narrativa inglese – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I doppi della paura (Victoriana 54) https://www.carmillaonline.com/2024/09/28/i-doppi-della-paura-victoriana-54/ Sat, 28 Sep 2024 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84395 di Franco Pezzini

Edward Bulwer-Lytton, “Monos e Daimonos”, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, trad. di Diego Bertelli, pp. 50, € 5,90, Arcoiris, Salerno 2023.

Marjorie Bowen, “Cicuta”, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, trad. di Gianluca Venditti, pp. 68, € 5,90, Arcoiris, Salerno 2023.

In una pregevole sottocollana votata a testi brevi collegata a “La Biblioteca di Lovecraft” per i tipi Arcoiris – il titolo è appunto “I singoli de ‘La Biblioteca di Lovecraft’” – , il dinamico duo Corazza & Venditti ha finora proposto vari titoli, tutti di notevole interesse. A un esame superficiale ben [...]]]> di Franco Pezzini

Edward Bulwer-Lytton, “Monos e Daimonos”, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, trad. di Diego Bertelli, pp. 50, € 5,90, Arcoiris, Salerno 2023.

Marjorie Bowen, “Cicuta”, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, trad. di Gianluca Venditti, pp. 68, € 5,90, Arcoiris, Salerno 2023.

In una pregevole sottocollana votata a testi brevi collegata a “La Biblioteca di Lovecraft” per i tipi Arcoiris – il titolo è appunto “I singoli de ‘La Biblioteca di Lovecraft’” – , il dinamico duo Corazza & Venditti ha finora proposto vari titoli, tutti di notevole interesse. A un esame superficiale ben poco può collegare, salvo un generale richiamo all’inquietudine, i primi due, l’uno ottocentesco e l’altro del secolo dopo; ma in realtà vedremo che esiste un nesso forte, probabilmente casuale da un punto di vista editoriale ma intrigante per i lettori.

Il primo è un testo breve, “Monos and Daimonos. A Legend”, maggio 1830, di un assoluto mattatore della scena vittoriana, Edward Bulwer-Lytton (1803-1873: cfr. qui) maestro dell’eclettismo sia nei contenuti che nelle forme: l’apologo – che pare ambientarsi nell’Ottocento ma in un contesto di apologo quasi fiabesco (“A Legend”, appunto) – vede il narrante protagonista (Monos) crescere nella solitudine in lande asperrime, a parte una parentesi a Londra e un paio di imbarchi su navi, sfuggendo come peso intollerabile la compagnia degli esseri umani. Ma a un tratto emerge una figura di persecutore (ecco Daimonos) che come Doppio o Ombra, in modo subdolamente mite ma ossessivo, prende a braccarlo. Non spoileriamo sulla breve trama, anche se il gusto della lettura va anzitutto al cupo contesto specchio dell’individualità sofferta del protagonista. La sua misantropia ha caratteri mitici ma insieme, si direbbe, psicopatologici; e alla fine a uno specialista della mente dovrà pur rivolgersi, lasciandolo sconcertato per la concreta insidiosità della persecuzione subita.

Riesce difficile credere che Le Fanu non abbia letto questo racconto, virtuale prefigurazione dei vari persecutori d’incerta natura delle sue storie; ma certamente l’ha letto Poe, trovandovi la principale forma d’ispirazione per il febbricitante “Silenzio – Una favola” (“Silence — A Fable”, versione definitiva 1845). Il testo, che riprende una serie di spunti bulweriani rileggendoli in forma persino più visionaria, deve restare nella mente dell’Americano Maledetto per tempi assai più lunghi: a parte il messaggio sulla sabbia lasciato dal persecutore – “never”, “MAI”, in rapporto al “nevermore” del “Corvo” – il nome Monos tornerà nel “Colloquio di Monos e Una” (1841). L’autore americano, incalzato dal tema dell’identità e del doppio (si pensi solo a “Morella”) deve trovarlo felicemente espressivo della sua ossessione (anche onomastica) per la dialettica Uni(ci)tà/Duplicità: temi-cardine di una più vasta ossessione ottocentesca per l’identità (e, nel linguaggio fantastico, le sue crisi) che in realtà impatta su tutta la letteratura moderna.

E proprio qui troviamo lo snodo verso il testo di Marjorie Bowen, nota in Italia per l’affascinante Magia nera proposto nel 2011 da Gargoyle. L’autrice (1885-1952) guarda spesso al passato, qui (“Kecksies”, 1923) quello cupo e sordidamente romantico di un Kent tra Sette e Ottocento, tra proprietari terrieri malvissuti e mentecatti di campagne povere, stregoni di campagna e orribili concupiscenze. Sarebbe ipotizzabile – ma non necessaria – una lettura del Gordon Pym di Poe per il tema della sostituzione a un cadavere con effetto macabro-burlesco: ma il contesto è chiaramente sovrannaturalistico, e il potenziale amplesso con un doppio del coniuge (tanto più disturbante per un tipo di specularità scioccamente e fatalmente indotta) richiama a tutto un corpus di miti neri sul talamo, di maledizioni oltretombali, di nessi tra carne, morte & diavoli. Anche se poi, anche qui, ciò che fa davvero godere il testo è la qualità della narrazione, la voce dell’autrice, il suo gioco di brividi felici persino quando attesi, in grazia (è il caso di dirlo) di una Black Magic della scrittura.

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Noi, al sicuro nel Pentacolo Elettrico (Victoriana 46) https://www.carmillaonline.com/2023/11/04/noi-al-sicuro-nel-pentacolo-elettrico-victoriana-46/ Sat, 04 Nov 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79623 di Franco Pezzini

(È appena uscito per i tipi il Palindromo, a cura di Gabriele Scalessa, il volume Carnacki – L’indagatore dell’occulto di William Hope Hodgson, con le classiche illustrazioni di Florence Briscoe. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

«Cosa intende fare?» mi domandò.

«Sarà un esperimento pericoloso?».

«Lo diventerà se non segue tutte le mie

indicazioni. Entrambi corriamo il rischio

di non uscire vivi da questa stanza. Ho

la sua parola che posso contare sulla sua

obbedienza qualunque cosa accada?».

William Hope [...]]]> di Franco Pezzini

(È appena uscito per i tipi il Palindromo, a cura di Gabriele Scalessa, il volume Carnacki – L’indagatore dell’occulto di William Hope Hodgson, con le classiche illustrazioni di Florence Briscoe. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

«Cosa intende fare?» mi domandò.

«Sarà un esperimento pericoloso?».

«Lo diventerà se non segue tutte le mie

indicazioni. Entrambi corriamo il rischio

di non uscire vivi da questa stanza. Ho

la sua parola che posso contare sulla sua

obbedienza qualunque cosa accada?».

William Hope Hodgson, “Il maiale”

 

Il successo delle riviste e dell’editoria popolare nell’Ottocento e specificamente nell’età vittoriana è a monte di un fenomeno la cui lunga coda interessa ancora noi oggi, cioè la nascita di una nuova epica popolarissima – diremmo di genere, con caratteri paraletterari o qualche volta pienamente letterari – che avrà strabordante fortuna postmoderna in forma transmediale. Dopo il successo infatti di diluviali saghe di eroi popolari a puntate a metà ottocento con i penny dreadful, la serialità di storie a episodi – annunciata fin dai tempi di Dupin e della Rue Morgue, 1841, con il varo del primo poliziesco moderno (ancora grondante gotico, sia pure) e del primo indagatore per “casi” – vede emergere nuovi modelli di eroi attrezzati, rispetto al passato, a un genere radicalmente diverso di quest. La nuova quest non mira all’orizzonte del sovrannaturale/meraviglioso (il santo Graal…), ma a risolvere misteri essenzialmente umani, legati spesso a un altro nuovo fenomeno già notato da Poe nel proto-poliziesco L’uomo della folla (The Man of the Crowd, 1840): il mistero della vita nella metropoli moderna, di lì idealmente a monte di una serie di romanzi che quel grembo di male notomizzavano in modo più o meno fantasioso, da I misteri di Parigi (Les mystères de Paris, 1842-1843) di Eugène Sue, a infiniti altri meno noti a firma di autori diversi (I misteri di Marsiglia, di Londra, di Napoli, di Pietroburgo etc.).

