Nanni Balestrini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:26:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 5 https://www.carmillaonline.com/2023/08/27/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-5/ Sun, 27 Aug 2023 20:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77123 di Emilio Quadrelli

It’s Only Rock ‘n’ Roll

Se osserviamo ciò che accade tra la fine degli anni cinquanta e primi sessanta diventa abbastanza facile notare come la società italiana sia di fronte a una trasformazione socio–economica quanto mai radicale che inizia a lasciarsi alle spalle tutto ciò che, in qualche modo, può considerarsi come eredità della guerra e di ciò che l’ha preceduta. Una rottura non tanto politica, nel senso che le retoriche che avevano fatto da sfondo all’insieme di quella vicenda continuano a essere saldamente in sella, ma nella [...]]]> di Emilio Quadrelli

It’s Only Rock ‘n’ Roll

Se osserviamo ciò che accade tra la fine degli anni cinquanta e primi sessanta diventa abbastanza facile notare come la società italiana sia di fronte a una trasformazione socio–economica quanto mai radicale che inizia a lasciarsi alle spalle tutto ciò che, in qualche modo, può considerarsi come eredità della guerra e di ciò che l’ha preceduta. Una rottura non tanto politica, nel senso che le retoriche che avevano fatto da sfondo all’insieme di quella vicenda continuano a essere saldamente in sella, ma nella materialità della formazione economica e sociale. Sono gli anni in cui il modello fordista inizia a farsi egemone anche in Italia, con tutto ciò che questo comporta, in primis il radicale mutamento della composizione di classe. Sono anni in cui la vecchia classe operaia professionale e autoctona viene scalzata da una nuova figura: l’operaio dequalificato della catena, un operaio che non ha alle spalle alcuna tradizione industriale e sovente neppure cittadina poiché viene reclutato o dalle campagne e in maggioranza dal sud Italia. In seconda battuta un’altra figura operaia nuova entra massicciamente nella produzione: la donna proletaria. In maniera abbastanza repentina l’intera, o gran parte, della composizione di classe conosce una configurazione ex novo.

Si tratta di una classe operaia senza o quasi memoria che in non pochi casi si troverà in conflitto, ancora prima che con i padroni, con la vecchia composizione di classe e che, per altro verso, è del tutto estranea a quella “ideologia della sconfitta” propria della vecchia classe operaia che la restaurazione capitalista ha annichilito. Il nord industriale inizia a popolarsi di terroni e/o campagnoli del tutto estranei ai tempi, ai ritmi e agli stili di vita della città–fabbrica che la maggior parte di loro tende a percepire né più e né meno come una prigione1. Una classe operaia depoliticizzata e non sindacalizzata nei confronti della quale il padrone sembra in grado di esercitare un dominio non dissimile da quello che il fattore è in grado di nutrire nei confronti del proprio bestiame. E come bestie i nuovi operai sono trattati e considerati. Sono anni in cui il padrone libera facilmente la fabbrica della vecchia guardia comunista e riesce a confinare l’organizzazione sindacale entro numeri testimoniali2. Perché il boom economico possa continuare a crescere occorre una classe operaia totalmente succube e pronta a reggere, senza fiatare, i necessari ritmi produttivi.

Il mutamento della base produttiva si porta appresso, per altro verso, anche una trasformazione complessiva della società. Sono gli anni in cui si impone il mito americano che avrà però due volti: da una parte sicuramente il tratto reazionario e perbenista del sogno americano, del quale le immagini della famiglia americana, bianca, razzista, patriottica, patriarcale e sessista, rappresenta la sintesi per antonomasia, dall’altra, però, si porta appresso anche tutta l’inquietudine, l’insofferenza, la rabbia e il nichilismo di cui l’altra America è gravida3.

Questo mito si impossessa velocemente della gioventù operaia e impone una drastica trasformazione degli stili di vita, delle culture subalterne e della socialità operaia; si traduce in una ricerca di libertà e di rottura verso tutti i modelli normativi: Bluson noir e Teddy boys diventano immaginari che catturano velocemente la gioventù operaia, gioventù che inizia a essere sempre più fuori controllo in quanto equamente distante e avversa sia alle retoriche della società ufficiale perbenista e clericale, sia al mito soviettista tutto incentrato su un sol dell’avvenire del quale non si intravedono mai i contorni. Ciò che esploderà nel ’68, lasciando attoniti pressoché tutti i mondi politici, ha i suoi prodromi proprio nel mutamento materiale che attraversa l’intera formazione economica e sociale. La borghesia non lo capirà, ma non lo comprenderà neppure il movimento operaio ufficiale il quale, già da tempo, aveva perso contatto con quanto andava ribollendo nella classe. Il cosiddetto boom economico e il consumismo di massa accelerano, se possibile, le contraddizioni della società capitalista. L’alienazione della merce è anche il gemito degli oppressi. Di fronte alla ricchezza e all’opulenza che la società mostra, la giovane classe operaia non vuole rimanerne esclusa. Più soldi, meno lavoro significa aumento del tempo libero, significa impossessarsi, qui e ora, di una quota di ricchezza.

La battaglia salariale, allora, diventa battaglia di potere, diventa battaglia contro la fabbrica–prigione, diventa una battaglia di libertà, diventa forma non più eludibile degli embrioni del potere operaio. Mentre il movimento operaio ufficiale e le varie anime della ortodossia comunista vedono in queste lotte solamente un economicismo privo di coscienza politica, l’autonomia operaia coglie il tratto immediatamente politico che, invece, si staglia in queste lotte. Più soldi e meno lavoro, rifiuto del lavoro, sabotaggio della produzione hanno ben poco di economicista, ma si mostrano immediatamente come scontro di potere, come terreno tutto politico, ciò che per il movimento operaio ufficiale e i suoi critici ortodossi è sintomo di arretratezza e mancanza di coscienza politica per l’autonomia operaia il giudizio è esattamente l’opposto: quei comportamenti, quella disaffezione al lavoro e alla disciplina di fabbrica, quel percepire la gabbia produttiva al pari della prigione, quel ribellarsi in modo non convenzionale ai tempi della fabbrica e ai ritmi della città–fabbrica, insomma quella soggettività, non incarnano l’arretratezza di una classe operaia priva di storia politica ma, al contrario, sintetizzano al meglio il più alto punto di vista politico operaio. Se la base strutturale di una società si è radicalmente trasformata, anche la cornice politica non può che esserne sovvertita, non si possono cercare nel presente le retoriche politiche del passato ma occorre cogliere, attraverso una puntigliosa inchiesta, la dimensione politica messa in campo da una nuova soggettività.

Ciò che spontaneamente interi comparti di classe pongono, attraverso la prassi, all’ordine del giorno è il negarsi come forza lavoro salariata ovvero l’abolizione della condizione proletaria la quale sintetizza al meglio lo stato di alienazione proprio del rapporto sociale capitalista. Ma in ciò non vi è forse per intero tutto Marx? Questa pratica non è forse molto più avanti e radicale di quanto andato in scena nel mitico biennio rosso con l’occupazione delle fabbriche e l’infelice obiettivo del controllo operaio? La nuova composizione di classe non sta forse facendo interamente sua la marxiana Critica al programma di Gotha4, che aveva velocemente posto tra parentesi tutta la retorica produttivista del movimento operaio ufficiale? La lotta operaia è immediatamente lotta per il potere, lotta contro il rapporto sociale capitalistico e quindi il padrone dovrà velocemente rendersi conto che con questa classe operaia non si può trattare ma sconfiggerla o esserne annientati.

