conseguenze dell’oppressione della società nazionalsocialista a causa di una denazistificazione solo parziale di cui la guerriglia urbana era una delle conseguenze della diffusa autoassoluzione politica e personale. Quando nei primi giorni del 1933 la classe dirigente tedesca aveva consentito ai nazionalsocialisti e a Hitler di prendere il potere, anche  con un aperto appoggio al Reichstag, illudendosi di poterli manipolare per il proprio egoismo e la propria sete inesauribile di profitto, investendo sulla loro capacità di esercitare una violenza spropositata come elemento determinante per soffocare le richieste di emancipazione sociale e politica della classe operaia, il potente blocco conservatore, aristocratico e militarista si era cinicamente alleato con l’aggressività dei movimenti fascisti di natura populista per soggiogare  i sindacati e una frammentata sinistra tedesca. Il 30 gennaio del 1933, quando Hitler viene nominato Cancelliere, milioni di tedeschi erano comunisti e socialisti, aderenti ai sindacati, antifascisti, e subirono una repressione terrificante, esecuzioni, torture e reclusioni nei lager che, per alcuni sopravvissuti, durarono tutti i dodici anni di dittatura. La repressione contro oppositori e membri della Resistenza tedesca è stimata oggi in 350.000 caduti, che ne fa il più pesante contributo di vite umane nella lotta nazionale al fascismo. Molti oppositori erano studenti, tecnici, ricercatori e professori delle discipline scientifiche, dipendenti delle università e delle industrie. Molti ripareranno all’estero, come Einstein, ma, in contrasto con una visione storica che pretende di vedere una Germania unita in un consenso fanatico, anche se il consenso ci fu, furono molti gli oppositori e i membri della resistenza al fascismo più lunga della storia, uomini e donne coraggiosi e che, in molti casi, pagarono con la vita le loro idee e le loro attività. Per questo non è possibile parlare del periodo d’oro della fisica del Novecento senza sottolinearne i motivi della successiva rovinosa decadenza, proiettando gli avvenimenti della ricerca scientifica sullo schermo della repressione e della dittatura.

Nomi. Date. Luoghi. Marc Bloch, in Apologia della storia o il mestiere di storico, scrive che la storia è come la pellicola di un film in cui i fotogrammi sono legati tra loro, posti uno dopo l’altro in sequenza temporale. Il fotogramma più recente è intatto, ma procedendo a ritroso sono sempre più deteriorati perché più lontani nel tempo, e il compito dello storico assomiglia a quello del restauratore di pellicole, che lavora per riportare quel fotogramma alla nitidezza originale. Per quanto sia bella questa immagine, e io l’abbia sempre amata soffermandomi a pensare a un Bloch che somiglia ad Eisenstein mentre controlla concentrato la pellicola, credo che il presente non sia affatto nitido e che lo storico che indaga sul passato, esattamente come flȃneur benjaminiano durante il suo passagen-werk, si trovi nelle condizioni di chi sia in bilico tra la mancanza di segni di Bebelplatz e la sovrabbondanza della Humboldt-Universität. La storia è forse un itinerario tra segni presenti e mancati, ma un itinerario cibernetico e che si realizza mentre si procede, con assestamenti continui e indotti dalla sua stessa evoluzione. Un’immagine che ricorda la potente metafora di Otto Neurath nella quale siamo come marinai che devono riparare la nave della scienza in mare aperto, navigando, senza potersi fermare per farlo. Tutti questi segni, mancanti e presenti, che richiamano a situazioni e periodi molto differenti tra loro, evocano immancabilmente i ruoli della storia e della memoria.

 

Il giardino della Humboldt-Universität

]]>
L’ebreo immaginario degli antisemiti non abita a Tel Aviv https://www.carmillaonline.com/2024/04/19/lebreo-immaginario-degli-antisemiti-non-abita-a-tel-aviv/ Thu, 18 Apr 2024 22:10:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81974 di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro [...]]]> di Fabio Ciabatti

Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60.

Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach.  In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro di essa, si nasconde il tentativo truffaldino di attribuire lo stigma dell’antisemitismo a tutta una tradizione politica che a Marx si richiama o, molto più spesso, si richiamava. E questo per alimentare la narrazione degli opposti estremismi, di destra e di sinistra, a beneficio di un centrismo liberale tanto nobile quanto introvabile. O, peggio ancora, il presunto peccato di Marx servirebbe a ripulire l’immagine di una destra che verso gli ebrei ha avuto storicamente un’ostilità esplicita e feroce. Come dire, tutti antisemiti, nessun antisemita. 

E allora prendiamo il toro per le corna, utilizzando l’interessante testo Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo di Manuel Disegni. Attraverso questo libro vogliamo partire da Marx per giungere a questioni di più stretta attualità arrivando a conclusioni che, meglio dichiararlo subito, potrebbero anche non piacere all’autore. Marx tratta apertamente dell’antisemitismo in un solo testo, per di più giovanile. Si tratta del famoso articolo intitolato Sulla questione ebraica in cui Marx non ha remore nell’utilizzare stereotipi ripresi dalla tradizione antiebraica a lui coeva. Senonché, nota l’autore, non li utilizza perché li condivide ma perché li vuole ritorcere contro chi li propugna. La natura “sordidamente giudaica” infatti non viene attribuita agli ebrei, ma a tutta la società contemporanea, caratterizzata dalla scissione tra il citoyen, il cittadino astratto dedito al bene comune, incarnazione della volontà generale, portatore della razionalità illuministica, da una parte, e il bourgeois, l’uomo concreto, egoista, dedito esclusivamente ai suoi interessi individuali, ostinatamente attaccato alla sua particolarità, dall’altra. La raffigurazione dell’ebreo altro non è che il risultato dell’attribuzione a un’alterità mostruosa delle caratteristiche proprie del bourgeois. Le caratteristiche, cioè, della società civile che mettono costantemente a rischio l’appartenenza dell’individuo alla comunità politica raggiunta attraverso la partecipazione alla vita dello stato.
In queste pagine del giovane filosofo tedesco abbiamo, insomma, un’anticipazione del concetto psicoanalitico di proiezione, il meccanismo inconscio attraverso il quale un soggetto attribuisce a un nemico immaginario il proprio lato oscuro e inconfessabile. Nel caso specifico, la sua essenziale asocialità. Questo stesso dispositivo retorico viene replicato in molti altri testi, come accade ripetutamente con l’utilizzo da parte di Marx della figura dell’usuraio ebreo Shylock, il personaggio del Mercante di Venezia di Shakespeare. E ciò testimonia, secondo Disegni, come il tema dell’antisemitismo sia presente in tutta la sua produzione teorica. Sebbene in modo implicito, Marx ci ripete che gli antisemiti hanno la stessa religione dei loro ebrei immaginari: adorano solo il dio denaro.

Ma c’è di più. Secondo l’autore l’opera matura di Marx si può configurare anche come una critica dell’economia politica dell’antisemitismo. Quest’ultimo, sin dai suoi inizi fino al suo apice nazista, si basa sulla dicotomia tra lavoro e denaro. Il primo santificato, il secondo demonizzato. Il lavoro rende liberi, sta scritto all’entrata del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Quella che potrebbe sembrare soltanto una macabra ironia è in realtà uno dei fondamenti dell’antisemitismo, secondo Disegni.
Il lavoro è al centro del progetto emancipatore della modernità borghese. È ciò che consente all’uomo di liberarsi dalla tirannia della natura e di costruire liberamente il proprio mondo. È il naturale fondamento della proprietà. Ma il lavoro è anche ciò che, nell’ideologia nazista, connette i singoli alla comunità razzialmente connotata. Esso è pensato come intrinsecamente nazionale, ariano. Ma il mondo in cui si esplica questo lavoro è tutt’altro che coeso, pacificato, comunitario. È un mondo in profonda crisi, scisso. E questa crisi deve essere attribuita al potere del denaro che ha un carattere cosmopolita, ubiquo, astratto. In una parola, ebraico. Il potere del denaro opprime e disgrega la laboriosa comunità nazionale. Bisogna perciò eliminare ciò che impedisce il naturale compimento del benessere collettivo sopprimendo il mostruoso detentore di questo potere. In sintesi, si parte dalla dicotomia tra lavoro e denaro e si arriva alla soluzione finale. 

Vedremo tra breve la critica di Marx a questo dispositivo, ma prima bisogna notare che esso può funzionare solo se viene accettato il binomio ebrei-denaro. Un binomio che affonda le sue radici nel medioevo quando gli ebrei, impediti nel partecipare alle più comuni attività produttive, si specializzano nel commercio e nel prestito di denaro. Tutto ciò potrebbe far pensare a una sostanziale continuità tra il medioevo e modernità quanto a discriminazione contro gli ebrei. Cosa che Disegni nega decisamente. L’antisemitismo, afferma, è un fatto moderno che ha natura completamente diversa dall’antigiudaismo medioevale. Insomma, “soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare”, per dirla con Marx, può sorgere una questione ebraica, cioè il problema se sia lecito o meno negare l’emancipazione a un gruppo particolare.
Il trattamento discriminatorio riservato agli ebrei non poneva alcun problema alla coscienza medioevale. Quel mondo era esplicitamente composto da diversi gruppi caratterizzati da differenti diritti e doveri. La mancata emancipazione degli ebrei è dunque una questione che si pone nell’ambito del progetto illuministico, segnalando le sue interne contraddizioni. Anche se il binomio ebrei-denaro nasce in un lontano passato il suo significato muta con il mutare del significato del denaro che, nel mondo borghese, ha un ruolo essenzialmente diverso rispetto a quanto accadeva nei modi di produzione precapitalistici.

E qui è il concetto di modo di produzione ad essere quanto mai rilevante. Marx non parla semplicemente di un modo di appropriazione della ricchezza prodotta dal lavoro. Cosa che sarebbe tutto sommato compatibile, secondo Disegni, con l’idea, antisemita, che è il potere del denaro ad espropriare il lavoro. Marx parla, appunto, di modo di produzione e cioè di una modalità in cui si esplica il lavoro che è essa stessa la forma in cui si realizza l’espropriazione. Insomma, la contraddizione è tutta interna al lavoro che, da una parte è strumento di potenziale emancipazione, dall’altra di effettivo sfruttamento.
Non è un caso che Marx giunge a formulare i suoi concetti più maturi sul capitale passando attraverso la critica di Proudhon che vorrebbe abolire il denaro per salvaguardare il lavoro. Il lavoro così com’è. Il socialista francese, veemente antisemita fino al punto di invocare lo sterminio degli ebrei, sarà sempre uno dei suoi bersagli polemici da un punto di vista teorico e politico. Perché la sua puerile dialettica tra un lato buono da salvaguardare (il lavoro) e un lato cattivo da abolire (il denaro) mette capo ad un programma che potremmo sintetizzare con la famosa formula “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Marx invece vuole un cambiamento radicale, a partire dal rivoluzionamento dei rapporti di produzione. Il filosofo tedesco non nega l’importanza del lavoro per l’emancipazione dell’umanità, ma ritiene che è proprio in questo ambito che si infrangono le promesse della modernità. Ed è proprio da qui che bisogna iniziare ad incidere se a quelle promesse si vuol tener fede.