Nasce così, dalla radice-Dupin poi indefinitamente criticata dai discendenti a smarcare una propria autonomia, il detective seriale moderno: connotato da peculiarità, idiosincrasie, stigmi di eccezionalità che lo rendono più o meno un outsider, come l’Arcidetective Holmes e infiniti altri rivali (usiamo per ora questo termine, capiremo poi perché) eccellenti o miseri, pullulanti in età vittoriana, ma destinati per li rami ad arrivare ai giorni nostri e anzi proseguire oltre. La grande dinastia dei detective seriali (a volte donne, non dimentichiamolo) finisce però col gemmare due altre linee di discendenza: come ovvia conseguenza dei misteri alla Sue, quella dei “casi” di grandi ladri come Raffles o Lupin – che finiscono spesso con l’indagare pure loro, risolvendo vicende criminali, trovando tesori etc. – e quella di indagatori su un fronte del tutto diverso, cioè sovrannaturale-fantastico. Il sovrannaturale-meraviglioso afferiva a un contesto dove era ovvio pensare a santi o cavalieri devoti attivi in vere e proprie indagini, a storie edificanti di miracoli e angeli, al confronto col diavolo; il sovrannaturale-fantastico è figlio invece di un’età laica, dove in questione è l’incertezza di un corpus di casi che sovvertono la visione nota del mondo e la necessità di nuovi “specialisti” – non più religiosi nel senso di chiese fin troppo istituzionalizzate (nel poliziesco classico un caso molto particolare è quello del padre Brown di Chesterton, che però opera anche sul fronte psicologico-morale). Vero, il primo detective dell’occulto moderno, il dottor Martin Hesselius di Le Fanu, precede nel 1869 (poi nella raccolta In a Glass Darkly, 1872) il diffondersi modaiolo dei poliziotti e deve parecchio all’Apollonio del Lamia di Keats, 1820, ma il suo successore immediato e più efficiente, il Van Helsing del Dracula di Stoker, 1897, deve almeno qualcosa a Holmes. A differenza che poi nel cinema e nel fumetto, Van Helsing non è un indagatore seriale, bensì una tantum nell’ambito della vicenda che lo vede fronteggiare la battaglia apocalittica contro l’Anticristo transilvano: ma la sua lezione verrà ben appresa dal personaggio di cui parleremo.

Nel frattempo è successo dell’altro: l’alta marea dell’irrazionale che dal boom dello spiritismo (idealmente l’ultima delle rivoluzioni del 1848) capitalizza il convulso orizzonte dell’esoterismo tra Sette e Ottocento, vede impennare l’occulto nei salotti borghesi tra tavolini ciangottanti, illuminazioni, viaggi astrali e paludamenti similegizi dei nuovi teurghi e goeti: la nascita nell’Inghilterra vittoriana (1887-1888) dell’Hermetic Order of the Golden Dawn ne è solo l’evento più clamoroso. In breve gli indagatori dell’incubo spopoleranno, quasi a colmare un’imperiosa necessità dell’immaginario in tensione tra i due poli del positivismo scientifico e delle sirene dell’irrazionale: con l’avvertenza però che lo stesso positivismo di moda – che tanto influisce sullo spiritismo e in fondo sull’approccio pragmatico del “purché funzioni” di tante esperienze esoteriche – entra in gioco anche nell’approccio alle storie di indagatori dell’occulto. Nell’età del ballo Excelsior, che celebra i nuovi eroi di estrazione borghese portatori di luce – ingegneri, inventori, chimici e altri specialisti nelle più varie scienze & tecniche, magari con un pizzico di massoneria – a confrontarsi col sovrannaturale per salvare un “paziente” sarà sempre più frequentemente un medico: un buon vecchio dottore come l’Haberden de La Polvere bianca (Novel of the White Powder) in I tre impostori (The Three Impostors, 1895) di Machen, i perplessi colleghi dei racconti di Lovecraft, o invece un vero dottore psichico come il raffinato John Silence (1908) di quell’Algernon Blackwood confratello di Machen sotto i labari Golden Dawn, ma assai meno critico di lui sulla vocazione occultista dell’Ordine. John Silence è in effetti un iniziato nelle cui elegantissime storie emerge un complesso tessuto di conoscenze gnostiche e teurgiche, un illuminato che fronteggia il male con la sua spiritualità luminosa – sulla base di convinzioni esoteriche, filosofiche ed etiche dello stesso Blackwood.

Ben diverso è il caso dell’esoterismo genuinamente letterario (o paraletterario, se si preferisce) di un altro occult detective collega di Silence e di poco successivo, il Thomas Carnacki del britannico William Hope Hodgson, nato nel 1877 e morto sul campo di Ypres in Belgio nel 1918. Un autore di straniante potenza i cui romanzi fantastici – si pensi a Naufragio nell’ignoto (The Boats of the “Glen Carrig”, 1907), La casa sull’abisso (The House on the Borderland, 1908), I pirati fantasma (The Ghost Pirates, 1909), La terra dell’eterna notte (The Night Land, 1912) – spalancano in forme originalissime vertiginose prospettive allucinatorie tra inconscio e distopia fantascientifica, apocalittica e cosmologia, orrore e spaesamento psichico. Ricordare il suo ruolo di predecessore di Lovecraft è persino scontato, ma a fronte di un culto pop di spiacevole naïveté che sembra far arenare su HPL ogni tipo di discorso a detrimento di altri autori, va detto che la lezione di Hodgson sarà fondamentale per un po’ tutto il fantastico orrifico del Novecento.

Certo, a fronte dei grandi romanzi hodgsoniani, le storie di Carnacki possono venire giudicate una prova minore, dettate dalla necessità di sbarcare il lunario: Lovecraft le stroncava un po’ acidamente come “vastly inferior” agli altri lavori di Hodgson, “his poorest work” e Carnacki sarebbe un mediocre stereotipo di detective dell’occulto (è noto come HPL non cogliesse il fascino dell’occulto “tecnico”). Vero, i casi di John Silence si presentano assai più ricchi letterariamente e più profondi sul piano interiore. Eppure le storie di Carnacki sono testi di grande interesse, di intatto divertimento per i lettori e capaci di rivelare un aspetto diverso della genialità dell’autore, portando una ventata di novità in un filone destinato altrimenti a ripiegarsi nelle imitazioni delle voci di Le Fanu, Blackwood e pochi altri mattatori. Alcuni aspetti di questi racconti richiamano del resto la produzione maggiore dell’autore, e sembra sbagliato ignorare i nessi (per quanto impliciti): Il maiale (The Hog, pubblicato postumo nel 1947) fa pensare alle disturbanti creature simil-suine de La casa sull’abisso (oltre ovviamente alla simbolica biblica del maiale come animale impuro e in particolare all’episodio evangelico del branco di maiali indemoniati: Mt 8,28-34, Mc 5, 1-20, Lc 8,26-39); Il “Jarvee” infestato (The Haunted “Jarvee”, 1929) rimanda alla ricca serie di testi marinari di varia ampiezza varati da Hodgson negli anni; la cosmologia impazzita delle rivelazioni dispensate da Carnacki è coerente con le visioni distopiche dei romanzi, al di là del meccanismo tranquillizzante del rito ripetitivo dei “casi” (la riunione tra amici, etc.). Tratteniamo per ora queste considerazioni.

Intrigante anzitutto la vicenda editoriale. Inizialmente di Carnacki compaiono sei storie, pubblicate tra il 1910 e il 1912 sulle riviste The Idler e The New Magazine, e riunite in volume nel 1913; più tardi, nel 1947, un’edizione Mycroft & Moran legata ad Arkham House ne aggiungerà tre – due apparse postume su riviste (The Premier Magazine, Weird Tales), la terza mai prima pubblicata. Il sospetto che le abbia scritte August Derleth, responsabile della casa editrice e uso a riprendere spunti lovecraftiani, sembra però si debba respingere: c’è una coerenza stilistica tra le prime e le ultime storie pubblicate.