Non c’è più tempo per l’attesa dell’avvenire e il sole deve iniziare a splendere sin da subito. Esattamente qui inizia a prendere forma quel “Vogliamo tutto”5, non poi così distante da quel Vogliamo il mondo e lo vogliamo ora urlato dai Doors6, che scandalizzerà padroni, partiti e sindacati. Tutto ciò, però, andava compreso e concettualizzato. Doveva esistere un ordine discorsivo che imponesse politicamente le lotte operaie e la loro centralità al centro del dibattito. Doveva esistere una teoria politica in grado di non imprigionare le lotte dentro la rivolta ma indirizzarle verso la rivoluzione.

È una rivolta o una rivoluzione? Questa la domanda che le classi dominanti si pongono ogni qual volta un’insorgenza di massa bussa alle loro porte. Ci dobbiamo attendere una serie di jacquerie o qualcosa di più? La storia delle classi subalterne è una serie infinita di jacquerie che per farsi spettro rivoluzionario, insieme ai fucili, devono avere, come ben aveva compreso Schmitt a proposito di Lenin, una solida arma teorica7.

La teoria rivoluzionaria non è un insieme di salmi, come pensano gli ortodossi, ma la permanente rielaborazione eretica di un’ipotesi politica in grado di leggere i comportamenti e le tendenze delle masse. La teoria non si inventa nulla ma raccoglie e sintetizza quanto posto all’ordine del giorno, anche solo come tendenza, dalla lotta di massa. Senza di ciò la teoria rivoluzionaria è solo il balocco di intellettuali più o meno spensierati.

Agli inizi degli anni sessanta la tendenza di quote sempre più ampie di classe operaia si fa quanto mai evidente ed è lì che, nel bene e nel male, prende forma una teoria politica che si farà egemone per circa un ventennio. Tutto parte sicuramente dalle masse e dalle loro lotte, sono le masse che producono la frattura di piazza Statuto, solo per ricordare il fatto di maggior spessore dell’epoca, ma se queste pratiche non avessero trovato un cuore politico–intellettuale ben difficilmente sarebbero state in grado di far sì che l’idra della rivoluzione diventasse la costante degli anni sessanta e settanta di questo paese. In tale ottica, allora, non bisogna compiere, seppur di segno opposto, l’errore che in molti fanno oggi quando circoscrivono a questa o quella rivista, a questo o quel testo, a tal intellettuale piuttosto che a un altro, le vicende dell’autonomia operaia. Se è vero che non sono state le riviste a fare l’autonomia operaia, dobbiamo anche chiederci cosa sarebbe stata questa senza il loro contributo teorico e analitico e come si sarebbe sviluppata senza il contributo di tutta una quota di militanti che assunsero le lotte operaie come centro della propria esistenza.

Tutti concordano sul fatto che la centralità operaia sia stata l’elemento politico egemone nel corso degli anni sessanta e settanta. Questa egemonia non è nata dal cielo e non è neppure il frutto spontaneo delle lotte. Perché un ordine discorsivo diventi egemone e dominante occorre che una produzione teorica lo ponga al centro dell’attenzione, che un ceto politico lavori costantemente alla sua messa in forma e che imponga la centralità operaia come il discorso intorno al quale si focalizza tutto il dibattito politico. Occorre, cioè, che quanto la prassi della classe sta ponendo all’ordine del giorno trovi una sistematizzazione teorica, politica e non solo, bisogna che la forza di questo discorso sia tale da divenire il discorso intorno al quale tutto il resto finisce in secondo piano.

Questo, a conti fatti, il grande merito che va riconosciuto a quella pattuglia di intellettuali che hanno fatto sì che le lotte operaie e la soggettività della classe divenisse l’elemento centrale dell’agenda politica del paese. In questo senso, allora, senza estremizzare il discorso dobbiamo ricondurre la relazione ceto politico–intellettuale/classe operaia all’interno della obbligata e necessaria dialettica prassi–teoria. Se, obiettivamente, oggi ci troviamo di fronte a una narrazione tossica della storia dell’autonomia operaia, più che abiurare il ruolo svolto da un ceto politico–intellettuale dobbiamo prendere le distanze da quelle pletore di epigoni che sono i veri e propri artefici di una mistificazione storica. Con tale asserzione si spera di aver chiarito ulteriormente il senso di questo lavoro il quale, sin da subito, ha cercato di non farsi imbrigliare in logiche da stadio. Ciò che segue prova a rafforzare quanto appena asserito mostrando come solo dentro la dialettica prassi–teoria la potenza spontanea del potere operaio possa farsi programma comunista. Torniamo quindi alla classe, alla sua soggettività e a ciò che intorno a questo si struttura come discorso teorico–politico.

Di quanto irto di ostacoli fosse il piano del capitale e quanto non così malleabile si presentasse il nuovo soggetto operaio, la piazza Statuto del ’62 ne forniva una più che eloquente esemplificazione anche se avvisaglie non secondarie di che cosa ribollisse entro la classe si erano viste, e in maniera non proprio irrilevante, nel giugno genovese del ’60 e nei moti nazionali che da qui avevano preso il la. Genova ’60 e Torino ’62 rappresentano sicuramente due pietre miliari della storia di ciò che è stato l’altro movimento operaio, due momenti che, però, non vanno confusi e che, non per caso, daranno vita a narrazioni e recezioni diverse. Il giugno/luglio genovese sono entrati di diritto nella storia italiana anche se, con un qualche grano di verità, erano ancora dentro a quell’insieme di retoriche che avevano fatto da sfondo alla Resistenza. Quegli eventi, pur con ovvie sfumature diverse, sono diventati un patrimonio di tutto il fronte antifascista. Genova rappresenta, al contempo, il tramonto della vecchia composizione di classe e l’alba di quella nuova dove, però, sarà il vecchio ad assumerne la narrazione centrale. Genova è l’antifascismo militante e radicale sullo sfondo del quale si staglia il mitologema della Resistenza tradita, per farla breve Secchia contro Togliatti8. Una narrazione che si protrarrà fino ai primi anni settanta, che risulterà ben poco interessata alle trasformazioni della composizione di classe e che, nei confronti di questa, avrà un rapporto del tutto ideologico. La nuova composizione di classe, all’interno degli eventi genovesi, non solo fu presente ed ebbe un ruolo centrale, ma non riuscì, purtroppo a trovare un linguaggio politico proprio. A Genova ci fu sicuramente una voce autonoma ma non un linguaggio.

L’eredità di Genova rimase confinata dentro la retorica dell’antifascismo militante e radicale senza alcun accento, se non in maniera molto annacquata, all’anticapitalismo. Ancora oggi gli eredi del movimento operaio ufficiale si sentono in dovere di santificare quelle giornate cosa che, per altro verso, li accomuna alle aree più radicali le quali rimproverano ai primi non tanto di non essere anticapitalisti, ma degli antifascisti troppo morbidi. Dichiaratamente diverso lo scenario relativo a piazza Statuto, qui la posta in gioco è diametralmente opposta: a entrare in ballo è direttamente la lotta contro l’organizzazione capitalistica del lavoro, il ruolo dei sindacati e il comando di fabbrica, una critica che inevitabilmente non può che portare a uno scontro immediato con lo stato e il riformismo. Da lì prende forma qualcosa di più di una semplice suggestione. Difficile, infatti, non riscontrare che è proprio dentro la materialità dei fatti che piazza Statuto porta in grembo, prende le mosse quello: “Stato e padrone fate attenzione, nasce il partito dell’insurrezione!” che sino alla fine degli anni settanta ha dato vita, forma e sostanza alla anomalia italiana.

