Multiculturalismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La pillola rossa dell’alt-right – 3 https://www.carmillaonline.com/2023/07/23/la-pillola-rossa-dellalt-right-3/ Sun, 23 Jul 2023 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77812 di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto [...]]]> di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto consumatore passivo della televisione, del cinema e della letteratura – ciò che preoccupa maggiormente è la convergenza tra l’identità gamer e l’estrema destra»1.

Diversi studi evidenziano la parziale sovrapponibilità tra il target di riferimento dell’alt-right e quello dell’industria videoludica; se Kristin Bezio2, ad esempio, coglie la contiguità demografica tra i potenziali partecipanti alle discussioni promosse dall’alt-right e i gamer, Anita Sarkeesian3 individua diverse affinità in termini di immaginario, bersagli e strategie tra alcune campagne sorte all’interno dell’universo videoludico e i movimenti politici della destra radicale statunitense.

Il caso forse più eclatante di come una campagna d’odio esplosa nelle piattaforme degli appassionati di videogame fortemente intrisa di immaginario conservatore, reazionario, che desidera ripristinare un passato idealizzato in cui l’universo videoludico era appannaggio esclusivo di uomini bianchi eterosessuali, è sicuramente quello del cosiddetto GamerGate.

Tutto è iniziato nell’agosto del 2014 quando, a partire da  un’invettiva contro una sviluppatrice di videogiochi pubblicata dall’ex fidanzato su un blog, una nicchia di giovani gamer maschi e bianchi ha lanciato una delirante campagna votata a denunciare la “corruzione” del mondo dei videogiochi in buona parte, a loro dire, determinata dalla presenza di alcune donne intenzionate a stravolgerlo. Si è trattato di uno dei primi casi in cui una discussione priva di rilevanza pubblica, porta avanti da un gruppo di individui, grazie al web, è sfociata in una campagna reazionaria di proporzioni spropositate rispetto alla causa scatenate, palesando quanto rancore misogino e chiusura identitaria covassero in corpo tanti giovani gamer.

Michael Salter4 invita a guardare quanto si manifesta all’interno degli ambienti videoludici come a una spia delle trasformazioni sociali in atto. «Non a caso, è nel contesto videoludico che l’aggressione rappresenta una modalità standard di partecipazione pubblica sulle piattaforme tecnologiche». Gli abusi e le molestie che contraddistinguono gli ambienti dei gamer risultato «in stretta relazione alle dinamiche più reazionarie dell’identità maschile e alla sottesa ideologia della tecnologia digitale»5. In particolare, Salter ricostruisce l’evoluzione del concetto di gender in ambito informatico mettendo in luce i suoi legami con la “mascolinità geek” fondata sul concetto di padronanza tecnologica.

Nell’ambito di Gamergate, l’impulso maschile a difendere determinate tecnologie – videogiochi e internet in primis – dall’assedio (reale o percepito) da parte di donne e utenti più diversificati, ha evidenziato la fragilità della mascolinità geek e la sua dipendenza da forme inique di egemonia tecnica. Non è un caso che particolari piattaforme – come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter – si siano rivelate terreno fertile per le campagne misogine di Gamergate6.

L’analisi di Salter mostra come «la lotta delle donne e di altri soggetti marginalizzati per accedere in modo più equo alla cultura e al contesto lavorativo dell’high tech» sia «complicata dalla mascolinizzazione della tecnologia, che privilegia l’egemonia di genere»7.

Nella cultura occidentale l’equiparazione della mascolinità alla tecnologia ha attribuito il primato maschile sull’accesso ai mezzi tecnici e la «progressiva mascolinizzazione delle industrie e delle culture informatiche ha incentivato intensi investimenti affettivi e identificazioni psicologiche da parte di uomini e ragazzi, generando permutazioni tecnologiche della soggettività maschile, che ha assunto nuove forme. Una delle più recenti è stata definita mascolinità geek8. Con tale espressione si indica «una soggettività di genere che prevede la rivendicazione – da parte di adulti e adolescenti di sesso maschile – della padronanza tecnologica come fattore essenziale dell’identità maschile»9.