A differenza della luminosa vita interiore che permette a Silence di fronteggiare il Male (e gli offre uno spessore empatico particolarmente gradevole), nel caso del rigido e bizzarro edoardiano Carnacki il pragmatismo e un certo positivismo innestato sulla tecnica prevalgono. Sia perché a lui interessa la soluzione concreta dei problemi sottopostigli – poi oggetto di divertiti resoconti del dopocena agli amici – assai più che le sorti dell’anima sofferente in quanto tale (eccettuato forse il caso dell’impressionante Il maiale, più simile per rapporti tra detective e paziente ai casi di Silence); sia perché in effetti i misteri possono trovare soluzione naturale (frodi, manipolazioni eccetera) o ibrida, insieme naturale & sovrannaturale.

Per risolverli l’ingegnoso Carnacki, memore forse di un nesso onomastico con il conte Michel de Karnice-Karnicki, inventore di una elaborata safety coffin detta Le Karnice per salvare accidentali sepolti vivi, si appoggia a un’intera santabarbara di strumenti tecnici. A partire dalle macchine fotografiche care agli studiosi coevi di spiritismo (“Certe volte la macchina fotografica riesce a vedere cose che sfuggono alla normale vista umana: capite cosa intendo?”) ma in fondo già a Jonathan Harker (il Dracula stokeriano pullula di nuovi ritrovati della tecnica moderna) e dal “fonografo modificato con auricolari al posto dell’altoparlante”; fino ad attrezzi tali da combinare tecnologia e magia, come “un disco di vetro composto di tubi a vuoto disposti in maniera particolare” o il delizioso e originalissimo Pentacolo Elettrico. Suggestioni che sembrano preannunciare quello che oggi chiamiamo steampunk, e aprono al filone occultista nuove prospettive nel segno di un’improbabile tecnologia. Carnacki utilizza poi una serie di tradizionali mezzi magici: e sul punto l’Autore mostra di saper giocare con ammiccanti allusioni alla scuola del maestro Le Fanu, ma già in qualche modo, anche qui, preludendo a Lovecraft.

Troviamo dunque richiami sornioni a una serie di pseudobiblia, nel segno dell’ormai consolidato filone dei libri arcani, autentici (Poe, Le Fanu) o fittizi (Bierce): un fantomatico testo di formule protettive del XIV secolo, il Manoscritto Sigsand; la monografia di un certo Harzam, Astral and Astral Co-ordination and Interference con Addenda a cura di Carnacki; alcuni saggi di tal professor Garder (Experiments with a Medium e Astral Vibrations Compared with Matero-involuted Vibrations Below the Six-Billion Limit); False Re-Materialisation of the Animate-Force through the Inanimate-Inert sembra invece non un testo ma il nome di una teoria. Una menzione merita poi il misterioso Rituale Saaamaaa legato a un certo incantesimo di Raaaee (nome di entità?), di pericoloso utilizzo ma in grado di bloccare temporaneamente le forze malefiche… dove l’uso di lettere raddoppiate o triplicate (le edizioni circolanti dei presentano una certa varietà di grafie) già parla il linguaggio degli onómata barbariká, i nomi barbari usati in magia, che – raccomandano gli Oracoli caldaici, fr. 150 – “non [devi] cambiarli mai”.

Poco importa che i chiarimenti tecnici appaiano spesso fumosi, come in un certo linguaggio esoterico da bollettini spiritisti o teosofici, visto che l’insieme resta godibile e divertente al lettore. Lo spiritualismo di queste storie è alla grossa quello di età edoardiana, con l’enfasi sul tema del piano astrale: che però Carnacki collega con un cerchio rotante di gas esterno al pianeta. Lì ristagnerebbero ab-umani e mostruosità esterne come nel mare – si è osservato in relazione alla sua passione per storie di navigazione – allignano mostri marini; ma a reggerlo sarebbero comunque fantomatiche Forze Protettive – “In other words, it is being proved, time after time, that there is some inscrutable Protective Force constantly intervening between the human-soul (not the body, mind you) and the Outer Monstrosities”. Forze dai connotati non chiari, visto che le spiegazioni fantareligiose o demonologiche sono di solito evitate, al di là di alcune somiglianze tra ab-umani e mostruosità esterne coi demoni: si può parlare di una fanta-fisica con forze che conservano e altre che distruggono, ma è probabile che l’autore abbia costruito tutto questo sistema – in qualche rapporto, come detto, con gli scenari febbricitanti dei romanzi – attraverso progressivi colpi di teatro, senza la preventiva organizzazione di una teoria. A complicare le cose è anche l’uso di varianti lessicali rare o inventate (talune presenti solo in certe edizioni), come astarral che sembra intendersi per astral (uno, astarrale/asteriale, aggettivo e l’altro, l’astrale, sostantivo?), Monstrocities (mostruocità? cfr. ferocities, atrocities) per Monstrosities, etc.

Tutto il “sovrannaturale” o piuttosto Ab-naturale dei suoi racconti muove nel segno di energie sfuggenti e impatti sull’etere, ricadute di oscure leggi cosmologiche, forze psichiche e induzioni inconsce di pensiero, sull’onda in fondo delle arzigogolate speculazioni mistico/fisiche tra Sette e Ottocento che nutrono la formazione esoterica dei predecessori di Carnacki, cioè Hesselius e colleghi (“scientifiche” o letterarie: si pensi solo alla fantomatica “forza odica” di Karl von Reichenbach, al “Vril” di Bulwer-Lytton, etc.), ma appunto anche di fantasie spiritualiste o teosofiche coeve. I fantasmi veri e propri sarebbero forze di traumi umani inizialmente inanimate ma che acquisiscono un’inopinata animazione: tra questi fenomeni rilevano in particolare le manifestazioni Aeiirii – in apparenza le più comuni, incapaci di recare una completa materializzazione (cfr. aer come aria?) ma in grado di attaccare oggetti solidi – e Saiitii (anche Saaaiti, Saaitii: cfr. Sais in Egitto?), queste ultime particolarmente allarmanti perché coinvolgono la materia, ma ancora legate a dinamiche umane. A differenza dell’aggressione “demoniaca” di ab-umani e mostruosità esterne, spiriti astrali memori forse delle antiche tiritere di demoni gnostici o di cognizioni magico-astrologiche rinascimentali ma da Carnacki senz’altro riconducibili a nebulose (magari “lunghe migliaia di chilometri”) ed “emanazioni” cosmiche.

Come i grandi detective del poliziesco, Carnacki – ispirato a Sherlock Holmes ma anche a Hesselius – ha le sue fisime: vive in un alloggio da single e racconta i propri casi a quattro amici che poi, puntualmente, butta fuori “in modo amichevole” alla fine della serata. Uno di questi è Dodgson (cfr. Hodgson), una specie di Watson che funge da narratore: un ruolo funzionale a distanziare l’Eroe (un tipetto molto particolare e vagamente bizzoso, come del resto spesso gli indagatori popolari), garantendogli una sorta di camera stagna col mondo misterioso cui si confronta. Si noti l’assonanza onomastica tra il personaggio e lo scrittore; viene del resto il dubbio che a questo richiamo nobile se ne abbini uno più infastidito, quell’hog de Il maiale come possibile storpiatura del nome di Hodgson, pesantemente bullizzato durante la sua esperienza giovanile sul mare. Non si fatica a immaginare le dinamiche derisorie e la trasfigurazione fantastica di questo male in senso cosmico-metafisico.

Come detto, nei racconti il sovrannaturale non entra sempre e il detective deve talora fronteggiare impostori; qualche volta la storia sovrappone i due elementi. E tutto ciò, unito a una scrittura di buon ritmo, permette di mantenere tutt’oggi agli episodi una notevole suspense.

