Narrazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 16 Apr 2025 20:00:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dal situazionismo di Agaragar alla teoria della complessità. Intervista a Mario De Paoli https://www.carmillaonline.com/2023/05/30/dal-situazionismo-di-agaragar-alla-teoria-della-complessita-intervista-a-mario-de-paoli/ Tue, 30 May 2023 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77233 di Marc Tibaldi

Della rivista Agaragar, diretta dal filosofo Mario Perniola, dal 1970 al 1972, uscirono 5 numeri, 3 per Silva Editore e 2 per Arcana Editrice (nel 2020 sono stati ripubblicati da PGreco). Agaragar è stata una rivista nata dall’incontro, con il movimento situazionista, in particolare con Guy Debord, con cui Perniola aveva instaurato un rapporto di amicizia e un confronto. Negli anni ’60, Perniola era entrato in contatto in Francia con il movimento studentesco e con le ultime propaggini del surrealismo, diventando uno dei primi a far approdare in Italia [...]]]> di Marc Tibaldi

Della rivista Agaragar, diretta dal filosofo Mario Perniola, dal 1970 al 1972, uscirono 5 numeri, 3 per Silva Editore e 2 per Arcana Editrice (nel 2020 sono stati ripubblicati da PGreco). Agaragar è stata una rivista nata dall’incontro, con il movimento situazionista, in particolare con Guy Debord, con cui Perniola aveva instaurato un rapporto di amicizia e un confronto. Negli anni ’60, Perniola era entrato in contatto in Francia con il movimento studentesco e con le ultime propaggini del surrealismo, diventando uno dei primi a far approdare in Italia le tesi del movimento situazionista proprio su Agaragar. Il pensiero che Perniola elabora in quegli anni resterà nelle sue riflessioni con l’attenzione a rilevare le contraddizioni e la complessità della società dello spettacolo. Co-fondatore di Agaragar, assieme a Perniola, fu Mario De Paoli che, dopo la fine della rivista, ha continuato la sua ricerca sviluppando – in una serie di pubblicazioni – una originale teoria della complessità che tiene assieme l’analisi dell’evoluzione dei processi sociali e l’analisi della dinamica dei processi psichici. La sua ricerca merita di essere conosciuta, per questo siamo andati a intervistarlo. De Paoli, nato a Dolo, Venezia, nel 1940, vive a Padova, città dove si è laureato prima in chimica e poi in fisica e dove ha insegnato al liceo scientifico Eugenio Curiel.

Ci racconta innanzitutto come ha conosciuto Mario Perniola e come è nata la rivista Agaragar?
Ci conoscemmo durante il servizio militare, a Padova, fine anni ’60. Avevamo da poco terminato gli studi universitari, scientifici io e filosofici lui, nonostante le diverse formazioni c’era una sensibilità culturale in comune e dopo aver letto un mio studio (che sarà pubblicato sul terzo numero della rivista con il titolo: “Economia commerciale e linguaggio razionale: denaro e logos”), mi propose di partecipare all’elaborazione di Agaragar. Lui in quegli anni stava elaborando gli studi che confluiranno poi in L’alienazione artistica, che ritengo sia ancora uno dei suoi libri migliori. Nel primo anno eravamo solo noi due in redazione, lui si occupava anche dei rapporti con l’editore Silva. Con Perniola avevo punti in comune e alcune diversità. Lui partiva dalla questione dell’alienazione artistica, in cui considera la separazione di una realtà senza significato nell’economia politica e di un significato senza realtà nell’arte. Questa separazione si è accentuata nel Rinascimento con la separazione tra arte e artigianato. Separazione che è significativa per l’inizio della frattura tra produzione materiale e produzione immateriale. Separazione decisiva per capire che il capitalismo ha agito non solo a livello della produzione materiale, ma anche a livello linguistico/immateriale. Era importante considerare lo sviluppo del capitalismo a livello di controllo della produzione materiale ma anche nella produzione immateriale: nella letteratura, nei processi psichici, nella scienza. Bisogna ricordare che Perniola su Agaragar porta anche una critica al situazionismo. I situazionisti consideravano solo un lato della separazione tra realtà e significato, non riconducevano alla realtà il significato dei processi linguistici, bisognava invece ricomporre questi due aspetti.

Perniola, in Del terrorismo come una delle belle arti (Mimesis, 2014), uno dei suoi ultimi libri, dedica un capitolo all’avventura di Agaragar, e racconta anche di un vostro incontro con Debord. Aveva già letto i situazionisti prima di conoscere Perniola?
No. Conoscevo bene il pensiero della Scuola di Francoforte. Nelle mie riflessioni sul nesso fra capitalismo commerciale e linguaggio razionale avevo in mente Adorno e Horkheimer che, in Dialettica dell’illuminismo, descrivono Ulisse come il primo ‘Illuminista’ che usa il linguaggio per avere un vantaggio.
Andammo a Bruxelles a conoscere Guy Debord e Raoul Vaneigem. Debord non ci accolse in modo molto affabile. Ci portò a giocare a calcetto. Graziella, la simpaticissima moglie di Perniola, di nascosto continuava a fare degli sberleffi a Debord, sostenendo che era antipatico e borioso. Molto meglio andarono le cose con Vaneigem, molto simpatico. Ricordo in particolare una discussione in una birreria in cui gli feci notare che “l’immaginazione al potere” era quella del capitalismo che controllava la produzione di informazione.

Negli anni in cui progettavate la rivista, c’erano almeno altre due persone in Italia che seguivano da vicino il situazionismo, si tratta di Giorgio Agamben e Gianni-Emilio Simonetti. Avevate rapporti con loro?
Simonetti non l’ho mai conosciuto. Agamben era amico di Perniola, ricordo che andammo a fargli visita in una sua tenuta, vicino a Roma. Agamben insistette perché provassi a montare un cavallo che diceva mansueto e che invece mi coinvolse in un galoppo sfrenato. Durante il mio soggiorno nella casa romana dei Perniola, in occasione del mio scritto L’educazione come processo produttivo, appesi un poster che raffigurava la Lupa Capitolina con uno dei gemelli che sputava il latte, e vi apposi sotto la scritta “bambini di tutto il mondo unitevi”. Una mattina Graziella, la simpaticissima moglie di Mario, mi fece credere che il Perniola aveva sognato che lui era Marx e io ero Engels. Racconto questi aneddoti perché evidenziano i détournement giocosi del gruppo.
Nel primo anno eravamo solo noi due in redazione, Perniola si occupava anche dei rapporti con l’editore Silva. La collaborazione tra di noi non è continuata oltre i primi anni ’70 ma, ma nonostante i nostri percorsi culturali abbiano avuto una divergenza di interessi, filosofici lui, scientifici io, questo non ha intaccato la nostra amicizia e nel corso degli anni, abbiamo continuato a sentirci, scambiandoci alcuni dei libri che pubblicavamo.

Come venne accolta Agaragar nel dibattito ideologico di quegli anni? Suscitò discussioni?
Il dibattito culturale, il confronto e la critica erano molto serrati negli anni ’70 perché proprio in quelli anni si profilava un cambiamento di paradigma nel modo di produzione del capitale (la transizione dal fordismo al toyotismo iniziò nel 1976). Ma, mentre il capitale finanziario combinava in una nuova sintesi produzione materiale e produzione immateriale, i vari movimenti di sinistra rimanevano divisi fra loro, oscillando fra gli estremi dell’operaismo e del situazionismo. Agaragar proponeva una ‘sintesi sociale’ alternativa a quella proposta dal capitale. La rivista fu accolta con un certo entusiasmo, ma fu anche fraintesa. Per fare un esempio: Giuseppe Sertoli, redattore di Nuova Corrente (che in quegli anni era un’importante rivista di letteratura e filosofia. n.d.r.), mentre si dichiarava in perfetto accordo con gli scritti di Perniola, criticava aspramente i miei scritti sul primo numero della rivista. Perniola ed io gli rispondemmo con una lettera di quattro pagine in cui affermavamo l’importanza della nostra ricerca di una nuova sintesi sociale. Ritenevamo, inoltre, che fosse necessaria un’analisi storico-critica del rapporto fra scienza e capitale. Nel 1972 (all’epoca della guerra del Vietnam) partecipai ad un convegno internazionale di storia della scienza in cui diversi fisici, fra i quali Paul Dirac, prendevano atto di ‘una massiccia soggezione della scienza al capitale’, iniziata con il Progetto Manhattan per la costruzione della bomba nucleare.

In Agagar lei ha impostato la critica del materialismo dialettico di Marx, che non considera il carattere genetico-strutturale dei processi psico-linguistici e la sintesi sociale costituita dall’evoluzione parallela di strutture economiche e strutture linguistiche.
Si. In L’educazione come processo produttivo (Agaragar n.2, 1970) mi sono posto il problema della genesi sociale. Data la forte dipendenza dalle cure parentali e una rimarchevole capacità di apprendere tramite l’esperienza, l’evoluzione biologica della specie uomo si estende in un’evoluzione sociale mediata da un processo educativo. Un sistema di segni che media socialmente la relazione uomo – natura diviene così un ‘codice genetico’ di specifiche società umane intese come ‘specie semiotiche’. Un’ ipotesi simile, del prolungamento dell’evoluzione biologica nell’evoluzione sociale, veniva poi formulata dal biologo evoluzionista Stephen Jay Gould nel saggio Ontogeny and Phylogeny (Belknap Press of Harvard University Press, 1977). In Economia commerciale e linguaggio razionale: denaro e logos (Agaragar n.3, 1971) mi sono poi posto il problema della sintesi sociale considerando l’evoluzione parallela ‘isomorfa’ di determinazioni formali della politica economica e del linguaggio razionale nella società greca classica. Una correlazione simile fra linguaggio ed economia nella polis greca era stata evidenziata dal filosofo Sohn-Rethel In Lavoro intellettuale e lavoro manuale: per la teoria della sintesi sociale (Feltrinelli, 1977), ma allora non conoscevo le sue ricerche, non erano ancora state tradotte.

Dopo aver collaborato con Perniola, come è continuata la sua ricerca?
Dal 1973 al 2005 ho insegnato matematica e fisica al Liceo scientifico Eugenio Curiel di Padova, dove sono stato promotore dell’introduzione della storia della scienza nella didattica e fra gli organizzatori e i relatori del Progetto Ipazia per la promozione della cultura scientifica nei licei. In quel periodo ho scritto i saggi Rivoluzioni parallele isomorfe. Copernico, Ariosto e Josquin de Prez (pubblicato poi da Aracne nel 2015), in cui evidenzio la sintesi sociale fra gli ambiti economico, cosmologico, letterario e musicale all’ epoca della costituzione dello Stato politico moderno e Modelli dinamici dell’evoluzione della civiltà urbana (pubblicato poi da Aracne nel 2022), in cui considero la genesi sociale del capitalismo. Nel 2018 ho scritto poi un saggio conclusivo dal titolo Capitale finanziario e populismo. La scienza nell’ evoluzione del capitale (Aracne, 2020), in cui considero l’evoluzione parallela di economia politica e scienza nelle tre fasi fondamentali dell’evoluzione del capitale. 

Parallelamente, assieme allo psichiatra e psicoanalista Alessandro Pesavento, ha sviluppato una teoria dei modelli di processi psicolinguistici.
Sì, dal 1987 al 2001 ho collaborato con Pesavento allo studio delle successioni di ‘stati dell’Io’ nelle narrazioni oniriche di un paziente in analisi. Abbiamo pubblicato assieme Un modello probabilistico del processo onirico e la sua applicazione ai sogni prodotti in analisi (Bollati Boringhieri, 1992), poi La signora del piano di sopra. Struttura semantica di un percorso narrativo onirico (Aracne, 2013). Una prima formulazione del secondo saggio era stata proposta ad un convegno di psicoanalisi tenutosi a Trieste nel 1999. Dal 2001 al 2020 mi sono dedicato allo studio delle neuroscienze e all’ applicazione alle reti neurali della teoria della biforcazione dei punti critici di sistemi non-lineari aperti in non-equilibrio. Ho elaborato un modello delle reti neurali corticali coinvolte nella dinamica del Sé: Self’s Splitting and Self-Other Identification. A phase transition model, che ho esteso poi ad un modello pubblicato in un saggio dal titolo Brain Dynamics for Goal-Directed Social Navigation. A non-linear statistical model of consciousness (Aracne, 2021).