La mitologia della rivoluzione informatica celebra gli ideali dell’individualismo, della competitività e dell’aggressività, elementi normativi nella mascolinità geek fin dall’avvento delle reti.[…] L’afflusso di utenti femminili e più diversificati sulle piattaforme di social media, nei videogiochi e in altri campi dell’elettronica di consumo ha messo in discussione l’equivalenza tra la tecnologia maschile e l’identità maschile geek. Il fenomeno è stato accompagnato da un’escalation di abusi e molestie che hanno avuto origine nelle sottoculture dominate dai geek, ma che oggi sono diventate parte del mainstream. […] Gamergate illustra in modo paradigmatico la congruenza sociotecnica tra la mascolinità geek e una comunicazione che prevede la sistematica oppressione dell’altro. Questa esplosione senza precedenti di molestie online che ha avuto origine all’interno delle sottoculture videoludiche si è diffusa in modo virale grazie a piattaforme come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter. […] Tale campagna di abusi è diventata endemica perché la sua razionalità di fondo era evidente nella progettazione, governance e strategia comunicativa di numerose piattaforme online. Non si tratta di una mera coincidenza: l’architettura e l’amministrazione di queste piattaforme condividono l’ideologia della cultura geek e delle industrie correlate. Ergo, l’abuso online prodotto e promosso da questa campagna d’odio non è un’anomalia: la tecnologia è sempre simbolicamente e strategicamente implicata nelle affermazioni dell’aggressione maschile10.

Su GamerGate si sono fatti le ossa, conquistando la popolarità, personaggi poi divenuti di spicco nell’ambito dell’alt-right come Milo Yiannopoulos e Phil Mason.

Il nucleo narrativo di Gamergate secondo il quale i simboli della tecno-mascolinità, come i videogiochi e internet, sono stati attaccati frontalmente in una “guerra culturale” condotta da femministe e progressiste, si è fuso con altri movimenti reazionari dell’identità maschile, assumendo forme inaspettatamente virulente. 4chan e le forme associate di mascolinità geek hanno svolto un ruolo chiave nel promuovere e sostenere la campagna elettorale del presidente americano Donald Trump attraverso strategie che hanno offuscato il confine tra politica mainstream, misoginia organizzata e supremazia bianca11.

Se l’intrecciarsi di disuguaglianza di genere, alienazione capitalistica e tendenza maschile a riversare sulle donne le proprie frustrazioni non è di certo una novità, di nuovo c’è, secondo Salter, l’uso che ne ha fatto l’alt-right per mobilitare l’aggressività maschile.

Lo stesso Trump ha beneficiato dei meccanismi retorici e di mobilitazione che si sono sviluppati in rete nella sua campagna contro i politici di professione pretendendo di dare voce al rancore contro l’establishment di “un intero popolo” alle prese con gli effetti della globalizzazione. Trump è certamente espressione di un populismo che, riprendendo la definizione proposta da Jan-Werner Müller, può essere visto come

una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. […] Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico12.

Il web offre ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale che, per quanto contraddittorio possa sembrare, bene si amalgama al mito della cultura online della “protesta senza leader”.

I leader carismatici contemporanei prescindono dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità delle formazioni politiche tradizionali, rafforzando al contempo i rapporti con i loro potenziali seguaci con «promesse che si sa già non potranno essere mantenute, solo per rassicurare un bacino elettorale sicuro di niente, ma solo di essere stato trascurato da tutte le altre forze politiche. Ad esso ci si rivolge cercando di creare processi identificativi inesistenti, facendo credere di essere parte della massa»13 anche miliardari abituati al lusso più sfrenato che hanno cosrtruito il loro impero economico in buona parte prorprio attraverso ciò che dicono di voler combattere.