Carnacki influenzerà con potenza la storia del filone. Le sue trovate verranno riprese da altri, sia a livello di ispirazione generale che di singoli dati. Come nel caso di Dennis Wheatley, “il principe degli scrittori thriller” esperto di stregoneria e magia nera, nell’ambito dei casi del duca De Richleau: per esempio in The Devil Rides Out (1934) troviamo non solo gli Ab-humans (cap. 12), ma “the last two lines of the dread Sussamma Ritual” (cap. 27) – come in La stanza che fischiava la quasi omofona “Unknown Last Line of the Saaamaaa Ritual” –, e i Signori della Luce intervengono a tutela dell’anima dei buoni in modo molto simile alle Forze Protettive di Hodgson… Con la differenza però che Wheatley riconduce il tutto a una tradizionale dialettica religiosa luce/tenebra, mentre nei casi di Carnacki l’ottica resta più ambiguamente fantafisica.

Inevitabile che un personaggio tanto promettente conosca nel tempo una ricca serie di sviluppi anche apocrifi, come in chiave di pastiche – nel meraviglioso fumetto di Alan Moore e Kevin O’Neill The League of Extraordinary Gentlemen, nelle puntate: Black Dossier (2007) e Century (2009), nelle storie del Diogenes Club di Kim Newman e in Sherlock Holmes: The Breath of God di Guy Adams (2012) – e persino in esplicite parodie, quali The Dragonhiker’s Guide to Battlefield Covenant at Dune’s Edge: Odyssey Two di David Langford (1988) e The Sniffling Room di Rick Kennet (2000). In precedenza si è citata la categoria dei rivali di Sherlock Holmes: e Carnacki approda sugli schermi una volta sola, nel 1970, appunto nella serie televisiva inglese The Rivals of Sherlock Holmes, interpretato da Donald Pleasence in un adattamento del racconto Il cavallo dall’invisibile (The Horse of the Invisible, 1910). Ma il cinema ha celebrato un gruppo di personaggi che in termini parodistici sembrano dovere molto alla lezione di Carnacki: e si parla della squadra di Ghostbusters, i dottori Peter Venkman (Bill Murray), Raymond Stantz (Dan Aykroyd) e Egon Spengler (Harold Ramis) dei due esilaranti film di Ivan Reitman (1984 e 1989), a monte di una serie di altri prodotti (un pallido reboot 2016, serie di cartoni animati, fumetti, videogame, giochi di ruolo…). Certo, non c’è il Pentacolo Elettrico, ma a fronteggiare spettri e divinità ancestrali soccorrono trovate tecnologico-occultistiche che ne costituiscono una sorta di ideale derivazione.

Tutto facile, insomma? Be’, non proprio. Anzitutto perché l’armamentario di Carnacki non ci garantisce – è lui ad ammetterlo – una protezione completa contro le forze dell’ab-umano, a differenza di quanto accade in molte tranquillizzanti avventure dei suoi colleghi: e del resto non si vedrebbe come, in un orizzonte – evocato dai romanzi, ma in fondo alluso dalla confusa cosmogonia dei racconti – su cui si levano nubi nerissime. Carnacki e i suoi amici possono garantirsi il rituale tranquillizzante di quattro chiacchiere attorno a un tavolo e un buon dopocena a base di storie di spettri, veri o farlocchi. Ma quel che attende il pianeta, tra bufere eteriche, apocalissi astrali e infestazioni di Monstrocities incomprensibili, resta sullo sfondo, come un panorama assurdamente altro fuori dalla finestra con le tendine: ed è persino più tremendo dell’allucinata escatologia lovecraftiana – perché persino meno comprensibile, oltre che meno telefonato da un fandom di devoti. Dunque non siamo troppo frettolosi nel giudicare questi racconti, lasciamo che ci sorprendano. Nel nostro rifugio in mezzo al Pentacolo Elettrico ci resta qualche buon motivo per tremare.

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The Innocence of Simon Iff (Victoriana 44) https://www.carmillaonline.com/2023/10/18/the-innocence-of-simon-iff-victoriana-44/ Wed, 18 Oct 2023 07:12:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79485 di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Le indagini di Simon Iff, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Francesco Vitellini, pp. 224, Arcoiris, Salerno 2023.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita in anteprima a Stranimondi la prima traduzione italiana di questa interessante, originale e maliziosa raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

 

Nel salone del circolo c’era solo un ometto anziano, conosciuto come un matematico di grande importanza, con un tocco di follia. Aveva da [...]]]> di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Le indagini di Simon Iff, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Francesco Vitellini, pp. 224, Arcoiris, Salerno 2023.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita in anteprima a Stranimondi la prima traduzione italiana di questa interessante, originale e maliziosa raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

 

Nel salone del circolo c’era solo un ometto anziano, conosciuto come un matematico di grande importanza, con un tocco di follia. Aveva da poco terminato un pamphlet per dimostrare che gli antichi avevano una certa conoscenza della matematica della quarta dimensione e che la loro affermazione di problemi, come la duplicazione del cubo, implicava la conoscenza di un mezzo in cui i valori incommensurabili diventavano misurabili. Considerava particolarmente forte il postulato delle parallele di Euclide, che non solo non è stato dimostrato, ma si è rivelato indimostrabile. Era anche un profondo studente della Massoneria, i cui arcani gli fornivano ulteriori argomenti sulla stessa tesi.

 

Per consuetudine critica, spesso si ascrive tout court Simon Iff, il protagonista dei racconti che andrete a leggere, alla categoria dei detective dell’occulto: ciò che, corretto per alcuni versi, richiede però almeno robuste puntualizzazioni – con particolare riguardo a questa prima raccolta, sostanzialmente poliziesca. In effetti, Iff – creato da Crowley per sbarcare il lunario alla fine del 1916 durante uno squattrinato soggiorno a New Orleans, dunque con l’obiettivo pragmatico di un’agevole collocazione editoriale – è un mistico e un occultista: vocazioni che al suo riapparire con un ruolo importante nel romanzo Moonchild, avviato dall’autore proprio a New Orleans all’inizio del 1917 (ma pubblicato solo nel 1929), troveranno ampio spazio. Di più, Iff è nei fatti un alter ego dell’autore mago e profeta delle leggi del Thelema, sgomitante del suo egocentrismo e della sua voglia di colpire gli interlocutori. Se una compenetrazione tra autore e personaggio è in qualche misura normale, nel caso di un vanitoso come Crowley il meccanismo appare scoperto: del resto non ha mai smesso – e non smetterà – di proporsi come protagonista di narrazioni.

Grady L. McMurtry, discepolo di Crowley e riorganizzatore dell’O.T.O., ha ipotizzato che almeno in Moonchild Iff si ispiri all’occultista Theodor Reuss fondatore dell’Ordo stesso (nonché, pare, spia della polizia), e altri hanno visto un modello nell’amico Allan Bennett (che però in Moonchild ha anche un altro ruolo-calco più diretto, il mistico Mahatera Phang): ma occorre ricordare che proprio Crowley in un nota olografa in margine a un altro suo romanzo, Diary of a Drug Fiend edito nel 1922, descrive Iff come “una mia raffigurazione quale uomo anziano”. In Moonchild il gioco di proiezioni permette all’autore di “duplicarsi” con dialettica spudorata tra un Sé giovane e avventuroso, Cyril – mago e amante, nonché vero protagonista – e un Sé molto più maturo, appunto Iff, mistico e maestro. Ma se Moonchild è insieme un romanzo iniziatico, una sorta di ideale risposta a The Magician di W. Somerset Maugham (1908), e una feroce satira degli ex-sodali Golden Dawn, le quattro serie (colte, spumeggianti, divertenti) che Crowley dedicherà al mistico, mago, psicologo e detective Simon Iff mirano a cavalcare mode narrative d’epoca – il proliferare di storie di indagatori del crimine e dell’occulto, i dialoghi brillanti di un ambiente sociale elitario che intriga il grosso pubblico, un certo tipo di poliziesco un po’ cerebrale alla Philo Vance (più tardo, dal 1926), sia pure con note di genuina originalità. D’altra parte Iff nei racconti è molto anziano, pur sembrando assurdamente giovanile; ma anche in questa prima tranche di avventure non manca un Crowley giovane, incarnato in Jack Flynn, editor del giornale The Emerald Tablet dietro cui intravediamo la testata crowleyana The Equinox; e c’è persino, tanto per continuare l’autofiction, una sontuosissima “Coppa Crowley n. 3” con fragole, Grand Marnier Cordon Rouge, champagne e ghiaccio.