Mi piacerebbe che ci approfondisse la presentazione delle tesi articolate in Capitale finanziario e populismo. La scienza nell’ evoluzione del capitale.
Questo saggio si propone una riconsiderazione critica delle fasi dell’evoluzione del capitalismo, e della scienza ad esso associata, nell’ epoca in cui questo sembra ormai giunto ad una fase ‘terminale’ della sua evoluzione, con il predominio sull’intero ciclo dell’economia e con uno sfruttamento esaustivo delle risorse naturali, oltre che umane, difficilmente sostenibile a livello di ecosistema. Verso la fine del XX secolo, è avvenuta una transizione dal modo di produzione fordista del capitale monopolistico al modo di produzione toyotista del capitale finanziario delle multinazionali. Due classi di fenomeni sono associate a tale transizione.

Quali sono queste due classi?
Una prima classe, evidenziata da Marco Revelli nel saggio Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in Appuntamenti di fine secolo (manifestolibri, 1995), comprende: una forte competizione fra capitalisti, dovuta all’ esaurimento delle risorse naturali e alla saturazione dei mercati, cui consegue una permanente imprevedibilità dei mercati; il predominio della speculazione del capitale finanziario (liquido) sull’ investimento del capitale industriale (fisso) e di un’economia multinazionale sulla politica nazionale, con conseguente crisi della politica; e infine l’asservimento della scienza al capitale e un uso di tecnologie sofisticate per il controllo globale dell’informazione cui corrisponde la parcellizzazione e precarizzazione delle capacità produttive umane (e un aumento delle diseguaglianze sociali). Una seconda classe, solo in parte evidenziata da Byung-Chul Han, in Psicopolitica (Nottetempo, 2014), comprende: la disgregazione dei vincoli sociali tradizionali e lo sfruttamento intensivo della libertà di scelta individuale allo scopo di aumentare la produzione e lo scambio di informazione a livello globale; un’estensione dalla produzione materiale alla produzione immateriale con conseguente alienazione nell’informazione del significato delle merci; e infine la costituzione di un nuovo asse delle opposizioni [populismo – neoliberalismo] che si combina con il vecchio asse [destra – sinistra] dei poli politici nel comporre il quadrato delle opposizioni di un nuova logica in cui, più che il valore di verità degli enunciati, è essenziale l’informazione comunicata da questi. Inoltre, nella prima parte del saggio, oltre ad analizzare il nesso fra queste due importanti classi di fenomeni psico-sociali, propongo: un modello matematico che evidenzia una transizione al caos nel caso della valorizzazione del capitale in ambiente con risorse limitate e un modello logico che evidenzia il carattere informazionale del quadrato delle opposizioni dei poli politici.

Nella seconda parte del saggio viene proposto un superamento della critica marxiana dell’economia politica.
Questa è adeguata all’analisi della produzione materiale del capitale industriale, ma non all’analisi della produzione immateriale del capitale finanziario, che sfrutta le capacità umane di comunicazione e di consumo oltre che di produzione. Marx non considera tale sintesi sociale e il fatto che l’alienazione nell’ informazione del significato connesso al valore d’ uso richiede una ridefinizione del valore di scambio. Per far ciò è necessario integrare il rovesciamento della dialettica hegeliana con una critica della teoria kantiana della conoscenza e risalire all’origine storica della politica e delle determinazioni formali dell’economia.

Lei formula l’ipotesi che la logica della politica e le determinazioni formali di valore d’ uso e di valore di scambio si siano formate all’ interno di una confederazione di città-stato greche, con lo sviluppo della proprietà privata della terra e con lo scambio commerciale, mediato dalla moneta di conio, dei prodotti in eccedenza ottenuti con la divisione del lavoro agricolo.
Sì, scopo della politica nella costituzione della polis era garantire per legge (logos), l’incorruttibilità della moneta di conio e l’inalienabilità della proprietà privata e stabilire con un’argomentazione logica la verità della proposizione “il soggetto gode / non gode di una certa proprietà” in base a un principio di non contraddizione. Ma compito della politica era anche, secondo Aristotele, fare in modo che il ciclo Merce-Denaro-Merce, i cui limiti sono fissati dal nesso fra produzione e consumo, prevalga sul rovesciamento nel ciclo Denaro-Merce-Denaro’ del capitale commerciale, in cui l’accumulazione di plusvalore consiste nel comperare merci nei luoghi in cui sono comuni per venderle a prezzo più alto nei luoghi in cui sono rare. Ciò dimostra che Aristotele aveva chiara la distinzione fra il valore d’uso di una merce per il consumatore e il valore di scambio di una merce per il mercante.

In questo libro sostiene anche che nell’ evoluzione del capitalismo si possono distinguere tre fasi.
Sì. Nella fase della proprietà privata fondiaria e del capitalismo commerciale, si ha il predominio della politica sull’economia, la separazione del consumatore dal produttore con la divisione del lavoro agricolo e il predominio del consumatore che definisce il valore d’ uso della merce (mentre il valore di scambio è dato dalla sua rarità). Con lo sviluppo del capitalismo industriale si ha un equilibrio fra potere politico e potere economico, la divisione del lavoro nella fabbrica e la determinazione del valore di scambio come lavoro accumulato. Invece nella fase del capitalismo finanziario si ha il predominio dell’economia sulla politica, una produzione insieme immateriale e materiale, la connessione fra significato e valore d’uso della merce e la determinazione del valore di scambio come informazione accumulata. Claude Shannon introdusse nel 1949 una misura probabilistica dell’informazione contenuta in un messaggio sulla base del numero di scelte fra alternative necessarie ad eliminarne l’incertezza: essendo la formula dell’incertezza eguale a quella dell’entropia, la determinazione soggettiva di incertezza e quella oggettiva di entropia vennero equiparate fra loro. Nel lavoro si ha, in particolare, un trasferimento di energia a bassa entropia con la produzione materiale di informazione. L’informazione è quindi un’estensione del lavoro alla produzione immateriale.

In un passaggio finale parla dell’entropia ambientale e dell’incertezza sociale che caratterizzano questo momento storico…
L’evoluzione della civiltà urbana consiste nell’auto-organizzazione di sistemi sociali sempre più complessi con lo sviluppo delle capacità umane di produzione e di comunicazione. Tale evoluzione è caratterizzata, da un lato, da un aumento progressivo dell’informazione incorporata da un ristretto gruppo sociale che domina l’intera società, dall’ altro da un aumento progressivo dell’entropia e dell’incertezza diffuse, rispettivamente, nell’ambiente e nel resto della società, dato lo sfruttamento sempre più intensivo sia delle risorse naturali che delle capacità umane. Nell’ evoluzione della civiltà urbana si possono distinguere tre grandi ere in cui si alternano, con un periodo di circa 900 anni, il predominio delle civiltà occidentali e quello delle civiltà orientali. Lo sviluppo del capitalismo e della scienza, che caratterizza l’evoluzione della civiltà occidentale, è alla base del suo predominio a partire dal XVI secolo. Nella seconda parte del saggio viene evidenziata la corrispondenza biunivoca di determinazioni formali dell’economia politica e della scienza, nelle tre fasi di evoluzione parallela del capitalismo e della scienza, evidenziando il progressivo asservimento della scienza al capitale.

L’analisi di queste forme di potere l’ha portata anche a individuare e/o proporre nuove possibilità di confronto, conflitto, cambiamento?
Penso che la concezione di una decrescita felice e l’opposizione del sovranismo della destra populista al globalismo neoliberale – come l’opposizione politica dei proprietari fondiari della polis greca al capitalismo commerciale – siano reazionarie in quanto pongono un limite allo sviluppo delle capacità umane di produzione e di comunicazione. Nel Rinascimento Pico della Mirandola affermava che l’uomo ha la straordinaria capacità di produrre le più grandi innovazioni e le peggiori efferatezze. Purtroppo l’evoluzione del capitalismo ha preso una brutta piega. Si tratta di cambiare indirizzo e, da un lato, ridurre al minimo l’aumento di incertezza distribuendo all’ intera comunità la ricchezza di informazione accumulata da un ristretto gruppo dominante, dall’ altro ridurre al minimo l’aumento di entropia dell’ambiente. I movimenti artistico-letterari della sinistra che, come il situazionismo, ‘narrano’ di mondi possibili alternativi, non considerano il fatto che un asservimento della scienza è alla base del potere del capitale. “L’immaginazione al potere” è possibile solo con il détournement della produzione scientifico-tecnologica per metterla al sevizio dell’intera comunità e con una nuova sintesi sociale fra narrazione e produzione che realizzi mondi possibili alternativi a quelli proposti dal capitale.

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Marx e la narrazione storica tra necessità e contingenza https://www.carmillaonline.com/2023/03/13/marx-e-la-narrazione-storica-tra-necessita-e-contingenza/ Mon, 13 Mar 2023 05:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76352 di Fabio Ciabatti

George Garcia-Quesada, Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces, Haymarket Books, Chicago 2022, pp. 190, € 27,42.

Brancaccio, Giammetti e Lucarelli nel loro recente testo La guerra capitalista “si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista”. Così sintetizza Sandro Moiso su Carmilla nella sua recensione (qui) che si chiude con alcune domande suscitate dalla lettura del libro: “quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà [...]]]> di Fabio Ciabatti

George Garcia-Quesada, Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces, Haymarket Books, Chicago 2022, pp. 190, € 27,42.

Brancaccio, Giammetti e Lucarelli nel loro recente testo La guerra capitalista si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista”. Così sintetizza Sandro Moiso su Carmilla nella sua recensione (qui) che si chiude con alcune domande suscitate dalla lettura del libro: “quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà davvero ancora la forza militare per farlo, come ai tempi delle cannoniere e delle operazioni di polizia internazionale?” Per rispondere a questioni di tale portata l’analisi econometrica portata avanti dai tre autori è senza dubbio necessaria. Ma si può anche affermare che sia sufficiente? L’economista Roberto Romano, in un’altra recensione, dà una risposta negativa. Pur apprezzando l’analisi dei tre autori citati sulla centralizzazione, Romano sostiene la superiorità della concreta analisi storica quando si devono spiegare dinamiche complesse che non sono riconducibili ad una mera analisi economico-quantitativa, ma devono tenere conto di livelli differenti come la politica, la politica economica, la geopolitica e la geografia economica (qui). Menziono questa discussione senza voler entrare nel merito, ma solo per richiamare l’attenzione sul fatto che alcuni nodi teorici, da sempre al centro della riflessione storica di ispirazione marxiana (e non solo), non rappresentano meri arzigogoli intellettuali. Essi, infatti, riemergono con forza quando si cerca di comprendere questioni di estrema attualità e drammaticità come quelle legate alla guerra in corso. In estrema sintesi, che rapporto c’è tra la necessità strutturale e la contingenza storica, tra le strutture sociali e l’agency, tra la macrostoria e la microstoria?