Ma non è tutto. Il potere del denaro non è un mero abbaglio, ma un’apparenza necessaria che scaturisce dallo stesso modo di produzione capitalistico. È la realtà fenomenica, il mondo come appare immediatamente agli individui che si sentono soggiogati da una potenza aliena, estranea di cui non riescono a comprendere il funzionamento. Il denaro è la manifestazione più appariscente del capitale, anche se in realtà è solo una delle forme in cui si incarna il capitale stesso per adempiere alla sua natura di valore che incessantemente si valorizza. Tutto ciò sarebbe assolutamente impensabile al di fuori del modo di produzione capitalistico in cui il denaro, nelle sue diverse forme, è il medium universale della produzione materiale e dunque della riproduzione degli individui. Per questo il binomio ebrei-denaro nella modernità capitalistica mette capo a un particolare tipo di pregiudizio antiebraico, l’antisemitismo, che è cosa storicamente diversa dall’antigiudaismo del medioevo, epoca in cui il denaro ha solo un ruolo limitato.
Questo ci spiega, secondo Disegni, la pervasività dell’antisemitismo. Non è sbagliato parlare della radice piccolo-borghese di questo fenomeno, ma è limitativo. Se ci si fermasse a questa considerazione di natura sociologica, sostiene l’autore, non potremmo capire perché l’antisemitismo abbia attecchito ampiamente anche tra la borghesia propriamente detta e tra le classi popolari. L’apparenza necessaria di cui abbiamo parlato, essendo un fenomeno che in modi diversi riguarda tutti, ci può infatti spiegare la diffusione del pregiudizio antiebraico. 

In sede di commento, come già anticipato, prendiamo spunto da alcune questioni suscitate dal libro per arrivare ai giorni nostri. Sebbene Disegni non lo espliciti, a partire dalla connotazione storicamente determinata del pregiudizio antiebraico moderno, così come la descrive lo stesso autore, si può contestare alla radice l’idea che le critiche allo stato di Israele possano rappresentare una forma di antisemitismo, come pretenderebbe, per esempio, la cosiddetta definizione operativa dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto. La connotazione ectoplasmatica dell’ebraismo immaginario degli antisemiti è infatti l’esatto opposto della natura concreta di uno Stato. A maggior ragione se abbiamo a che fare con una potenza fortemente militarizzata e pervicacemente impegnata a conquistare palmo a palmo la “terra promessa”, incurante di chi da secoli la abita. Il forte legame con la terra contrasta in modo netto la natura deterritorializzata del potere del denaro, espressione per eccellenza del presunto potere ebraico.
Insomma, se vogliamo capire dove attecchiscono oggi le radici della sempreverde malapianta dell’antisemitismo dobbiamo guardare altrove. Bisognerebbe indagare il rapporto tra il pregiudizio antiebraico e il razzismo genericamente inteso, tema che è completamente assente nel testo di Disegni. Per esempio si potrebbe fare riferimento al ruolo attribuito al miliardario ebreo Soros nell’attuazione del fantomatico Piano Kalergi, cioè la sostituzione etnica delle popolazioni bianche attraverso l’immigrazione extraoccidentale. In questo ever green del complottismo più farneticante, vediamo fondersi il più classico antisemitismo con il razzismo altrettanto classico nei confronti delle popolazioni non occidentali che oggi si declina soprattutto come islamofobia. La comunità nazionale degli onesti lavoratori, per riprendere uno dei temi del libro di Disegni, non sarebbe oggi minacciata solo dall’alto, dal potere “ebraico” del denaro, ma anche (o forse soprattutto) dal basso, dalla marea di colore formata dai migranti. 

Il fatto è che in tempi recenti il capitale ha iniziato a dismettere le sembianze cosmopolite e multiculturaliste degli anni ruggenti della mondializzazione neoliberista. In tempi di deglobalizzazione selettiva (processo, invero, assai contraddittorio) indossa sempre più volentieri una maschera nazionale. Ma, sotto questa maschera, la comunità nazionale rimane un’ombra priva di corpo perché la scissione marxiana tra citoyen e bourgeois rimane operativa e, semmai, si è approfondita. Per questo si cerca dare nuova linfa a questo corpo esangue attraverso una retorica etno-nazionalista. Il risultato, però, è solo una fragile soggettività pseudo-collettiva caratterizzata da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Un rancore che può avere come bersaglio, anche se con motivazioni differenti, gli immigrati o un qualsiasi altro gruppo razzializzato. Compresi, evidentemente, gli ebrei perché il capitale deterritorializzato può tornare a rappresentare un nemico da dare in pasto alla plebe impoverita in un periodo in cui monta la retorica del rimpatrio dei capitali (che poi si rivela essere una parziale rilocalizzazione in chiave geopolitica).
Inutile girarci attorno, mettere a tema il rapporto tra antisemitismo e razzismo non può che creare imbarazzo tra i sostenitori a prescindere dello stato di Israele (per essere chiari, non sto parlando dell’autore del libro recensito di cui non conosco le posizioni in proposito). Il legame indissolubile tra colonialismo e razzismo, infatti, riguarda anche il sionismo che, sin dalle sue origini tardo ottocentesche, è un progetto di carattere coloniale. L’idea che la Palestina fosse una terra senza popolo da destinare a un popolo senza terra (in teoria al popolo ebraico, in realtà al movimento politico sionista che non ha mai coinciso con l’insieme delle persone di fede e cultura ebraiche) è tutto sommato sovrapponibile al concetto che da sempre giustifica la spoliazione coloniale, quello terra nullius: terra di nessuno, appunto, e per questo liberamente appropriabile. Il fatto che il sionismo abbia avuto successo perché ha offerto un approdo di salvezza agli ebrei perseguitati in Europa nulla toglie alla sua natura coloniale, mentre aggiunge sale sulle ferite del popolo palestinese che, utilizzando le parole di Edward Said, si trova a vivere non solo il dramma dell’occupazione, ma anche “la tragedia di essere vittima delle vittime”. 

In conclusione, tornando al testo di Disegni, è senz’altro vero, come sostiene l’autore, che l’antisemitismo ha una sua connotazione peculiare che lo distingue dal razzismo genericamente inteso. Ma distinto non significa privo di relazioni. Se, per contrastare un supposto antisemitismo, si finiscono per alimentare stereotipi razzisti di altra natura (per esempio quelli nei confronti delle popolazioni di fede islamica che si oppongono allo stato di Israele), si rischia seriamente di bruciarsi con il fuoco che si sta appiccando per tenere lontano dal proprio fortino le orde di barbari. Ha di nuovo ragione Disegni quando sostiene che l’antisemitismo è il frutto di una mancanza di radicalità nell’affrontare il tema del lavoro sfruttato e alienato, ma lo stesso vale per il razzismo in quanto tale. Una radicalità che possiamo ritrovare anche con l’aiuto di Marx. Una radicalità che la leggenda del suo antisemitismo vorrebbe screditare. Anche per questo è oggi utile leggere Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo.

]]>
Controllo della sessualità, violenza di genere e biopolitica nella Germania nazista: i bordelli dei lager https://www.carmillaonline.com/2024/04/03/controllo-della-sessualita-violenza-di-genere-e-biopolitica-nella-germania-nazista-i-bordelli-dei-lager/ Wed, 03 Apr 2024 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81923 di Armando Lancellotti

Baris Alakus, Katharina Kniefacz, Robert Vorberg, I bordelli di Himmler. La schiavitù sessuale nei campi di concentramento nazisti, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024, pp. 224, € 18,00

Il merito principale di questo volume, da poco riproposto da Mimesis Edizioni dopo la prima traduzione italiana del 2011 dell’originale austriaco del 2006, consiste nel contributo dato allo studio e alla conoscenza di un aspetto, tra i numerosi del nazionalsocialismo e del suo sistema concentrazionario, ancora in parte trascurato e indagato meno di quanto meriterebbe: le politiche di genere, le forme di violenza e costrizione sessuale e il governo della sessualità come [...]]]> di Armando Lancellotti

Baris Alakus, Katharina Kniefacz, Robert Vorberg, I bordelli di Himmler. La schiavitù sessuale nei campi di concentramento nazisti, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024, pp. 224, € 18,00

Il merito principale di questo volume, da poco riproposto da Mimesis Edizioni dopo la prima traduzione italiana del 2011 dell’originale austriaco del 2006, consiste nel contributo dato allo studio e alla conoscenza di un aspetto, tra i numerosi del nazionalsocialismo e del suo sistema concentrazionario, ancora in parte trascurato e indagato meno di quanto meriterebbe: le politiche di genere, le forme di violenza e costrizione sessuale e il governo della sessualità come strumenti di realizzazione del progetto biopolitico del Terzo Reich. Principalmente lo studio dei tre autori si concentra sul caso della predisposizione, per ordine delle più alte autorità del regime, di un capillare apparato di prostituzione forzata da destinare ai soldati combattenti, agli uomini delle SS, ai lavoratori stranieri presenti in Germania, fino ai lavoratori forzati internati dei campi di concentramento, con la conseguente riduzione di migliaia di donne alla condizione di “schiave sessuali”. Un sistema di “bordelli di Stato”, che rappresenta solo un aspetto specifico di una ben più vasta ed organica politica di controllo della sessualità, a sua volta da collocare all’interno della cornice più generale del programma eugenetico di costruzione, promozione e difesa della Volksgemeinschaft nazionalsocialista.

Le dottrine eugenetiche internazionalmente molto diffuse a inizio Novecento negli ambienti medico-scientifici, in tutto l’Occidente e non solo in Germania e ben prima del nazionalsocialismo, avevano condotto all’adozione in alcuni paesi di misure di igiene sociale e razziale come la sterilizzazione su vasta scala, motivate dalla preoccupazione per il calo demografico e per la diffusione di malattie ereditarie che avrebbero potuto indebolire razze e popoli. Igiene sociale ed eugenetica, entrambe nutrite di darwinismo sociale, trasferivano dall’ambito biologico a quello sociale la teoria della selezione naturale e della sopravvivenza del più adatto, a cui associavano l’idea della degenerazione psichiatrica e della ereditarietà delle qualità individuali. In tal modo veniva messo a punto un paradigma meccanicistico e deterministico che riduceva i fenomeni sociali a meri fenomeni biologici: la degenerazione razziale è intesa come causa di degenerazione sociale e i comportamenti asociali come conseguenze di predisposizioni ereditariamente trasmesse, che devono essere interrotte ed impedite.