L’irrompere di queste lotte è un fatto non discutibile e l’autonomia degli operai qualcosa che non può essere posta minimamente in discussione. Ciò che viene da chiedersi è: queste lotte avrebbero avuto la medesima incidenza se non avessero trovato qualcosa di più di una semplice sponda all’interno di quel ceto politico fatto prevalentemente di intellettuali militanti che iniziò a rapportarsi e a assumere quelle lotte come cuore del politico? Senza un ordine discorsivo pregresso, incentrato sulla centralità operaia, la potenza di quelle lotte avrebbe potuto darsi con la stessa forza? Qui non si tratta di prostrarsi alla gerarchia intellettuali/operai ma di rilevare come in quel contesto un ceto politico e intellettuale sia stato in grado di rileggere il Che fare?, dentro ciò che la materialità dello scontro imponeva, di più. Per molti versi si può anche sostenere che agli inizi degli anni sessanta assistiamo a un insieme di operazioni le quali, con tutte le tare del caso, hanno non poco in comune con Lo sviluppo del capitalismo in Russia9, lavoro attraverso il quale Lenin saluta il mondo di ieri e traghetta l’avanguardia operaia e comunista dentro la contemporaneità. Una esagerazione? Non proprio.

Oggi tutti concordano nell’indicare gli anni sessanta come un momento di cambiamento radicale della struttura economica, sociale e culturale del sistema–Italia. In poche parole ciò che si profila è una vera e propria frattura storica tanto che, senza alcuna forzatura, è sensato asserire che nulla sarà più come prima. Questa rottura, per il movimento operaio, le classi subalterne e il movimento comunista implica una cesura con l’insieme dei modelli teorici, politici e organizzativi che l’hanno preceduto. Esattamente lì, anche in Italia, muore di morte naturale tutto ciò che in qualche modo è riconducibile al terzo internazionalismo. Non vi sarà, nonostante i numerosi tentativi, alcuna restaurazione del marxismo ortodosso, alcun ritorno alle origini della Terza internazionale, ma una continua innovazione teorica, politica e organizzativa figlia di quanto le trasformazioni materiali stavano imponendo. Nulla, però, si dà come prodotto spontaneo, dove spontaneo significa semplice trasformazione evoluzionista. Certo le rotture sono frutto di processi materiali, sono sicuramente oggettive ma devono essere comprese, concettualizzate e appropriarsi di un linguaggio. In questo senso, allora, il raffronto con Lo sviluppo del capitalismo in Russia diventa meno illogico e forzato di quanto in prima battuta potesse apparire.

Lenin, di fronte alle trasformazioni che hanno investito alla radice la Russia concentra l’attenzione su come queste abbiano modificato le classi, come tutto un mondo se ne stia andando e coglie la tendenza che non potrà che farsi egemone. La Russia ha intrapreso la via dello sviluppo capitalistico questo sta sovvertendo tutti gli ambiti sociali, la formazione della classe operaia industriale insieme alla proletarizzazione delle masse contadine sono il qui e ora della Russia. Dalle lotte, dalle tensioni, dalla soggettività di queste nuove figure dipende il destino della rivoluzione in Russia.

Vi è molto di sociologico nell’operazione compiuta da Lenin, un sociologico che può vantare, all’interno della teoria marxiana, alcuni non secondari pregressi: sicuramente il noto La situazione della classe operaia in Inghilterra10, ma anche le parti relative alla formazione della classe operaia presenti soprattutto nel libro primo de Il capitale. Di fronte alle trasformazioni che stanno segnando un’epoca, Lenin non si limita a cogliere il punto di vista oggettivo del capitale ma, una volta stabilite le coordinate materiali, focalizza lo sguardo e l’interesse sulla soggettività di classe. Sarà proprio questo a distinguerlo e a renderlo incompatibile con il marxismo legale. Mentre questo si limita a osservare e a scrivere la storia come movimento del capitale ignorando del tutto la soggettività delle masse, Lenin rovescia esattamente l’ordine del discorso. Ciò che va colto dentro la trasformazione, e oltre la trasformazione, sono i comportamenti delle masse, ciò che va compreso e posto all’ordine del giorno non è il solo tumultuoso sviluppo delle forze produttive, ma l’insieme delle contraddizioni che detto sviluppo comporta. Mentre il marxismo legale considera lo sviluppo delle forze produttive la sola cosa essenziale, Lenin sposta l’attenzione sulle forme che le lotte assumeranno dentro lo sviluppo delle forze produttive e su come queste non potranno che mandare in archivio la pur gloriosa storia del vecchio movimento rivoluzionario incarnato dalle varie anime del populismo. Le lotte, quindi, non lo sviluppo delle forze produttive, la storia della soggettività operaie e subalterna e non la storia oggettiva dello sviluppo capitalistico questo il cuore della teoria politica leniniana. Di tutto ciò, nella ricezione che si avrà di Lenin in occidente con la sola eccezione di qualche eretico, resterà ben poca traccia tanto che, tutto l’oggettivismo proprio della Seconda internazionale, cacciato dalla porta rientrerà dalle accoglienti finestre che il movimento operaio ufficiale non si farà remore a spalancargli. Con ciò il movimento operaio ufficiale prenderà sempre più sembianze simili al marxismo legale che al bolscevismo.

Paradigmatico, a tal proposito, sarà il modo in cui questo marxismo, sotto tutte le sue vesti, liquiderà in maniera tranchant, come osservato in precedenza, il populismo e il rapporto di Lenin e dei bolscevichi con questo mentre enfatizzerà sino all’inverosimile le vicende relative alla fase del marxismo legale. Ma ritorniamo a quanto stavamo dicendo. Abbiamo tirato a mezzo Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia e il Che fare?, perché agli inizi degli anni sessanta non pochi indicatori ci conducono lì. In prima battuta si tratta di rileggere o ancor meglio ritradurre il Che fare? all’interno del nuovo scenario. Si tratta di comprendere cosa sia il partito dell’insurrezione o, per altro verso e con più precisione, quale deve essere la forma e la relazione tra partito storico e partito formale. Il partito storico è la soggettività di classe, il partito formale è la forma politica all’interno della quale la soggettività si incarna. Questa relazione non può essere che il frutto di uno scenario storicamente determinato e non il frutto di singole volontà. Questo, e solo questo, è il determinismo leniniano e questo determinismo obbliga il partito formale a una costante mutazione. Non è certo un caso, quindi, che la questione dell’organizzazione animi costantemente le pagine del giornale “La classe” e lo fa non certo per un’ansia organizzativista, ma perché ciò che va sciolto, di fronte all’incalzare delle lotte, è la strutturazione del partito formale. Qui si tratta di ritradurre Lenin per intero, di comprendere complessivamente il punto di vista operaio e di fornirgli solide gambe sulle quali marciare. Detto ciò entriamo nel vivo della questione.

(5continua)


  1. Una delle migliori descrizioni di ciò rimane il lavoro di F. Alasia, D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del miracolo, Donzelli, Roma 2010.  

  2. Su questo il bel lavoro di A. Accornero, Fiat confino, Edizioni Avanti, Milano 1959.  

  3. Cfr. A. Portelli, Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America, Manifesto libri, Roma 1992.  

  4. K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 2021.  

  5. N. Balestrini, Vogliamo tutto!, Feltrinelli, Milano 1971.  

  6. Doors, When the music’s over (ottobre 1967- involontaria celebrazione di una rivoluzione di cinquant’anni prima).  

  7. C. Schmitt, Teoria del partigiano, cit.  

  8. Cfr. P. Secchia, La resistenza accusa 1945–1973, Mazzotta, Milano 1973.  

  9. V. I. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Editori Riuniti, Roma 1972.  

  10. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Feltrinelli, Milano 2021.  