Questi nodi teorici sono affrontati in modo originale da George Garcia-Quesada nel suo libro Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces. Poiché abbiamo iniziato con la guerra dei nostri giorni, rimaniamo sul tema bellico riferendo quanto dice l’autore a proposito dell’analisi marxiana della guerra civile americana combattuta tra il 1861 e il 1865. In questo contesto il rivoluzionario tedesco non si limita a chiamare in causa le leggi di sviluppo del modo di produzione capitalistico che si esplicherebbero attraverso un processo di modernizzazione capitalistica, portata avanti dal Nord, a detrimento dell’arretrata produzione schiavistica degli stati sudisti. Anche perché quest’ultima, secondo Marx, ha natura pienamente capitalistica. Piuttosto vengono messe in evidenza due differenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico, interdipendenti ma in competizione. Negli Stati Confederati, infatti, la coltivazione per l’esportazione di cotone, tabacco, zucchero ecc. per essere remunerativa necessitava dell’utilizzo e della riproduzione su larga scala del lavoro schiavile, e di una continua espansione delle terre fertili coltivate. Data la contiguità spaziale delle due aree, il conflitto tra il Nord e il Sud era solo questione di tempo.
Dunque la spiegazione storica chiama in causa come elementi determinanti la topografia e la decrescente fertilità del suolo oltre che condizioni di natura strettamente politica e militare per definire lo scontro tra due differenti formazioni sociali. La dimensione spazio-temporale chiamata in causa si configura con riferimento alla forma-stato, ma la spiegazione ha come ultimo referente il mercato mondiale, data l’impossibilità per l’industria britannica, potenza egemone a livello globale, di sostituire nel breve periodo la produzione del cotone, bloccata dalle vicende belliche, proveniente dagli stati confederati. In sintesi la spiegazione della guerra civile si basa su una combinazione di formazioni sociali che, sebbene generalmente orientate all’accumulazione del modo di produzione capitalistico, non possono essere ridotte ad un unico meccanismo esplicativo.

Nelle righe precedenti abbiamo fatto riferimento a due differenti concetti, modo di produzione e formazione sociale, che ora andranno chiariti facendo riferimento ai differenti livelli di astrazione in cui si articola l’analisi marxiana. La fondazione del materialismo storico, secondo Garcia-Quesada, si basa su affermazioni di carattere metastorico che costituiscono la teoria dei modi di produzione (al plurale) avendo a che fare con le condizioni generali di produzione e riproduzione di tutte le società a partire dal ricambio organico tre essere umano e natura. A un livello inferiore di astrazione abbiamo la teoria di un singolo modo di produzione che, basandosi su astrazioni storicamente determinate, si articola in tendenze o meccanismi operanti in virtù di relazioni necessarie/interne. Scendendo ancora nella scala dell’astrazione abbiamo la spiegazione di una formazione sociale in cui si sintetizzano le tendenze del livello precedente con le specifiche le condizioni in cui operano. A livello massimo di concretezza storica abbiamo, infine, le congiunture.
Sul piano ontologico il modo di produzione è astratto ma reale, mentre la formazione sociale è più concreta e con più determinazioni da spiegare. A livello epistemologico il modo di produzione è un sistema chiuso e i suoi risultati sono necessari, mentre la formazione sociale è un sistema aperto e presenta un certo livello di contingenza. In altri termini lo studio del modo di produzione capitalistico è necessario ma insufficiente per l’analisi di una formazione sociale in cui prevale perché si deve tener conto delle diverse modalità attraverso cui il capitalismo si espande entrando in relazione con altri meccanismi di tipo economico, politico, ideologico ecc.
Il concetto di modo di produzione, dunque, non esaurisce la teoria della storia di Marx ma ne costituisce il necessario punto di partenza. Questo concetto, però, rimane centrale nella teoria marxiana in quanto uno specifico processo di produzione rappresenta la condizione di possibilità per tutta l’attività degli esseri umani dal momento che questi devono organizzarsi socialmente per soddisfare i propri bisogni e sopravvivere. Esso, dunque, è il grimaldello teorico per la totalizzazione, vale a dire per articolare e integrare le differenti prassi umane in un processo storico unitario sebbene mai concluso. In questo senso il concetto di modo di produzione rappresenta la discontinuità di base nella storia, organizzando ciascuna delle diverse forme di sociali sulla base dei loro principi peculiari a partire dalle interazioni tra le prassi umane e le loro condizioni materiali. Ma a questo punto sorge una domanda. Come intendere questa discontinuità dal momento che per Marx esiste una storia unica per quanto costituita da tempi non omogenei? L’unitarietà del processo storico si può riscontrare al livello più astratto dell’analisi, perché esistono condizioni comuni, metastoriche per la riproduzione di ogni società. Ma la ritroviamo anche analizzando il capitalismo perché si tratta del primo modo di produzione che, per il suo intrinseco dinamismo, è portato a espandersi a livello globale.

Insomma, con il capitalismo abbiamo per la prima volta una storia mondiale tendenzialmente unificata. Secondo Garcia-Quesada, Marx, solo in un primo momento, concettualizza questa tendenza nei termini di una teoria stadiale dello sviluppo storico:  l’espansione capitalistica, in qualità di stadio più avanzato, impone una singola totalizzazione spazio-temporale sulla molteplicità spazio-temporali delle coeve società caratterizzate da modi di produzione meno produttivi. In breve, lo stadio più avanzato è destinato a sostituire in toto quelli più arretrati in un processo che può essere concepito come un predeterminato schema di evoluzione. A partire dai Grundrisse, però, Marx articola una concezione diversa: il modo di produzione più produttivo non elimina necessariamente gli altri, ma crea diverse formazioni sociali sotto un meccanismo dominante, l’accumulazione capitalistica, che subordina e, nel caso, rifunzionalizza le forme sociali pregresse. Da ciò deriva, da una parte, la possibilità di delineare una concezione multilineare della storia, dall’altra, la capacità di rendere visibili diversi tipi di oppressione e sfruttamento. Questa concezione si è articolata e consolidata attraverso l’approccio teorico e politico di Marx ai paesi non europei. Un approccio che ha tra i suoi esiti più rilevanti l’ipotesi di una via russa al socialismo senza un passaggio preliminare attraverso un compiuto sviluppo capitalistico.
Ripetiamolo in altro modo: la dinamica capitalistica tende verso una totalizzazione dello spazio mondiale, ma quest’ultimo assume caratteristiche contraddittorie perché contraddistinto da uno sviluppo diseguale e combinato. Lo spazio-tempo capitalistico sussume ma non annulla la molteplicità delle configurazioni spazio-temporali presenti sul globo. Qui il tempo e lo spazio, come si può intuire dal titolo del libro di Garcia-Quesada, devono essere intesi come forme sociali storicamente mutevoli, vale a dire prodotti della prassi umana che organizzano i differenti processi sociali e che, nella loro inscindibile ma variabile relazione, definiscono le coordinate di ciascuna configurazione storica. Nonostante l’inseparabilità di queste due dimensioni, Marx utilizza modelli prevalentemente spaziali per descrivere le società precapitalistiche, con particolare riferimento al rapporto tra città e campagna. La dimensione temporale non scompare ma è messa in secondo piano perché questi tipi di società sono caratterizzati dalla longue-durée. La forte stabilità è una loro caratteristica essenziale. Il capitalismo è invece concettualizzato da Marx prevalentemente in termini temporali, caratterizzato come è dall’annichilimento dello spazio da parte del tempo. La separazione dello spazio dal tempo è però il portato dello stesso sviluppo capitalistico. È possibile pensare un processo sociale in termini esclusivamente temporali a patto di presupporre implicitamente uno spazio con caratteristiche costanti. Uno spazio, cioè, astratto, globale e mercificato in cui prevale la dimensione urbana. 

Abbiamo fin qui visto l’importanza delle configurazioni spazio-tempo a livello teorico ed epistemologico. Ma c’è un altro aspetto che emerge leggendo Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces. La rilevanza di queste configurazioni da un punto di vista narrativo. Nel raccontare la storia della Comune, per esempio, Marx, ricorre a uno slittamento nella scala della periodizzazione che permette una sorta di happy ending. Se ci si fermasse al breve periodo, alla congiuntura, la narrazione diventerebbe semplicemente tragica in considerazione del massacro dei comunardi. Ma su una scala temporale (e spaziale) più ampia possiamo prevedere la vittoria del proletariato. Questo slittamento ha una spiegazione politica, perché serve a motivare la prosecuzione della lotta. Al tempo stesso non si tratta di una scelta arbitraria dal momento che è possibile giustificarla sulla base della teoria marxiana la quale consente di affermare che i meccanismi generativi della lotta di classe non finiscono di operare nonostante la sanguinosa sconfitta della Comune.
La storiografia ha dunque degli aspetti narrativi che la accomunano alla fiction. Tuttavia, sottolinea Garcia-Quesada, questo terreno comune non dissolve la differenza tra i due generi e la loro specifica relazione con la realtà. Detto altrimenti, formulare un cronotopo – termine ispirato all’opera di Michail Bachtin che sta per configurazione spazio-temporale – significa per Marx articolare attraverso una narrazione il livello cognitivo, quello politico e quello estetico, anche se è il primo a prevalere perché la funzione principale in una storiografia realista è quella di dar conto dei meccanismi all’opera nel processo storico. Rimane il fatto che i cronotopi marxiani comportano sempre uno schieramento politico perché sono strutturati sulla base del conflitto descrivendo relazioni sociali diseguali con l’accumulazione del capitale come ultimo background di tutti i processi. Il resoconto marxiano della “cosiddetta accumulazione originaria”, per utilizzare un altro esempio tratto dal libro recensito, è una spiegazione narrativa che può essere formulata solo rendendo visibile il punto di vista degli espropriati, una spiegazione critica che approccia la totalità sociale dal suo lato nascosto e che implica una presa di posizione nella battaglia per la memoria.
Marx, a proposito del Capitale, parla della necessità di tenere distinti il metodo della ricerca da quello della esposizione (Darstellung) dei suoi risultati, consapevole del rischio di fare apparire l’esposizione stessa, anche in considerazione della sua articolazione dialettica, come una costruzione a priori. Ma con ciò, sostiene Garcia-Quesada, il filosofo tedesco si riferisce alla teoria del modo di produzione e dunque al livello dei sistemi chiusi. La narrazione rende invece conto della contingenza che inerisce ai sistemi aperti, cioè alle formazioni sociali e alle congiunture. La narrazione necessariamente completa l’esposizione, marxianamente intesa, al fine di spiegare la storia effettiva, collegando la microstoria con la macrostoria e, in questo modo, l’agency con le strutture e i meccanismi oggettivi che, a vari livelli, operano nelle diverse configurazioni spazio-temporali. Questi meccanismi, a loro volta, contribuiscono a definire la modalità narrativa più adatta alle società contemporanee. Se il capitalismo è il modo di produzione totalizzante per eccellenza, per descriverlo sarà necessario utilizzare un racconto a sua volta totalizzante ma, al tempo stesso, data la varietà delle forme sociali in cui esso domina, capace di fare affidamento su diverse sottotrame intrecciate in una narrazione multilineare.

Concludiamo con un’ultima considerazione. Secondo Garcia-Quesada, la dimensione episodica, che può essere catturata solo attraverso la narrazione, è quella che introduce la discontinuità nello spazio-tempo definito dalla narrazione stessa, indicando le possibili trasformazioni della dimensione strutturale e, in questo modo, un momento riconfigurativo che appare nella storia. Una considerazione di cui varrà la pena tener conto anche quando affrontiamo le questioni inerenti alla guerra in corso. Attraverso le attuali vicende belliche, infatti, si manifesta una tendenza verso il baratro che apparirebbe assolutamente ineluttabile qualora ci limitassimo a svelare il dispiegarsi delle leggi generali dell’accumulazione capitalistica.

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Che la memoria non si perda https://www.carmillaonline.com/2022/05/25/che-la-memoria-non-si-perda/ Tue, 24 May 2022 22:01:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72049 di Luca Cangianti

Stefano Erasmo Pacini, Malamente. Una educazione maremmana, Effigi, 2022, pp. 299, € 18,00.

La storia delle rivoluzioni è un’interminabile sequenza di sconfitte. Alle corse sfrenate sui pendii della vita, alle intuizioni geniali, agli amori che ti riempiono lo stomaco di farfalle, seguono le cadute nei crepacci, le ossa rotte, le carni aperte, il buio e le sue creature mostruose. E allora che senso ha questa fatica di Sisifo che si ripete a ogni generazione di ribelli? Nessuno, verrebbe da dire. Almeno che di tutti questi slanci eroici non rimanga la [...]]]> di Luca Cangianti

Stefano Erasmo Pacini, Malamente. Una educazione maremmana, Effigi, 2022, pp. 299, € 18,00.