Vale la pena ricordare che proprio la convergenza tra la visione razzista del mondo del nazionalsocialismo e i programmi dell’eugenetica condusse alla pianificazione e alla realizzazione di operazioni di violenza e omicidio di massa, come nel caso della Aktion T4. Il 14 luglio del 1933, poco dopo la nomina a cancelliere del Reich di Adolf Hitler, venne promulgata la cosiddetta legge per la sterilizzazione forzata dei disabili (mentali e fisici) e dei portatori di malattie ereditarie, norma poi entrata in vigore il 1^ gennaio 1934. Ad essere colpiti da questo provvedimento furono i malati di mente, le persone con deficit cognitivi (i cosiddetti “deboli di mente” o “idioti”), ma anche gli epilettici, i sordi, i cechi, le persone con malformazioni fisiche e infine i soggetti appartenenti alla categoria dei cosiddetti “asociali”, come per esempio gli alcolisti e spesso le prostitute, che si riteneva potessero trasmettere ereditariamente la predisposizione al comportamento antisociale. Furono circa 400000 i tedeschi sottoposti al trattamento di sterilizzazione, a cui si aggiunse anche l’aborto coatto, imposto dall’autorità dello Stato. Provvedimenti legislativi come questo o come quello del 1935, che vietava il matrimonio qualora uno dei due futuri coniugi rientrasse in una delle categorie contemplate dalla legge per la sterilizzazione, fecero da premessa del più generale progetto criminale eugenetico denominato Azione T4, che, prima ancora di assumere questo nome nel 1939, iniziò, l’anno precedente, con l’eliminazione di neonati e bambini affetti da menomazioni fisiche e mentali.

Insomma, il regime si convinse dell’idea che la riproduzione e quindi la sessualità dovessero essere controllate per evitare o limitare la degenerazione razziale e la comparsa di “biotipi impuri”, dal momento che la Weltanschauung nazista pensava che la Volksgemeinschaft dovesse essere innanzi tutto una comunità razziale, sana e pura. All’interno della comunità popolare-razziale i ruoli dei generi maschile e femminile erano radicalmente gerarchizzati e distinti sulla base della netta superiorità dell’uomo sulla donna, il ruolo della quale non doveva discostarsi molto da quello meramente riproduttivo, con cui avrebbe garantito la conservazione e la tutela della purezza del sangue. In quest’ottica le idee di emancipazione femminile erano da considerarsi come estremamente nocive, perché potevano indurre le donne tedesche a comportamenti pericolosi per la stessa razza germanica, come ebbe modo di spiegare Alfred Rosenberg, principale ideologo del nazionalsocialismo, che propose la teoria della «”emancipazione delle donne dall’emancipazione della donna”: la donna “emancipata” può pretendere il diritto di avere rapporti sessuali con negri, ebrei, cinesi. L’emancipazione porterebbe la donna, che è invece chiamata a essere il sostegno della razza, ad annientare le basi esistenziali del popolo» (pp. 17-18).

La politica di controllo della sessualità del Terzo Reich si diede anche l’obiettivo di combattere e limitare l’omosessualità, sia maschile sia femminile. Già nel 1928 e quindi prima della conquista hitleriana del potere – osservano i tre studiosi, autori del libro – gli igienisti della razza avevano inserito l’omosessualità nella categoria dell’atto osceno, che di seguito il nazionalsocialismo, combinando omofobia e antisemitismo, considerò come un tratto propriamente ebraico. Soprattutto l’omosessualità maschile era avversata in quanto pericoloso ostacolo alla politica demografica nazista, finalizzata alla riproduzione e alla selezione di una sana razza germanica e come grave comportamento asociale, che il regime pensò di combattere favorendo la prostituzione, nella convinzione che più frequenti e facili occasioni di rapporti eterosessuali avrebbero disincentivato l’omosessualità. Dopo la “notte dei lunghi coltelli”, il ridimensionamento delle SA e l’uccisione del loro capo, l’omosessuale Ernst Röhm, la persecuzione dell’omosessualità conobbe una forte accelerazione: se per i più era previsto il lager, per le SS o gli uomini della polizia, dal 1941, si arrivò fino alla pena capitale e, ricordano gli autori, furono circa 50000 i condannati alla detenzione per omosessualità nei dodici anni del Terzo Reich.

Il nazionalsocialismo si preoccupò in modo minore dell’omosessualità femminile, che venne combattuta, ma più limitatamente dell’omosessualità maschile. Secondo gli autori di questo studio, le ragioni vanno individuate nella convinzione stereotipata che essa fosse in molti casi la conseguenza di una sorta di naturale tendenza femminile all’esternazione dell’affettività; oppure che, come nel caso dell’omosessualità maschile, fosse l’effetto temporaneo dell’indisponibilità di rapporti eterosessuali, che l’innato istinto femminile alla maternità avrebbe comunque aiutato a superare; oppure che fosse una forma di degenerazione da associarsi alla prostituzione, interpretata come sregolatezza ed eccesso sessuali. Fatta eccezione per l’Austria, dal 1938 annessa al Reich, l’omosessualità femminile non era perseguita per legge, ma molte furono le lesbiche internate nei lager, in quanto assimilate alle prostitute e quindi considerate “criminali” o “asociali”.

I capitoli secondo e quarto, dei cinque che compongono il libro, affrontano il tema centrale dello studio: la persecuzione della prostituzione, da un lato e la creazione dei “bordelli di Stato”, dall’altro, a dimostrazione della “doppia morale” nazionalsocialista, che, per un verso, intendeva togliere la prostituzione dalle strade e promuovere l’immagine della donna tedesca come moglie e madre ariana, custode e sentinella della salute della razza e della purezza del sangue, mentre contemporaneamente condannava migliaia di donne alla schiavitù sessuale in bordelli voluti, organizzati e gestiti per disposizione del medesimo regime.

Dentro una cornice generale di assoluto arbitrio giuridico, reso possibile dalla “legge per i pieni poteri” del marzo 1933 (Ermächtigungsgesetz) che istituiva lo “stato di eccezione”, i provvedimenti di legge contro le numerose categorie di cittadini complessivamente definibili come “asociali” si susseguirono senza freni. La prostituzione venne considerata una forma di deficienza mentale e morale femminile, un comportamento asociale e una potenziale tara trasmissibile ereditariamente. Pertanto la lotta contro la prostituzione si intrecciò con la politica di sterilizzazione, avviata con la sopra citata legge del luglio 1933.

Inoltre, rilevano Baris Alakus, Katharina Kniefacz e Robert Vorberg, la riforma del sistema sanitario realizzata dal nazismo trasformò gli uffici di igiene in centri di rilevazione genetica funzionali alla politica demografica del regime. Le idee di selezione del più forte e di eliminazione dell’inadatto, proprie del darwinismo sociale, erano molto diffuse negli ambienti medico-sanitari-assistenziali già prima del nazismo e in molti casi pratiche anche criminali, come quella della sterilizzazione forzata, erano giudicate da molti assistenti sociali e addetti ai lavori come strumenti di igiene sociale assolutamente necessari. A questo si aggiunga che la teoria generale riguardo all’assistenza sociale riteneva che questa dovesse adottare un punto di vista e perseguire un fine esclusivamente collettivi, per cui il benessere da realizzare con l’erogazione del servizio di assistenza sociale era solo quello collettivo, non quello individuale e il bene della collettività, nella visione sociale del nazismo, consisteva innanzi tutto nella difesa e nella promozione della Volksgemeinschaft razziale. Ne conseguiva che per certe categorie di persone l’intervento delle strutture di assistenza sociale dava il via a pratiche persecutorie: a seconda dei casi, schedatura, controllo, interdizione, segregazione, sterilizzazione, internamento.

I nazisti definivano “asociali” coloro che assumevano comportamenti ripugnanti per il resto della società e che erano socialmente emarginati e nocivi. Da un cero momento in poi la Kriminalpolizei fu chiamata, in stretta collaborazione con gli altri corpi di polizia e con la Gestapo, ad inasprire la caccia contro i cosiddetti “delinquenti abituali” e contro gli “asociali”, in particolare prostitute, alcolizzati, vagabondi e zingari.

Gli interventi repressivi dell’asocialità andavano dalla semplice esclusione dai sussidi sociali fino all’uccisione per eutanasia, passando attraverso la sterilizzazione forzata. Sullo sfondo c’era sempre l’idea propria della biologia criminale, secondo la quale i comportamenti e gli stili di vita “asociali” avrebbero potuto trasmettersi ereditariamente e così, col passare del tempo, la sorte a cui erano destinati gli asociali divenne sempre più spesso la sterilizzazione e la deportazione nei campi di concentramento.

La realizzazione di “bordelli di Stato” e il loro utilizzo come strumento biopolitico avvengono attraverso un rapido susseguirsi di tappe. Dal 1939, in seguito al considerevole aumento di lavoratori stranieri all’interno dei confini del Reich, si stabilì che donne e uomini tedeschi non avrebbero dovuto intrattenere relazioni coi lavoratori stranieri al fine di proteggere i tedeschi, soprattutto i soldati, dal pericolo di contrarre malattie veneree. Nel settembre del ’39, con l’inizio della guerra, un decreto del ministero degli interni decideva la riapertura dei bordelli e il dislocamento di essi e delle prostitute in particolari aree dedicate; disposizione prima riservata alle sole zone di operazione militare, poi estesa anche al territorio nazionale.

Il regime ritenne che l’apertura dei bordelli destinati ai soldati avrebbe consentito di ridurre il pericolo di contrarre malattie all’interno dell’esercito; di tenere alto il morale dei combattenti; di lottare contro l’omosessualità maschile. Poi si affrontò il problema della presenza crescente dei lavoratori stranieri e per evitare il pericolo di contatti sessuali con le donne tedesche si pensò di aprire bordelli a loro destinati.
Seguì poi l’istituzione dei bordelli per le “unità testa di morto” (Totenkopfverbände), le SS poste a guardia dei lager e infine di quelli per gli internati dei lager stessi, i lavoratori forzati dei campi di concentramento.

La creazione di bordelli per gli internati lavoratori forzati dei campi rispondeva innanzi tutto ad un principio economico e prestazionale: incrementare la produttività dei lavoratori schiavi, che, come conseguenza delle condizioni proibitive del lager, era di molto inferiore a quella della forza lavoro esterna al campo. Per questo si pensò di introdurre una sorta di sistema premiale a cottimo che per i detenuti più produttivi prevedesse, come compenso massimo, l’accesso settimanale al bordello del campo. Himmler stesso suggerì un sistema premiale a cinque livelli che prevedeva i seguenti compensi: «1. Alleggerimento delle condizioni di detenzione 2. Vettovaglie supplementari 3. Premi in denaro 4. Forniture di tabacco 5. Visite al bordello» (p. 102). Secondo le attente ricostruzioni dei tre studiosi, il primo bordello venne aperto a Mauthausen, nella baracca n.1 a sinistra del portone di ingresso; la decisione fu presa il 31 maggio 1941, a cui seguì l’inaugurazione nel giugno del ’42. Nello stesso anno, un bordello fu aperto anche nel vicino campo di Gusen e in entrambi i bordelli lavoravano come schiave sessuali dieci donne. Ad Auschwitz I fu inaugurato nel giugno del ‘43, al primo piano del blocco 24, sempre nelle immediate vicinanze dell’ingresso ed era predisposto per il lavoro di quindici donne. Nel ’44 fu aperto un bordello anche ad Auschwitz III e le donne venivano prelevate da Auschwitz Birkenau; lo stesso anche a Buchenwald, con sedici detenute provenienti da Ravensbrück e l’elenco potrebbe continuare, perché questo sistema venne esteso all’intero apparato concentrazionario nazista e moltissimi campi si attrezzarono si conseguenza. Col passare del tempo si decise di collocare i bordelli non più nelle immediate vicinanze dell’ingresso, cioè in una posizione in cui sarebbero stati facilmente visibili, ma in luoghi più riparati e si dispose che, in caso di visite ai campi, ai visitatori non si mostrassero né i bordelli né i crematori, insomma quelli che nel lessico interno ai lager erano indicati, significativamente con la stessa parola, come “edifici speciali”.