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Tuta blu: la dura poetica del tornio https://www.carmillaonline.com/2022/11/08/tuta-blu-la-dolorosa-poetica-del-tornio/ Mon, 07 Nov 2022 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74660 di Luca Cangianti

Tommaso Di Ciaula, Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del sud, Alegre, 2022, pp. 208, € 16,00.

Il protagonista di Tuta blu intrattiene un legame di parentela sociologica con quello di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. Tuttavia il contesto storico dei due romanzi è completamente diverso: il primo fu pubblicato per la prima volta nel 1978, il secondo sette anni prima. In quel lasso di tempo la ristrutturazione tecnologica riesce a spezzare il contropotere nella fabbrica fordista, l’autunno caldo si riduce a un [...]]]> di Luca Cangianti

Tommaso Di Ciaula, Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del sud, Alegre, 2022, pp. 208, € 16,00.

Il protagonista di Tuta blu intrattiene un legame di parentela sociologica con quello di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. Tuttavia il contesto storico dei due romanzi è completamente diverso: il primo fu pubblicato per la prima volta nel 1978, il secondo sette anni prima. In quel lasso di tempo la ristrutturazione tecnologica riesce a spezzare il contropotere nella fabbrica fordista, l’autunno caldo si riduce a un ricordo lontano, la classe operaia «non fa paura più a nessuno, anzi fa ridere».

Tommaso Di Ciaula, scrittore, poeta e sceneggiatore, lavorò come operaio al Nuovo Pignone. Lo scorso anno è scomparso all’età di 79 anni. Il suo alter ego narrativo è un tornitore della Catena Sud, una fabbrica descritta con accenti gotici che ricordano il capitolo su “Macchine e grande industria” del Capitale: «quell’officina mostruosa, certi giorni sembra un drago perché manda fiamme e fumo, scintille dalle ruote di silicio impazzite». Tommaso la odia, la maledice; ha il terrore della sveglia; sente che gli operai, «più stupidi delle scimmie», sono ormai mere «cinghie di trasmissione» di un meccanismo estraneo, «idioti robot vicino alle macchine».
Si tratta di una sintomatologia dettagliata dell’alienazione operaia, dell’esproprio del sapere artigianale causato dal sistema della grande industria con la sussunzione reale del lavoro salariato. Tommaso racconta di un vecchio lavoratore, considerato rozzo perché in precedenza era stato contadino e pecoraio: lo vede costruire una grande cesta con dei rami intrecciati ed esclama: «altro che cozzalo e rozzo, quello era un dio!» E poi conclude: «Quando vedo cose artigianali di quel livello mi sento inutile perché non le so fare».

Il protagonista di Tuta blu è una sorta di Proust operaio. Ricorda un altro mondo possibile, un passato contadino perso per sempre: «Nei periodi di magra per vivere facevi qualche lavoro artigianale, conducevi una vita povera ma dignitosa, povera ma sana e libera. Quando a Mola di Bari c’era la festa del polipo andavi a Mola per mangiare il polipo. A Grumo Appula usavano, e forse usano ancora, dare ai poveri ceci arrostiti, vino, pane a volontà.» Adesso invece ogni svago ha un costo, le spiagge sono ridotte a letamai, le case sono «palazzacci brutti» e la «fabbrica si ingrandisce sempre di più, senza sosta.»
Il romanzo è strutturato come un flusso di coscienza. A volte prende la forma del diario di resistenza psicologica, altre quello del poemetto in prosa. Il linguaggio adotta la prosodia del parlato, spesso cruda, dolorante, rabbiosa, a volte sessualmente esplicita; alterna vocabolario tecnico (calibro, tornio, mandrino, filettatura, elettrodi) e dialettale, collocandosi a perfezione nella collana “Working class” che le edizioni Alegre hanno affidato alla direzione di Alberto Prunetti.

La coscienza di classe di Tommaso è tuttavia ben salda. Sa cosa bisognerebbe fare per contrastare l’alienazione e la fatica del lavoro salariato: «non dobbiamo delegare un cazzo» dice, perché i sindacalisti «nella stanza dei velluti» cedono sempre. Tommaso sa leggere tra le righe dei contratti e delle piattaforme sindacali: vuole sterilizzare gli effetti dell’inflazione con la scala mobile, poi passare a ridurre l’orario di lavoro e a espandere la parte sociale del salario mediante l’erogazione di servizi di qualità.
In Vogliamo tutto la rabbia operaia sfocia nella rivolta di Corso Traiano del 3 luglio 1969; nelle ultime righe di quel libro si alza in cielo un sole rosso che simboleggia la speranza di una lotta che continuerà. Anche il protagonista di Tuta blu partecipa a un imponente corteo di trecentomila lavoratori: «fa paura a vederlo, se si scatenasse farebbe tremare le strade e i palazzi, ma non si scatena mai, hanno dato a tutti un fischietto e noi fischiamo.» Alcuni manifestanti finiscono per disperdersi nei vicoli di Napoli alla ricerca di accendini, macchine fotografiche, film pornografici e prostitute.
I tempi sono cambiati, il mondo che ben conosciamo oggi è nato, e in questo romanzo di Di Ciaula non c’è spazio per la retorica. La sua lirica è quella del tornio che lancia in aria trucioli incandescenti. Impossibile per il lettore evitare il dolore delle ustioni.

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Pablo Echaurren, il movimento del ’77, gli indiani metropolitani e la “massificazione dell’avanguardia” https://www.carmillaonline.com/2016/10/11/pablo-echaurren-movimento-del-77-gli-indiani-metropolitani-la-massificazione-dellavanguardia/ Tue, 11 Oct 2016 21:30:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30706 di Gioacchino Toni

collettivo_rizoma_1977Raffaella Perna, Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2016, 112 pagine, € 22.50

Il saggio di Raffaella Perna su Pablo Echaurren si inserisce all’interno di un certo interesse critico che da qualche tempo indaga il rapporto tra arte e politica nell’Italia degli anni Settanta.

Sul finire del 1968 la rivista “Carta Bianca” presenta un numero intitolato “Contestazione estetica e pratica politica”, in cui viene indagato il rapporto tra i fenomeni di contestazione sociale e le nuove direttrici artistiche indirizzate a smaterializzare il feticcio-opera in favore di pratiche di comportamento tese a [...]]]> di Gioacchino Toni

collettivo_rizoma_1977Raffaella Perna, Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani, Postmedia Books, Milano, 2016, 112 pagine, € 22.50

Il saggio di Raffaella Perna su Pablo Echaurren si inserisce all’interno di un certo interesse critico che da qualche tempo indaga il rapporto tra arte e politica nell’Italia degli anni Settanta.

Sul finire del 1968 la rivista “Carta Bianca” presenta un numero intitolato “Contestazione estetica e pratica politica”, in cui viene indagato il rapporto tra i fenomeni di contestazione sociale e le nuove direttrici artistiche indirizzate a smaterializzare il feticcio-opera in favore di pratiche di comportamento tese a far coincidere spazio della rappresentazione e spazio del vissuto quotidiano.