Indubbiamente questa particolare forma di cyberpopulismo, derivata dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità, ha potuto dilagare anche perché si è rivelata «capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo»14.

La fortuna di molti movimenti d’opinione etichettati come populismi, secondo Alessandro Dal Lago, è in buona parte dovuta al diffondersi di un tipo di comunicazione online in cui prevalgono i soggetti digitali sugli esseri umani reali.

Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali15.

L’editorialista del “Chicago Tribune” Clarence Page ha messo in relazione il successo della serie televisiva The People Vs. O.J. Simpson. American Crime Story (2016)16 e la campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca, sostenendo che per entrambi i casi si può parlare di dispute tra “narrative” di intrattenimento17.

La “narrativa”, sostiene Page, ha un ruolo determinante nella vittoria elettorale e il consenso può essere ottenuto ricorrendo a strategie da reality show date in pasto a un pubblico avido di essere intrattenuto: occorre dire qualcosa di scandaloso per poi, mentre tutti ne stanno ancora discutendo, rilanciare con una nuova affermazione scioccante. Ai seguaci spetta il compito di costruire sui social una comunità di sostengo impenetrabile da ogni altra informazione discordante. Quando serve riconquistare il centro della scena si ricomincia da capo rimettendo in moto il meccanismo.

Trump si è rivelato sicuramente abile nell’adottare per le sue campagne meccanismi propri dei reality show, di buona parte dell’entertainment della tv generalista contemporanea e dello stesso universo online, in questo, non poi così diverso dagli odiati media verticistici tradizionali di cui si pretende tanto diverso.

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene il sociologo Dal Lago, è la tangenzialità: il più delle volte gli interlocutori evitano di entrare nel merito di ciò che commentano, preferendo limitarsi a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale: molti dibattiti online si rivelano contenitori di interventi del tutto privi di argomentazioni.

Negli Stati Uniti, a tutto ciò si deve aggiungere un sempre più esibito orgoglio del “non sapere le cose”, soprattutto in ambito politico. L’ignoranza, al pari di una narrazione semplicemente altra, poco importa quanto improbabile possa essere, diviene una sorta di trincea entro cui rifugiarsi per evitare il difficile confronto con quanto viene derubricato come narrazione dominate, dunque da rigettare aprioristicamente.

Tutto ciò, sostiene Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss University Press 2023), si colloca ben oltre la tradizionale avversione americana per gli intellettuali. Ciò che si sta palesando negli Stati Uniti da qualche tempo non è soltanto un’incredibile disponibilità a credere a qualsiasi cosa non sia percepita come versione manistream, ma anche un’orgogliosa e arrogante opposizione attiva ad approfondire le questioni su cui si interviene pur di non abbandonare la comfort zone delle proprie improvvisate convinzioni. Non si tratta di «non fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative», quanto piuttosto di «una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione»18.

La propensione a cercare informazioni che avvalorino e rafforzino ciò in cui già si crede e a rigettare aprioristicamente quanto possa contraddirlo non nasce certo con internet ma è indubbio quanto questo si presti al meccanismo del “bias di conferma”. Se le leggende popolari e altre superstizioni sono tipici esempi di bias di conferma e di argomentazioni non falsificabili, i casi più estremi, sostiene Nichols, sono ravvisabili nelle teorie complottistiche. «I teorici del complotto manipolano tutte le prove tangibili per adeguarle alla loro spiegazione, ma, quel che è peggio, usano anche l’assenza di prove come conferma ancora più definitiva. […] Fatti, assenza di fatti, fatti contraddittori: tutto è una prova. Nulla può mettere in crisi la convinzione su cui si basa la teoria»19.