Il capitolo quarto spiega che per i bordelli dei campi destinati agli internati le donne erano selezionate principalmente tra le prigioniere del lager femminile di Ravensbrück, fatta eccezione per i campi di Auschwitz I e III, dove le schiave destinate ai bordelli erano prelevate da Birkenau. In alcuni casi, soprattutto nei territori occupati a Est, le “schiave sessuali” potevano essere scelte anche tra la popolazione locale.

Oltre agli “edifici speciali” per gli internati, creati allo scopo di incentivare e premiare il lavoro produttivo, il regime volle predisporre anche dei bordelli per gli uomini delle SS. Anche in questo caso, molto spesso le donne venivano selezionate e prelevate a forza da Ravensbrück. Stando alle testimonianze, la selezione avveniva banalmente in base al criterio della bellezza e le più belle venivano destinate ai bordelli delle SS: dovevano superare una visita medica, che accertasse l’assenza di malattie veneree, di seguito erano osservate da alcuni militi delle SS, che le facevano sfilare nude e, se ritenute idonee, dovevano essere rimesse in forza e per questo ricevevano una maggiore quantità di cibo ed erano esentate dalle mansioni lavorative più dure, in attesa di essere trasferite a destinazione. Questi trattamenti, dalle altre internate compagne di prigionia e nelle condizioni estreme e disperate del lager, erano spesso considerati privilegi che suscitavano risentimento, inimicizia e disprezzo verso le prigioniere destinate al lavoro nei bordelli. Dalle testimonianze delle sopravvissute si comprende come la procedura di reclutamento facesse sistematicamente ricorso all’inganno: alle donne da selezionare si prometteva che dopo sei mesi di lavoro nei bordelli sarebbero state liberate. Restituzione alla libertà che non avvenne mai e dopo alcuni mesi di violenze, di schiavitù sessuale e sfruttamento le donne impiegate nei bordelli venivano riportate a Ravensbrück, per essere sostituite da altre schiave, completamente distrutte nell’animo e nel corpo, frequentemente riaccolte dalle compagne di prigionia con sospetto, rancore e pregiudizio.

Infondati e deprecabili sospetti di connivenza e collaborazione con i carnefici che perseguitarono le schiave sessuali dei “bordelli di Himmler” anche dopo la fine della guerra e la liberazione dalla prigionia e che causarono spesso l’emarginazione sociale delle sopravvissute e l’espulsione dal novero delle vittime della barbarie dei lager nazisti. Anche la storiografia, per molto tempo, ha recitato una parte in questa operazione di rimozione ed oblio delle tragiche memorie di queste donne vittime della politica totalitaria di controllo assoluto dell’essere umano perpetrata dal nazionalsocialismo e che si realizzò anche attraverso il governo della sessualità, il controllo e lo sfruttamento del corpo di donne ridotte a schiave sessuali e usate come ingranaggio del sistema dell’orrore realizzato nell’abisso criminale dei lager. Solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso la storiografia ha dato il via al doveroso lavoro di recupero e ricostruzione di queste memorie, di studio e comprensione di questa componente importante del sistema del terrore nazionalsocialista, lavoro al quale il libro di Baris Alakus, Katharina Kniefacz e Robert Vorberg presta il suo valido e prezioso contributo.

Con la regolamentazione della prostituzione, la Germania nazista rendeva manifesta la sua volontà di dominio totale sugli esseri umani. I bordelli divennero perciò un’istituzione biopolitica. Nella cura per un “corpo biopoliticizzato del popolo” svolsero un ruolo significativo, perché erano allo stesso tempo regolatori della politica razziale, strumenti di un controllo tecnico della salute e organi che permettevano di eliminare la sfera privata. Il favoreggiamento della prostituzione e il controllo su di essa esercitato estesero la sfera d’azione del biopotere alla sessualità umana (p. 66).

]]>
Il fascismo prima e dopo il fascismo https://www.carmillaonline.com/2024/02/06/il-fascismo-prima-e-dopo-il-fascismo/ Mon, 05 Feb 2024 23:30:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80898 di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico? In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori [...]]]> di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico?
In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori tempo” dato il loro intimo legame con la crisi capitalistica successiva alla Prima guerra mondiale, con l’era del lavoro manuale di massa, della coscrizione universale maschile in vista della guerra totale e dell’imperialismo esplicitamente razzista. Possiamo allora dormire sonni sereni, fiduciosi nel carattere straordinario dei regimi fascisti?
Non proprio, sostiene sempre Toscano, perché il quadro cambia se abbandoniamo una concettualizzazione meramente analogica del fascismo. In altri termini, se lasciamo da parte l’idea che per parlare di questo fenomeno politico la cosa essenziale sia raffrontare gli epigoni contemporanei con il loro modello originale, stilando una sorta di checklist dei sintomi in grado di diagnosticare lo stato di avanzamento della malattia.
Abbandonare il piano analogico significa concepire il fascismo come un fenomeno di lunga durata e storicamente mutevole. Vuol dire intenderlo come una dinamica che precede la sua stessa denominazione, sempre strettamente legata ai prerequisiti della dominazione capitalistica, anch’essa diversificata nel tempo. Utilizzando la definizione di W. E. B. Du Bois, si può parlare di “controrivoluzione della proprietà”.

Sviluppando questo approccio, Toscano mette in luce quattro dimensioni del fascismo. In primo luogo, bisogna riconoscere che le pratiche e le ideologie che si sono cristallizzate tra le due guerre mondiali sono state anticipate e preparate dall’espropriazione e dallo sfruttamento delle “razze minori senza legge”, perpetrati attraverso il colonialismo, la schiavitù e il capitalismo razziale intra-europeo. Una sorta di “fascismo senza fascismo” che ha contraddistinto l’espansione imperialistica su scala mondiale.
In secondo luogo, i sistemi politici considerati liberaldemocratici possono ospitare al loro interno istituzioni che operano come regimi di dominio e terrore per ampi settori della loro popolazione, soprattutto nei confronti dei soggetti razzializzati, come ha messo bene in evidenza il pensiero nero radicale negli Stati Uniti (George Jackson e Angela Davis sono alcuni tra gli autori citati da Toscano). Occorre dunque superare l’idea che si possano proiettare univocamente gli idealtipi sulla storia: il liberalismo, la socialdemocrazia, il neoliberismo e lo stesso fascismo non sono ordini politici che operano in spazi e tempi mutuamente esclusivi, ma ideologie e pratiche, anche istituzionali, che possono coesistere e intrecciarsi.
In terzo luogo, il fascismo si fonda su una controviolenza preventiva, su un desiderio di rinascita etno-nazionalista alimentato dal fantasma di un’imminente e potenzialmente catastrofica minaccia di natura culturale, demografica ed esistenziale. Il panico epocale generato dalla “marea crescente di colore” e dalla “rivoluzione mondiale di colore”, che ha favorito l’ascesa del fascismo dopo la Prima guerra mondiale, si è mutato nelle narrazioni tossiche sulla sostituzione etnica e sul suicidio culturale che sono oggi condivise sia dai mass shooter sia da molti rispettabili politici. Paure cui si aggiunge una sorta di “gender panic”, derivante da un presunto disordine sessuale figlio del femminismo, funzionale a un tentativo di restaurazione dell’autorità patriarcale. Questa tendenza reazionaria può risultare tanto più efficace quanto più è capace di offrire anche alle donne, ovviamente solo a quelle bianche, una pseudo-spiegazione della loro infelicità e un’arena affettiva per esprimere la loro malintesa rabbia, dando luogo, tra l’altro, a una forma “anti-femminismo femminile” che ha come bersaglio preferito il femminismo neoliberale, facilmente criticato per il suo carattere elitario ma pretestuosamente identificato con il femminismo tour court.

In quarto luogo, il fascismo richiede la produzione di soggettività che, di certo, prevedono obbedienza a un potere statale dispotico, ma attingono anche a un’idea sui generis di libertà e di uguaglianza. La partecipazione allo squadrismo fascista o alle SS naziste ha infatti concesso a un gran numero di individui il potere di uccidere, di violentare e di derubare il proprio vicino. Si tratta, in breve, di una reinvenzione della logica coloniale della piccola sovranità, di una “liberalizzazione” e “privatizzazione” del monopolio della violenza, sicuramente circoscritte, ma molto reale. Allo stesso tempo il fascismo promuove un “egualitarismo repressivo”, basato su un’identità nella sottomissione e una fraternità nell’odio che, ovviamente, non ha carattere universalistico ma esclusivistico, essendo riservato a coloro che appartengono alla razza e alla nazione eletta.
Parlando di libertà e uguaglianza fascista si può comprendere, secondo Toscano, come la rinascita contemporanea dell’estrema destra non si basa sul rovesciamento dell’individualismo competitivo di stampo neoliberale, ma su un suo particolare compimento. L’autore ci ricorda che, storicamente, il fascismo non nasce con l’intenzione totalitaria di fondere politica ed economia, ma come un “virulento antistatalismo guidato dallo stato”, finalizzato a risolvere la crisi postbellica attraverso la restaurazione dell’egemonia liberale sul terreno economico. Tornando ai nostri giorni, vediamo come si facciano sempre più porosi i confini tra la concezione neoliberista della libertà (libertà di mercato e di possedere, assenza di interferenze con la sovranità individuale) e quella fascista (libertà di dominare e di governare). Una convergenza resa possibile dalla condivisione di un immaginario incentrato sulla competizione e sulla sopravvivenza del più forte, e sull’avversione nei confronti della solidarietà, della cura e della vulnerabilità. Il neoliberismo, in breve, deve essere autoritario e populista perché non può essere autenticamente democratico e popolare, preparando così il terreno al tardo fascismo.

Ma cosa dire dell’iperindividualismo contemporaneo che sembra segnare uno scarto decisivo rispetto alle masse compatte mobilitate dal fascismo storico? In realtà le cose sono ben più complesse. Seguendo Adorno, Toscano sostiene che, anche nei movimenti tra le due guerre, gli individui non si identificano realmente con i rispettivi leader, ma partecipano alle loro performance, mettendo in scena un’entusiastica adesione alla causa collettiva. Fermandosi anche per un secondo, l’intera performance è a rischio di andare in pezzi lasciando gli individui nel panico.
Utilizzando le categorie di Sartre, si può anche sostenere che i movimenti fascisti, pur agendo realmente, non si trasformano mai in un gruppo in fusione, rimanendo sempre allo status di massa eterodiretta, dispersa e connotata dalla serialità. Il fatto che per Sartre proprio la serialità sia una determinazione cruciale per la costituzione della sovranità statuale moderna suggerisce come i confini tra l’eterodirezione fascista e quella non fascista potrebbero essere più porosi di quanto pretenderebbe il buon senso liberale. Anche se, aggiunge Toscano, il fascismo eccelle nella manipolazione delle serialità generate dalla vita sociale capitalista, con la sua capacità di plasmare pseudo-unità e false totalità attraverso discorsi di supremazia razziale, etno-nazionalista e religiosa.