Nel corso degli anni Settanta non solo si susseguono diverse esposizioni che riflettono sul rapporto tra produzione artistica ed impegno politico ma anche il ruolo della critica viene messo in discussione. Le prospettive entro cui viene affrontato il rapporto arte/politica nel corso del decennio indagato da Perna sono molteplici: «gli artisti si interrogano sulle relazioni tra linguaggio, potere e ideologia […]; pongono in luce la distorsione dell’informazione e gli effetti del condizionamento mediatico […]; denunciano le disparità di genere e abbracciano il pensiero e la pratica femminista […]; inventano nuovi modelli di socializzazione e riappropriazione dello spazio urbano […]; danno vita a collettivi e spazi autogestiti e anti-istituzionali […]; collaborano con gruppi politici, sino al rifiuto radicale del sistema dell’arte a favore della militanza» (p. 8).

Il saggio qui preso in esame si concentra non tanto sui fenomeni di politicizzazione che toccano il mondo dell’arte e della critica, quanto piuttosto sul «fenomeno di recupero e riuso delle strategie artistiche della prima e della seconda avanguardia da parte dei gruppi antagonisti legati al movimento del ’77» (p. 10). Raffaella Perna si concentra su quel processo di “massificazione dell’avanguardia” che vede il movimento appropriarsi di pratiche proprie delle avanguardie, come il détournement, il collage, l’happening al fine di sottrarsi dai, e contestare i, linguaggi dominanti.

«La sperimentazione artistica fuoriesce dal laboratorio ristretto dell’avanguardia per divenire patrimonio condiviso dalla massa di studenti, giovani lavoratori precari e proletari scolarizzati che compone il movimento. Questo libro intende riflettere su tale fenomeno, concentrandosi in particolare sulla vicenda artistica di Pablo Echaurren colta negli anni tra i 1970 e il 1977: verranno presi in esame i legami dell’artista con la sinistra antagonista e la sua attività militante, che si traducono in centinaia di immagini e illustrazioni – spesso presentati in forma anonima e collettiva – su quotidiani, riviste e volantini legati al movimento del ’77» (p. 10).

echaurren_perna_coverDopo una prima fase (1970-1976) contraddistinta da esposizioni in gallerie e musei, a partire dal 1977 Echaurren, convinto che l’arte debba essere un mezzo e non un fine, abbandona il circuito artistico preferendo mettere la sua creatività al servizio dei movimenti antagonisti. I primi rapporti tra l’artista e l’ambito politico del movimento si danno ben prima dell’abbandono del circuito artistico ufficiale; risalgono al 1973 le prime illustrazioni per “Lotta Continua” ed al 1976 le tante copertine realizzate soprattutto per l’editore Savelli.

Tra le tante esperienze editoriali che hanno voluto e saputo coniugare le istanze politiche rivoluzionarie con il rinnovamento dei linguaggi, Perna, tra le altre, cita: “A/traverso”, “Zut”, “Oask?!”, “Abat/jour”, “Wow”, “Viola”, L’occulto”, “Il complotto di Zurgo”. In particolare l’esperienza bolognese di “A/traverso” (dal 1975) può essere indicata come come modello di ispirazione poi ripreso da tante altre testate.

Il rinnovamento comunicativo proposto attraverso il collage, la commistione tra scritte a stampa ed a mano, i giochi di parole ecc., utilizzati da “A/traverso”, sembrano derivare dalla rielaborazione delle avanguardie e dalle neoavanguardie artistiche, dal Dada al Surrealismo, dall’Internazionale Situazionista al Gruppo 63. A differenza di quanto accadde per le avanguardie storiche di inizio Novecento, il linguaggio del movimento del ’77 proviene realmente “dal basso”, dall’interno della società, almeno di una sua parte, in fermento, e pertanto risulta comprensibile anche a chi non è necessariamente colto.

É in tale contesto di massificazione dell’avanguardia che Maurizio Calvesi, da una prospettiva storico-artistica, sviluppa il concetto di Avanguardia di massa (1978) avventurandosi nella messa in relazione dell’apertura del Centre George Pompidou a Parigi (esempio di nuovo consumismo culturale) e la comparsa degli indiani metropolitani (modalità di consumo da intendersi come distruzione permanente), come due aspetti complementari di massificazione della cultura.

Se il rapporto tra movimento ed avanguardie storiche è stato rilevato prontamente dalla critica (ad esempio da Umberto Eco), il legame con l’Internazionale Situazionista, sostiene Perna, non è stato colto immediatamente. «Anche l’idea del “superamento dell’arte”, concepito da Debord come il fine ultimo dell’esperienza delle avanguardie, viene riassorbito dall’ala creativa del movimento del ’77. In tale contesto si inquadra la storia di Pablo Echaurren: in questo momento, infatti, egli abbandona il sistema artistico ufficiale, rifiutando i concetti di originalità e i valori connessi all’autorialità a favore di una pratica artistica collettiva, che si fonde con e si discioglie nella militanza politica» (p. 33).

Pablo-Echaurren-Basta-con-i-padroni-con-questa-brutta-razza-1973A partire dal 1970 la poetica Echaurren, sicuramente influenzata dall’amicizia con Gianfranco Baruchello, è caratterizzata da opere “impaginate a quadratini” ove si alternano piccole immagini dal sapore fiabesco di stampo fumettistico. Alla particolare composizione di tali opere, che determina una fruizione frammentata e discontinua, si aggiungono titolazioni stranianti in quanto spesso non immediatamente riconducibili alle immagini.

Il 1973 segna l’inizio della collaborazione di Echaurren con la Galleria Schwarz di Milano ed a tale periodo risalgono anche i primi simboli politici inseriti nelle opere in maniera volutamente scanzonata. «Echaurren crea uno spazio frammentario, in cui le singole immagini assumono il ruolo di tasselli di un puzzle, combinandosi tra loro sena un ordine gerarchico. L’artista usa infatti un montaggio paratattico, creando un campionario di simboli politici in cui tutte le immagini hanno lo stesso peso specifico, senza che una prevalga sull’altra» (p. 40).

Anche le illustrazioni realizzate tra il 1973 ed il 1974 per il quotidiano “Lotta Continua” ripropongono la struttura a quadratini (in tale periodo il soggetto delle immagini tendono a riferirsi al contenuto dell’articolo) collocata il più delle volte in maniera orizzontale a fondo pagina. Rispetto alle opere che ancora realizza per musei e gallerie, sottolinea Perna, le immagini realizzate per il quotidiano risultano semplificate e più didascaliche.

L’impaginazione a quadratini torna pure nelle copertine realizzate, a partire dal 1976, per diversi editori. A tal proposito Perna cita, ad esempio, la copertina per il libro di Nanni Balestrini, La violenza illustrata (Einaudi, 1976). Nel corso dello stesso anno, Balestrini “ricambia il favore” scrivendo il testo per la personale di Echaurren alla Galleria Valsecchi di Milano.

Sempre nel 1976 inizia anche la collaborazione tra l’artista e l’editore Svelli per il quale realizza numerose copertine come, ad esempio, Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti, in cui si alternano simboli politici a particolari anatomici femminili. Nei riquadri della copertina compare anche la figura del “maiale alato” che, secondo Claudia Salaris, “ben sintetizza la condizione della sinistra giovanile di quel tempo, sospesa tra utopia e libido”. Una versione del maiale alato disegnata nel 1977 viene utilizzata nelle locandine del film Porci con le ali di Paolo Pietrangeli.

Il 1977 segna per Echaurren, come detto, l’abbandono del mondo dell’arte e l’inizio di un lavoro stabile per la redazione di “Lotta Continua”. A questo periodo risale il suo legame con il variegato mondo degli indiani metropolitani e l’iconografia dei nativi americani non manca di comparire su numerose sue produzioni grafiche alternando immagini in cui inserisce slogan politici del movimento a citazioni derivate dalla storia dell’arte. Perna segnala come Echaurren non manchi né di prendere le distanze dalla dilagante rappresentazione stereotipata dell’indianità, né di mettere in guardia il movimento degli indiani metropolitani dal rischio di un suo riassorbimento come fenomeno di moda da parte del sistema.