La storia delle rivoluzioni è un’interminabile sequenza di sconfitte. Alle corse sfrenate sui pendii della vita, alle intuizioni geniali, agli amori che ti riempiono lo stomaco di farfalle, seguono le cadute nei crepacci, le ossa rotte, le carni aperte, il buio e le sue creature mostruose. E allora che senso ha questa fatica di Sisifo che si ripete a ogni generazione di ribelli? Nessuno, verrebbe da dire. Almeno che di tutti questi slanci eroici non rimanga la memoria e la sua narrazione mitica: “non è importante che tutto sia finito, è importante che abbiamo fatto quello che dovevamo fare, è importante che sappiamo che è stato giusto farlo, senza nessun rimorso. È importante che rimaniamo liberi, qualcuno deve rimanere per raccontarla, che la memoria non si perda, almeno quella, mi raccomando, se no moriamo anche noi prima che ci seppelliscano.” Fausto si rivolge così a Paco in Malamente, il nuovo romanzo di Stefano Erasmo Pacini, finalmente uscito nella sua interezza su carta, dopo che alcune parti erano state pubblicate a puntate su “Carmilla”.

Paco, l’alter ego letterario dell’autore, da bambino guarda i film al contrario dietro il telo; crescendo si batte per un mondo migliore insieme a molti altri, viaggia e sogna a occhi aperti per tutta la vita. Raccoglie poesie, cartoline, lettere mai spedite, racconti popolari, storie familiari e territoriali; è una spugna di memorie che assorbe dai genitori, dai nonni, dagli incredibili abitanti di un far west maremmano e da una folla di personaggi caratterizzati con pochi tratti vivaci. C’è l’ex minatore Mirto che conosce i sentieri dei partigiani, il Cavalier Mondiale che cerca di disquisire con chiunque di politica internazionale, Tex/Sheridan che entra nel bar dello sport con il cappello da cow boy, l’impermeabile bianco e la pistola giocattolo a fulminanti; c’è Icaro che costruisce una macchina per volare e ci sono gli amici e le amiche: Alessio, Anna, Cesare, Marcello, Stella e molti altri ancora. Un’infinità di nomi, di avventure, a volte vissute, altre ascoltate, sempre rinarrate, con un linguaggio scorrevole, colorito da toscanismi, punteggiato da folgorazioni poetiche.

Il romanzo è diviso in tre parti. La prima è la storia familiare dei genitori e dei nonni, il fascismo, la guerra, la descrizione di un mondo contadino in cui esistevano cataloghi di donne meridionali da sposare e l’accensione del televisore era un vero e proprio rito: “Quando annunciai trionfalmente a Santi – il nonno di Paco – che l’uomo era sbarcato sulla luna lui si mise a ridere, tirò un cureggione e mi disse: ‘eh, poerini, so’ tutte novelle!’” Nella seconda parte il protagonista frequenta l’Istituto tecnico minerario, aderisce a Lotta Continua e si ribella a un’esistenza predeterminata dall’etica del lavoro. È l’età dell’oro, gli anni settanta del secolo scorso: cadono i recinti delle spiagge private e si raggiunge il Portogallo rivoluzionario in Mini Minor, ma è anche l’epoca in cui un amico può morire durante una manifestazione: “La cosa che mi ricordo con maggiore piacere di quel movimento è il senso di intimità e tenerezza collettiva, una tribù solidale con un futuro da conquistare. Il non sentirsi mai soli ma parte di un fiume in piena.” L’ultima parte del racconto si svolge quando la battaglia per rivoluzionare il mondo sembra ormai persa. Questo è cambiato, ma non nella direzione auspicata: al posto della Cantina Sociale adesso ci sono le “boutique di vini” e la campagna assomiglia a un cimitero diffuso per colpa degli americani che piantano cipressi ovunque, non sapendo che sono alberi funebri. Paco si rifugia nella fotografia e si guadagna da vivere a prezzo di un duro lavoro. Lo ritroviamo prima nella ex Iugoslavia martoriata dalla guerra e poi a Siena come gestore di un bar rifugio di anime perse: punk, studenti malinconici, profughi senza documenti, giovani compagni.

Malamente è un libro corale, la storia di una generazione vista da una prospettiva periferica, ma forse proprio per questo, intima e straniante. A volte sembra di essere di fronte a un album di foto in bianco e nero. Poi di tratto le immagini si muovono, appaiono i colori, i profumi e le canzoni che portiamo nel cuore. I volti di quei giovani che guardano le stelle nella notte sono i nostri, non ci sentiamo più soli, ma parte di un racconto infinito. Le sconfitte non ci devono far paura, basta narrare le lotte e le aspirazioni che le precedettero. L’immaginario di quelle avventure ispirerà altri che verranno dopo di noi.

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Guerrevisioni. L’eredità visiva dell’inganno https://www.carmillaonline.com/2019/03/02/guerrevisioni-leredita-visiva-dellinganno/ Fri, 01 Mar 2019 23:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50811 di Gioacchino Toni

«Se c’è un’eredità visiva che la Grande guerra ha lasciato al Novecento, questa è l’inganno: in battaglia la priorità diventa non più mostrare al nemico un volto minaccioso, ma fingere di non esserci o mostrare ciò che non c’è; per il fronte interno si deve invece inventare una diversa verità, un nemico disumano o una guerra senza dolore» Gabriele D’Autilia

«Cosa e come si vedeva […] durante la guerra, e cosa non si vedeva? Quale reale restituirono le immagini ottiche? Come interagì la percezione della guerra e delle sue immagini [...]]]> di Gioacchino Toni

«Se c’è un’eredità visiva che la Grande guerra ha lasciato al Novecento, questa è l’inganno: in battaglia la priorità diventa non più mostrare al nemico un volto minaccioso, ma fingere di non esserci o mostrare ciò che non c’è; per il fronte interno si deve invece inventare una diversa verità, un nemico disumano o una guerra senza dolore» Gabriele D’Autilia

«Cosa e come si vedeva […] durante la guerra, e cosa non si vedeva? Quale reale restituirono le immagini ottiche? Come interagì la percezione della guerra e delle sue immagini con gli immaginari di soldati e civili? Chi stabiliva cosa vedere e quali erano i motivi delle sue scelte? Qual era il rapporto tra l’immagine ottica e l’immagine che prevedeva ancora l’intervento della mano dell’uomo? Cosa ha lasciato la guerra alla cultura visuale successiva?» (p. 22). A questi interrogativi si propone di rispondere il libro di Gabriele D’Autilia, La guerra cieca. Esperienze ottiche e cultura visuale nella Grande guerra (Meltemi, 2018).

La Prima guerra mondiale può dirsi cieca per numerosi motivi. Cieca perché le tecnologie ottiche impiegate non risultarono capaci di mostrarla e raccontarla, perché il nemico finì con l’essere sempre meno visibile, perché attraverso la propaganda e la censura visive al fronte interno si restituì una visione parziale o immaginaria della guerra, perché i signori della guerra guardarono più al passato che al presente o al futuro, perché si tentò di non riconoscere l’orrore e di preservarne il ricordo ma anche perché, sottolinea D’Autilia, la cultura visuale si mostrò priva degli strumenti utili a capire e interpretare la guerra moderna.

Paradossalmente nel momento in cui le tecnologie visive venivano accolte con entusiasmo, la guerra finì col celare alla vista il campo di battaglia mentre l’occultamento e la dissimulazione divennero armi strategiche al fronte oltre che mezzo di orientamento dell’opinione pubblica. La Grande guerra in eredità visiva al Novecento sembra davvero aver lasciato l’inganno, preoccupata com’era di falsificare la visione in battaglia (celare/simulare) e di inventare una diversa realtà (mostrificare/edulcorare) della guerra da raccontare sul fronte interno. «Se ogni guerra del passato poteva essere osservata dai suoi generali come in un teatro (e anche alle popolazioni civili, che pure non erano considerate “opinione pubblica” come quelle moderne, se ne offriva una narrazione lineare e controllata), il soldato subì nel corso dei secoli un progressivo offuscamento del proprio campo visivo fino alla sua totale scomparsa con la Grande guerra, un’esperienza psicologicamente devastante proprio per il disperato senso di smarrimento e di angoscia determinato da un pericolo mai vissuto così in precedenza. In modo diverso però, questa guerra fu una sfida per gli occhi anche dei civili» (p. 120)

Negli anni della Grande guerra ormai fotografia e cinema avevano, soprattutto la prima, notevolmente affinato le loro tecniche e sperimentato l’impiego in ambito bellico. Nei conflitti come quello di Crimea, nella guerra civile americana o nella guerra russo-giapponese, i vari schieramenti non avevano ancora pianificato veri e propri sistemi di comunicazione attraverso le immagini. È con la Grande guerra che le cose cambiano: «la fotografia, immagine del reale, a cui da pochi anni si è affiancata la cinematografia “dal vero” con funzioni analoghe, assume un ruolo centrale, mettendo in gioco tutte le sue potenzialità: è strumento tattico, scientifico e medico, è documentazione “storica”, è memoria individuale, è propaganda; quest’ultima prerogativa è cruciale, perché è con la Grande guerra che la fotografia rivela per la prima volta come la sua capacità di mostrare oggettivamente possa coniugarsi con quella di dimostrare “oggettivamente” il falso» (pp. 12-13)

Il Primo conflitto mondiale si rivela essere una guerra che non si deve né si può vedere. Basta osservare i cataloghi di fotografie militari, suggerisce D’Autilia, e prendere atto di quali siano i soggetti più ricorrenti tanto nelle immagini pubbliche che in quelle private: «sfilate militari, ritratti di gruppo in trincea, artiglierie ciclopiche, granate inesplose, ricoveri fangosi, panorami dove non si riconosce nulla (era ciò che vedevano i soldati), innocui sbuffi di fumo (unica traccia di esplosioni spaventose), immagini da cartolina di villaggi ancora integri oppure con gli occhi vuoti delle case bombardate, ufficiali che scrutano il fronte con i cannocchiali, scherzi tra ufficiali o soldati, messe da campo, traini di cannoni, vedette, foto di noia o di attesa febbrile, tombe, ospedali da campo (ma solo per mostrarne l’organizzazione: i feriti si alzano dalla barella per mettersi in posa), lunghe panoramiche composte, paesaggi romantici al tramonto (un privilegio della guerra di montagna), qualche artigiano militare, barbieri, i volti primitivi delle maschere antigas. Del tutto simili sono le scene dei film “dal vero”» (p. 13)

In questo atto d’avvio della guerra tecnologica «restarono invisibili le due cose essenziali dell’esperienza di guerra – e di conseguenza per la sua narrazione – almeno dai tempi di Omero: il nemico e la battaglia. Sarà proprio la potenza delle tecnologie di distruzione e di osservazione a far sì che essere visti (mentre si punta un’arma o un obiettivo fotografico) coinciderà con l’essere uccisi da un nemico invisibile, un nemico disincarnato, e questo, oltre ad avere conseguenze sull’immaginario bellico, comporterà anche la quasi totale assenza di immagini sulla guerra guerreggiata» (pp. 13-14).

La cultura visuale, sottolinea Gabriele D’Autilia, oltre che con le esperienze ottiche e le immagini, ha a che fare anche con le immagini del mondo mentale, visto che «ogni nuova immagine entra in relazione o in conflitto con l’immaginario dei singoli soggetti e con l’immaginario sociale, in cui vivono il passato e il mito» (p. 14). Le trasformazioni della cultura visuale operate dalla Prima guerra mondiale hanno coinvolto tanto le immagini che gli occhi degli osservatori, soldati e civili; il conflitto ha determinato un vero e proprio trauma sensoriale innestatosi sulle trasformazioni percettive dell’epoca. Dopo questa guerra, almeno in Occidente, l’essere umano si trova costretto ad «elaborare una nuova etica della visione, a prendere coscienza delle sue astuzie e delle sue menzogne, a stabilire dentro di sé un diverso statuto di verità: accettando le immagini ingannevoli della pubblicità e dei regimi totalitari, con le loro promesse e illusioni, ma anche apprezzando la rilettura soggettiva del reale proposta da quel fondamentale laboratorio di immaginario novecentesco che sarà, a partire dagli anni Venti, il fotogiornalismo (e in modo diverso il film documentario)» (p. 20).