Il carattere per certi versi farsesco dell’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump nel 2021 non deve trarre in inganno. Anche la farsa è una forma di performance che, al pari delle messe in scena più seriose, è in grado di tenere insieme differenti e incompatibili immaginari autoritari, coinvolgendo una composizione sociale e di classe quanto mai eterogenea. I molteplici vettori di comunicazione e di aggregazione che oggi contraddistinguono l’estrema destra americana (e non solo), amplificano il carattere “pluralistico” e contraddittorio del fascismo tradizionale. Ma questa è tutt’altro che una debolezza, sostiene Toscano, come l’approccio razionalistico della sinistra sembra spesso ritenere.
Questo perché il “tempo per il fascismo” è il tempo della crisi, nella sua dimensione oggettivamente socioeconomica. La sfida per ogni risoluzione fascista della crisi è di realizzare una mediazione tra due tipi di temporalità divergenti: da una parte, il tempo del risentimento e del revanchismo (il tempo dell’identità e della razza), dall’altra quello dell’accumulazione (il tempo del valore). O, meglio ancora, la vera sfida è di subordinare il primo tipo di temporalità al secondo. La soluzione viene allora trovata attingendo a un archivio disordinato di immaginari ed esperienze sedimentate nel tempo grazie al quale il futuribile e l’arcaico, il nuovo e la ripetizione, la rivoluzione e il ritorno all’origine, la decisione e il destino possono convivere in una miscela instabile ed esplosiva.
Tutto ciò richiama la dimensione della “non-contemporaneità” che Bloch, citato da Toscano, ha per primo messo in luce sottolineando la presenza nella Germania degli anni Trenta di strati sociali fuori sincrono rispetto ai ritmi dell’accumulazione capitalistica (contadini, piccolo borghesi, aristocratici, sottoproletari ecc.). Strati sociali cui appartengono fantasie irrealizzate di una vita migliore, memorie di modi di vita precapitalistici, desideri improduttivi e in eccesso che sono stati deviati e irreggimentati dal fascismo. Allo stesso tempo, prosegue Bloch, abbiamo a che fare  con frammenti di un immaginario che possono rivelarsi rivoluzionari qualora riescano entrare in risonanza con la contraddizione “sincronica”, quella tra capitale e lavoro. 

Ma nelle società dei nostri giorni, si chiede Toscano, possiamo ancora parlare di non-contemporaneità? Il capitalismo attuale, con la sua capacità senza precedenti di modellare e omogeneizzare i desideri e la vita quotidiana, soprattutto sotto l’apparenza di differenza, scelta e libertà, ha portato con sé il prosciugamento delle differenze culturali e temporali dall’esperienza vissuta, insieme a tutte le loro potenzialità utopiche. Insomma, secondo l’autore di Late Fascism, non ci sarebbe più alcun passato da salvare. Quantomeno nulla di antico. Quando Trump parla di fare di nuovo grande l’America, infatti, non fa riferimento ad alcunché di  arcaico, ma a un fordismo post-bellico con tratti fortemente idealizzati, soprattutto per quanto riguarda il benessere diffuso e il compromesso patriottico tra grande capitale e lavoro.
Eppure, possiamo commentare, la sussunzione di modi di vita, culture e tradizioni non capitalistiche sotto il segno della mercificazione universale, non significa necessariamente la scomparsa di tutto ciò che viene dal passato e/o dal mondo non occidentale. Il capitale ha interesse a distruggere solo ciò che è incompatibile con le leggi della sua valorizzazione. Tutto il resto lo può rifunzionalizzare, mettere a valore o lasciar vivacchiare ai suoi margini. Il passato può sopravvivere come preferenza individuale per il consumo di merci e valori vintage, privato della sua profondità storica. Potremmo allora ipotizzare che il postmoderno, a modo suo, generalizzi il rapporto con la storia proprio della cultura di destra per la quale, sostiene Furio Jesi citato da Toscano, “il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile”. La non-contemporaneità è dunque salvata, ma al tempo stesso superata al punto di essere resa difficilmente riconoscibile. 

Similmente deformati, secondo Toscano, appaiono i lineamenti della classe operaia cui si appella il tardo fascismo, poco o nulla definita dal suo rapporto con i mezzi di produzione. Il suo tratto caratteristico è invece quello di essere di pelle bianca e di genere maschile. La connotazione razziale (e di genere) riempie una nozione politicamente vuota o spettrale della classe operaia permettendo a una soggettività pseudo-collettiva di aggregarsi per mezzo di un investimento emotivo caratterizzato da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Per questo, a differenza di quello che pensa un certo populismo di sinistra a rischio di colorarsi di tinte rossobrune,  

non esiste alcun percorso che conduca dalla falsa totalità di una classe razzializzata ed eterodiretta a una rinascita della politica di classe, non esiste alcun modo per trasformare le statistiche elettorali o gli studi mal progettati sul “soggetto populista” e sugli “uomini e donne dimenticati”, in punti di partenza per ripensare una sfida al capitale o per analizzare e mettere in discussione i fondamenti stessi del discorso fascista.1

Questo pallido simulacro del proletariato è solo un ostacolo. Ma ciò non significa buttarsi dalla parte opposta per contrastare le tendenze autoritarie del nostro periodo, annacquando l’antifascismo in un “fronte (im)popolare con liberali e conservatori”. Anche il neoliberismo presuntamente progressista, quello che sta alla base della maggior parte delle denunce tradizionali del fascismo, è contraddistinto dalla continua produzione di disuguaglianze ed esclusioni infiocchettate da impegni formali e stereotipati a favore dei diritti, della diversità culturali e delle differenze di genere. Facendo causa comune con esso, ammonisce Toscano, ci si allea con la causa per scongiurarne gli effetti. Di conseguenza, riecheggiando le parole del francofortese Max Horkheimer, non si può che giungere a una conclusione:

Chi non è disposto a parlare di anticapitalismo dovrebbe anche tacere sull’antifascismo. Quest’ultimo, inteso in senso ampio, non è solo una questione di resistenza al peggio, ma sarà sempre inseparabile dalla costruzione collettiva di modi di vivere che possono annullare le narrazioni letali di identità, gerarchia e dominio che la crisi capitalista ripropone con così cupa regolarità.2

In estrema sintesi, il fascismo di cui ci parla Alberto Toscano non è l’alterità mostruosa che si oppone al capitalismo, come vorrebbe il pensiero liberale che spesso immagina l’affermazione di questo altro da sé come un evento storico aberrante ed eccezionale. E’ piuttosto il suo lato oscuro, il suo doppio che vive costantemente ai margini (interni ed esterni, sociali e geopolitici) di quello che la cattiva coscienza liberale percepisce come il suo mondo ordinario (che è normalmente assai più limitato dell’intera realtà). Un lato oscuro che è pronto a proiettare la sua fetida ombra sull’intera società quando erompe il tempo della crisi. 

I margini in cui allignano le tenebre, aggiungiamo da parte nostra, possono anche essere concepiti, con l’aiuto di Marx, come ciò che si trova al limite dell’arco visivo dell’ideologia dominante. Quest’ultima fissa di preferenza il suo sguardo sulla sfera della circolazione delle merci, vero Eden dei diritti dell’uomo dove regnano libertà e uguaglianza per tutti i possessori di merci e, per estensione, per tutti i cittadini. Da questo punto di vista, ciò che rimane ai margini è, paradossalmente, il cuore di tenebra del mondo capitalistico, dove domina tutt’altra logica. Nel “segreto laboratorio della produzione”, infatti,

il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema rappresentativo che le è ancor più caro.3

Ed è proprio questo dispotismo, connaturato al rapporto tra capitale e lavoro nella sfera della produzione, che tende a prevalere anche nell’ambito politico, investendo le relazioni tra governanti e governati fino nel centro dell’impero, quando la silenziosa coazione dei rapporti economici non è più sufficiente ad assicurare la riproduzione del sistema capitalistico, cioè in tempi di crisi. Tempi che, oggi come in passato, ci portano verso scenari bellici sempre più allargati, lasciando spazi di libertà sempre più ristretti per chiunque non si voglia schierare tra le file delle armate patrie. 


  1. Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Vereso, London-New York 2023, p. 21, ed. Kindle. 

  2. Ivi, p. 158. 

  3. K. Marx, Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti, 1980, pp. 468-69. 

]]>
La notte della svastica di Katharine Burdekin https://www.carmillaonline.com/2023/12/26/la-notte-della-svastica-di-katharine-burdekin/ Tue, 26 Dec 2023 06:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80379 di Domenico Gallo

nota all’edizione Sellerio 2020

“Nel paradosso si rivela la realtà”, così scriveva Friedrich Dürrenmatt ne I fisici, e leggendo La notte della svastica a più ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, oltre a un profondo senso di sgomento e di disagio, non si può che cogliere la profonda verità incernierata dietro la più assoluta e tragica delle fantasie. Possiamo solo immaginare le reazioni imbarazzate dei lettori dell’epoca quando il romanzo, sotto lo pseudonimo maschile di Murray Constantine, viene pubblicato dall’editore socialista Victor Gollancz nel 1937 con una severa copertina gialla. Sotto il titolo, poche righe in grassetto descrivono l’ambientazione [...]]]> di Domenico Gallo

nota all’edizione Sellerio 2020

“Nel paradosso si rivela la realtà”, così scriveva Friedrich Dürrenmatt ne I fisici, e leggendo La notte della svastica a più ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, oltre a un profondo senso di sgomento e di disagio, non si può che cogliere la profonda verità incernierata dietro la più assoluta e tragica delle fantasie. Possiamo solo immaginare le reazioni imbarazzate dei lettori dell’epoca quando il romanzo, sotto lo pseudonimo maschile di Murray Constantine, viene pubblicato dall’editore socialista Victor Gollancz nel 1937 con una severa copertina gialla. Sotto il titolo, poche righe in grassetto descrivono l’ambientazione futuribile: “Siamo nel settimo secolo dell’era hitleriana. L’impero nazista si estende per tutta l’Europa e l’Africa, mentre l’impero giapponese copre l’Asia e l’America. La civiltà è stata annientata da secoli. La religione si è ridotta al culto del Dio del Tuono”. Le collane di Gollancz erano improntate da una aperta militanza e intendevano documentare la vita e le difficoltà delle classi lavoratrici. La prima edizione de La notte della svastica è in catalogo assieme a romanzi impegnati come La strada di Wigan Pier, il romanzo di George Orwell dedicato alla condizione dei minatori, e un capolavoro popolare come La cittadella di A.J. Cronin. Contemporaneamente nella collana Left Book Club Edition di Gollancz vengono pubblicate opere politiche come Spanish Testament di Arthur Koestler e Stella rossa sulla Cina di Edgar Snow, per i lettori di sinistra. Nell’Inghilterra che sta per essere trascinata nel conflitto mondiale le divisioni sociali sono aspre e le notizie provenienti da Italia, Germania e Spagna mettono irrimediabilmente a fuoco la complessità e la versatilità del fascismo europeo. Angosce che, contemporaneamente, si scontrano con la profonda avversione verso lo stalinismo di autori come Orwell e Koestler. Nel 1940, in pieno conflitto mondiale, La notte della svastica trova una nuova edizione nel Left Book Club Edition, i libri dalla copertina rossa, raggiungendo così un grande numero di abbonati della sinistra britannica; poi questo libro troppo difficile scompare dal mondo editoriale.

