multinazionali – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Insorgiamo https://www.carmillaonline.com/2021/07/13/insorgiamo/ Tue, 13 Jul 2021 21:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67191 di Sandro Moiso

Nemmeno ai tempi delle lotte più dure e determinate degli anni Sessanta e Settanta era comparsa in un comunicato di un comitato o di un collettivo di fabbrica una parola o un’incitazione così forte e battagliera. Ma oggi, dopo che la definizione di insorgenti o insurgentes e insurgent nelle sue varie declinazioni linguistiche e politico-militari è stata utilizzata negli ultimi vent’anni di guerra globale per indicare coloro che, per qualsiasi motivazione (occupazione militare del proprio territorio da parte di una potenza straniera o di un’autorità non riconosciuta, proteste [...]]]> di Sandro Moiso

Nemmeno ai tempi delle lotte più dure e determinate degli anni Sessanta e Settanta era comparsa in un comunicato di un comitato o di un collettivo di fabbrica una parola o un’incitazione così forte e battagliera. Ma oggi, dopo che la definizione di insorgenti o insurgentes e insurgent nelle sue varie declinazioni linguistiche e politico-militari è stata utilizzata negli ultimi vent’anni di guerra globale per indicare coloro che, per qualsiasi motivazione (occupazione militare del proprio territorio da parte di una potenza straniera o di un’autorità non riconosciuta, proteste contro il caro vita o le conseguenze della globalizzazione e della prima epidemia globalizzata usata come strumento repressivo e di ristrutturazione socio-economica), hanno “osato” ed osano resistere e ribellarsi contro un modo di produzione la cui protervia e fame di plusvalore richiede da tempo uno stato di guerra civile permanente contro gli interessi vitali della specie, il verbo “insorgere” viene impugnato da chi di quella protervia e sete di profitto era destinato ad essere soltanto vittima designata.

La parola, un tempo proibita e ancora oggi oltraggiosa se proveniente da chi dovrebbe soltanto subire, chiude il bellissimo ed efficace comunicato del collettivo di fabbrica Gkn di Firenze in cui, in poche ma sintetiche righe, si condensa l’analisi di ciò che sta per succedere a tantissimi lavoratori italiani; lavoratori che, oltretutto, fino ad oggi erano stati abituati a sentirsi o pensarsi come “garantiti”. Una situazione che era fin troppo facile prevedere fin dai primi mesi della pandemia e ancor più con la farsa del “blocco dei licenziamenti”, destinato soltanto nella sua fumosa applicazione a calmare le acque di una probabile ribellione sociale diffusa nei confronti dei provvedimenti e delle conseguenze riconducibili alla “lotta alla pandemia”.

Una situazione ambigua, denunciata qui sulle pagine di Carmilla e poi negli articoli raccolti nel testo collettivo L’epidemia delle emergenze1, destinata a rinviare soltanto una ristrutturazione produttiva, industriale e sociale che si è presentata sin da subito come inevitabile conseguenza della gestione politica-economica della pandemia in cui, più che la cura e la salute dei cittadini, è sempre risultata fondamentale, fin dai giorni della Val Seriana e dei morti della Bergamasca e del Dpcm che finse soltanto di fermare le attività produttive (qui), la salvaguardia degli interessi del capitale e l’incremento dei suoi profitti e della produttività del lavoro.

Oggi, grazie anche alla melina dei sindacato confederali e dei loro rodomonteschi leader alla Landini, quelle facili previsioni si rivelano in tutta la loro drammatica e spietata realtà. Però, come la storia della lotta di classe ci ha insegnato tante volte, in caso di necessità la classe operaia dimostra la sua capacità di cogliere nell’immediato (oltre che sulla propria pelle) il reale sviluppo e le reali prospettive delle contraddizioni insite nel modo di produzione dominante, non accontentandosi di stanche e scontate manifestazioni del sabato pomeriggio a Roma, come quelle promosse dai sindacati contro la fine del blocco dei licenziamenti, e porre il dito nella piaga, proprio là dove fa più male, soprattutto per i cantori della pace e della collaborazione sociale interclassista.

Così, mentre un autobus di tricolori trionfanti della nazionale di calcio percorreva le strade della capitale visitando le residenze di un potere politico che gli era riconoscente soprattutto per il servizio reso promuovendo l’unità nazionale dei poveracci, i compagni operai del Collettivo di fabbrica della Gkn cercavano e promuovevano una ben diversa forma di vicinanza e solidarietà. Dal basso, di classe, contro il mostro del capitalismo per cui il loro licenziamento, come hanno ben colto gli estensori del comunicato, non rappresenta affatto un’eccezione o un caso specifico (qui).

«Se sfondano qua, sfondano da tutte le parti. Perché siamo una grossa azienda e siamo organizzati. Immaginatevi aziende piccole e meno organizzate». Il general intellect prodotto dalla riflessione collettiva e dall’esperienza “sul campo” coglie immediatamente le caratteristiche dello scontro che sta per aprirsi. A tutto campo e non soltanto con le multinazionali straniere che, al massimo, possono funzionare da apripista come era già successo una settimana prima con il licenziamento dei 152 operai della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto in Brianza, anche qui per mezzo di una e-mail, ma con tutto il ciarpame capitalista del governo di unità nazionale e del suo Ministro del Lavoro che, nutrito a base di salviniane bistecche d’orso e scadenti film western, non ha saputo dire altro che: «Vogliamo il West, non il Far West». Concentrando in sette parole tutta la filosofia socio-economica e politica leghista.