L’occulto va perciò inteso semmai in un’accezione un po’ particolare. Nel primo racconto della raccolta, “The Big Game” (“Caccia grossa”), troviamo un cenno fuggevole a “una specie di club di adorazione del diavolo, […] una delle loro passioni era la cocaina” ma il caso permette di smascherare assassini rimasti impuniti; il secondo, “The Artistic Temperament” (“Il temperamento artistico”), ripropone echi del Ramo d’oro di Frazer in rapporto a un incredibile caso criminale, ed è impossibile non pensare ai racconti dell’altra serie più o meno coeva Golden Twigs (cfr., in questa stessa collana, Aleister Crowley, I ramoscelli d’oro, 2021); il terzo, “Outside the Bank’s Routine” (“Fuori dagli schemi”), riguarda un delitto enigmaticissimo e dai dettagli paradossali che può far pensare a una storia di fantasmi. Nel quarto, “The Conduct of John Briggs” (“La condotta di John Briggs”), occorre difendere un accusato d’omicidio, attraverso “la voce del suo particolare demone”; nel quinto, “Not Good Enough” (“Non abbastanza bravo”), ritornano echi di Frazer; nel sesto, “Ineligible” (“Inammissibile”), la ricostruzione di un passato nerissimo fa pensare a certe pagine di romantici torbidi francesi dell’Ottocento. Il concetto di occulto richiama dunque più spesso in questi mystery a un’accezione di segreto e umbratile, tenebroso, ancestrale o torbidamente velato, con il magico sullo sfondo e i misteri di una psicologia liberissimamente invocata dal Semplice Simon: colui che a colpi di domande e sintesi provocatorie decostruisce le verità giudiziarie o sociali per cogliere verità più sconcertanti e segrete.

Dal tardo 1914 al tardo 1919, la Grande Bestia 666 è in America, dove tra mille avventure cerca di importare il culto del Thelema: un periodo importante per la sua vita, anche se è ben lungi dall’immaginare il successo postumo lì, mezzo secolo dopo, che contribuirà all’esplosivo revival magico (tardi Sessanta-inizio Settanta) in tutto l’occidente e all’impennata dell’immaginario crowleyano nella musica. I soldi scarseggiano, quindi Aleister usa la propria fantasia e rapidità di scrittura per varare la saga di un nuovo personaggio. A metà gennaio 1917 termina di scrivere la prima serie di sei storie, The Scrutinies of Simon Iff (quelle in sostanza del volume che avete in mano), in prima battuta edite su The International tra settembre 1917 e febbraio 1918: per inciso sotto lo pseudonimo di Edward Kelly, come un tipaccio di cui si ritiene reincarnazione, l’equivoco medium e compagno d’avventure del “Merlino moderno”, il ben più presentabile mago elisabettiano John Dee. Vi si trova sotteso un qualche scherzo birichino all’ex-amico pittore Gerald Kelly, in seguito meglio noto come Sir Gerald Festus Kelly (1879-1972), ritrattista tra i preferiti della famiglia reale inglese, ma soprattutto cognato renitente di Aleister attraverso le sue nozze con la sorella Rose?

La prima serie è ambientata nel Vecchio Mondo. Seguono Simon Iff in America (dodici storie, scritte tra dicembre 1917 e gennaio 1918), Simon Iff Abroad (tre storie, scritte probabilmente nel 1918) e Simon Iff, Psychoanalyst (due storie, scritte tra 1918 e 1919). È senz’altro eccessivo proclamare – come fa Crowley annunciando con clamore la seconda serie – che si tratti dei polizieschi più sensazionali dopo quelli di Doyle su Holmes, ma è vero che il taglio appare innovativo: un dosaggio originale tra mystery e occult detective fiction, con ampio spazio alla psicologia e un po’ di Thelema. I testi sono fitti di citazioni letterarie (moltissime da Shakespeare) e di riferimenti più o meno cifrati, maliziosi o meno, alla vita e ai contatti dell’autore. Per dire, il cenno del racconto “Inammissibile” al Loch Ness richiama al luogo di Boleskine House, dove l’autore era vissuto a periodi e aveva celebrato rituali; e gli Exclusive Plymouth Brethren lì citati sono quelli del culto fondamentalista cui appartenevano i suoi genitori, e da cui la Bestia 666 era stata ovviamente cacciata. Anche più emblematico per il periodo che l’autore sta attraversando è un cenno a tre femme fatale – o piuttosto divoranti dark lady – contenuto nel terzo dei racconti:

 

Il ragazzo ebbe un sussulto, quasi svenne. “Esistono donne di questo tipo?” chiese Macpherson. “Pensavo fosse una favola.”

“Ne ho conosciute tre, intimamente”, rispose Simon Iff. “Edith Harcourt, Jeanne Hayes, Jane Forster. Quello che dice il ragazzo è vero. Posso dire che l’indulgenza nel bere o nelle droghe tende a creare questi mostri dalle donne più nobili. Delle tre che ho menzionato, le ultime due erano cattive per natura. Edith Harcourt era una delle donne più belle che siano mai vissute, ma sua madre le aveva insegnato a bere quando era ancora una bambina, e in un momento di stress il nemico nascosto è uscito da dove era in agguato: le ha distrutto l’anima. La sua personalità fu completamente trasformata; sì, signore, nel complesso, credo nella possessione da parte del diavolo. Tutte e tre le donne hanno rovinato gli uomini che hanno frequentato, o alcuni di loro. Jeanne Hayes ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi, Jane Forster ha portato un valido avvocato alla follia malinconica. Delle loro vittime minori, semplici cuori infranti e così via, si perde il conto. Edith Harcourt ha reso la vita di suo marito un inferno per tre anni, e dopo il divorzio si è scatenata del tutto e ha distrutto molti altri con le sue carezze infami.”

“L’ha conosciuta intimamente?”

“Era mia moglie.”

 

Dove sotto il velame della narrazione, Edith Harcourt è identificata da una nota olografa dell’autore per Rose Edith Kelly (1874-1932), da lui avventurosamente sposata, e assurta a prima delle Donne Scarlatte: è attraverso lei, nel ruolo di Ouarda la Veggente, che gli è giunta la famosa Rivelazione del Cairo, 1904, a monte del culto filosofico/religioso del Thelema. Si sono lasciati rovinosamente nel 1910, con divorzio ufficiale e strascico di rovelli. Rose ha avuto da Aleister due figlie, una morta prestissimo, l’altra crescerà lontana dal padre. Scivolata tristemente nell’alcool, l’ex-Donna Scarlatta sarà ancora modello per la povera Margaret del Magician di Maugham.

Jeanne Hayes, cioè Jeanne Eugenie Heyse, poi Heyes (1890-1912), in arte Ione de Forest, inglese di famiglia belga-irlandese, ha avuto la parte di Luna nei crowleyani Riti di Eleusi (1910) ma si è dedicata poi alla pittura, sposando il paleografo Wilfred Merton: ha poi avuto un rapporto con il poeta e scrittore Victor Neuburg (discepolo e per un periodo partner magico e di vita del bisessuale Crowley), e si è suicidata mentre attendeva il divorzio (“ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi”, sintetizza Iff). A trovare il corpo è stata la pittrice Nina Hamnett, che ricorderà questo sottomondo di arte, passioni ed eccessi nel suo Laughing Torso (1932), ed Ezra Pound celebrerà la giovane in una lirica e nel Canto VII.

Jane Forster, cioè la bellissima Jeanne Robert Foster (1879-1970) nata Olivier o Ollivier, modella, giornalista e poeta, citata come “il Gatto” nelle Confessioni di Crowley, da lui ribattezzata Soror Hilarion (è la terza Donna Scarlatta) e modello per la Mollie Madison di altri racconti, sarebbe stata d’accordo per lasciare il marito e sposare Aleister, che però ha lasciato improvvisamente: per una volta, la Bestia 666 è stata colpita al cuore, e il testo risulta scritto sull’onda di questa amarezza profonda.