Dobbiamo a Daphne Patai, studiosa statunitense dell’utopia e della cultura delle donne, il primo e più importante contributo alla comprensione di questo suo strano e sgradevole romanzo che è La notte della svastica. L’introduzione alla riedizione critica del romanzo del 1985 chiarisce a lettori e studiosi che Murray Constantine è lo pseudonimo di una scrittrice che aveva al suo attivo altri romanzi, e lo pseudonimo maschile lascia finalmente il posto al nome femminile di Katharine.

Katharine Burdekin, in realtà, era Katharine Penelope Cade, una donna nata nel 1896 in un piccolo centro del Derbyshire nel nord dell’Inghilterra, in una famiglia benestante ed la più giovane di quattro tra fratelli e sorelle. La sua infanzia si divide tra lo studio, le molte letture e l’impegno volontario nella Red Cross. Nonostante fosse una studentessa molto capace, la sua famiglia non le concesse di iscriversi a Oxford come i fratelli maschi, ma lo scoppio della guerra irrompe violentemente nella sua vita. Il fratello viene arruolato assieme un amico australiano, il campione di canottaggio e medaglia d’argento olimpica Beaufort Burdekin. Beaufort viene ferito in battaglia e rientrato temporaneamente in Inghilterra si sposa con Katharine. Quando il marito torna al fronte, Katharine lavora all’ospedale militare di Cheltenham come inserviente addetta alle pulizie e ai pasti, e, contemporaneamente, si occupa del fratello Allan, sofferente di shock bellico e successivamente ricoverato come schizofrenico. È attraverso questa esperienza che Katharine sviluppa il suo primo pacifismo che sarà un elemento fondamentale di tutta la sua narrativa. Finita la guerra, dopo la nascita delle due figlie, Katharine Jayne e Helen Eugenie, la famiglia si stabilisce in Australia, ma il matrimonio finisce rapidamente. Katharine torna in Inghilterra con le figlie e si stabilisce in Cornovaglia assieme alla madre e alla sorella. La famiglia vive di rendita e dedica molto tempo alla lettura e alla discussione; in questa atmosfera apparentemente tranquilla Katharina pubblica il suo primo romanzo, Anna Colquhoun. È il 1922.

Nel 1926 Katharine incontra una donna che le sarà amica e compagna per tutta la vita. Isobel Allen Burns viene assunta come istitutrice delle piccole Katharine Jayne e Helen Eugenie, ma rapidamente si sviluppa tra le due donne un affetto profondo. Dal punto di vista storico si è cercato di comprendere se il rapporto tra Katharine e Isobel abbia avuto una componente sessuale, soprattutto per collegare la sua esperienza alle molteplici espressioni narrative che hanno riguardato l’omosessualità e, in generale, la compresenza nei singoli personaggi di tratti e pulsioni sia maschili sia femminili. Tuttavia non c’è prova di un rapporto esplicitamente lesbico tra loro e il racconto dei famigliari più stretti riporta che Katharine ebbe comunque alcune relazioni con uomini dopo la fine del matrimonio. Sempre dalla famiglia provengono diversi ricordi di Katharine che descrivono la mutevolezza del carattere caratterizzato da crisi depressive intervallate da periodi di intensa capacità creativa. Muore nell’agosto del 1963, momentaneamente dimenticata come i dieci romanzi che aveva pubblicato dal 1922 al 1940.

Il suo primo romanzo pubblicato, Anna Colquhoun (1922), è un’opera realista dedicata a una donna forte, autonoma, che intende tenere il destino nelle proprie mani e diventare una famosa musicista. Anna rifiuta il ruolo che la società intende imporgli, si oppone alla pressioni della tradizione, esattamente come l’aspirante scrittrice stava praticando nella sua vita reale dopo la fine del matrimonio. Il primo libro viene pubblicato come Burdekin, il cognome da sposata che manterrà per tutti i primi sei libri pubblicati con variazioni del nome: Kay o Katharine. Dopo A Reasonable Hope (1924), una storia in cui affronta sia i traumi della guerra sia il tema dell’omosessualità, Katharine Burdekin inizia a utilizzare il registro della narrativa fantastica e di fantascienza. The Burning Ring (1927) è una storia di viaggi nel tempo in cui un giovane egocentrico attraversa varie epoche utilizzando superpoteri come l’invisibilità e la capacità di cambiare aspetto. Il romanzo successivo è The Children’s Country (1929), una storia fantastica per giovani lettori che si ambienta in paese senza adulti dove è possibile sperimentare una vita con codici sessuali non tradizionali , ma è con il romanzo successivo che la fantascienza inizia a diventare il linguaggio per esplorare il tema della condizione femminile. In The Rebel Passion (1929), il protagonista viene trasportato dall’Inghilterra del Ventesimo secolo a quella del Ventunesimo, in una società nata dopo una guerra che ha opposto Europa e Asia, in cui le donne hanno ottenuto la completa uguaglianza nei diritti, viene normalmente applicata l’eugenetica e si sta diffondendo un’utopia rurale in parte disegnata sul modello rurale sviluppato da William Morris e in parte seguendo il modello socialista. Quiet Ways (1930) è un’opera autobiografica e antimilitarista, e racconta di un’infermiera del Voluntary Aid Detachment che si innamora di un soldato ferito e traumatizzato dai combattimenti. The Devil, Poor Devil! (1934) è il primo romanzo in cui Katharine Burdekin utilizza lo pseudonimo di Murray Constantine, si tratta di un’opera propriamente fantastica in cui il diavolo deve affrontare il problema che l’umanità ha praticamente smesso di credere in lui. Secondo quanto riportato da Daphne Patai la scelta dello pseudonimo era stata motivata dalla consapevolezza che i suoi romanzi erano apertamente antifascisti e temeva per l’incolumità della sua famiglia. All’epoca, infatti, la British Union of Fascists di Oswald Mosley era al massimo dei consensi ed erano frequenti intimidazioni e azioni violente contro i loro oppositori. Proud Man (1934), ancora pubblicato sotto pseudonimo, rappresenta un ulteriore sforzo di trattare i temi del pacifismo e dell’antimilitarismo creando lei stessi moduli ancora inconsueti per la fantascienza. Un essere giunto dal futuro mette a confronto la società da cui proviene con quella inglese del periodo tra le due guerre mondiali. Nel futuro l’evoluzione ha portato a una specie umana androgina, governata da uno stato pacifico e mondiale, vegetariana e senza differenze di classe. La creatura postumana prima si presenta come femmina e poi come maschio, mostrando nei fatti il superamento della dualità sessuale che conosciamo e prospettando, attraverso i meccanismi estrapolativi della fantascienza, una materializzazione della metafora di una società che è stata capace di annullare le stesse differenze biologiche dei generi. Ma il nodo tra biologia e totalitarismo letteralmente esplode ne La notte della svastica, precursore non riconosciuto di tutte le successive distopie e testo che conferma brillantemente analisi teoriche incentrate sui fortunati termini di “biopolitica” e “biopotere”.

Sotto molti aspetti Katherine Burdekin, come testimonia la sua bibliografia, deve essere considerata un’autrice di letteratura fantastica e fantascienza, oltre essere stata una scrittrice femminista e socialista, anzi è proprio lei a inventare e sperimentare per prima quello spazio estrapolativo, utopico, distopico e radicale che è proprio della fantascienza femminista e che, dopo di lei, ha visto impegnate Judith Merril, Doris Lessing, Ursula Le Guin, Joanna Russ, Alice Sheldon, Margareth Atwood, Angela Carter, Octavia Butler e Maggie Gee.

Ma su quale immaginario aveva lavorato Katherine Burdekin per concepire le proprie opere più visionarie? Sicuramente nei suoi romanzi sono evidenti l’approccio ipotetico di un classico della letteratura britannica come La battaglia di Dorking di George Tomkyns Chesney, un’ucronia pubblicata nel 1871 ambientata in un futuro in cui la Gran Bretagna ha perduto una guerra con la Prussia. La nazione sconfitta è diventata una provincia tedesca, tassata e soggiogata dall’invasore. La storia alternativa di come sia avvenuta la sconfitta e come fosse la vita prima della catastrofe militare è affidata al racconto di un veterano che, prima di morire, affida alle nuove generazioni il racconto di una diversa realtà. La narrazione del veterano della battaglia di Dorking per diversi aspetti ricorda il racconto dialogo tra Von Hess e Arnold che è alla base della parte centrale de La notte della svastica e ricostituisce quel rapporto spezzato tra lo shock del mondo deformato e la realtà storica del lettore. Un altro scrittore che con le sue opere ha consentito a Katharine Burdekin di familiarizzare con l’idea di un mondo futuro che fosse una proiezione deformata ed estrema del presente è Herbert George Wells con classici come La macchina del tempo (1895), Il risveglio del dormiente (1899), ma anche L’uomo invisibile (1896) che viene richiamato in The Burning Ring. La macchina del tempo infatti ci consente uno sguardo su come la divisione di classe e le diseguaglianze esistenti alla fine dell’Ottocento, anziché ricomporsi in un futuro di progresso e giustizia, si possano invece inasprire, invertendo quell’idea lineare di progresso che ottimisticamente abbiano mutuato dal Secolo dei Lumi. Anche Il tallone di ferro (1907) di Jack London risuona con la tensione distopica de La notte della svastica, mentre da Il mondo nuovo (1932) può essere stata tratta l’analogia che vede il romanzo di Aldous Huxley svolgersi nell’Anno di Ford 632 mentre Katharine Burdekin ambienta il suo nell’anno 720 dopo la morte del dio Hitler. Nonostante queste premesse l’accelerazione che Katharine Burdekin imprime alla propria narrazione la distacca per pessimismo e profondità da tutta la letteratura precedente e segna irrevocabilmente quella futura. Anzi, dovranno essere progressivamente smascherati gli orrori dei fascismi e combattuta una guerra mondiale per attribuire al romanzo una base di inquietante realismo. Nel 1937, alla data della sua prima pubblicazione, il nazionalsocialismo di Hitler è considerato da molti un regime autoritario che, nonostante il suo aperto antisemitismo, ha ottenuto risultati sociali ed economici rilevanti; nessuno prima di Katharine Burdekin ne aveva colto l’intima relazione tra violenza e sessualità, l’insito disprezzo verso le donne che risiede alla base del ruolo di “madre fertile”, la dimensione sociale della violenza e il ruolo delle caste quali elementi costituenti dello Stato, la dimensione religiosa e irrazionale del fanatismo politico e l’uso della dimensione collettiva per indebolire le diversità individuali e favorire il controllo e l’omologazione, come poi teorizzato da George Mosse nel saggio La nazionalizzazione delle masse (1974). Pochi anni dopo 1984 di George Orwell è un tributo letterario, politico e antropologico non dichiarato a La notte della svastica.