Hanno ragione i compagni del Collettivo a citare Stellantis e non soltanto perché l’attività produttiva della Gkn è direttamente collegata a quella del gigante dell’auto.
I dirigenti della multinazionale inglese proprietaria della Gkn hanno chiaramente esplicitato che i profitti in Italia sono troppo bassi ergo che i salari dei lavoratori italiani, per ora, sono ancora troppo alti per rendere competitiva e profittevole l’attività produttiva della fabbrica fiorentina, mentre la ditta situata nella provincia di Monza, produttrice di cerchioni per camion della Volvo e della Iveco oltre che per le moto Harley Davidson, pur italianissima e associata a Confindustria, non ha avuto nemmeno bisogno di fare ciò. Si licenzia come e quando si vuole e basta!

Stellantis N.V. (in olandese: naamloze vennootschap, società per azioni) è un’impresa multinazionale di diritto olandese produttrice di autoveicoli. Nata dalla fusione tra i gruppi PSA e Fiat Chrysler Automobiles, la società ha sede legale ad Amsterdam, sede operativa a Lijnden e controlla quattordici marchi automobilistici: Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroën, Dodge, DS Automobiles, FIAT, Jeep, Lancia, Maserati, Opel, Peugeot, Ram Trucks e Vauxhall. Il gruppo ha siti produttivi, di proprietà o in joint venture, in ventinove Paesi situati tra Europa, America, Africa e Asia.

Il gruppo, secondo The Wall Street Journal, è il terzo produttore di auto al mondo per vendite, secondo gli ultimi dati del 2019; secondo dati di vendita più aggiornati il gruppo è il sesto nella classifica mondiale dei produttori di autoveicoli: ciò a causa della crisi di vendite in Europa per via della pandemia di COVID-19 e del relativo sviluppo delle vendite in Cina dove il gruppo è più debole della concorrenza. Le capacità produttive di Stellantis sono diverse a seconda del gruppo di provenienza infatti, gli stabilimenti di FCA funzionano in media al 55% della capacità in Europa e quelli di PSA al 68% mentre in Nord America, gli stabilimenti di FCA funzionano in media al 75%, secondo quanto affermato da un analista di una società di ricerche in ambito automobilistico (LMC Automotive Ltd).

Il consiglio di amministrazione di Stellantis è composto da undici membri: cinque nominati da FCA e dal suo azionista di riferimento Exor, cinque dagli azionisti di riferimento di PSA e infine dall’amministratore delegato del nuovo gruppo, Carlos Tavares, già precedentemente presidente e direttore generale di PSA. I poteri esecutivi sono congiunti tra John Elkann (presidente, già presidente esecutivo di FCA e della holding della famiglia Agnelli, Exor) e Carlos Tavares (amministratore delegato). I principali azionisti del gruppo, alla data di conclusione della fusione sono:
Exor – 14,4%
Famiglia Peugeot – 7,2% (con opzione per salire fino all’8,5%)[69]
Stato francese (attraverso la banca pubblica d’investimento “Bpifrance”) – 6,2%
DoExor N.V.ngfeng Motor Corporation – 5,6%
Tiger Global – 2,4%
UBS Securities – 1,6%
The Vanguard Group – 0,96% 2.

Se il lettore dovesse sentirsi stremato e, perché no, anche un po’ annoiato dai dati qui riportati, dovrebbe comunque tener conto che gli stessi, ripresi direttamente da quelli forniti dalla società, ci rivelano e confermano come la stessa ex-italianissima FIAT si sia tramutata, prima con Marchionne e poi con la fusione con PSA (Peugeot) in una multinazionale che di italiano mantiene soltanto gli stabilimenti con la capacità di funzionamento più bassa (55%), in un contesto di competizione fortissima per il controllo del mercato mondiale dell’auto. Se a questo aggiungiamo che le due ditte che hanno aperto le danze dei licenziamenti lavoravano entrambe per il gruppo o sue consociate (come Iveco), non occorre essere dei meteorologi per capire come soffierà il vento per i dipendenti della maggiore impresa del settore metalmeccanico e automotive ancora dislocata in Italia.

Questo ci preannunciano i compagni del Collettivo e questo ci preannuncia il vacuo cianciare governativo sui licenziamenti e il Far West. Questo ci preannuncia, infine, il clima da guerra civile che il capitale è andato instaurando in tutto il mondo con la globalizzazione e la successiva gestione della pandemia globalizzata3.
Cui la risposta non può essere altra che quella proposta dagli operai della Gkn: lo sciopero generale, la realizzazione di una pagina di solidarietà alla vertenza (che potrebbe, ad avviso di chi scrive, trasformarsi in un luogo non soltanto virtuale di incontro e autorganizzazione per tutti i lavoratori che saranno toccati dalle inevitabili crisi aziendali future e dai licenziamenti in blocco), il rifiuto dei discorsi sugli indennizzi e sugli ammortizzatori sociali (che nascondono soltanto la passiva accettazione delle scelte delle aziende, multinazionali o meno che siano) e la scelta dell’insorgenza anticapitalista. Di massa, spontanea e allargata a tutti i settori e i lavoratori toccati da una crisi la cui gestione è destinata a trasformare in profondità il volto del tessuto economico e sociale italiano ed internazionale.