Se le illustrazioni realizzate nel 1973 per “Lotta Continua” mirano ad una lettura immediata, anche perché spesso risultano riferite al contenuto dell’articolo, la nuova stagione presenta un cambio di poetica; ora le immagini tendono a liberarsi dai dettami contenutistici degli articoli dando vita ad un mondo di mostriciattoli, animaletti e figure ibride dal sapore surrealista. «Il carattere ironico e scanzonato di queste immagini assume forme e toni più sofisticati e stranianti in alcune illustrazioni in cui l’artista associa le immagini del fumetto a testi legati alle sperimentazioni d’avanguardia» (p. 58).

La commistione tra “alto” e “basso” presente nelle sue illustrazioni ben «si coniuga all’uso del falso e del détournement nella rubrica “Dietro lo specchio”, realizzata in coppia con Gabbiadelli, pubblicata su “Lotta Continua” tra il 15 luglio e il 2 agosto del 1977. Il titolo richiama l’idea del “linguaggio al di là dello specchio” espressa da “A/traverso” nell’articolo Informazioni false che producono eventi veri (febbraio 1977), in cui il collettivo bolognese sosteneva la necessità di appropriarsi dei modelli di comunicazione degli organi di potere per sovvertirli dall’interno, senza limitarsi, come aveva fatto sin lì la controinformazione, a smascherare la faziosità della stampa ufficiale» (p. 59).

In tale contesto, il ricorso al falso ed al sabotaggio diventa centrale nella poetica di Echaurren, come risulta evidente nelle riviste e sui fogli con cui collabora. Perna cita in particolare la collaborazione dell’artista con “Oask?!”, giornale legato al mondo degli indiani metropolitani romani, caratterizzato da un collage di testi che alternano scrittura a macchina ed a mano e risultano impaginati in maniera discontinua e zigzagante.

air bologna 77Come detto, Echaurren ed il movimento del ’77 attingono a piene mani dalle fenomeno Dada e, in particolare, l’artista concentra la sua attenzione sull’opera di Marcel Duchamp a cui viene introdotto dal padre (Roberto Sebastian Matta), dall’amico Gianfranco Baruchello e da Schwarz. L’artista realizza nel 1977 una serie di disegni e dipinti su carta in cui riprende Duchamp «deviandone il senso attraverso l’uso di slogan e nonsense desunti dal linguaggio “metropolitano”.

Echaurren recupera gli aspetti di trasformazione del linguaggio […] e lo humour propri dell’opera di Duchamp, rielaborandoli alla luce delle idee e delle istanze espresse dalla contestazione politica» (p. 78).

Dunque, secondo Perna, «Duchamp diventa la fonte principale alla quale attingono Echaurren e più in generale il movimento […] non solo perché Duchamp ha messo in discussione l’ordine del linguaggio, ma anche perché si è sottratto alle logiche di valorizzazione economica dell’opera e, coerentemente con la lettura di Maurizio Lazzarato, ha concepito il “rifiuto del lavoro” (anche artistico) e l’azione oziosa come strade che aprono nuove possibilità di senso, capaci di produrre altre soggettività e modi diversi di “abitare il tempo”.

Per Echaurren l’esempio di Duchamp deve essere recuperato in chiave anticapitalista per far sì che l’arte si dispieghi nell’esistenza quotidiana, e che all’idea di opera come invenzione e produzione individuali subentri il concetto di creatività diffusa e collettiva» (p. 78).

Nel saggio è inserito anche lo scritto di Pablo Echaurren “Dov’è Oask?!…” tratto da AA.VV. (a cura di), Lingue & Linguaggi. Gli indiani metropolitani. Storie, documenti, testi, immagini (Derive Approdi, 1997).

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Figli di nessuno. Storie conflittuali nell’alta Lombardia degli anni ’70 https://www.carmillaonline.com/2016/04/08/figli-nessuno-storie-conflittuali-nellalta-lombardia-degli-anni-70/ Fri, 08 Apr 2016 21:30:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29133 di Gioacchino Toni

figli di nessuno coverSergio Bianchi, Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu edizioni, Milano, 2016, 336 pagine, € 15,90

«Credo che la ricchezza principale della nostra piccola esperienza militante fatta in quei paesi di provincia sia consistita nell’essere stati protagonisti di una rottura sociale unica dal dopoguerra in poi, dal punto di vista del voler rompere un assetto sociale, culture, forme esistenziali, modi di essere» S. Bianchi (p. 34)

Il libro di Sergio Bianchi, di cui è uscita nel marzo 2016 questa nuova edizione ampliata di un’ottantina di [...]]]> di Gioacchino Toni

figli di nessuno coverSergio Bianchi, Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu edizioni, Milano, 2016, 336 pagine, € 15,90

«Credo che la ricchezza principale della nostra piccola esperienza militante fatta in quei paesi di provincia sia consistita nell’essere stati protagonisti di una rottura sociale unica dal dopoguerra in poi, dal punto di vista del voler rompere un assetto sociale, culture, forme esistenziali, modi di essere» S. Bianchi (p. 34)

Il libro di Sergio Bianchi, di cui è uscita nel marzo 2016 questa nuova edizione ampliata di un’ottantina di pagine rispetto all’edizione del 2015, racconta un periodo di storia conflittuale collettiva nell’alta Lombardia a cui ha preso parte in prima persona l’autore a partire dai primi anni ’70. In apertura di volume, Bianchi sottolinea come quelle insorgenze sociali che hanno investito anche la provincia alto-lombarda, originatesi sull’onda lunga del biennio ’68-’69, possono dirsi concluse nei primi anni ’90 con la diffusione in quei territori del progetto leghista.

Se il biennio ’68-’69 può essere visto come momento di detonazione di quell’onda lunga che poi investirà le realtà di provincia descritte nel volume, secondo Bianchi vale la pena spendere qualche pagina sul “pre-sessantotto” di quelle zone, periodo già precedentemente affrontato dall’autore sotto forma di romanzo (La gamba del Felice, 2006) [su Carmilla]. Il capitolo d’apertura di Figli di nessuno ricostruisce le trasformazioni subite dalla provincia a nord di Milano tra la metà degli anni ’50 e la fine degli anni ’60; quasi un quindicennio di lento ed inesorabile declino del mondo contadino distrutto dalla meccanizzazione della campagna a totale beneficio dei grandi proprietari terrieri e da una mentalità individualista che non ha saputo dar vita a soluzioni associative cooperativistiche. Tutto ciò ha determinato da una parte l’abbandono delle campagne da parte dei giovani e, dall’altro, la perdita d’identità e di autorevolezza sociale della componente più anziana del mondo contadino. Nello stesso periodo la tessitura diviene “la grande fabbrica” di quei territori un tempo contadini. «La conduzione padronale è paternalistica, la classe operaia laboriosa e riconoscente dell’occasione di lavoro offerto. […] Il sindacato è inesistente» (p. 13).