L’assetto del mondo descritto da Katherine Burdekin che si è instaurato dopo una Guerra dei Vent’anni, diviso tra impero nazista e dittatura nipponica che si fronteggiano in una secolare Guerra fredda, ripropone dal punto di vista geopolitico sia La svastica sul sole (1962) di Philip K. Dick (oggi soggetto della fortunata serie TV The Man in the High Castle) sia il mondo tripartito in perenne guerra di 1984. Ma soprattutto è l’ostilità tra la dittatura e la storia a legare indissolubilmente questi tre romanzi, il grande inganno che nasconde il passato a cui si oppongono, sempre più debolmente, i segni delle contraddizioni: il manoscritto di Von Hess e la fotografia originale di Hitler, il ritaglio del “Times” che capita al “correttore” Winston Smith di 1984 e il libro sovversivo La cavalletta ci opprime del romanzo di Dick che racconta un diverso mondo possibile. Anche nel paludato thriller Fatherland (1992) di Richard Harris è il contenuto di una cassetta di sicurezza a detenere le prove di crimini nazisti abilmente occultati dopo la vittoria sull’Unione Sovietica. Sono quei fotogrammi deteriorati a cui si richiama Marc Bloch in Apologia della storia o mestiere di storico (1949) quando descrive l’attiva dello storico come di una persona che svolge la pellicola del tempo all’indietro e si trova a osservare fotogrammi sempre più deteriorati e ambigui. Sono i segni di un passato che si divincolano dalla propaganda e dall’apparenza dell’ideologia per pretendere il ristabilirsi del primato della realtà. Katharine Burdekin intuisce che la distruzione della storia e della personalità sono elementi chiave per un governo dei pochi sui molti, dell’uomo sulle donne, delle élite sulle masse. L’amnesia mondiale, seguita alla trasformazione del partito nazionalsocialista in mito, arriva fino al punto di scontrarsi con la stessa biologia, riducendo la donna a un animale da riproduzione attraverso la perdita di memoria e di identità, a un elemento della filiera bellica specializzata nella produzione di soldati. In maniera quasi sotterranea la società nazista si stava muovendo nella direzione di funzionalizzare l’intera popolazione a un progetto di dominio mondiale attraverso una perversa logica fordista, come dimostrava anche il programma di sterilizzazione ed eutanasia dei disabili passato alla storia con la sigla Aktion T4. Ma, come spesso la fantascienza mette in campo, la natura può opporsi al con la catastrofe. In questo caso è emblematicamente la sterilità, elemento fondante de Il racconto dell’ancella (1985) di Margaret Atwood o del recente Il pianeta di ghiaccio (1998) di Maggie Gee.

Se la superstizione è la base della religione di Hitler, allora non c’è un posto per la scienza o per la tecnica nel fosco anno 720. Il mondo si è fermato negli anni Trenta, per poi retrocedere e perdere progressivamente conoscenze collettive e individuali fino all’instaurarsi di un nuovo eterno feudalesimo. Il mondo intero deve diventare analfabeta e, a parte un apocrifo libro religioso, solo sterili manuali tecnici hanno resistito come supporto alle parole scritte. Del resto Marshall McLuhan, a partire dagli anni Cinquanta, aveva osservato che molte tecnologie, e una di queste è la scrittura, si sono evolute per la loro capacità di governare il tempo. Ma l’umanità dell’era del dio Hitler vive un’esperienza atemporale del sempre uguale, garantendo all’élite e alla loro progenie la nefasta utopia di un potere infinito. Katharine Burdekin ignorava ancora l’alleanza tra nazionalsocialismo e Confindustria tedesca che aveva portato al cancellierato di Hitler nel 1933 con un programma anticomunista e antisindacale, realizzando un “miracolo industriale” fortemente basato sul lavoro obbligatorio dei prigionieri politici e dei cittadini classificati asocialen.

Dopo le due edizioni de La notte della svastica Katharine Burdekin pubblica Venus in Scorpio. A Romance in Versailles, 1770-1793 (1940), firmato assieme a Margaret Leland Goldsmith, una giornalista statunitense che viveva in Inghilterra, ancora con lo pseudonimo di Murray Constantine. Dopo la guerra scrive ancora sei romanzi che non vengono pubblicati. Nel 1963, Katharine Burdekin muore dopo una lunga malattia senza che nulla associ al suo nome le opere pubblicate come Murray Constantine. Ma con l’edizione curata da Daphne Patai del 1985 de La notte della svastica e la pubblicazione postuma del romanzo utopico The End of This Day’s Business (1989), grazie alla Femminist Press, Katharine Burdekin trova finalmente il posto che le compete all’interno del pensiero politico e femminista del Novecento.

La notte della svastica vantava un’unica edizione italiana per Editori Riuniti, curata nel 1993 da Carlo Pagetti. La sua introduzione offre le prime informazioni critiche su questa distopia/ucronia e su Katherine Burdekin. Oltre a un suo saggio “Nell’anno del Signore Hitler 720. Swastica Night di Katharine Burdekin”, apparso nel volume Cittadini di un assurdo universo (Nord, Milano, 1989), la bibliografia italiana dedicata a questa scrittrice vede il capito “Sogni e Incubi femminili”, nel volume di Oriana Palusci Terra di lei. L’immaginario femminile tra utopia e fantascienza (Tracce, Pescara, 1990) e il capitolo “Il problema della distopia femminile. Ginocentrismo e afasia in Swastica Night di K. Burdekin”, nel volume di Beatrice Battaglia Nostalgia e mito nella distopia inglese (Longo, Ravenna, 1998).

]]>
Lo sguardo dei viaggiatori stranieri sulla quotidianità del Terzo Reich https://www.carmillaonline.com/2023/08/06/lo-sguardo-dei-viaggiatori-stranieri-sulla-quotidianita-del-terzo-reich/ Sun, 06 Aug 2023 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78112 di Gioacchino Toni

Julia Boyd, Turisti nel Terzo Reich. Viaggiare in Germania all’epoca del nazismo, Luiss University Press, Roma, 2023, pp. 424, € 26,00 stampa, € 14,99 ebook

Dopo la fine della Prima guerra mondiale, la Germania esercitava ancora una forte attrazione sugli stranieri presentandosi come un paese incantevole e incontaminato, con le sue città, i suoi borghi medievali, i suoi castelli e le sue cattedrali risparmiati dal conflitto, a cui si aggiungeva il fascino della sua cultura romantica e della sua tradizione musicale. La quantità di stranieri che, per vari motivi, soggiornavano [...]]]> di Gioacchino Toni

Julia Boyd, Turisti nel Terzo Reich. Viaggiare in Germania all’epoca del nazismo, Luiss University Press, Roma, 2023, pp. 424, € 26,00 stampa, € 14,99 ebook

Dopo la fine della Prima guerra mondiale, la Germania esercitava ancora una forte attrazione sugli stranieri presentandosi come un paese incantevole e incontaminato, con le sue città, i suoi borghi medievali, i suoi castelli e le sue cattedrali risparmiati dal conflitto, a cui si aggiungeva il fascino della sua cultura romantica e della sua tradizione musicale. La quantità di stranieri che, per vari motivi, soggiornavano e attraversavano il paese – in buona parte statunitensi e britannici – era decisamente elevata, tanto da arrivare a toccare nel 1937 quasi il mezzo milione di presenze l’anno.

Raccogliendo le testimonianze di tanti studenti, giornalisti, diplomatici, letterati, musicisti ecc., il corposo volume di Julia Boyd ricostruisce lo sguardo con cui i viaggiatori stranieri osservavano la quotidianità tedesca nel periodo hitleriano. Molti di loro avevano già un’idea ben precisa della Germania hitleriana prima di mettervi piede e la loro permanenza in terra tedesca, spesso, non faceva che confermare le loro aspettative; pochi cambiarono idea dopo avervi soggiornato. Tra gli stranieri presenti in Germania, almeno fino al 1937, a denunciare la deriva intrapresa dal paese erano soprattutto giornalisti e diplomatici ma, in molti casi, ai loro allarmi si guardava con disinteresse in patria.

Non è facile, sostiene, Boyd, trovare una spiegazione al perché così tanti statunitensi e britannici inviassero i loro figli a soggiornare nella Germania nazista persino quando la guerra sembrava sempre più imminente. Nonostante a livello internazionale non mancassero i timori che Hitler potesse condurre a un nuovo conflitto, molti visitatori desideravano vedere in lui un uomo di pace. Inoltre, l’enfasi nazista sull’ordine e sulla ferrea disciplina non mancava di esercitare un certo fascino sugli stranieri.

Nonostante fosse passato poco tempo dalla fine del primo conflitto mondiale, molti dei britannici che mettevano piede in Germania tendevano a guardare a quel paese come a un modello a cui ispirarsi. I viaggiatori statunitensi, sottolinea Boyd, pur stupiti dalla diffusione capillare di proclami antisemiti, faticavano ad affrontare criticamente la persecuzione nei confronti degli ebrei non solo in quanto, in molti casi, erano antisemiti loro stessi, ma anche perché ciò li avrebbe costretti a fare i conti con le discriminazioni praticate nel loro paese nei confronti degli afroamericani.

Inizialmente, per conquistarsi i favori stranieri, i nazisti insistevano molto nel presentarsi come baluardo alla minaccia “bolscevico-ebraica”. E se diversi viaggiatori di fede antibolscevica erano pronti a denunciare l’onnipotenza della polizia segreta, la propaganda martellante e l’autoritarismo del paese di Stalin, non altrettanto erano disposti a fare nei confronti di quello di Hitler, forse che le finalità di quest’ultimo bastassero a far passare del tutto in secondo piano tutto il resto.

Le prime testimonianze raccolte dal volume fanno riferimento al periodo weimariano, quando gli stranieri, nel visitare la Germania, non potevano che notare quanto fosse diffuso il risentimento per le condizione imposte dal Trattato di Versailles accentuato dall’impressionante livello di malnutrizione e povertà che toccava anche il ceto medio soprattutto nelle grandi città.

A stupire i viaggiatori britannici e statunitensi erano anche le tante espressioni artistiche, cinematografiche e teatrali d’avanguardia, il livello di emancipazione femminile, il libertinismo che si respirava a Berlino e, più in generale, la tendenza a un’esibizione del corpo del tutto sconosciuta nei loro paesi di provenienza. Negli ultimi anni della Germania weimariana a colpire i visitatori stranieri era anche l’incredibile attenzione riservata alle aggregazioni giovanili da parte di associazioni ecclesiastiche e formazioni politiche.

In apertura degli anni Trenta, la crisi dilagante aveva ridimensionato la presenza di visitatori stranieri in Germania, inoltre, le prime forme di turismo organizzato diminuirono le spese pro capite dei gruppi rispetto a quelle dei viaggiatori in proprio. Dopo la presa del potere da pare di Hitler, non pochi stranieri notarono come pian piano i tedeschi, a prescindere dalle precedenti posizioni politiche, si allineassero sempre più al nazismo per questioni di sopravvivenza.

Nel volume sono riportati gli sguardi attraverso cui i viaggiatori stranieri guardarono al rogo dei libri, ai sempre più frequenti prelievi di oppositori operati nottetempo e alle persecuzioni nei confronti degli ebrei. A proposito di queste ultime, dalle testimonianze raccolte, emerge come molti stranieri tendessero a ritenerle “un piccolo prezzo da pagare” per la rinascita di una grande nazione di cui si comprendeva, tutto sommato, il risentimento post Versailles.