La Grande guerra apre davvero le porte alla perdita dell’esperienza e della possibilità di comunicarla, come aveva intuito Walter Benjamin, e «la sua rappresentazione attraverso film e fotografie mostra già, e tangibilmente, il fallimento della relazione tra esperienza e conoscenza, quella conoscenza oggettiva che era stata e si sarebbe continuato ad assegnare inequivocabilmente alla riproduzione ottica. E tuttavia nuove forme di racconto si annunciano e in questo fotografia e film avranno un ruolo centrale: la narrazione dell’esperienza, e persino la perduta “aura” fotografica, saranno declinate per un pubblico diverso, un pubblico che ha conosciuto la catastrofe tecnologica ma che tuttavia non può rinunciare a credere» (pp. 21-22).

Se Paul Virilio ritiene sia possibile far risalire la guerra tecnologica moderna al conflitto in Crimea e alla Guerra civile americana, sarà però a partire dalla Prima guerra mondiale che si assisterà a quella lotta tra visibilità e invisibilità che caratterizzerà tutti i conflitti successivi. Alle divise sgargianti ottocentesche si sostituiranno tenute atte a rendersi visibili il meno possibile. «Se falliscono gli strumenti per individuare il nemico, quelli per sorvegliare il soldato-cittadino sono invece ben funzionanti. Stato e guerra diventano come sinonimi, lo Stato in guerra si appropria del cittadino, del suo corpo, del suo destino, della sua stessa personalità. Liste di leva, controlli di polizia, censura postale, carte di identità sono già in funzione da decenni, ma ora si va oltre. Sono molti i casi di soldati con l’ossessione di essere spiati, in trincea e poi nei luoghi di detenzione e sanitari dove vengono spediti dopo traumi o ferite. È dunque una dimensione visiva anche l’ossessione, senza poter vedere, di essere visti, dal nemico e dallo Stato» (p. 134). Del resto è con la Grande guerra che fa la sua comparsa quella “visione verticale”, una visione aerea che si propone come “occhio vedente” della “guerra cieca”, che può essere considerata un’anticipazione della “strategia della visione globale”, della “ubiquità della visione” prospettata da Virlio, non più umana ma automatizzata.

Il libro di Gabriele D’Autilia affronta pertanto la complessità della trasformazione percettiva e dell’immaginario visuale che prende il via con la Grande guerra e che arriva fino ai giorni nostri, cioè a un’epoca contrassegnata dal ricorso ai droni, dal controllo dei corpi, dalle visioni aumentate o celate, dalle guerre filtrate dalle messe in scena dei media e via dicendo di cui si è occupato il volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) e su cui siamo tornati più volte su Carmilla, così come occorrerà riprendere alcuni spunti offerti dal libro di D’Autilia a proposito dell’interazione tra la percezione della guerra e delle sue immagini con gli immaginari di soldati e civili e su cosa abbia lasciato questo conflitto alla cultura visuale e all’immaginario bellico successivi.

Per la parte del volume di Gabriele D’Autilia che si occupa delle modalità con cui alcune opere cinematografiche britanniche hanno mostrato e raccontano il conflitto bellico durante il suo svolgimento si rimanda allo scritto pubblicato su “Il lavoro culturale” incentrato soprattutto su The Battle of the Somme (1916) di Geoffrey Herbert Malins, film considerato da numerosi studiosi come l’opera che ha cambiato la percezione della guerra.


Serie “Guerrevisioni

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Critica al programma di GothaM https://www.carmillaonline.com/2018/07/01/critica-al-programma-di-gotham/ Sat, 30 Jun 2018 22:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45735 di Jago Malteni

Bruce Wayne, è a te che mi rivolgo.

Non a all’uomo-pipistrello, ma all’uomo e basta. Non a Batman, bensì a colui che si camuffa dietro la sua maschera da teatro burlesco, ammantata ad arte di nobilissime virtù. All’unico e solo proprietario della Wayne Enterprise, ecco a chi mi rivolgo. Al padrone di un impero commerciale senza rivali, capo indiscusso di una delle multinazionali più potenti di Gotham e dell’intero mondo globalizzato.

Fai l’eroe, già che te lo puoi permettere. Come quei tuoi amici Paperoni che elargiscono carità solo [...]]]> di Jago Malteni

Bruce Wayne, è a te che mi rivolgo.

Non a all’uomo-pipistrello, ma all’uomo e basta. Non a Batman, bensì a colui che si camuffa dietro la sua maschera da teatro burlesco, ammantata ad arte di nobilissime virtù. All’unico e solo proprietario della Wayne Enterprise, ecco a chi mi rivolgo. Al padrone di un impero commerciale senza rivali, capo indiscusso di una delle multinazionali più potenti di Gotham e dell’intero mondo globalizzato.

Fai l’eroe, già che te lo puoi permettere. Come quei tuoi amici Paperoni che elargiscono carità solo quando ben incerati sotto i riflettori, per ostentare al mondo la loro munificenza un attimo prima di continuare a sfruttarne le risorse.

Fai l’eroe. Il super-eroe, anzi. E senza super-poteri, come qualcuno va dicendo in giro. Ma la verità è un’altra, ed è così evidente che nessuno riesce a vederla: il vero super-potere, il solo accettato nella società che voi padroni avete costruito a vostra immagine, è quello di cui voi stessi disponete a palate, e cioè Denaro, Profitto, Plusvalore che intascate a ogni ciclo produttivo. In una parola, il Capitale. 

Fai l’eroe, certo. E pretendi di impietosirci per il fatto che i tuoi genitori furono assassinati a sangue freddo da un ladruncolo cattivo, proprio davanti ai tuoi occhi inermi da fanciullo. Eppure, caro il mio Cavaliere Oscuro, ti dico oggi che quella violenza, quella stessa violenza che si abbatté sui tuoi vecchi, altro non è che una conseguenza del disagio che essi stessi, e ora tu con loro, avete contribuito a diffondere nei recessi della società, accumulando ricchezza per voi e sottraendone pertanto agli altri. Il brutale assassinio di cui i tuoi sono stati vittima non è che il frutto, ultimo e inesorabile, della loro stessa semina.

Fai l’eroe, e per quanto tu finga di eclissarti nell’oscurità non perdi mai occasione per mettere in mostra quel tuo bel distintivo, sinuoso e accattivante, disegnato con le migliori tecniche di marketing per entrare nell’immaginario di noi tutti. Ma sbagli se credi che il popolo di Gotham continuerà ad abboccare. Una coscienza nuova si va diffondendo per le strade, e un nuovo spettro, risorto dalle spoglie del vecchio, si aggira per la città.

Fai pure l’eroe, finché puoi, e continua a raccontarci la storiella che ti batti ogni giorno per una società più libera e giusta. Sappi però che la vera lotta è un’altra: si chiama lotta di classe, e l’uguaglianza è il suo vero fine. L’uguaglianza degli uomini nei rapporti di produzione, e non soltanto di fronte alla legge. Un’uguaglianza economica e di fatto, non solo di diritto. Tutto il resto è sovrastruttura.

E un’eguaglianza di tal fatta non sarà mai realizzata finché in giro ci sarà anche un solo padrone: finché in giro ci sarai ancora tu, Bruce Wayne, tu che credi di essere l’unico impareggiabile paladino della giustizia. Sfilarti di dosso quel costume da topo svolazzante e toglierti una buona volta di mezzo, ecco cosa dovresti fare affinché il mondo possa cominciare a cambiare davvero. Perché anche tu fai parte di quei sedicenti filantropi che nel Manifesto ho già definito, in accordo col compagno Engels, “socialisti conservatori”: coloro per i quali il capitalismo si può correggere, riformare, rendere meno iniquo; coloro che continuano a venderci la favola che un capitalismo “dal volto umano” è possibile, perseverando nel (far finta di) non vedere ciò che invece risulta più evidente: che il capitalismo è per sua natura sfruttamento, prevaricazione, disuguaglianza. Sempre e comunque, in qualsiasi forma e in qualsiasi mondo esso si presenti.

Sono anzi convinto che tu e questi altri della tua risma siete persino più pericolosi dei grandi magnati, di quei capitani d’industria senza scrupoli che si beano nel contarsi e ricontarsi le entrate in denaro, avvolti nel fumo dei loro sigari esclusivi. Sono nemici riconoscibili, loro, e d’istinto ti fanno rabbia e odio e schifo. Voialtri, al contrario, fate di tutto pur di celare il vostro vero volto dietro maschere da truzzi in declino, tagliate su misura con gusto a dir poco discutibile. Altro che il sogghigno di Joker: è una malformazione fisica, la sua. È sul ceffo di voialtri, invece, che affiorano i tratti della più sporca e cattiva coscienza.

Non servirà a niente continuare a nasconderti: dove non è riuscito Jonathan Crane, dove non sono riuscite le due facce di Harvey Dent, dove non è riuscita l’esuberante e lucida follia del Joker, riuscirà infine il tuo nemico vero, quello che mai t’aspetteresti: il proletariato urbano, la classe degli sfruttati, l’intera schiera dei lavoratori uniti, con in testa i dipendenti sottopagati della tua stessa azienda. Saranno loro a spodestarti una volta per tutte, e nel mondo che verrà non sarai più un super-eroe, e il Denaro, il tuo adorato e inesauribile Denaro, non sarà più il tuo esclusivo super-potere.

Affacciati e comincia a tremare: una nuova coscienza si va diffondendo per le strade. È coscienza di classe. E un nuovo, vecchio spettro vi si aggira: prenderà corpo, un giorno non lontano, e con potenza di fuoco si scaglierà contro i grattacieli più alti della metropoli, a partire dal tuo. E li espugnerà, e li abbatterà, e li ridurrà in poltiglia.

Quel giorno, caro il mio Bruce Wayne, sarà il giorno della tua fine. Quant’è vera la mia barba. Quant’è vero che mi chiamo Carlo Marx.

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L’estetica della con-fusione nell’opera di Kiarostami https://www.carmillaonline.com/2018/03/30/lestetica-della-con-fusione-nellopera-di-kiarostami/ Thu, 29 Mar 2018 22:03:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44568 di Gioacchino Toni

Elio Ugenti, Abbas Kiarostami. Le forme dell’immagine, Bulzoni Editore, Roma, 2018, pp. 232, € 20,00

L’ultimo saggio di Elio Ugenti indaga l’opera di Abbas Kiarostami passando in rassegna una produzione visiva che coinvolge cinema, video e fotografia e si presenta al pubblico sotto forma di proiezione cinematografica, videoinstallazione, mostra fotografica e integrazione tra immagine video e spettacolo teatrale. L’obiettivo del volume è quello di far emergere la portata intermediale e la complessità del discorso sulla visualità dell’opera di Kiarostami.

Pur partendo dall’analisi del cinema dell’iraniano, il saggio allarga il suo [...]]]> di Gioacchino Toni

Elio Ugenti, Abbas Kiarostami. Le forme dell’immagine, Bulzoni Editore, Roma, 2018, pp. 232, € 20,00

L’ultimo saggio di Elio Ugenti indaga l’opera di Abbas Kiarostami passando in rassegna una produzione visiva che coinvolge cinema, video e fotografia e si presenta al pubblico sotto forma di proiezione cinematografica, videoinstallazione, mostra fotografica e integrazione tra immagine video e spettacolo teatrale. L’obiettivo del volume è quello di far emergere la portata intermediale e la complessità del discorso sulla visualità dell’opera di Kiarostami.

Pur partendo dall’analisi del cinema dell’iraniano, il saggio allarga il suo interesse ben oltre la produzione e proiezione cinematografica per toccare le diverse modalità con cui il regista ha portato avanti un personale discorso sull’immagine e sulle specificità del medium attraverso opere in cui lo sguardo dello spettatore è considerato come una componente essenziale delle immagini.

Ugenti procede analizzando le immagini da un punto di vista estetico-formale, problematizzando la loro funzione, soffermandosi sulle diverse modalità espositive e indagando gli effetti procurati dal processo di rilocazione a cui sono sottoposte.