A partire dai primi anni ’60 i processi di modernizzazione riplasmano le fabbriche medio-grandi portando ad una dequalificazione del lavoro, all’espulsione di parecchia manodopera ed all’incentivazione dell’autoimprenditorialità diffusa. A tali trasformazioni si deve aggiungere il fenomeno migratorio che portò nel nord della Lombardia dapprima una manodopera di provenienza veneta, negli anni ’50, poi meridionale, nel decennio successivo. «Per primi arrivano gli uomini […] Si accontentano di stare anche in sei o sette nelle stalle, nelle cantine, nei locali fatiscenti delle case abitate precedentemente dai contadini […] Gli abitanti del paese […] li emarginano e li denigrano per via delle condizioni in cui accettano di vivere e di lavorare (p. 15). Poi è la volta della costruzione di abitazioni durante il tempo extra lavorativo, dunque della chiamata di mogli, figli e genitori che porta al raddoppiamento della popolazione. Parallelamente a tutto ciò si diffonde anche il contrabbando di sigarette con la vicina Svizzera che origina un fenomeno rilevante di illegalità di massa che consente anche ad alcuni settori della popolazione non appartenenti alle classi agiate di avere a che fare con il consumismo e lo spreco.

Da tali premesse prendono il via le storie narrate da Bianchi a partire dalle vicende personali che lo vedono, nativo di Tradate in provincia di Varese, prendere parte dal 1973, sedicenne, al 1978 ad alcuni collettivi autonomi tra Varese, Como e Milano, per poi finire per essere risucchiato in un’interminabile turbinio di arresti e detenzioni che lo proiettano all’interno del carcere speciale di Trani durante la rivolta dei detenuti del dicembre 1980, fino alla scarcerazione ed all’espatrio in Francia ove resta fino a metà degli anni ’80.

All’inizio degli anni ’70 il territorio dell’alta Lombardia era caratterizzato da un processo di sindacalizzazione delle piccole fabbriche e dalla nascita di diversi collettivi di giovani operai, il più delle volte non passati dall’esperienza dei gruppi extraparlamentari ormai in disfacimento. Questa generazione di giovani di provincia si era avvicinata genericamente alla politica ed alla militanza, sull’eco del nascente fenomeno dell’Autonomia operaia e facendo riferimento ai testi teorici di derivazione operaista: «il nostro ambito era costituito a stragrande maggioranza da giovani e giovanissimi operai che dimostravano un’indisponibilità ad accettare le condizioni del regime di fabbrica, l’identità operaia stessa e non avevano assolutamente intenzione di percorrere il terreno sindacale nei termini classici […] Quell’area di giovani operai rimase fortemente influenzata dalle tematiche operaiste: una parola d’ordine come “rifiuto del lavoro” aveva in sé una forte capacità di suggestione nel senso che corrispondeva a un bisogno materiale immediato di non accettare quelle condizioni di vita, solo dopo si è capito che aveva anche un suo rilevantissimo fondamento teorico» (p. 34).

In tale contesto, tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974, iniziò a svilupparsi all’interno delle fabbriche del territorio un clima conflittuale senza precedenti e ben presto i militanti compresero che la frantumazione del tessuto produttivo imponeva la necessità di tentare una ricomposizione della classe su base territoriale. Tale bisogno portò alla nascita di uno spazio sociale capace di aggregare un tessuto che si stava pericolosamente sfilacciando all’interno delle piccole unità produttive distribuite nel territorio. Sul finire del 1975 a Tradate, in maniera totalmente autonoma, si organizzò una prima occupazione di uno spazio di proprietà della Curia: «Il nostro centro sociale era immaginato come un posto che doveva servire a ricomporre le varie figure del lavoro operaio frantumate sul territorio» (pp. 35-36). Dopo lo sgombero la lotta per lo spazio sociale si risolve con l’ottenimento di uno spazio da parte delle autorità locali incalzate da una serie di iniziative politiche.

«Comunque, l’elemento conflittuale era prevalentemente generazionale […] Lì c’era una soggettività che spingeva forte sul terreno del rifiuto del lavoro operaio e che faticava a trovare mediazioni, perché l’aspirazione era prioritariamente quella di uscire dalla fabbrica, cosa che poi è avvenuta qualche anno dopo in maniera definitiva: più nessuno, infatti, è rimasto in fabbrica» (p. 36). Tale fenomeno di abbandono della fabbrica coinvolse in quei territori, sottolinea l’autore, centinaia di soggetti che fino ad allora erano stati elementi rappresentativi all’interno dei Consigli di fabbrica. L’età di questi militanti era decisamente bassa, Bianchi sostiene che, attorno alla metà degli anni ’70, nessuno aveva più di trent’anni. «Quel movimento ha costituito una rottura culturale dentro quel territorio, perché la rivolta era anche dentro al famiglia, con il figlio operaio incazzato che si scontrava con il padre operaio sindacalizzato, il quale riteneva folli le argomentazioni e le proposte del figlio» (p. 37).

Nella ricostruzione proposta da Sergio Bianchi emerge come, nonostante questo giovane movimento autonomo avesse finito per affrontare tematiche molto diversificate, legate ai bisogni sentiti da quella generazione, non venne mai messa in discussione l’idea diffusa e condivisa che la centralità doveva restare ben salda sulla questione materiale ed in particolare sulla figura operaia.

I rapporti con Milano iniziarono ad intensificarsi a metà degli anni ’70 e dalla metropoli non mancarono tentativi egemonici nei confronti dei piccoli collettivi della provincia. Anche la realtà di Tradate si trovò presto ad aver rapporti con le diverse anime del movimento milanese; alcune componenti di Potere operaio e di Lotta continua erano confluite nel gruppo di Senza Tregua, maggiormente legato agli ambienti operai, oppure, particolarmente attiva era l’area di Rosso che aveva avuto maggior influenza sui militanti di Tradate. «La teorizzazione dell’“operaio sociale” […] prevedeva un innesto di tematiche che rischiavano di snaturare la tradizionale militanza in fabbrica, la tenuta della centralità operaia […] ma per come la vedevamo noi quel tipo di intuizione era pertinente alla materialità della soggettività che ci trovavamo di fronte …] te ne rendevi conto subito analizzando la situazione, facendo inchiesta. L’operaio era sociale […] Era proprio quello il tipo di figura che ci trovavamo davanti, un nuovo strano operaio che si scontrava con l’altro, quello più tradizionale perché legato al sindacato e al partito» (pp. 44-45).

Nonostante la giovane età e l’essere etichettati come appartenenti ad un’area estremista costantemente criminalizzata, il movimento nella provincia lombarda seppe  mantenersi interno alle dinamiche sociali, evitando la rottura definitiva con gli altri ambiti della classe nonostante i dissidi e le difficoltà di relazione.
Il decentramento produttivo, dispiegatosi con forza in tali territori a partire dalla metà degli anni ’70, determinò un forte cambiamento della composizione tecnica della classe operaia. Bianchi, nel cartografare le modalità produttive presenti sul territorio, segnala tre grandi blocchi tra di loro, ovviamente, legati. Vi erano industrie medio-grandi con una manodopera anziana e sempre più risicata nei numeri a causa del processo di automazione. In tali ambienti lavorativi era presente, sostiene l’autore, «una consolidata presenza sindacale “sensibile” alle necessità delle direzioni aziendali» (p. 53). Vi era poi un indotto composto da unità produttive di piccole dimensioni, spesso artigianali, in cui trovavano occupazione poche unità “regolari” e diversi studenti-lavoratori, operai dediti al “doppio lavoro”, donne non inquadrate nel lavoro ufficiale-tutelato, ecc. Infine vi erano piccolissime unità produttive collocate nelle abitazioni, nelle cantine e nei garage. Si trattava di rapporti di lavoro totalmente deregolamentati che sfruttavano casalinghe, pensionati, invalidi, bambini e disoccupati.