  1. Jack Orlando, Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze, Il Galeone editore, Roma 2020  

  2. Per ulteriori informazioni si veda qui  

  3. Si veda in proposito anche: Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone editore, Roma 2021  

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La possessione spiritica come strumento difensivo, critico o sovversivo https://www.carmillaonline.com/2019/07/02/la-possessione-spiritica-come-strumento-difensivo-critico-o-sovversivo/ Tue, 02 Jul 2019 21:30:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53485 di Giovanni Iozzoli

Moreno Paulon (a cura di), Il diavolo in corpo. Sulla possessione spiritica, Meltemi, Milano, pp. 126, 2019, € 12,00

Questo volume, breve e denso, affronta il tema della possessione con uno sguardo attento ai significati sociali e storici di un fenomeno diffuso da sempre in ogni cultura e civiltà umana. Tre studi etnografici, raccolti e curati da Moreno Paulon, raccontano di tre universi geograficamente e socialmente incomparabili – la Malesia, il Niger e il Kenia – in cui le forme della possessione e dell’esorcismo vengono magistralmente analizzate con uno sguardo [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Moreno Paulon (a cura di), Il diavolo in corpo. Sulla possessione spiritica, Meltemi, Milano, pp. 126, 2019, € 12,00

Questo volume, breve e denso, affronta il tema della possessione con uno sguardo attento ai significati sociali e storici di un fenomeno diffuso da sempre in ogni cultura e civiltà umana. Tre studi etnografici, raccolti e curati da Moreno Paulon, raccontano di tre universi geograficamente e socialmente incomparabili – la Malesia, il Niger e il Kenia – in cui le forme della possessione e dell’esorcismo vengono magistralmente analizzate con uno sguardo multidisciplinare, a cavallo fra sociologia, antropologia, etnografia e linguistica. Cosa accomuna e cosa differenzia le suggestioni e le pratiche esorcistiche, in scenari culturali così diversi? Sicuramente la possibilità di rivelare e dare corpo, attraverso il “fenomeno possessione” e i complessi rituali che lo accompagnano, a istanze sociali collettive, di gruppi subalterni o sottoposti a forzati processi di modernizzazione. Essere posseduti significa, in una modalità profonda e ineffabile, prendere la parola, diventare visibili, trasformare il tormento interiore in malessere fisico e, spesso, in catarsi e guarigione.

“La possessione, osservata dal punto di vista della caduta in trance, o dell’alterazione dello stato di coscienza, è un fenomeno che interessa pochi individui ma che viene altamente teatralizzata e ritualizzato all’interno della società più ampia, la quale vi inscrive (e vi esprime) i suoi significati”. (p. 10)

E il fenomeno è talmente connesso all’esperienza umana, quasi una sua modalità naturale di espressione, che: “nessuna società sembra trovarsi impreparata di fronte alla possessione. Se l’esordio spiritico può sconvolgere e marcare l’esistenza di un individuo o di una classe di individui, nessun ordine culturale viene scombinato o entra in crisi quando la possessione si manifesta in uno dei suoi membri”. (p.10)

Infatti, all’interno di una compagine sociale, la possessione può assolvere varie funzioni: difensive, critiche o addirittura sovvertitrici, rispetto ai rapporti fra classi, gruppi etnici o generi. La possessione fornisce un linguaggio e un’allusione a istanze nascoste persino a chi le manifesta.

È palesemente il caso del primo saggio –  Produzione della possessione, di Aihwa Ong -, che esamina le “epidemie di possessioni” nelle fabbriche multinazionali impiantate nella Malesia occidentale a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta. Territori da sempre rurali che sottoposti a una torsione antropologica violentissima, insieme al benessere economico sono sottoposti a sconvolgimenti epocali negli stili di vita e negli assetti familiari. La prima generazione operaia – soprattutto femminile – all’impatto con il mondo alieno e alienante della produzione, “usa” il linguaggio tradizionale della possessione, per protestare contro la propria condizione: è così che si diffondono i malesseri e si materializzano gli spiriti del territorio, disturbati dagli impianti industriali, che vagano fra i reparti e gli spogliatoi, inducendo crisi isteriche e inquietanti visioni ai danni della forza lavoro.

Davanti alle migliaia di ore di lavoro perso a causa di questi fenomeni, le multinazionali americane arrivano persino ad assumere sciamani autorizzati a praticare rituali ancestrali dentro gli stabilimenti – stabilendo una connessione inedita tra le forme più alte della tecnologia industriale e quelle più arcaiche dei rituali esorcistici. Naturalmente il fine non è quello di migliorare la condizione operaia e mitigare l’impatto potente dell’industrializzazione: anzi, le forze “tradizionali” si uniscono alle strategie di medicalizzazione e colpevolizzazione delle vittime, onde preservare la continuità della produzione

Nel secondo saggio – Possessione, afflizione, follia – Jean Pierre Olivier de Sardan cerca soprattutto di classificare la ricca articolazione simbolica e di prassi che si manifesta in una certa area del Niger, sui temi della possessione, dell’esorcismo e soprattutto dell’adorcismo – le pratiche attraverso cui si “invita” lo spirito a prendere possesso di un individuo che cerca la guarigione del corpo e della mente: qui l’antropologo deve districarsi in una foresta di segni e significati intricatissimi, in cui è necessario interrogarsi sul significato di malattia e terapia in contesti lontanissimi da quelli della modernità occidentale.