Nel primo capitolo l’analisi della sequenza iniziale di Il vento ci porterà via (1999) consente di aprire una riflessione su un rapporto tra visione e azione dei personaggi contraddistinto dall’assenza di un assoggettamento dello sguardo spettatoriale allo sviluppo narrativo. Vengono dunque ricostruite le tappe attraverso cui il regista iraniano giunge a tale risultato passando in rassegna alcuni suoi film precedenti in un percorso che si sofferma sull’evoluzione dell’agire trasfromativo del personaggio in Dov’è la casa del mio amico? (1987) per poi passare all’indebolimento dell’efficacia dell’azione dei personaggi in E la vita continua (1992), ove si palesa un’idea di spazio fondata su una disarticolazione capace di modificare l’ambiente in un luogo di attraversamento entro il quale le finalità e le azioni dei personaggi risultano sempre meno rilevanti.

Se in Dov’è la casa del mio amico? il regista decide di «ridurre all’essenziale gli elementi di complessità della storia narrata, oltre a scegliere […] di ricorrere a uno stile visivo anch’esso essenziale e non assoggettato alle regole del decoupage classico, è pur vero che egli sceglie di costruire una struttura narrativa solida e consapevole, regolata da un agire trasformativo e orientata lungo un percorso di crescita del proprio personaggio, nonché alla trasformazione efficace di una situazione si disequilibrio che è venuta a determinarsi nella parte iniziale del film» (p. 38).

In E la vita continua si assiste ad un depotenziamento dell’agire trasformativo che sembra premettere quella radicalizzazione raggiunta in Il vento ci porterà via che paleserà l’impossibilità di «un’azione efficace, produttiva e orientata per il protagonista» (p. 38). Secondo Ugenti con E la vita continua «ci troviamo in una sorta di situazione intermedia, con un incipit che non risulta caratterizzato da scelte estetiche estreme come quelle de Il vento ci porterà via, ma che lascia intravedere già un parziale sgretolamento di quella solidità che caratterizza la prima sequenza di Dov’è la casa del mio amico?» (p. 41).

Nonostante Il vento ci porterà via si presenti come un film dotato di trama, personaggi, luoghi d’azione e situazioni narrative, in esso tende a palesarsi il prevalere del  sistema visivo su quello narrativo. Secondo Ugenti tale film rappresenta «un punto di snodo fondamentale nella produzione di Kiarostami, proprio per la volontà sistematica del regista di rompere l’ordine del discorso cinematografico per cercare altro, estremizzando ancor più il suo cinema e cercando modelli rappresentativi ancor più autonomi» (p. 64).

La consapevolezza dello sguardo spettatoriale, il disvelamento del dispositivo filmico e l’attribuzione della soggettività dello sguardo, il rapporto tra campo/fuoricampo e la negazione dell’immagine, sono al centro dell’analisi del secondo capitolo. Oltre a riprendere le opere precedentemente esaminate vengono qui approfonditi film come Compiti a casa (1989), Five Dedicated to Ozu (2003) e Shirin (2008) indagando anche le particolari configurazioni spaziali e temporali dell’inquadratura.

Secondo Ugenti l’opera di Kiarostami si contraddistingue per un progressivo svuotamento del suo cinema fino al punto di ridursi alla sua essenza. «Da un lato assistiamo ad un graduale depotenziamento della portata narrativa dei film […] mentre dall’altro ad una sempre crescente attenzione nei confronti delle relazioni che lo spettatore istituisce con l’immagine filmica, e un’esibizione sempre meno evidente della presenza dello sguardo filmico» (p. 69).

Il regista iraniano struttura una relazione tra visione e narrazione capace di determinare quell’apertura di senso che consente alle immagini di «esprimere la loro forza singolare in alcuni momenti del film, nonostante la loro presenza possa apparire per lunghi tratti subordinata alla necessità della storia» (p. 70). Kiarostami intraprende così una reinvenzione stilistica che conduce verso forme di cinema non narrativo.

In E la vita continua l’attenzione rivolta allo sguardo e all’atto del guardare determina l’esistenza di una entità terza diversa tanto dai fatti che dalla mera immagine. Si tratta di ciò che Dario Cecchi (Abbas Kiarostami. Immaginare la vita, 2013) identifica nello spettatore inteso come istanza che si manifesta nell’immagine stessa. Dunque, sostiene Ugenti, abbiamo a che fare con uno sguardo da intendersi come «esito di un processo configurativo che lo colloca all’interno del film» (p. 79). Lo studioso procede poi con il verificare diacronicamente le modalità con cui tale processo viene esibito nell’opera dell’iraniano attraverso una molteplicità di strategie estetiche e procedimenti formali.

Nella sua indagine, Ugenti riprende le riflessioni elaborate da Paolo Bertetto a proposito del concetto di configurazione preferito a quello di rappresentazione in quanto capace di esplicitare l’idea di processo creativo-generativo dell’immagine. «L’invito è a considerare l’immagine cinematografica come un artefatto inscindibile dallo sguardo che l’ha generato, come un susseguirsi di scelte operate dal cineasta […] e, in ultima analisi, come l’effetto di una proiezione che rende manifesta sullo schermo l’interazione simultanea di queste scelte, a partire dalle quali viene a determinarsi l’esperienza dello spettatore: il modo attraverso cui egli percepisce il tempo e lo spazio del film» (p. 82). Se tale caratteristica vale per l’intero cinema, suggerisce Ugenti, questa risulta particolarmente esibita dall’opera di Kiarostami.

Visto che l’estremizzazione del discorso metariflessivo sulla visione tende a portare verso la sua negazione, l’analisi del saggio si sofferma in particolare su alcuni momenti appartenenti a film differenti del regista in cui l’immagine «viene improvvisamente meno, mutando di colpo il vedere dello spettatore nella privazione totale del campo di visibilità» (p. 90). Dei tre momenti individuati – appartenenti a E la vita continua, ABC Africa (2001) e Il sapore della ciliegia (1997) – vengono indagati in particolare il grado di relazione tra negazione dell’immagine e livello narrativo-rappresentativo del film e la durata intesa come l’esperienza del tempo dello spettatore che non coincide necessariamente con il tempo rappresentato. Le scelte configurative permettono una messa in evidenza dell’immagine filmica in quanto tale grazie al processo di disvelamento del dispositivo filmico capace di «portare l’attenzione dello spettatore verso i suoi elementi costitutivi: lo spazio, la luce e il tempo» (p. 112).

La portata intermediale dell’opera del regista iraniano viene invece approfondita soprattutto nel terzo capitolo. Vengono qui analizzate le videoinstallazioni realizzate a partire dal 2001 e la produzione fotografica indagando la riflessione sul rapporto tra immagine fissa e immagine in movimento presente in alcune sue opere. Attenzione viene riservata anche al cambiamento di dispositivo, alla relazione tra spazio dell’osservatore e spazio plastico dell’immagine.

La vocazione intermediale e rilocativa dell’opera di Kiarostami viene affrontata da Ugenti a partire dall’analisi dell’allestimento romano del Ta’zieh, una forma drammaturgica tradizionale originaria del mondo islamico. Alla difficoltà del pubblico italiano di entrare in sintonia con lo spettacolo e di lasciarsi coinvolgere emotivamente, Kiarostami decide di sopperire attraverso la proiezione di immagini registrate di spettatori iraniani che assistono nel loro paese a tale spettacolo rendendoli “partecipi” dell’allestimento scenico romano. Il pubblico iraniano proiettato diviene così una “partitura emotiva” dello spettacolo messo in scena a Roma. «L’opera e lo sguardo sull’opera diventano dunque inscindibili» (p. 114).

Kiarostami attua dunque nella messa in scena romana del Ta’zieh una particolare forma di rilocazione ed è proprio su questo concetto che indaga l’intero capitolo che giunge – con Roads of Kiarostami (2005) e 24 Frames (2017) – alla riconfigurazione di forme diverse di espressione artistica all’interno di uno spazio che non è più uno spazio fisico ma, riprendendo il concetto elaborato da Miriam De Rosa (Cinema e postmedia. I territori del filmico nel contemporaneo, 2013) può essere definito come spazio-immagine.

Secondo Ugenti la continuità tra i film per la sala e le installazioni del regista iraniano è data da una ricerca formale volta a problematizzare il tipo d’esperienza dello spettatore. «Il lavoro di sottrazione operato sulle strutture narrative e la messa in gioco dello sguardo nei film […] trovano nella reinvenzione dello spazio un loro compimento. […] Forzare i limiti dello sguardo è stato […] il fil rouge che ha attraversato l’intera produzione del regista. E sconfinare dalla sala, in fondo, non è altro che un modo per perpetrare un’idea di cinema solida senza scadere nel manierismo, ma reinventando un modo diverso di porre domande che restano in perfetta continuità tra loro ne corso del tempo» (pp. 122-123).

Lo sconfinamento messo in atto da Kiarostami in alcune sue opere, l’interconnessione tra oggetto fimico e spazio museale, tende a condurre l’esperienza dell’immagine in movimento verso territori artistici. «Il darsi dell’immagine allo spettatore all’interno di una boité-regard che era esaltata dalle scelte formali di Kiarostami nei film degli anni Novanta, l’idea di far fronte a uno spazio prima ancora che a una rappresentazione […], persistono in queste forme di sperimentazione che prendono vita con Sleepers, e divengono il sintomo dell’indistricabilità tra la riflessione estetica […] e la reinvenzione della forma dell’operare artistico di Kiarostami» (pp. 129-130).

Secondo Ugenti i video del regista iraniano si presentano come tentativo di ribaltare la funzione svolta dal suo cinema nel decennio Ottanta-Novanta per poterla interrogare sotto una nuova luce. «In questa rinnovata condizione spettatoriale si modifica radicalmente la modalità di accesso al visibile: la riconfigurazione spaziale dell’opera […] rende davvero difficile, se non impossibile, concepire lo spettatore come un soggetto assorbito dalla visione e assoggettato alla narrazione. Se il regime rappresentativo […] era stato messo in crisi già nei film per la sala mediante l’esplicitazione di alcuni processi configurativi dell’immagine sullo schermo, qui assistiamo al passaggio definitivo verso un regime presentativo» (p. 130).

In installazioni come Summer Afternoon (2006) il contesto spaziale non si limita ad ospitare l’immagine ma interagisce con essa e con lo spettatore. Non si tratta più di uno spazio proiettato ma di uno spazio abitato; uno spazio che non è più nell’immagine ma che si costituisce anche grazie alla presenza dell’immagine. La messa in evidenza dell’immagine porta all’indiscernibilità tra l’immagine stessa e lo spazio che la accoglie/espone allo spettatore. «Non più un’immagine fruibile in uno schermo su una parete, ma immagine, schermo e parete che divengono gli elementi fondanti di un’esperienza spaziale di cui lo spettatore è arte integrante e attiva» (p. 132).

A partire dall’analisi dei film Copia conforme (2010) e Qualcuno da amare (2012), il quarto ed ultimo capitolo si sofferma sul ritorno del regista al linguaggio narrativo e sulla configurazione visiva di opere caratterizzate da uno spazio d’azione delimitato dall’inquadratura che sembra divenire uno spazio d’esposizione di immagini complesse votate all’astrazione che si offrono al piacere contemplativo dello spettatore. Ad essere preso in esame è qui anche il rapporto tra la presenza di alcuni elementi figurativi e le dinamiche narrative.

Di Ugenti abbiamo avuto modo di approfondire e apprezzare [su Carmilla] il saggio Immagini nella rete (2016) in cui viene approfondita l’esperienza visiva contemporanea alla luce delle interazioni tra i diversi dispositivi tecnologici che tendono a ridefinire significativamente la funzione delle immagini imponendo nuove modalità d’esistenza dipendenti dalla loro mutevole ricontestualizzazione. In questo ultimo libro dedicato a Kiarostami lo studioso ha il merito di mettere in luce la complessità delle forme dell’immagine e la portata intermediale e metariflessiva dell’opera del grande regista iraniano.