Insomma Iff è un vero e proprio concentrato del Crowleyverse: ma sarebbe sbagliato, anche per i pragmatici motivi del varo di questi racconti, estrapolarlo dalla grande famiglia degli indagatori tanto florida tra i due secoli. Ed è inevitabile cercarvi parentele. Il paradosso è che, pur nell’ovvia distanza di profilo, il detective in fondo più simile all’occultista Iff nel lasciare spazio alle pieghe e piaghe della vita interiore sia ben diverso dei dottori psichici fioriti nei primi decenni del Novecento (e tanto meno dei loro predecessori vittoriani): si tratta in fondo di un indagatore del foro interno nientemeno che in talare, il sacerdote-detective Padre Brown creato nel 1910 dallo scrittore, poeta, polemista e critico d’arte Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), con qualche anticipo sulla sua ufficiale conversione al cattolicesimo (1922).

Come osservato in altra sede, pochi personaggi paiono più distanti di Crowley e Chesterton: eppure sono entrambi geniali, combattivi, ingombranti, ironici fino al sarcasmo, cultori entusiasti del paradosso (“prince of paradox” è stato definito Chesterton, ma anche il magistero di Crowley – come esplicitato in Moonchild – vede nel paradosso un vero e proprio sistema di pensiero), autori prolifici di saggistica, narrativa e poesia. Entrambi eversivi, da lati diversi, rispetto al conformismo etico di un’epoca, al “modo di pensare meccanico dei protestanti” (come lo definisce Gramsci nelle Lettere dal carcere), al grigiore spesso vuoto di una morale pubblica vittoriana – sopravvissuta alla grande regina, gli strascichi correranno ancora per mezzo secolo – sull’onda in fondo della lezione del grande provocatore Wilde. I due hanno anzi modo di battibeccare a distanza fin dal 1901 (quando Chesterton mostra qualche interesse per la poesia di Crowley, con riserve solo sui suoi paganesimi d’importazione dai toni simbolistici modaioli): e si scambiano ironie via via crescenti, anche se nel complesso relativamente morbide. Certo, la prosa davvero letteraria, ricca e scintillante di Chesterton lascia parecchio indietro quella di Crowley. Come quest’ultimo del resto esplicita nella propria “autoagiografia” proprio a proposito delle avventure di Iff, in generale il sistema sottostante le medesime si basa

 

per la maggior parte su semplici principi meccanici. Potrei anche paragonarli a problemi di scacchi. Il metodo generale era pensare a una situazione la più inspiegabile possibile, quindi di chiudere tutte le fessure con lo stucco e, dopo essermi accertato che nessuna spiegazione fosse possibile, fare un ulteriore sforzo e trovarne una. Trovo difficile considerare questo genere di cose come seria letteratura, eppure l’istinto artistico in me è così inestirpabile che il Vecchio Adamo fa capolino abbastanza spesso da rimuovere queste storie dalla categoria dei jeux d’esprit.

 

Nel senso proprio di una verità radicalmente umana che lui intende testimoniare (o almeno così dichiara, ma in questo caso è credibile, anche per il tipo di obiettivi polemici). Certo, c’è un abisso tra il piccolo prete di parrocchia, sorridente e un po’ trasandato, “che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l’esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull’introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l’angustia e la meschinità” (ancora Gramsci) e il vecchio viveur che può affettare esperienze ascetiche ma alternandole alle abboffate di foie gras e alle degustazioni di vini pregiati in club esclusivi. Ma entrambi rappresentano la critica a un certo modello di eroe raziocinante, e in fondo di mondo ideale, a partire da un approccio antropologico e psicologico e da un’ironia costante.

Si può faticare a star dietro ai fuochi d’artificio – talvolta un po’ forzati – dei paradossi di Iff. E tuttavia il brio e l’intelligenza, le divertite sorprese e gli arzigogoli di questi racconti mantengono una vivacità intatta e rappresentano godibilissimi documenti non solo per una storia dell’esoterismo ma per quella di un genere poliziesco che col fantastico flirta in fondo fin dalle prime origini, riuscendo al contempo a evocare effervescenti siparietti d’epoca.

Come Padre Brown, Iff notomizza i rovelli interiori, difende innocenti accusati e smaschera criminali e ipocriti, sia pure con interesse ben diverso dalla salus animarum cui mira l’eroe di Chesterton. Così alla Innocence of Father Brown (1911, come espresso nel titolo della prima raccolta sul prete-investigatore, seguita da altre 1914, 1926, 1927, 1935) ecco affiancarsi/contrapporsi la “semplicità” di Iff; al riferimento del primo alla fede cattolica, fa riscontro nel secondo quello al Thelema. Per esempio “L’universo è un fenomeno di amore sotto la volontà”; o anche, emblematicamente, “Come mi ha sentito dire circa un milione di volte, Jack, ‘Fai ciò che vuoi sarà tutta la Legge’”.

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Nikola degli estremi (Victoriana 43) https://www.carmillaonline.com/2023/10/13/nikola-degli-estremi-victoriana-43/ Fri, 13 Oct 2023 20:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79501 di Franco Pezzini

Guy Boothby, Il Dottor Nikola. Romanzo d’avventura fantastica, ed. orig. 1896, trad. di Marina Pirulli, prefaz. di Marco Steiner, con otto illustrazioni di Nora, pp. 312, Cliquot, Roma 2021.

Per un orizzonte geografico sconfinato – potremmo dire a tutto tondo planetario – come quello dell’impero vittoriano, il concetto di bordo, limite o confine presenta qualcosa di paradossale: non è strano che tanto spesso l’avventura e il fantastico (come del resto tradizionalmente in precedenza, con i mostri sui bordi di un cosmo come summa e armonia) passino proprio per tale paradosso.

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di Franco Pezzini

Guy Boothby, Il Dottor Nikola. Romanzo d’avventura fantastica, ed. orig. 1896, trad. di Marina Pirulli, prefaz. di Marco Steiner, con otto illustrazioni di Nora, pp. 312, Cliquot, Roma 2021.

Per un orizzonte geografico sconfinato – potremmo dire a tutto tondo planetario – come quello dell’impero vittoriano, il concetto di bordo, limite o confine presenta qualcosa di paradossale: non è strano che tanto spesso l’avventura e il fantastico (come del resto tradizionalmente in precedenza, con i mostri sui bordi di un cosmo come summa e armonia) passino proprio per tale paradosso.

È il caso della wilderness australiana dove si conclude A Strange Story di Edward Bulwer-Lytton, 1861-1862 (che tratterò in uno dei prossimi Victoriana) e si consuma Picnic at Hanging Rock di Peter Weir, 1975 (sulla sopravvivenza di un perturbante passato pronto a inghiottire il Nuovo Mondo, una terra ancora vergine per la pericolosa iniziazione delle vergini inglesi). È il caso dell’Oriente centroasiatico del cosiddetto Grande gioco (termine coniato nel 1829 da Arthur Conolly, ma popolarizzato col Kim di Rudyard Kipling, 1900-1901), delle fantasie teosofiche di Madame Blavatsky (1831-1891) e di quelle mistico-pittoriche di Nikolaj Rerich (1874-1947), ma poi ancora celebrato da Ferdynand Ossendowski nel febbricitante Beasts, Men and Gods, 1921, e trasfigurato in certi luoghi fantastici lovecraftiani (come l’onirico altipiano di Leng). È il caso di Cina, Indocina e Giappone, con le loro suggestioni di esotismo e crudeltà fantasiose (dai romanzi di Salgari a Le Jardin des supplices di Octave Mirbeau, 1899 e ovviamente al terribile cinese Fu Manchu) o molto realistiche, si pensi solo alla rivolta dei Boxer in Cina, 1899-1901, e alla ferocia con cui le potenze occidentali – Italia compresa – la soffocarono. Film come 55 giorni a Pechino, 1963, diretto da Nicholas Ray, Andrew Marton e Guy Green ne offrono una lettura educatamente edulcorata.