In tale contesto si sviluppò l’esperienza dei Collettivi autonomi nel nord della Lombardia, collettivi composti da giovani operai di bassa scolarizzazione, politicamente “figli di nessuno”. Il centro della scena venne preso da una soggettività proletaria inedita capace di costruirsi analisi e progettualità politiche autonome. «Il bisogno di rivolta esistenziale per i “figli di nessuno” muoveva comunque dall’intuizione che la fabbrica, il suo paradigma di sfruttamento, la sua “centralità” acquisiva, diffondendosi, carattere di totalità, finiva cioè col dominare tutto il complesso delle relazioni sociali in cui era inserita […] Per questi motivi sui “figli di nessuno” più che le teorie pseudoleniniste dei partitini extraparlamentari fece presa la combinazione di concetti quali “autonomia”, “rifiuto del lavoro” e tutto il colorito e suggestivo repertorio delle “controculture”» (p. 54). Ciò che veniva chiaramente percepito da questi giovani operai era la necessità di proiettarsi in avanti mettendo al centro della progettualità e dell’agire politico non la liberazione del lavoro ma la liberazione dal lavoro.

La scoperta di una lettura storica diversa delle lotte operaie proposta dagli scritti operaisti permise a questi “figli di nessuno” di scegliersi i propri padri nelle lotte dell’“altro movimento operaio”, quello autonomo e rivoluzionario che da quindici anni, nelle grandi concentrazioni produttive, aveva prodotto un volume di lotta tale da determinare la crisi del sistema di produzione, costringendo il capitale a progettare scientificamente la scomposizione del ciclo produttivo, e con esso della classe, attraverso il ricorso alla “fabbrica diffusa”. «Giovanilismo, culto della marginalità e del ghetto furono tendenze presenti in quel movimento che nella sua espansione attirò inevitabilmente a sé figure sociali tra le più disparate, e tra queste anche alcune effettivamente cariche di gravi disagi. Ma il nucleo principale restò, almeno fino agli inizi del 1978, quello operaio, e solo ciò garantì la tenuta insieme di tutte le differenze» (p. 71).

Sul finire del 1977 iniziò un vero e proprio esodo dalle fabbriche dell’alta Lombardia che portò molti operai alla ricerca di fonti alternative di reddito. Ciò, sostiene Bianchi, finì col mettere in crisi le strutture identitarie di quei soggetti che improvvisamente si trovarono ad essere smarriti in un indefinita collocazione sociale, dunque politica. Il 1977 finì con l’accelerare diversi processi già in atto e gli ambiti politici con minor legame sociale diedero vita ad una sorta di simulazione territoriale di uno scontro che risultò in molti casi scollegato da contesti di lotta reali: Bianchi lo definisce «emulazione in piccola scala di un insurrezionalismo privo di contesto, una rappresentazione spettacolare che attraverso l’esemplificazione di gesti simbolicamente o concretamente violenti mirava a creare un punto di riferimento per soggetti singoli o piccoli gruppi che maggiormente vivevano le conseguenze del disagio indotto dalla crisi» (pp. 75-76) ed, a tali compagini, non mancarono di unirsi frotte di sbandati e disperati.

In questo clima si arrivò presto a lacerazioni interne al movimento determinate dalla scelta o dal rifiuto di accettare il terreno della militarizzazione dello scontro nei confronti dello stato. In un clima irreale di «attesa dell’inesorabile precipitazione degli eventi» (p. 77) il movimento iniziò a “perdere pezzi” ed in molti optarono per l’abbandono della politica scivolando spesso nella spirale dell’eroina. Per molti la crisi del movimento significò la perdita di identità e di visione del futuro e l’eroina si prestò facilmente a tale processo di autodistruzione. A tutto ciò una parte del movimento, l’area militante, decise di rispondere con la chiusura e l’espulsione dalle proprie fila di quanti dichiararono e rivendicarono l’uso di eroina presentando tale scelta come espressione di radicale antagonismo. «L’area militante reagì con il disperato istinto della sopravvivenza, come se si trattasse di affrontare una cancrena e non tentennò mai per un attimo nella decisione dell’“amputazione”» (p. 79). A proposito della disgregazione del movimento, Sergio Bianchi riporta, condividendola, una storica dichiarazione di Sergio Bologna (La tribù delle talpe): «l’autonomia del soggetto non può elidere il potere, la sua realtà. Se diciamo che la forza del soggetto è proprio quella di liberarsi della realtà, di avere come unico parametro il proprio desiderio antagonista, allora dobbiamo anche sapere che la sola pratica di comportamento coerente con tale ideologia è l’eroina. Oggi, in Italia, febbraio 1978» (riportata a p. 80).

Una parte del volume è composta da un’antologia di testi (interventi di collettivi locali, stralci tratti da riviste del periodo, testi di canzoni, poesie, interviste a militanti ecc.) utile a contestualizzare e comprendere meglio gli eventi descritti da Bianchi. Nella nuova edizione (2016) ampliata si trovano scritti di: Nanni Balestrini, Marco Bascetta, Franco Berardi (Bifo), Lanfranco Caminiti, Marina Campanale, Roberto Carcano, Paolo Demaestri, Rossana De Simone (Crudelia), Massimo Kunstler, Enrico Livraghi, Primo Moroni, Toni Negri, Rossana Rossanda, Ada Tosatti, Pino Tripodi, Mauro Trotta, Maria Teresa Zoni.

In chiusura vale la pena riportare i versi di una celebre poesia di Nanni Balestrini, presente nell’antologia del volume, pensando a tutti coloro che hanno tirato un sospiro di sollievo quando questi “figli di nessuno” si sono (e sono stati), in un modo o nell’altro, tolti di mezzo.


C’è chi loda il letamaio

Qual è il segno culturale del nostro tempo
il bello di cattivo gusto
cioè la merda
le belle pubblicità di merda i bei abiti

di merda il bell’erotismo di merda
le belle banche di merda i bei romanzi
di merda il bel giornalismo di
i bei talk show di merda insomma

tutti i belli super professionali
di merda prodotti della cultura spettacolo
di merda con quella incancellabile e richiesta
vena di cattivo gusto cioè di merda

diciamo la cultura dei professionisti di massa
di merda che lavorano per le masse di merda
è difficile diciamo noi
disobbedire al proprio tempo

ci sono tempi che danno licenza di buon gusto
e tempi di merda che la tolgono
e chi contravviene alla merda se va bene
sarà apprezzato dai posteri

oggi i buoni professionisti della merda
selezionati dai grandi media di merda
sanno mettere insieme colori immagini di merda
luci effetti di merda tridimensionali

belli bellissimi sanno organizzare i bei
dibattiti sado-maso di merda le belle
inchieste tutte ritmo e suspense
ma mettendoci quel tanto di cattivo gusto

cioè di merda che hanno coltivato invece di soffocare
per piacere allo spettatore massa di merda
e senza un po’ di cattivo gusto
cioè di merda oggi si campa male

a noi tocca vivere nella cultura spettacolo
di merda del bello di cattivo gusto
cioè di merda ben retribuiti e puniti
ogni giorno della fama di merda

è difficile disobbedire al proprio tempo di merda
non curarsi del suo segno culturale di merda
oggi uno che non ha successo
perché guarda in alto e comunque non nel letamaio

non viene guardato dalla merda
come un’intelligenza esigente
come il potatore di una grande ambizione
ma come un corpo estraneo alla merda

vivere in sintonia con la cultura di massa
di merda è vivere nel migliore dei mondi
di merda oggi possibile
è quasi impossibile sottrarsi

alla cultura del proprio tempo di merda
i compensi agli intelligenti perché producano
merda per i rozzi e volgari sono ottimi
e tutti più o meno ci siamo adeguati alla merda

Nanni Balestrini (1985)

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