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Campbell e la narrazione dell’eroe https://www.carmillaonline.com/2018/03/18/campbell-e-la-narrazione-delleroe/ Sat, 17 Mar 2018 23:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44323 di Gabriele Guerra

Che cosa hanno in comune George Lucas e gli aborigeni australiani, Indiana Jones e Gesù Cristo? Certamente nulla a un primo sguardo, molto se tentiamo un approccio più profondo. È questa del resto la differenza tra chi intende analizzare un fenomeno qualsiasi seguendo linee orizzontali di analisi e chi invece si sforza di stabilire connessioni più profonde, verticali. Il mito, con la sua sequela di narrazioni (non dimentichiamo mai che il greco mythos era diventato per i romani la fabula), si presta molto a un metodo d’analisi che potemmo definire [...]]]> di Gabriele Guerra

Che cosa hanno in comune George Lucas e gli aborigeni australiani, Indiana Jones e Gesù Cristo? Certamente nulla a un primo sguardo, molto se tentiamo un approccio più profondo. È questa del resto la differenza tra chi intende analizzare un fenomeno qualsiasi seguendo linee orizzontali di analisi e chi invece si sforza di stabilire connessioni più profonde, verticali.
Il mito, con la sua sequela di narrazioni (non dimentichiamo mai che il greco mythos era diventato per i romani la fabula), si presta molto a un metodo d’analisi che potemmo definire analogico: cercare di rintracciare, cioè, quelle funzioni, o quei personaggi, o quelle situazioni che possono essere comparate ad altre. Spesso non si resiste alla tentazione, nel restituire il patrimonio mitico delle singole culture, di individuare strutture originarie identiche. Ciò ovviamente non è un male, se si usa questa procedura analogica per comodità espositiva o metodologica; può diventare un pericolo – è diventato storicamente un pericolo – se invece diventa strutturazione ontologica, prescrizione etica. La storia dei primi decenni del XX secolo ci mostra che il mito si è trasformato in narrazione autonoma, produttrice a sua volta di altri miti, che hanno finito per assumere statuto di verità. Un grande studioso italiano troppo precocemente scomparso, Furio Jesi, parlava di “tecnicizzazione del mito”, intendendo quel momento storico in cui il mito viene piegato a esigenze e rifunzionalizzazioni politiche dell’attualità; e di esempi in questo senso se ne potrebbero fare tanti.

Ma sono possibili anche strategie alternative di approccio e rinarrazione del mito: a partire dal tentativo, tipico del pensiero tradizionale (penso soprattutto a René Guenon), di postulare un “pensiero mitico” prima della storia, che a sua volta attinga a un serbatoio originale, vero deposito della sapienza umana; oppure quello, antitetico (come nella filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer), che punta a conferire dignità filosofica e categoriale al mito, pur riconoscendone la compiuta distanza storica.
Ma c’è ancora un’altra strada di approccio e “restituzione” del mito: riaffrontarlo mantenendone intatte tutte le potenzialità narrative, senza per questo scivolare in un suo recupero funzionale al sistema-romanzo (cioè nel trasformare in “favole” le storie mitiche): ed è il compito che si è prefisso Joseph Campbell, studioso di mitologie comparate e di psicologia analitica, di nascita americano ma apolide per vocazione. Egli nel corso della vita ha attraversato diversi mondi, geograficamente e culturalmente molto lontani tra loro, come l’indologia tedesca dei primi decenni del secolo scorso, la teosofia, il mondo dell’occultismo, la narrativa di John Steinbeck (di cui era amico) e la psicologia archetipica di Carl Gustav Jung. Quando nel 1944 decide di pubblicare un libro che affronti la questione di che cosa sia un mito, gli dà dapprima un titolo molto neutrale, How to read a myth (e non c’è dubbio che all’autore apparisse necessario fornire al lettore i giusti strumenti per leggere un mito, proprio per non tecnicizzarlo). Ma poi, nel 1949, decide di reintitolarlo The Hero with a Thousand Faces, che è poi il titolo con cui è divenuto universalmente noto. Tale opera capitò nelle mani del giovane cineasta George Lucas, ed è – come si dice comunemente – grazie a Campbell che Lucas ha creato la gigantesca epica di Star Wars.
Cosa si trova al centro di questo rutilante libro, che chi conosce un po’ la storia comparata delle religioni non può non apparentare al Ramo d’oro di Frazer, per la colta erudizione che lo alimenta e la vis affabulatoria che lo percorre? Si trova appunto l’eroe alle prese con le difficoltà che è destinato a superare per raggiungere il fine che si è posto (o che gli è stato posto) all’inizio della storia. Questo perché Campbell, sottolinea che tutti i miti di tutte le civiltà hanno un sostrato narrativo comune, ovvero si comportano prima di tutto come storie: il nostro compito di moderni è riscoprirli, anche nella loro freschezza narrativa. Come scrive programmaticamente nell’introduzione all’edizione del 1949, “Questo libro ha lo scopo di svelare alcune delle verità camuffate per noi sotto le spoglie della religione e della mitologia, raccogliendo una gran quantità di esempi non eccessivamente complicati e facendo sì che l’antico significato si palesi da sé.”1 Tanto che tutti i miti di tutti le culture alla fine possono essere ridotti a uno solo, che Campbell definisce “monomito” (traendo peraltro la definizione da James Joyce). In tal modo si squaderna sotto gli occhi del lettore un impressionante catalogo di racconti, personaggi, funzioni, che spaziano in tutto il patrimonio antropologico-folklorico della storia delle religioni, al cui centro si trova non solo un racconto fondativo, ma un personaggio che deve svolgerlo: ovvero l’eroe alle prese con l’avventura, sia in senso psichico-interiore che mitico-esteriore.

Questa è in fondo la ragione del grande successo del libro di Campbell: il fatto cioè che sia opera di uno studioso colto ma non erudito, che offre al grande pubblico una chiave d’accesso in fondo semplice a questioni storiograficamente assai complesse, senza per questo deflettere al rigore scientifico; il tutto poi in un periodo assai cruciale, quando cioè la “grande narrazione mitica” ha mostrato tutti i pericoli connessi all’evocazione di demoni inferiori – per combattere i quali occorre appunto qualcuno in grado di batterli sul loro stesso terreno. L’eroe dai mille volti, in questo senso, non poteva che essere scritto negli Stati Uniti alle prese con il nazismo: l’eroe è quel soggetto autonomo e libero, capace di calarsi fino in fondo negli abissi insondabili del mistero esteriore e interiore, e riemergerne da trionfatore. Per questo l’opera ha avuto molto successo, anche come “storia” cinematografica. Tanto che nel 1992 uno sceneggiatore di Hollywood, Christopher Vogler, affascinato dal pattern mitico-narrativo esposto da Campbell, iniziò a utilizzarlo nelle sue lezioni e diede alle stampe un libro che diventò la Bibbia di ogni sceneggiatore (in particolare di quelli della Walt Disney, presso cui Vogler lavorava).2 Se Star Wars ha avuto tanto successo, se la Walt Disney è rinata dopo anni di crisi con storie nuove e accattivanti (come quella del Re leone, costruita sui dettami di Vogler), lo si deve al libro di Campbell e al suo viaggio di individuazione dell’eroe tra miti, storia delle religioni, psicologia analitica e politica.

[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio Marrone (qui e qui),  Gabriele Guerra e Pierpaolo Ciccarelli]


  1. Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, 2012, p. 7. 

  2. Cfr. Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe, Audino, 2004. 

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Esotismo della mafia – un altro caso di Operazione Astra https://www.carmillaonline.com/2018/01/07/esotismo-della-mafia-un-altro-caso-di-operazione-astra/ Sat, 06 Jan 2018 23:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42293 di Michelangelo Franchini

La mafia, si sa, è un ente secolarmente presente ovunque, e tuttavia torna a essere fenomeno solo quando è spettacolarizzata. Adesso è spettacolarizzata: la testata di Spada è diventata immediatamente fenomeno, notizia, aneddoto, meme. Come ogni fenomeno si è cercato di serializzarla, replicandola: si è cercata altra violenza simile nelle cronache precedenti, nei verbali di polizia, nelle parole dei cittadini (invano si è cercato di farlo con Totò Riina, fenomeno di tutt’altro genere, esaurito da tempo). I giornalisti hanno incalzato: come intimidisce la criminalità? Come agisce, cosa fanno fisicamente i [...]]]> di Michelangelo Franchini

La mafia, si sa, è un ente secolarmente presente ovunque, e tuttavia torna a essere fenomeno solo quando è spettacolarizzata. Adesso è spettacolarizzata: la testata di Spada è diventata immediatamente fenomeno, notizia, aneddoto, meme. Come ogni fenomeno si è cercato di serializzarla, replicandola: si è cercata altra violenza simile nelle cronache precedenti, nei verbali di polizia, nelle parole dei cittadini (invano si è cercato di farlo con Totò Riina, fenomeno di tutt’altro genere, esaurito da tempo). I giornalisti hanno incalzato: come intimidisce la criminalità? Come agisce, cosa fanno fisicamente i tirapiedi quando vengono a chiedere il pizzo? In che modo si muovono, che creature sono?

Alla costruzione della narrazione criminale si persegue con una certa morbosità. Come ogni narrazione mediatica avrà vita breve: si esaurirà e smetterà di essere interessante, salvo venir tirata fuori da qualche politico durante il prossimo comizio, nella speranza di rievocare quella curiosità che ora ci ossessiona. Perché? Perché vogliamo saperne di più.

Negli ultimi anni si è fatto spettacolo di associazioni criminali più e meno attuali, e lo si è fatto per i motivi più diversi. Nel caso di Romanzo criminale era il carisma dei personaggi a interessare, nel caso di Suburra la particolarità della vicenda, nel caso di Gomorra una deliberata intenzione divulgativa. Come Roberto Saviano ha intuito, è lo spettacolo a interessarci.

Non ci approcciamo ai servizi di La Sette sui malavitosi di Ostia con la volontà di fare di noi stessi dei cittadini informati, bensì con la voglia inconscia di ritrovare i personaggi di Suburra. Perché? Perché Suburra è spettacolo, è una vicenda particolare, lontana dalle nostre vite come può esserlo un film di fantascienza. Lontana e tuttavia vicina: si ambienta accanto a noi. Accanto a noi e tuttavia comunque a distanza di sicurezza: a Ostia, lontano, o comunque in periferia. Non certo qui da noi. Qui da noi, in questo quartiere, certe cose non accadono. Certe cose, quelle che vedi nella serie, non avvengono qui. Non potrebbero mai avvenire qui dove sono io, adesso, in questo quartiere rispettabile. Figuriamoci.

Il fatto è che siamo avulsi a ogni normalità. Pur essendone immersi, la rifuggiamo. Cerchiamo i filmati di Roberto Spada dopo che abbiamo saputo che Roberto Spada è un criminale perché vogliamo vedere che faccia ha: il criminale, non Roberto Spada. A nessuno importa di Roberto Spada, a nessuno importa di una giornalista sequestrata e minacciata chissà quanti anni fa.

Invece guarda qui: questo tipo ha dato una testata a un giornalista perché faceva domande scomode. Questo qui è un personaggio pericoloso, guarda che faccia da criminale. Questo è come il personaggio della serie.

La mafia è un fenomeno anche romano, e non solo. Probabilmente è ovunque, ma non ci siamo abituati. Pensiamo che la fisionomia di un mafioso non possa prescindere da certi e ben definiti tratti lombrosiani tra cui uno spiccato accento meridionale. La mafia per noi è, ed è sempre stata, un fatto meridionale. I criminali della banda della magliana? No, quelli non erano mafiosi. Erano pischelli. Pischelli che hanno sfidato i veri mafiosi, quelli meridionali, quelli lontani. Pischelli che hanno sconfitto la mafia meridionale. Pischelli con un’etica criminale. Quasi degli eroi, in pratica. Non certo mafiosi, no.