E su queste vie del Far Far East un autore nato proprio in Australia da una famiglia importante, Guy Boothby (1867-1905), articola in un romanzo da poco riproposto in Italia un’avventura godibilissima fortemente impregnata di fantastico. Partito col narrare storie di vita locale, Boothby – attivo prima nell’amministrazione coloniale e poi datosi avventurosamente a vagabondaggi tra sud-est asiatico e Oceania, praticando le attività più varie – passa  ad articolare un’imponente produzione di genere, 53 romanzi e dozzine di racconti e opere teatrali. Nelle sue storie avventurosissime spiccano elementi fantastici, fantascientifici, gotici (notevole il suo Pharos, the Egyptian, 1899, epopea di mummie e maledizioni nilotiche), ma anche polizieschi e sentimentali. E un ruolo particolare in questo grande bacino va riconosciuto alla saga del Dottor Nikola, cinque romanzi tra il 1895 e il 1901: la storia di un geniale, affascinante avventuriero occidentale a capo di un’intera organizzazione, insieme eroe e vilain, scienziato e occultista, che salda idealmente Holmes (dal 1887) e Moriarty (dal 1893) con un quid di Rocambole (dal 1857), e prefigura gli exploit di Fantômas (dal 1911) e Fu Manchu (dal 1912).

Per quanto pubblicate in Italia a inizio novecento, le avventure di Nikola sono state dimenticate per lungo tempo: la casa Cliquot – come sempre con operazioni editoriali molto eleganti anche sul piano del formato – offre ora il secondo romanzo sul personaggio, Il Dottor Nikola (Doctor Nikola, apparso anche come Dr Nikola Returns, 1896), una storia godibilissima di avventura esotica dove il narrante Wilfred Bruce, un inglese che dopo mille avventure si trova spiantato in Cina, accetta un’offerta che lo renderebbe ricco. Lavorerà con l’incredibile Nikola che lo strega fin dai primissimi incontri: assieme rischieranno la vita di continuo, attraverso il Celeste Impero e poi tra le montagne del Tibet, per strappare a una favolosa organizzazione segreta – monaci detentori di arcanissimi segreti – quei misteri a beneficio di Nikola ma anche dell’umanità.

Il ritmo scatenato (agguati inattesi, fughe precipitose, mascheramenti continui) e il tono lieve rendono la lettura estremamente piacevole, e l’insieme riesce ancora a “prendere” chi decida di accostarvisi. Anche di fronte alla morte, Nikola riesce sempre a cavare una soluzione dal cappello, ma ciò non banalizza l’insieme: e le descrizioni sono di grande fascino. In particolare l’avventura nel monastero labirintico su montagne che sembrano uscite dal dipinti di Rerich – e potrebbero aver ispirato Il mandala di Sherlock Holmes di Jamyang Norbu (Instar Libri, 2001) –, dove i Nostri dovranno giocare la partita finale, fa ben comprendere come questo autore abbia conosciuto tanto apprezzamento di pubblico, venendo letto con gusto dallo stesso Orwell. Ovvio trovare in queste pagine luoghi comuni d’epoca e connotazioni che flirtano col razzismo (in particolare sui cinesi: rinvio allo studio di Fabio Giovannini, Musi gialli. Cinesi, giapponesi, coreani, vietnamiti e cambogiani: i nuovi mostri del nostro immaginario, Stampa Alternativa, 2011, che su questo filone di miti e pregiudizi articola un’interessante indagine), ma senza insistenze spiacevoli: si tratta ovviamente di ascrivere a un contesto d’epoca un romanzo popolare d’avventure con forti polarizzazioni. Dove il ruolo stesso di un carismatico conquistatore come Nikola mantiene un’affascinante ambiguità. La Cina, almeno al tempo, non è così vicina.

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Dion Fortune e il furbetto vampiro (Victoriana 42) https://www.carmillaonline.com/2023/09/16/dion-fortune-e-il-furbetto-vampiro-victoriana-42/ Sat, 16 Sep 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78874 di Franco Pezzini

Glastonbury, agosto. Sotto un cielo grigetto – ma oggi non è prevista pioggia – ci regaliamo la passeggiata sul Tor, la collina sacra sopra la capitale magica dell’Inghilterra, dalla cui vetta si gode più prosaicamente una vista meravigliosa su tre contee diverse. La salita è agevole, col sentiero a gradini; per i cultori che abbiano tempo e voglia, c’è anche la possibilità di salire a spirale tramite i resti degli antichi sette terrazzamenti (di origine non chiara) che renderebbero il Tor una sorta di labirinto tridimensionale, qualunque valore uno intenda [...]]]> di Franco Pezzini

Glastonbury, agosto. Sotto un cielo grigetto – ma oggi non è prevista pioggia – ci regaliamo la passeggiata sul Tor, la collina sacra sopra la capitale magica dell’Inghilterra, dalla cui vetta si gode più prosaicamente una vista meravigliosa su tre contee diverse. La salita è agevole, col sentiero a gradini; per i cultori che abbiano tempo e voglia, c’è anche la possibilità di salire a spirale tramite i resti degli antichi sette terrazzamenti (di origine non chiara) che renderebbero il Tor una sorta di labirinto tridimensionale, qualunque valore uno intenda dargli.

Come noi sono altri a salire, famiglie, coppie anziane, giovanissimi: e dopo un’adeguata contemplazione – e una piccola sosta nell’antica torre campanaria sopravvissuta a una chiesa crollata sulla vetta – abbiamo preso ormai la discesa quando alle nostre spalle inizia a sollevarsi un canto. Non ci stupiamo, un’altra volta nella torre avevamo trovato un gruppo che celebrava riti entusiasti con campane tibetane: tutto normale, questa è Glastonbury. Con la High Street punteggiata di negozi di tuniche e corone per cerimonie wicca, statuette etniche, minerali e aromi per rituali, librerie dell’arcano, esposizioni di arte esoterica – il tutto in un mix delizioso tra il sapienziale e il kitsch, tra pellegrinaggio dell’inquietudine spirituale e consumismo della mistica, e allora non vuoi stare al gioco?; con le vie battute da tutti i possibili pellegrini dell’Altrove, sacerdotesse della Dea con corone di fiori, famiglie in vacanza con bambini piccoli, fricchettoni estinti in tutto il resto del globo dai lontani anni Settanta; con i suoi luoghi sacri alle spiritualità più varie (nel 2012 in un villaggio tanto piccolo erano rappresentate una settantina di fedi, per parlar solo di quelle organizzate). Dal sincretismo imperante in cappelle e segnacoli per tutte le fedi nello splendido giardino del Chalice Well (vi passeremo al ritorno) alle due fonti lì accanto, Bianca e Rossa, quest’ultima dal sapore acceso di sangue per la quantità di ferro nell’acqua; dai resti meravigliosi – con tanto di tomba vuota di Artù – della grande abbazia vittima della brutale Dissolution of the Monasteries sotto Enrico VIII, al sacro biancospino di Giuseppe d’Arimatea (sulla collina è stato vandalizzato, c’è ancora un alberello vicino all’Abbey)… a tutto il resto.

Compreso, ai piedi del Tor, il frutteto dove Dion Fortune, occultista e scrittrice, stabilì nel 1924 una sede di vita e di studio (il famoso Chalice Orchard) col suo gruppo di confratelli. Vi passiamo davanti, e nella borsa, come lettura di viaggio, ho proprio un romanzo dell’autrice: per la precisione il suo secondo testo di fiction, il thriller occulto The Demon Lover, del 1927 –  in Italia Il demone amante (pp. 304, Roma 2011) per i tipi delle edizioni Venexia che stanno portando avanti un interessante recupero dell’opera di Fortune. Le librerie di Glastonbury sono piene di opere di lei e su di lei.

Nei fatti, il suo primo romanzo, perché l’hanno preceduto dei racconti, The Secrets of Dr. Taverner, editi nel 1922 e raccolti in volume nel 1926. Storie sui casi di un dottore dell’occulto come quelli di moda all’epoca, ma ispirato al mentore che l’ha salvata da una terribile crisi, il dottor Moriarty; e dove comunque l’autrice si è ormai resa conto di poter veicolare le proprie idee in forma narrativa, che prende dunque ad alternare alla produzione di saggi. Non parliamo di esiti di vertiginoso valore letterario, ma di una produzione comunque di onesto livello, godibile alla lettura e di notevole interesse antropologico (nonché magico, per i cultori).