Nel terzo saggio – Musulmani riluttanti – Janeth McIntosh analizza la condizione di sottomissione quasi “castale” subita da una ristretta minoranza animista, quella dei giriama, considerata impura e subalterna rispetto alla maggioranza swahili, musulmana e socialmente più avvantaggiata. Siamo nel litorale costiero del Kenia, un’area di recente urbanizzazione, in cui le gerarchie etnico-religiose si riflettono immediatamente sui mondi celesti: gli spiriti dei giriama sono meno potenti e hanno meno pretese, rispetto ai loro omologhi musulmani, considerati spiriti di “serie A”, generalmente in rapporto con il mondo swahili.

Non di rado uno spirito musulmano “possiede” un giriama e questo induce nel soggetto un cambio nella dieta, l’adozione dei tabù alimentari islamici e finanche un nuovo abbigliamento che richiama lo stile swahili. I giriama hanno talmente introiettato la loro subalternità, da “usare” le possessioni come strategia di abbandono della loro vecchia cultura e viatico verso una islamizzazione che potrebbe risultare socialmente più conveniente. Nel senso opposto, alcuni sciamani giriama utilizzano l’evocazione dei loro spiriti ancestrali come strategia di resistenza culturale all’egemonia islamo-swahili. Anche in questo caso, quindi, esorcisti/adorcisti di entrambe le fazioni, mettono in campo complessi rituali che regolano queste contese squisitamente culturali e sociali.

Un campo di studi complesso e affascinante, in cui nessuna teoria può attribuirsi il ruolo di “ultima parola”, in cui è facile cadere nelle trappole di letture materialisticamente grossolane, attraverso cui lo sguardo occidentale crede di svelare con chiarezza i nessi di causa/effetto che sottostanno a fenomeni sfuggenti e di problematica classificazione: manifestazioni che hanno il loro campo di origine nella foresta nera della psiche umana e nel mare magnum dell’inconscio collettivo. Con saggezza, il curatore è consapevole del fatto che: “È evidente che l’antropologia, pur attenendosi ai dati etnografici, riposa sulla loro interpretazione, ossia sull’arbitrio di attribuire loro un significato”. (p. 12) Premessa utile di un libro interessante, scientificamente rigoroso, non riservato agli “addetti ai lavori” degli studi antropologici.

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Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2017/01/07/calibano-e-la-strega-le-donne-il-corpo-e-laccumulazione-originaria/ Fri, 06 Jan 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35496 federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante [...]]]> federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante ricostruzione storica, offre un contributo fondamentale alla lettura degli attuali processi della globalizzazione.

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente Federici si è impegnata contro i processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo.

In coda alla Prefazione sono disponibili i link ai video di due interessanti interviste a Silvia Federici: la prima è stata realizzata dal Laboratorio Sguardi sui Generis in occasione della sua presenza in Val di Susa, la seconda (in lingua inglese) è stata effettuata da Gender Links all’uscita del saggio S.   Federici, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), uscito successivamente in lingua italiana S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona, 2014, pp. 159, € 15,00 –  ght]


Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria

di Silvia Federici

Calibano e la Strega presenta i temi principali di un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” dal feudalesimo al capitalismo che ho iniziato a metà degli anni ’70, in collaborazione con la femminista italiana Leopoldina Fortunati. I primi risultati sono apparsi in un libro che abbiamo pubblicato qui in Italia nel 1984: Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale.

Il mio interesse per la ricerca era motivato all’inizio dai dibattiti all’interno del movimento femminista negli Stati Uniti, vertenti sulle origini delle particolari forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche che il movimento avrebbe dovuto adottare per la nostra liberazione. Le principali posizioni teoriche e politiche con cui ci dovevamo confrontare a questo proposito erano quelle avanzate dalle due aree più importanti del movimento delle donne: le femministe radicali e le femministe socialiste. Tuttavia, dal mio punto di vista, entrambe non fornivano una spiegazione soddisfacente sulle origini dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali transtoriche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche.

È in questo contesto che ha preso forma l’idea di tracciare la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. La tesi che ha ispirato questa ricerca era stata articolata da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James, oltre che da altre attiviste del movimento per il salario al lavoro domestico, in una serie di documenti che negli anni ’70 apparivano molto controversi, ma che col tempo hanno riformulato il discorso su donne, riproduzione e capitalismo. Fra questi, i più influenti furono Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa e Sex, Race and Class (1975) di Selma James.