Siamo curiosi di vedere che facce hanno persone che chiedono il pizzo, che picchiano e che non hanno paura di uccidere e morire. Siamo più che curiosi di sapere chi sono. Perché loro sono il male, l’anti-stato, il cancro di questa bella città, non sono persone come noi. Devono avere facce diverse, vite diverse, case diverse. Sono come alieni infiltrati nel nostro sistema perfetto. Appena Roberto Spada si rivela, ecco che lo riconosciamo: guardalo, con quella faccia, è palesemente un criminale, un poco di buono. Si vede chiaramente, glielo si legge in faccia. Guarda com’è violento, come scatta. Una persona normale non farebbe niente del genere. Noi non faremmo niente del genere, noi siamo bravi cittadini. Sono loro i colpevoli di tutto.

Il motivo per cui sentiamo il bisogno di documentarci sulle vicende giudiziarie ostiensi è che abbiamo bisogno di costruire l’alterità per definire noi stessi, e definire noi stessi per escludere l’alterità, allontanarla, farne spettacolo, oggetto di studio. Allontanarla e sentirci al sicuro, convincerci che noi, i giusti, non siamo e non possiamo essere in nessun grado colpevoli: sono loro, gli altri, gli alieni che rovinano il nostro sistema perfetto, loro dell’altra fazione, nettamente divisa, e per fortuna lontana.

A un tangentista, a un omertoso, non riserviamo che l’accusa di complicità, annacquata da un empatico senso di autoconservazione: che altro deve fare? Evadere il fisco è reato ma non è peccato, quella donna deve proteggere i suoi bambini non può esporsi. Quando lo stato non c’è, la mafia balla, e lo stato non c’è mai, è un ente invisibile che possiamo personificare occasionalmente lanciando invettive contro i nomi. E tuttavia l’esercizio dell’invettiva, che pure esaurisce i postumi della sbronza elettorale, è tautologico e tutt’al più rilassante. Ciò di cui abbiamo bisogno è guardare in faccia i colpevoli, personificare il nostro malessere. Un tangentista è un uomo d’affari oppresso dal fisco, un omertoso un uomo cauto. Perfino un assassino cessa di essere un assassino dopo aver compiuto il delitto. Ma un mafioso no, non cessa mai di essere ciò che è: il nostro doppelganger, un uomo della strada, che vive e prospera nell’anti-stato. La sua esistenza, speculare alla nostra di bravi cittadini, è un fatto che ci indigna, ci frustra, ci intriga.

E così l’industria dello spettacolo ci mostra il reietto per eccellenza, per darci modo di disprezzarlo in pubblico e ammirarne segretamente la ribellione, e si immolano due o tre malavitosi sull’altare sacrificale della gogna mediatico-giudiziaria, mentre il popolo grida e il silenzio cala sul sistema. Fino alla prossima testata.


Operazione Astra: termine di Roland Barthes, designa l’atto di denunciare una parte per salvare il tutto

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#RazzaMigrante, un progetto di narrazione collettiva sulle migrazioni contemporanee https://www.carmillaonline.com/2016/02/27/razzamigrante-un-progetto-di-narrazione-collettiva-sulle-migrazioni-contemporanee/ Sat, 27 Feb 2016 22:58:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28808 di Maz Project 

migrazione[Diffondiamo questa iniziativa dal sito di Maz e invitiamo alla scrittura]

Appunti per un canto blues o della razza migrante – @genusmigrans, Maz

…e stavamo tutti dentro la Storia. La cosa peggiore da fare era rimanere immobili. Quel giorno davano i numeri del 2015 al telegiornale e passavano da un attentato all’altro attraversando il mondo, cronologicamente. A dirla tutta non era il mondo intero a essere citato, ma una sua parte. Il risultato era di 500 morti in una manciata di attentati. Io, ascoltando, [...]]]> di Maz Project 

migrazione[Diffondiamo questa iniziativa dal sito di Maz e invitiamo alla scrittura]

Appunti per un canto blues o della razza migrante – @genusmigrans, Maz

…e stavamo tutti dentro la Storia. La cosa peggiore da fare era rimanere immobili. Quel giorno davano i numeri del 2015 al telegiornale e passavano da un attentato all’altro attraversando il mondo, cronologicamente. A dirla tutta non era il mondo intero a essere citato, ma una sua parte. Il risultato era di 500 morti in una manciata di attentati. Io, ascoltando, rifacevo i conti insieme alla giornalista e mi lasciavo prendere dal fascino malsano della quantità, che serviva a misurare il dramma. E associavo involontariamente queste addizioni ad altre recenti, pure sparse per il mondo, e che parlavano di virus. E accortomi del volo mi domandavo se quella malattia sarebbe stata debellata come le altre, o se invece sarebbe stata amministrata per un tempo tutto da definire. I conti giusti non erano quelli, naturalmente. Perché da quel mucchio di “non più” venivano volutamente espunti molti altri. I trentamila sacrificati nel mar Mediterraneo nei dieci anni precedenti, per esempio. Loro erano, lo sapevamo tutti, quelli che veramente ci davano la misura del dramma storico in corso. Morti tutti sul confine, come accadeva cento anni prima, nella logorante guerra che chiamammo prima e mondiale, combattuta in realtà su un paio di fronti.
Morti, durante la fuga che era la loro unica alternativa alla guerra e al terrore.

Dicembre del 2015. Era una fase di rialfabetizzazione politica, quella. E ci rendemmo conto che non eravamo mai usciti dalla Storia, né eravamo mai stati in pace. Si può morire tutti allo stesso modo, dissero, ma solo per alcuni suonano gli inni. Ci accorgemmo anche di questo.E del fatto che gli inni suonati continuavano a essere nazionali. Non c’era niente che parlasse di noi altri, al di là dei paesi singoli. Che parlasse delle plebi offese, dei disperati, o di quelli sul limite, di quelli che venivano dopo, della manodopera a perdere transnazionale, plurinazionale, internazionale, delle menti in fuga verso l’altrove. Ed era un gran peccato.

Suonò la Marsigliese per giorni e giorni perché Parigi era stata offesa e con lei il mondo. O una fetta grande di. Ma non tutto. Era difficile capire quello che stava accadendo con un nemico pubblico capace di terrorizzare, ma non di produrre conflitto. Quando ci chiesero di “stringerci a coorte” un brivido mi attraversò il corpo e la schiena, era una paura vecchia di normalità e sentimenti mediocri. Ma noi avevamo per fortuna già cominciato l’esodo dalle retoriche e non ci fu difficile fare un passo indietro, o di lato, sottrarci cioè al gioco dei conquistatori e portatori di civiltà. Ma per non essere da meno del nemico redigemmo anche noi una costituzione alla quale non abbiamo ancora messo il punto e selezionammo alcuni testi, per tenere a portata di mano i principi che ci fondavano. Uno di questi testi portava il titolo Le vie dei Canti e faceva riferimento alle strofe che si scioglievano sulle labbra di molte e molte persone. Esse avevano segnato la terra di parole e sapevano dove andare, recitando versi risalenti al tempo del sogno. Lo si poteva leggere in molti modi Le vie dei canti, ma non c’era possibilità alcuna di integralismo. Eravamo noi a dirla tutta, totalmente privi di integralismo. Non avevamo nessuna interezza da costruire e diffondere, nessuna assurda organicità, se non un’appartenenza al mondo per rispettare la quale era necessario muoversi. Col corpo, con il pensiero, con le parole. Erano questi i tre elementi che fondavano i discorsi che facevamo, pilastri da cui costruire le pratiche necessarie a vivere la vita.

Tra i versi dei canti che segnavano le vie, ce n’era uno che ripeteva: vidi sopra di me il cielo infinito, vidi sotto di me la valle dorata, questa terra è fatta per te e per me. E via, a tracciare percorsi affinché ogni corpo avesse il diritto di essere. Per meglio affinare la nostra arte prendemmo a prestito alcune abitudini degli uomini e delle donne che abitavano nel deserto. Per camminare e vivere in quegli immensi banchi di sabbia, sapevamo, era necessario uno spirito vasto e accogliente, impossibile da irrigidirsi in presunzioni di superiorità e in aride certezze. Il deserto era al contempo la minaccia che dovevamo tenere a mente, ma anche lo spunto da cui partire, perché il nostro cammino fosse prodigo di creazioni.

Immaginare, nel deserto, è un atteggiamento naturale, diciamo pure un istinto. Niente di ascetico dunque: camminare, immaginare, desiderare, creare. Partimmo così, ognuno dai luoghi in cui era cresciuto e senza destinazione certa, se non l’obbligo di incontrarsi prima o poi, da qualche parte e raccontarsi com’era andato il viaggio, scambiarsi appunti e ipotesi di percorso. Decidemmo in breve anche di rivendicare il nostro diritto all’autodeterminazione, essendo noi un popolo. Senza patrie, è vero, ma non per questo meno popolo di quelli che si erano chiusi in confini incerti, rigati sulle mappe con l’astuzia dei geometri, o arginati da fiumi e monti che li inchiodavano al suolo come arbusti.

Popolo eravamo, di una mescolanza che non saprei da dove cominciare a raccontare e un’imperfezione che quasi metteva paura a noi stessi. Quale dio poteva proteggerci? Nessuno. A nome di quale dio potevamo parlare? Di nessuno. Eravamo una moltiplicazione di minoranze, l’unica certezza era questa: minoranze. E volevamo il diritto all’autodeterminazione. Il nostro inno era un canto che si intonava portando il tempo camminando, lungo una marcia, la nostra, che mai sarebbe stata marziale ma inesorabile, questo sì. Era, il nostro inno, un canto blues, che faceva così…


Cos’è e come si partecipa a #RazzaMigrante

Maz Project è alla ricerca di narrazioni, collettive o individuali, che raccontino una condizione contemporanea e condivisa: la migrazione, intesa sia nella sua accezione letterale sia in quella metaforica. Migrazione come spostamento perpetuo da un paese all’altro per studio, lavoro, e necessità di sopravvivenza, ma anche come odissea del quotidiano, spostamento territoriale alla ricerca di approdi emotivi e materiali. Lo scopo del progetto è quello di tracciare il profilo di un soggetto nomade e inquieto, intrecciando racconti di corpi, luoghi, lotte ed equilibri precari generati dalle esperienze migratorie intra ed extra europee. Un soggetto in movimento, che si riconosce in un comune sentire, orchestra relazioni e produce conflitto. #RazzaMigrante sono gli studenti in fuga nell’europa dell’austerity, sono i lavoratori precari che combattono per un reddito, i profughi dalle guerre in cerca di dignità, le minoranze insorte al tempo di un sistema in crisi. Una razza accomunata non da patriottismi o nazionalismi, ma da percorsi di lotte condivisi, attraversate dalle stesse storie.

Le forme di narrazione: così come abbiamo fatto in questi mesi su Maz, siamo aperti a contributi narrativi sotto forma di racconto, fumetto, produzione audiovisiva (cortometraggi, videoclip, reportage) e multimediale, e in generale a tutti gli “oggetti narrativi non identificati” inerenti al tema proposto. Sfruttando al massimo le potenzialità delle nuove tecnologie, ci lanciamo con la prospettiva di dare vita a contenuti stimolanti, che non hanno la pretesa di essere etichettati in base alla loro forma narrativa.

Le opere e i testi: sebbene siano ammessi contributi individuali, vorremmo dare la precedenza ad opere e testi collettivi, agli incontri di più persone che vogliano sciogliere in un unico oggetto narrativo le loro idee. #RazzaMigrante è un invito alla condivisione di esperienze, alla moltiplicazione, allo scontro dei punti vista, alla sperimentazione.

Le misure: Per racconti, fumetti e testi in generale il limite massimo è di 10 cartelle/pagine (circa 1800 battute a pagina, interlinea 1,5, Garamond 12).
Per le produzioni audiovisive il limite è di 10 minuti.
(Per eventuali eccezioni ne possiamo comunque discutere).

Le scadenze: con una certa costanza, vi stimoleremo, provocheremo, inviteremo a prendere la penna da oggi fino al 31 maggio 2016.

La pubblicazione: tutti i contributi verranno raccolti in un “contenitore multimediale” che verrà edito e distribuito da Maz Project, in collaborazione con i partecipanti e sarà liberamente consultabile e scaricabile su www.mazproject.org.

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