Di Dion Fortune, all’anagrafe Violet Mary Firth (1890-1946), celta gallese, psicanalista e poi occultista, capace attraverso un percorso abbastanza libero di conciliare scuole diverse nell’esaltazione del principio femminile, si è già parlato in altra sede; ha senso qui soffermarsi su questo singolarissimo romanzo. Scritto già nel periodo di Glastonbury ma qui non ambientato (l’autrice dedicherà alla cittadina e ai suoi miti un delizioso Avalon of the Heart, 1934 – in Italia, Avalon. La via segreta al sogno arturiano, Tre Editori, 2004), Il demone amante già presenta il motivo-chiave poi di tutta la sua produzione: la storia di una giovane protagonista che riesce a salvare un uomo – in genere quello amato – da se stesso o comunque gli permette un’autorealizzazione prima impensata, attraverso una crescita spirituale anche propria. In questo senso il romanzo (attenzione, seguiranno spoiler) funge da battistrada per un’intera produzione dipanata negli anni.

La storia presenta Veronica Mainwaring, una ragazza in apparenza molto disarmata e fragile, che viene assunta come segretaria dal fascinoso ed equivoco Justin Lucas adepto ribelle di un ordine magico. Senza che i due sappiano di essere già profondamente legati da vite precedenti in cui lei aveva scelto la Luce e lui l’oscurità: la verità emerge via via, con sconcerto di lui e l’emergere – ça va sans dire – di sentimenti inattesi. Veronica lo vede ora giustiziato per tradimento dagli alti gradi della loggia (Justin ha usato l’inconsapevole segretaria per spedirla in astrale a spiare segreti dell’Ordine, ma, quando i confratelli vogliono colpirla, lui si assume ogni responsabilità) solo per trovarsi avvicinata dal suo ingombrante ritorno come vampiro: e occorrerà l’intervento di alcuni superiori buoni e illuminati per imprimere alla vicenda una svolta positiva inattesa quanto improbabile. Alla base del tutto, dunque, una storia d’amore – come poi in genere i romanzi successivi – e anzi romantica (l’amato maledetto, eccetera) che però si sviluppa nel quadro più complesso di un magistero magico: denso di informazioni, ma a portata di lettori comuni – quindi di valore “formativo” – visto che al di là di singole allusioni un po’ tra le righe nessuna eccessiva oscurità esoterica ammanta il tutto. Una serie di scene gotiche di felice inventiva rende godibile l’insieme.

Merita notare che questo primo romanzo di Fortune costituisce un efficace trait d’union tra l’immaginario dell’occulto vittoriano e la successiva produzione dell’autrice. Anzitutto troviamo un vampiro che strappa una citazione di Dracula, sia pure in un’originalissima interpretazione occulta del vampirismo quale semi-vita in trance: non dimentichiamo d’altra parte che Nosferatu è del 1922, solo cinque anni prima. Ma anche l’assetto di un gruppo magico con tre figure principali ricorda non poco la triade –  William Robert Woodman, William Wynn Westcott e Samuel Liddell MacGregor Mathers – al vertice della vittorianissima Golden Dawn (è forse Mathers – mai conosciuto personalmente da Fortune, che però avrà un pessimo rapporto con la sua vedova – il livoroso Fordice del romanzo?). Resta il fatto che alla Golden Dawn sicuramente si ispiri il gruppo descritto, al di là del suo carattere fantasioso (nella prefazione all’edizione Weiser del romanzo, 2010, Diana L. Paxson mostra di dubitare qualunque riferimento a vicende reali).

Per tanti versi Dion Fortune è un personaggio che ispira simpatia. Per contro troviamo documentate in The Demon Lover posizioni bislacche francamente spiacevoli, come la convinzione che in fondo gli inquisitori non avessero tutti i torti nel perseguire col rogo i maghi neri: un’idea che in chiave saggistica troveremo sostenuta dall’arcigno Montague Summers (1880-1948), preteso reverendo grande cultore di materie livide in quella stessa Inghilterra. Ma ambiguità ristagnano nella stessa dinamica relazionale sottostante la vicenda, e non basta allegare il diverso rapporto tra i sessi di un’altra epoca. Certo, Justin si salverà pentendosi delle proprie malefatte e anzi scontandole in modo drammatico: come ben sintetizza la citata Paxson, “This is a drama of reincarnation and destiny transcending conventional concepts of Justice”. Le posizioni nella coppia si sono di fatto capovolte: alla fine quello fragile è lui, mentre Veronica recupera un ruolo di potente iniziata. Ma la sensazione del lettore è che il pentimento riguardi anzitutto le scelte metafisiche di Justin, le sue frequentazioni dell’Ombra e la turpe predazione da vampiro di vite umane (in particolare di bambini): resta la normalità di un suo plagio pesante ai danni di Veronica, su cui non emerge mai una critica puntuale, e attutita solo parzialmente dalla storia del loro profondo legame pregresso. Se lui non si macchiasse di colpe ben più gravi finendo bloccato, continuerebbe a manipolare: anche perché a un certo punto si aprono le cataratte delle “giustificazioni”.

Non sappiamo se Dion Fortune abbia mai vissuto personalmente l’attrazione per il modello “cattivo soggetto”: si può comprendere che Justin risulti più fascinoso del mamozzo senza fantasia che a un certo punto corteggia Veronica per finire malissimo (senza grossi turbamenti – va detto – né di lei né dei lettori); ma l’autrice resta fin troppo benevola nei confronti di Justin, che invece il lettore avverte come un furbetto piuttosto ripugnante. In sostanza il modello del belloccio manipolatore – perché poverino, con le sue drammatiche esperienze… e poi comunque è coraggioso… –, al netto di un finale “redentivo” lascia in fondo intoccati i più beceri modelli sessisti: lui usa Veronica spregiudicatamente, gioca al bello & maledetto, si compiace di sé. Leggere il romanzo in questa Italia, dopo un’estate di violenze e femminicidi perpetrati da ometti lamentosi e autocompiaciuti, lascia un gusto amaro che l’autrice non aveva certamente previsto e su cui forse, acquisendo via via maturità narrativa, avrebbe speso qualche riflessione in più. Va detto che Il demone amante, divertente e originale, è anche più veloce e scorrevole – per esempio – del più ampio, ponderato e complesso The Goat-Foot God, 1936 (Il dio dal piede caprino, Venexia, 2001), che dell’autrice dice parecchio di più, in modo abbastanza esplicito, o dell’anche migliore The Sea Priestess, 1938 (La sacerdotessa del mare, Venexia, 2002).

In genere il primo testo di fiction di un autore sedimenta riflessioni e sogni covati anni, nonché molto di una storia personale: si sarebbe dunque tentati di riconoscere almeno qualche aspetto del seduttore Justin in persone incontrate dall’autrice – per esempio il bruno medico Thomas Penry Evans da lei sposato proprio nel 1927 e coinvolto come partner nei rituali. Del tutto implausibile, Evans è un gentiluomo, anche se una decina di anni dopo i due finiranno col separarsi (divorziando solo nel 1945, sei mesi prima della morte di lei). Le dinamiche in scena rendono insomma difficile pensare a un nesso biografico, e l’opera si avvicina piuttosto al mondo dei casi di Taverner. A leggere Il demone amante si ha semmai la sensazione di un gioco su modelli letterari, l’amante maledetto di matrice romantica eccetera, riletti in chiave tecnico-occultista per avvicinare a un più generale magistero magico. E insieme a una grande riflessione, di cui l’autrice sente l’urgenza nel mondo moderno, sul salvare le potenzialità dei rapporti di coppia in una rafforzata percezione della dignità della donna. Che non passa attraverso un’impostazione femminista in senso proprio (pur preludendo di fatto a un successivo femminismo neopagano, Dion Fortune ha vedute di tipo conservatore all’inglese) ma per le vie sottili di una riscoperta interiore nel segno del magico.

Al netto insomma di ogni lontananza ideologica, legittimo guardarla con simpatia, ma – per favore – togliamoci i Justin Lucas dai piedi.

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