Contro l’ortodossia marxista che spiegava l’“oppressione” delle donne e la loro subordinazione agli uomini come un residuo dei rapporti feudali, Dalla Costa e James affermavano che lo sfruttamento del lavoro femminile ha giocato un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, in quanto le donne sono state le produttrici del bene più essenziale per il capitalismo: la forza-lavoro. Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne è stato la colonna portante su cui si è costruita la “servitù del salario” nonché il segreto della sua produttività (Dalla Costa 1972, p. 31). La differenza di potere tra donne e uomini nella società non poteva quindi essere attribuita né all’irrilevanza del lavoro domestico per l’accumulazione capitalistica – irrilevanza contraddetta dalle strette regole a cui la vita delle donne è stata soggetta – né alla sopravvivenza di atavici schemi culturali. Doveva invece essere letta come l’effetto di un sistema sociale di produzione che non riconosce la produzione e la riproduzione del lavoratore come un’attività socio-economica e perciò come fonte di accumulazione capitalistica, ma al contrario la mistifica come risorsa naturale o servizio personale, approfittando nel contempo della mancanza di retribuzione per il lavoro svolto. Facendo derivare lo sfruttamento delle donne nella società capitalistica dalla divisione sessuale del lavoro e dal lavoro domestico non retribuito, Dalla Costa e James hanno dimostrato che è possibile superare la dicotomia tra classe e patriarcato e hanno dato a quest’ultimo un significato storico specifico, aprendo così la strada a una reinterpretazione della storia del capitalismo e della lotta di classe da un punto di vista femminista. È in questa prospettiva che, alla metà degli anni ’70, con Leopoldina Fortunati ho iniziato a studiare quella che solo eufemisticamente possiamo definire la “transizione al capitalismo”, cominciando a ricostruire una storia che non ci era stata insegnata a scuola, ma che si è dimostrata decisiva per la nostra formazione teorica e politica. È una storia che non solo ci ha permesso una comprensione teorica della genesi del lavoro domestico nelle sue principali componenti strutturali – la separazione della produzione dalla riproduzione, l’uso specifico che il capitalismo ha fatto del salario per comandare il lavoro dei non salariati e la svalutazione della posizione sociale delle donne con l’avvento del capitalismo – ma che ci ha anche fornito la genealogia dei moderni concetti di femminilità e mascolinità, permettendoci così di invalidare l’assunto postmoderno di una predisposizione quasi ontologica da parte della “cultura occidentale” a imbrigliare il genere in schemi binari. Abbiamo infatti scoperto che le gerarchie sessuali sono sempre al servizio di un progetto di dominio che si autosostiene solo dividendo, su basi continuamente rinnovate, coloro che intende dominare.

Il libro che è nato da questa prima ricerca, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984), si proponeva di ripensare l’analisi dell’accumulazione originaria di Marx da un punto di vista femminista. Ma nel corso di questo lavoro le categorie marxiane si sono rivelate inadeguate. Anzitutto, si è visto che l’identificazione da parte di Marx del capitalismo con l’avvento del lavoro salariato e del lavoratore “libero” contribuisce a nascondere e a naturalizzare la sfera della riproduzione. Il Grande Calibano criticava anche la teoria del corpo di Michel Foucault. Abbiamo infatti rilevato che l’analisi di Foucault delle tecniche del potere e delle discipline a cui il corpo è stato assoggettato ignora il processo di riproduzione, riduce le storie delle donne e degli uomini a un tutto indifferenziato e si disinteressa a tal punto della “disciplina” imposta alle donne da non menzionare uno degli attacchi più orrendi al corpo perpetrato in era moderna: la caccia alle streghe. La tesi principale sostenuta dal Grande Calibano era che, per comprendere la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, si devono analizzare i cambiamenti che il capitalismo ha introdotto nel processo della riproduzione sociale, soprattutto nella riproduzione della forza-lavoro. Il libro prendeva quindi in esame la riorganizzazione del lavoro domestico, della famiglia, della cura dei bambini, della sessualità e dei rapporti tra uomo-donna e tra produzione e riproduzione nel XVI e nel XVII secolo in Europa. La stessa analisi è riproposta nel Calibano e la strega, ma lo scopo di questo volume è diverso da quello del Grande Calibano in quanto risponde a un diverso contesto sociale e alla crescita della nostra conoscenza della storia delle donne.

Poco dopo la pubblicazione del Grande Calibano, ho lasciato temporaneamente gli Stati Uniti per insegnare all’Università di Port Harcourt in Nigeria dove, a periodi alterni, ho lavorato per quasi tre anni. Prima di partire ho sepolto i miei libri in cantina, pensando che per un po’ di tempo non mi sarebbero serviti. Ma le circostanze del mio soggiorno in Nigeria non mi hanno consentito di dimenticare questo studio. Gli anni tra il 1984 e il 1986 sono stati decisivi per la Nigeria, come per la maggior parte dei paesi africani. Erano gli anni in cui, in risposta alla crisi del debito, il governo nigeriano avviava con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale accordi che risultarono nell’adozione del programma di aggiustamento strutturale, la ricetta universale imposta dalla Banca Mondiale, nel nome della ripresa economica, ai governanti di gran parte del pianeta.

Lo scopo dichiarato di questo programma era di rendere la Nigeria competitiva sul mercato internazionale. Ma si è reso subito evidente che questo programma era lo strumento di una nuova fase di accumulazione originaria e di una razionalizzazione della riproduzione volta a distruggere le ultime vestigia di proprietà e rapporti comunitari, e imporre forme più intense di sfruttamento del lavoro. Ho visto quindi dispiegarsi sotto i miei occhi processi molto simili a quelli che avevo analizzato durante la stesura del Grande Calibano, fra cui un attacco sistematico alle terre comuni e un decisivo intervento dello stato, definito “guerra all’indisciplina”, teso a ridurre le aspettative di una popolazione considerata troppo pretenziosa in prospettiva di un suo inserimento nell’economia globale. Insieme a queste misure, ho assistito all’evolversi di una campagna misogina, che denunciava la vanità e le eccessive pretese delle donne, e allo sviluppo di un acceso dibattito, simile per molti versi alla querelle des femmes del XVII secolo, che investiva ogni aspetto della riproduzione della forza-lavoro: la famiglia (poligama vs. monogama, estesa vs. nucleare), l’educazione dei bambini, il lavoro delle donne, l’identità maschile e femminile e i rapporti tra uomini e donne.