Nel 1933 così vedeva invece le cose il giornalista francese di sinistra Daniel Guérin:

Per un socialista, visitare la Germania al di là del Reno era come esplorare le rovine di una città dopo un terremoto. Qui, fino a poco tempo fa, c’era il quartier gemerle di un partito politico, di un sindacato, di un giornale,là una libreria per i lavoratori. Oggi a quegli edifici son appese enorme bandiere con la svastica. Questa era solita essere una strada rossa; qui sapevano come si combatte. Oggi ci si imbatte solo in uomini silenziosi, dagli sguardi tristi e preoccupati, mentre i bambini ti spaccano i timpani con i loro “Heil Hitler!” (p. 114)

Quegli ostelli che solo poco tempo prima erano gremiti di giovani escursionisti pacifici ora erano occupati da giovani nazisti con cinturoni, stivali e la cravatta della Gioventù hitleriana indossata sulla camicia color cachi, indottrinati a ricordare agli stranieri che era grazie a loro se si stava salvando il pianeta dal bolscevismo. Non era difficile immaginare come questi giovani così entusiasti della disciplina a cui erano stati assoggettati prima o poi sarebbero stati ben disposti a prender le armi.

Oltre a notare quanto i giovani fossero stati coinvolti dal movimento nazista, qualche osservatore straniero restò stupito dal vedere come il ceto medio fosse disponibile a rinunciare a diverse libertà conquistate nel periodo weimariano e come molte donne, in nome dell’“interesse del popolo tedesco”, accettassero di abbandonare il lavoro per occuparsi solo della famiglia e di essere riprese se fumavano in pubblico o se andavano in giro truccate.

Se molti viaggiatori stranieri preferivano non guardare troppo in profondità la realtà tedesca, Guérin aveva notato come esistessero ancora luoghi nelle città tedesche in cui i nazisti preferivano non avventurarsi: nei bassifondi di Amburgo, ad esempio, continuavano a comparire sulle mura scritte come “Morte a Hitler!” e “Lunga vita alla rivoluzione”. Per qualche tempo, osservando piccoli comportamenti quotidiani, alcuni viaggiatori dedussero che non tutti i tedeschi sembravano in realtà convinti nazisti.

Consapevole dell’importanza del turismo come strumento di propaganda, il regime si adoperò per mostrare ai visitatori stranieri quanto la Germania fosse una nazione “amante della pace”, gaudente e ospitale: «“Venite a vedere con i vostri occhi” vantava un opuscolo “i progressi che sta facendo la Germania: disoccupazione assente, produzione ai massimi livelli, sicurezza sociale, grandi opere per lo sviluppo industriale, pianificazione economica, efficienza organizzata, una dinamica volontà di unire le forze, un popolo felice ed energico, lieto di condividere i sui successi con voi”» (p. 119).

A colpire gli stranieri era anche l’utilizzo propagandistico del festival wagneriano di Bayreuth, della festa del raccolto sulla collina di Bückeberg nei pressi di Hamelin, della rappresentazione della Passione di Oberammergau, di cui si accentuavano i caratteri antisemiti già presenti alla sua nascita secentesca. Probabilmente a sbalordire maggiormente i visitatori stranieri erano le tante iniziative neopagnane che celebravano il solstizio d’estate spronando i giovani al fervore patriottico. Molti stranieri raccontarono degli imponenti festeggiamenti annuali tenuti sulla collina di Hesselberg, scelta come Montagna Sacra dai nazisti, in cui si danzava attorno a un grande falò rivolgendo preghiere al sole e venerando Hitler. Centinaia di viaggiatori stranieri parteciparono agli oceanici raduni di Norimberga organizzati tra il 1933 e il 1938 e in diverse loro testimonianze raccontarono di quanto fossero coinvolgenti.

Nei primi tempi il campo di Dachau, inaugurato nel 1933, veniva mostrato con orgoglio ai visitatori stranieri. Le testimonianze riportate nel volume sono di diverso tono; mentre alcuni visitatori mettevano l’accento sul terrore che si poteva leggere negli occhi dei reclusi, consapevoli di essere in balia del totale arbitrio delle guardie, altri evidenziavano come, dopotutto, non si trattasse che di una modalità di rieducazione attraverso il lavoro. «L’antisemitismo era diffuso nell’alta società inglese, come pure in Francia e in buona parte dell’America. Analogamente il destino dei comunisti, degli zingari, degli omosessuali e dei “malati di mente”, che finivano a Dachau insieme agli ebrei, non rappresentava di certo una questione scottante per molti» (p. 154).

La testimonianza di uno straniero che aveva voluto sperimentare la partecipazione a un campo di lavoro nei primi anni del regime hitleriano riporta la facilità con cui era risuscito a integrarsi con lo spirito cameratesco dei giovani presenti e, soprattutto, come le esercitazioni fisiche che si tenevano – come nelle scuole –, pur essendo eseguite senza armi, si sarebbero potute rivelare un ottimo addestramento per un futuro conflitto militare.

Stando a Boyd non erano pochi gli statunitensi presenti a Berlino nel 1934 per il congresso battista – che si diceva contrario al razzismo e all’antisemitismo – ad apprezzare la Germania hitleriana per aver «dato alle fiamme cumuli di libri e riviste diseducativi» facendo «piazza pulita delle librerie ebraiche comuniste» (p. 140). A visitare il paese erano anche diversi letterati europei e statunitensi. Anche in questo caso l’esperienza diretta aveva confermato il giudizio che già avevano del regime.

Nel volume viene racconta anche l’esperienza di un gruppo di studenti cinesi decisi a passare un periodo di vacanza a Berlino anche perché meno costosa rispetto alla capitale francese ove studiavano. Dai resoconti di questi studenti emerge un certo fastidio per l’ossessione con cui i tedeschi si esibivano costantemente in saluti a braccio teso e, soprattutto, la piena consapevolezza delle politiche repressive riservate agli ebrei.

Rimettendo piede in Germania dopo alcuni anni, qualche visitatore aveva notato come la popolazione apparisse improvvisamente più bionda; nel solo 1934 erano state vendute nel paese oltre 10 milioni di confezioni di tinta per capelli, mentre il rossetto, considerato non in linea con l’ideale femminile ariano, era letteralmente scomparso.

Nel 1936 si erano svolte in Germania sia le olimpiadi estive che quelle invernali e ciò aveva portato nel paese – soprattutto a Berlino – un numero elevato di stranieri, seppure, a conti fatti, inferiore alle attese. Per il regime nazista si trattava di una grande occasione per mostrare al mondo la rinascita e l’efficienza del paese. Se qualche inviato straniero colse l’occasione per denunciare quanto i giochi intendessero nascondere il totalitarismo del regime, così invece si esprimeva l’antisemita e razzista presidente del Comitato olimpico americano Avery Brundage: «Nessuna nazione dai tempi dell’antica Grecia ha colto il vero spirito olimpico come la Germania» (p. 218).

Anche nel biennio 1937-1938 il numero di visitatori stranieri in Germania restava alto. Nel commentare la sua visita alla mostra di Arte degenerata inaugurata a Monaco nel 1937, un commentatore straniero si diceva colpito dall’insistita presenza presenza tra le opere esposte di didascalie, punti esclamativi e interrogativi, «quasi come se i nazisti avessero paura che i visitatori non le schernissero abbastanza» (p. 270).

Curiosi sono i commenti rilasciati da un uomo di provate simpatie naziste come Crawford, consigliere del re d’Inghilterra, a margine della sua partecipazione (su invito) a una delle crociere a basso prezzo che lo stato, tra il 1933 ed il 1939, offriva ai lavoratori tedeschi: stupito dal cameratismo e dalla naturalezza con cui i tedeschi rispondevano con entusiasmo agli ordini loro impartiti – cosa, a suo avviso, inimmaginabile per i britannici –, con ironia espresse il convincimento che i tedeschi fossero gli unici al mondo «nati socialisti».

Parrebbe che persino i viaggiatori fondamentalmente ostili al nazismo guardassero istintivamente oltre il regime e vedessero quella che immaginavano essere la reale Germania: un paese che, nonostante tutto, conservava la sua inossidabile capacità di sedurre e incantare (p. 281).

A partire dal 1938, quando si assistette a una vera e propria escalation di violenze, la visione della Germania da parte dei viaggiatori stranieri iniziò a cambiare; diversi “scoprirono” quanto sino ad allora non avevano saputo o voluto vedere e si resero conto di come la guerra fosse sempre più imminente. Non a caso nel 1939 le presenze straniere sul suolo tedesco diminuirono decisamente e molti tra i presenti optarono per abbandonare velocemente il paese. Poi arrivò la guerra. «Tutti i racconti che ci hanno tramandato gli stranieri ancora in grado di viaggiare in modo indipendente nel Reich durante gli ultimi tre anni di guerra sono raccapriccianti e commoventi al tempo stesso. Un tema li accomuna, i bombardamenti» (p. 229)

Ricostruendo le modalità con cui tanti viaggiatori stranieri avevano guardato alla quotidianità tedesca durante il regime hitleriano, il volume di Boyd, pur non aggiungendo nulla di nuovo sulla Germania del periodo, ha il merito di mostrare come a lungo, soprattutto i britannici e gli statunitensi avessero voluto vedere soltanto ciò che confermava il giudizio che già avevano sul regime e come, in diversi casi, forti delle convinzioni antibolsceviche e antisemite, che di certo non mancavano nei paesi d’origine, vi avessero guardato con una certa benevolenza, almeno fino allo scoppio della guerra.

Certo, non erano mancate voci dissonanti, provenienti da chi politicamente manifestava convincimenti risolutamente antinazisti, ma, complice anche la composizione sociale dei viaggiatori, i più non trovarono poi così disdicevole il totalitarismo incontrato visto che questo garantiva, ai loro occhi, l’efficiente rinascita di una nazione umiliata dal Tratto di Versailles e, soprattutto, un baluardo al comunismo. E pazienza per chi ne faceva e ne avrebbe fatto le spese con lo scoppio della guerra.

Attorno alla metà degli anni Trenta molti viaggiatori stranieri erano stati favorevolmente colpiti dal livello di idealismo e patriottismo manifestato dai tedeschi comuni, cosa che ritenevano del tutto impossibile nei loro paesi. Altra cosa che, come testimoniano diversi racconti, aveva profondamente colpito gli occhi dei visitatori era l’ostinato desiderio dei tedeschi di essere apprezzati, capiti e rispettati dagli stranieri.

Persino alla fine degli anni Trenta era ancora possibile per uno straniero passare settimane in Germania e non provare niente di più spiacevole di una puntura d’insetto. Tuttavia c ’ è una differenza tra “non vedere” e “non sapere”. E dopo la Notte dei cristalli del 9 novembre 1938 non potevano esserci scusanti per un viaggiatore straniero che affermasse di “non conoscere” la vera natura dei nazisti (p. 362).

A distanza di tempo, la disinvoltura con cui si tende ad appiccicare l’etichetta “nazista” a tutto ciò che si presenta autoritario rischia di sminuire la portata di quanto accaduto. Meglio sarebbe non dimenticarsi mai cosa è stato davvero il nazismo e di cosa è stato capace.

]]>