In questo contesto il mio lavoro sulla transizione ha assunto un nuovo significato. In Nigeria ho compreso che la resistenza all’aggiustamento strutturale fa parte di una lunga lotta contro la privatizzazione della terra e contro le “recinzioni”, non solo delle terre comuni ma anche dei rapporti sociali, che risale alle origini del capitalismo. Ho anche capito che la vittoria che la disciplina del lavoro capitalistica ha ottenuto sulle popolazioni del pianeta è molto limitata e che molti ancora vedono la propria vita in modi radicalmente antagonisti ai canoni richiesti dalla produzione industriale. Per gli imprenditori, le multinazionali e gli investitori stranieri è proprio questo il problema di paesi come la Nigeria. Ma per me è stata una grande fonte di coraggio rendermi conto che nel mondo formidabili forze sociali si oppongono all’imposizione di un modo di vivere concepito solo in termini capitalistici. Devo questa nuova consapevolezza anche all’incontro con Donne in Nigeria (WIN), la prima organizzazione femminista del paese, che mi ha aiutata a comprendere le lotte che le donne nigeriane stanno sostenendo per difendere le proprie risorse e per rifiutare il nuovo modello di patriarcato, promosso dalla Banca Mondiale, che si vuole loro imporre.

Ben presto il programma di austerità adottato dal governo ha raggiunto anche il mondo accademico e, non essendo più in grado di mantenermi, nell’autunno del 1986 ho lasciato la Nigeria, se non con l’anima con il corpo. Ma non ho dimenticato l’attacco mosso contro il popolo nigeriano e, dopo il mio rientro, il desiderio di tornare a studiare la “transizione al capitalismo” non mi ha più abbandonata. Avevo letto gli eventi in Nigeria con le lenti dell’Europa del XVI secolo. Tornata negli Stati Uniti, è stato il proletariato nigeriano che mi ha riportato alle lotte per le terre comuni e contro il disciplinamento delle donne, dentro e fuori l’Europa. Dopo il mio ritorno ho iniziato anche a insegnare in un programma interdisciplinare per studenti universitari, dove ho dovuto affrontare un tipo diverso di enclosure: quella del sapere, la crescente perdita cioè, da parte delle nuove generazioni, del senso storico del nostro passato collettivo. Ecco perché nel Calibano e la strega ho ricostruito le lotte antifeudali del Medioevo e le lotte con cui il proletariato europeo ha resistito all’avvento del capitalismo. Il mio scopo non è stato solo quello di fornire ai non specialisti la documentazione su cui si basa la mia analisi; ho voluto anche far rivivere fra le giovani generazioni il ricordo di una lunga storia di resistenza che oggi corre il rischio di essere cancellata. Preservare la memoria storica è cruciale se dobbiamo trovare un’alternativa al capitalismo, perché ciò sarà possibile solo se saremo capaci di ascoltare le voci di coloro che hanno percorso lo stesso cammino.


Interviste a Silvia Federici

Il Laboratorio Sguardi sui Generis intervista Silvia Federici, in occasione della sua presenza in Val di Susa. L’intervista è in cinque parti visionabili su YouTube. Prima parte: autodeterminazione dei corpi, delle sessualità e delle scelte riproduttive. Seconda parte: i movimenti, i momenti di socialità e di riproduzione dei movimenti stessi. Terza parte: donne e movimenti. Quarta parte: Politica del Debito. Quinta parte: Femminicidio.

Gender Links recently interviewed Silvia Federici after the launch of her book, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), inspired by Federici’s organisational work in the Wages for Housework movement. In this interview she provides insight into book and shares her views on women’s on going struggle as well as gender-based violence. In this extended version of the interview she also discusses the importance of the commons, social reproduction, the need for more co-operative forms of organisation, valorising domestic work and how inequality and injustice is fueled by neo-liberal capitalism.

 

 

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Nel baratro https://www.carmillaonline.com/2013/12/28/nel-baratro/ Sat, 28 Dec 2013 00:00:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11633 di Sandro Moiso padroni1

Luca Ciarrocca, I padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni, Chiarelettere, Milano 2013, pp. 242, euro 13,90

Il libro di Ciarrocca, giornalista che ha vissuto per molti anni a New York, dove ha fondato il sito indipendente di economia, finanza e politica Wall Street Italia, è interessante per almeno due motivi. Il primo è sicuramente costituito dalla mole di dati riguardanti l’attuale crisi economica, esposti con chiarezza e semplicità (doti di cui quasi tutti gli analisti economico/finanziari sono generalmente sprovvisti). Il secondo dal fatto di essere un [...]]]> di Sandro Moiso
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Luca Ciarrocca, I padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni, Chiarelettere, Milano 2013, pp. 242, euro 13,90

Il libro di Ciarrocca, giornalista che ha vissuto per molti anni a New York, dove ha fondato il sito indipendente di economia, finanza e politica Wall Street Italia, è interessante per almeno due motivi. Il primo è sicuramente costituito dalla mole di dati riguardanti l’attuale crisi economica, esposti con chiarezza e semplicità (doti di cui quasi tutti gli analisti economico/finanziari sono generalmente sprovvisti). Il secondo dal fatto di essere un testo (inconsapevolmente?) contraddittorio. Molto.
Ma procediamo con ordine.

Il testo, pur inserendosi nell’attuale dibattito sull’utilità o meno dell’euro e delle scelte governative ad esso collegate, evita i toni della campagna anti-europeista ed anti-euro che rappresenta, nella confusione generale odierna, la panacea universale per molte, troppe forze politiche.
Inoltre, nonostante il titolo e i riferimenti ad una “cupola” finanziaria, l’opera non si occupa di ipotesi complottistiche né, tanto meno, del solito, strombazzatissimo dai poveri di spirito, Club Bilderberg.

Parla invece, e molto, di concentrazione finanziaria ed economica. . “La cupola non è il risultato di una colossale cospirazione di illuminati attuata con diabolica strategia, quanto un corollario oggettivo di decisioni che si producono per via di un’interazione parcellizzata di migliaia di interessi utilitaristici” (pag. 126).
Accumulando dati su dati e seguendo, anche se forse l’autore non vorrebbe sentirselo dire, quel lavoro iniziato nel 1916 da Lenin con “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Tanto che, per fare un esempio, Deutsche Bank costituisce un elemento di continuità tra i due libri così distanti nel tempo e dal punto di vista ideologico, mentre i processi di concentrazione finanziaria e bancaria degli ultimi decenni fanno impallidire i già significativi dati riportati all’epoca dal rivoluzionario russo.

Protagonisti indiscussi dell’opera sono i cosiddetti banksters (banchieri gangster) che si muovono a capo degli organismi finanziari più potenti e più ricchi, almeno sulla carta, della maggioranza delle nazioni del globo. Quegli organismi che oggi sono definiti come Too Big To Fail (troppo grandi per poter fallire), in gergo Tbtf. E che per questo motivo non si accaparrano soltanto i profitti prodotti dal sudore e dal lavoro di decine di milioni di lavoratori, ma anche gli aiuti degli stati, di cui, naturalmente, finiscono col dettare la politica.

Sarebbero in tutto una cinquantina, le mega aziende internazionali (in maggioranza istituti finanziari e banche Tbtf) che, attraverso un complicato incrocio proprietario, controllano il 40 per cento del valore economico e finanziario di 43.060 multinazionali globali. E’ qui il vero cuore dell’economia occidentale […] Tra le prime venti ci sono tutte le più nore Tbtf, tra cui, ai primi posti, Barclays Bank, JPMorgan Chase, Goldman Sachs. L’unica italiana è UniCredit, in 43esima posizione” (pp. 121 – 123) Mentre, si può aggiungere, sulla base dei dati forniti, Deutsche Bank Ag si trova al dodicesimo.

Ma la concentrazione finanziaria, tipica della progressione imperialistica, non si ferma lì. “Lo ha spiegato bene James Petras, professore di sociologia all’Università di Binghamton (New York), in un articolo dal titolo eloquente Who Rules America?, pubblicato nel novembre del 2007 sul suo sito web: « Oggi, secondo alcuni calcoli, il 2 per cento delle famiglie controlla l’80 per cento dell’intero patrimonio mondiale» […] Questi gruppi, secondo Petras, premono sui governi per salvare banche e aziende in bancarotta o fallite, spingono perché si arrivi al pareggio di bilancio tagliando la spesa sociale e il welfare” (pag. 121)

Naturalmente, oltre che determinare i governi e le loro scelte, i Tbtf sono anche coinvolti in vere proprie truffe finanziarie e in operazioni di riciclaggio oltre che protagonisti dei più clamorosi casi di evasione fiscale, ma gli istituti Too big to fail sono anche Too big to jail (troppo grandi per essere condannati ed andare in prigione).
Il 6 marzo 2013, nel corso di una testimonianza in un’audizione alla Commissione Giustizia del Senato al Congresso di Washington, Eric Holder (procuratore generale degli Stati Uniti) ha dichiarato: «Le dimensioni delle più grandi istituzioni finanziarie hanno fatto sì che per il dipartimento di Giustizia fosse difficile proporre l’azione penale e un processo per reati criminali. L’accusa – che potrebbe minacciare l’esistenza della banca stessa – nel caso degli istituti più grandi può anche mettere a repentaglio l’economia nazionale e quella globale, per via delle dimensioni e delle interconnessioni» Le grandi banche costituiscono dunque il vero «nocciolo duro» del potere politico ed economico su cui poggia il moderno capitalismo” (pag. 42)

I megaistituti di credito del mondo hanno asset1 complessivi per un totale di 47 trilioni di dollari2 “ (pag. 24). Mentre “James Henry, ex-capo economista della società di consulenza aziendale McKinsey, nel suo studio condotto nel 2012 The Price of Offshore revisited, sostiene che i patrimoni dei super ricchi di tutto il mondo occultati in circa ottanta paradisi fiscali ammontano a 21.000 miliardi di dollari. Anzi, in realtà la cifra potrebbe addiritura salire a 32.000 miliardi, dal momento che l’esperto nella sua analisi ha monitorato e preso in considerazione solo i depositi bancari e gli investimenti finanziari, tralasciando beni e proprietà come case, appartamenti, ville, yacht e collezioni d’arte. Una cifra spropositata, che in termini nominali è superiore al Pil di Stati Uniti, Giappone e Germania messi insieme […] Scrive Henry: «Le mancate entrate fiscali che risultano dalle nostre stime sono enormi. Abbastanza da cambiare le finanze di molti paesi. Il tutto costituisce un enorme buco nero nell’economia mondiale»” (pp. 58 – 59)

Non occorre qui dilungarsi oltre sulla mole enorme di dati che l’autore porta ancora sui fenomeni di riciclaggio di denaro sporco, sull’autentico gioco d’azzardo costituito dagli investimenti e dalle speculazioni sui diversi tipi di autentica spazzatura finanziaria (derivati e altro) che “animano” bolle speculative e mercati azionari. Anche per non togliere il “piacere della scoperta” ai futuri lettori del libro. Ma una cosa è certa: “la speculazione ha nomi e volti. Sono i grandi player della finanza che si indebitano per moltiplicare le loro scommesse sui mercati, affiancati dagli hedge fund, che dipendono direttamente dalle banche per linee di credito e operatività, e infine dalle grandi multinazionali, la cui attività sui mercati è spesso più redditizia e importante di quella produttiva” (pag. 97)

Alla fine della lettura del testo risulta dunque che la rovina di un sistema economico e finanziario sempre più vicino alle regole del gioco d’azzardo e dei casinò è stata soltanto procrastinata dal 2008 in poi. L’azzardo sui derivati ha gonfiato a dismisura il valore nominale del capitale circolante. “I numeri parlano chiaro, lo squilibrio è stupefacente anche per i non addetti ai lavori: questi prodotti nel mondo valgono in totale 637 trilioni di dollari, cioè circa dieci volte il Pil mondiale […] Non abbiamo mai assistito a nulla di simile nella storia del mondo. Soprattutto se pensiamo che il Pil globale si attesta a 71,6 trilioni di dollari (dati del 2012), mentre è intorno ai 190 trilioni la dimensione approssimativa del valore totale del debito pubblico e privato in tutto il mondo” (pp.102-103)

E’ un tavolo del casinò truccato, dove il banco vince sempre. La vera corruzione risiede nel fatto che, se la scommessa funziona, l’istituto di credito guadagna, in caso contrario, le perdite vengono socializzate. Un espediente diabolico in cui tutti noi ormai siamo vittime in prima persona, in quanto il nostro tenore di vita, di singoli e di paese, continua a calare” (pag. 113)

“Il meccanismo è perverso e totalmente fuori controllo. Un intreccio malsano tra debiti governativi e passivo del bilancio delle banche che continuerà a pesare per decenni sulle spalle dei cittadini inermi, vessati da classi politiche miopi se non corrotte. E’ scandaloso che per il solo saldo di interessi su debiti che crescono a dismisura, e non saranno mai estinti, le economie nazionali come quella greca o italiana siano ingabbiate nella non crescita e le popolazioni debbano sopportare una micidiale doppietta di tasse alte e di tagli dei servizi essenziali” ( pag. 109)

Un debito che non potrà mai essere pagato, basti pensare alla situazione italiana in cui la crescita esponenziale del debito pubblico è dovuta principalmente alla crescita dei titoli emessi per ripagare annualmente gli interessi su quelli emessi precedentemente richiederebbe manovre dell’ordine degli 80 – 90 miliardi di euro all’anno, porterà inevitabilmente ad un’ulteriore catastrofe economico finanziaria. Che l’autore, insieme a numerosi altri esperti interpellati o intervistati, situa, al più tardi, intorno al 2018. A meno che non siano prese drastiche, rigorose ed autoritarie misure tese a limitare decisamente lo strapotere dei banksters e dei loro istituti.banksters1

Ma qui si apre anche l’altra parte del libro, quella più contraddittoria, in cui Ciarrocca tenta di delineare un progetto di uscita dal disastro senza dover per forza modificare le regole del modo di produzione capitalistico e della società mercantile basata sulla circolazione delle merci e del denaro. Una proposta comunque di difficile attuazione poiché, come dice ancora lo stesso autore: “se avessimo a che fare con uomini intelligenti e lungimiranti e non con personaggi dominati dall’avidità, forgiati dalla cultura del profitto avvallata da imponenti studi legali, governi e banche dovrebbero puntare a una graduale riduzione della leva (leverage), la perpetuazione di rischi fondata sull’indebitamento, sull’uso dei derivati e sul sistema bancario ombra. Invece i banksters non accetteranno nulla che ridimensioni il loro potere, a meno che non venga imposto loro con la forza. Perché non è nel loro interesse” (pag. 107)

Nella proposta di cambiamento, basata su una diversa offerta di denaro, non più soggiogata e determinata dai colossi del credito, e su una svalutazione dell’euro, Marx non viene mai preso in considerazione, così come non lo è, sicuramente, la lotta di classe e il suo diverso punto di vista prospettico sull’antagonismo sostanziale e irriducibile tra lavoro e capitale mentre l’attenzione è ancora rivolta alle difficoltà, anzi all’autentica scomparsa, della classe media.

La politica ha continuato a fare il suo gioco, truccato, succhiando dall’economia reale le poche risorse ancora disponibili. Risultato: la classe media, acquirente e consumatrice dei beni prodotti e immessi sul mercato dalle quarantamila multinazionali della «cupola», annaspa, alla ricerca di un benessere perduto che non troverà mai più. Con diverse declinazioni: l’Asia cresce (anche se a ritmi rallentati); gli Stati Uniti riemergono, ma con rischi sistemici latenti e irrisolti. L’Europa arretra e si impoverisce” (pag. 128)

Ma questa sembra essere la condanna di questa nuova età di mezzo in cui ci troviamo a vivere: la certezza del disastro accompagnata dall’insicurezza e dalla debolezza delle proposte di coloro che ancora rifiutano l’ipotesi, classista e rivoluzionaria, dell’esproprio e della ridistribuzione della ricchezza socialmente prodotta in nome di valori identitari che sono già storicamente e definitivamente morti (nazione, patria e patrimonio famigliare).


  1. Asset (in italiano cespite), è un termine usato per indicare i valori materiali e immateriali a utilità pluriennale facenti capo ad una proprietà. Nello stato patrimoniale sono parte delle attività  

  2. Un trilione equivale a mille miliardi  

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