Il successo del genere conspiracy thriller, continua Nichols, deriva anche dal suo eroicizzare l’individuo che trova la forza e il coraggio di combattere contro una grande cospirazione capace di soffocare qualsiasi altro comune mortale. «La cultura americana, in particolare, è attratta dall’idea del dilettante di talento (in contrasto, per esempio, con gli esperti e le élite) che può sfidare interi governi – o organizzazioni addirittura più grandi – e vincere»20. Le teorie del complotto, che oggi sembrano sembrano derivare soprattutto dal disorientamento economico e sociale provocato dalla globalizzazione, risultano particolarmente attrattive per coloro che hanno difficoltà a dare un significato alla complessità e non sono in grado o non intendono compiere lo sforzo necessario per approfondire spiegazioni meno suggestive21. L’alternative right è prosperata online anche grazie a tutto ciò.

Se nel successo di Trump numerosi commentatori hanno visto una sorta di reazione della “gente qualunque” sentitasi abbandonata dallo snobismo liberal, in realtà, secondo Angela Nagle, a darsi è stato piuttosto il passaggio

da una certa forma di elitismo sottoculturale a un improvviso amore per il proletariato, addirittura per il disinteressato sostengo dei meno fortunati, come se la destra sostenesse da sempre argomenti come quelli di Thomas Franck e non, come in effetti era sempre accaduto, tesi favorevoli alla diseguaglianza o altri argomenti misantropici o economicamente elitari a sostegno della gerarchia naturale22.

Ben da prima che la retorica della “gente qualunque” diventasse onnipresente sui siti di destra, personaggi dell’alt-right come Milo Yiannopoulos si facevano fotografare con t-shirt recanti la scritta “Stop Beeing Poor”, riprendendo una maglietta sfoggiata da Paris Hilton. Dopo il successo trumpiano lo stesso Yiannopoulos ha tenuto diverse conferenze sulla “nuova classe operaia bianca”.

A fronte di questo improvviso interesse per la classe operaia bianca, occorre sottolineare come nell’ambito dell’estrema destra statunitense vi fosse la tendenza a rigettare l’idea dei conservatori che voleva la massa come loro “naturale” alleato ritenendo piuttosto ormai irrecuperabile la società massificata e indottrinata dal “multiculturalismo femminista di sinistra”. Nell’universo dell’alt-right sul web prevale da tempo una sottocultura snobistica verso le masse e la cultura di massa; la destra radicale online si vuole ristretta avanguardia altra rispetto alla massa nei cui confronti guarda con diffidenza quando non con ostilità.

Sono state proprio le idee incredibilmente vacue e fraudolente della trasgressione controculturale a creare il vuoto in cui oggi può confluire qualsiasi cosa purché ostenti sdegno dei gusti e dei valori manistream. È proprio questo che ha permesso che una cultura oggi evidente in tutto il suo orrore venisse romanticamente interpretata dai progressisti come una forza di opposizione all’egemonia culturale. La verità che tutto ciò ha svelato, secondo [Angela Nagle], è che sia la cultura vicina alla destra di 4chan, sia quella politicamente ipercorretta dell’accademia, hanno subito il fascino controculturale dello sdegno per tutto ciò che è di massa23.

Angela Nagle sottolinea anche come i Cultural Studies della Scuola di Birmingham abbiano guardato con occhi eccessivamente acritici alle sottoculture esaltandole per la loro carica radicale, trasgressiva e antiegemonista. Tale benevolenza deriverebbe, secondo la studiosa Sarah Thornton24, dal desiderio di trovare nelle sottoculture una sponda utile a contrastare le ideologie dominanti e perché tanto l’oggetto di studio (le sottoculture) che chi le affrontava (studiosi) erano accomunati da una sostanziale ostilità nei confronti della società di massa.

Il limite di approcci come quello di Dick Hebdige25, secondo Thornton, consiste nella tendenza a guardare alle sottoculture come a realtà nude e pure, mentre, a suo avviso, queste si intrecciano inevitabilmente con l’ambito mainstream e ciò risulterà sempre più evidente a partire dagli ultimi decenni del vecchio millennio quando il sistema si è dimostrato perfettamente in grado di riassorbire anche le spinte culturali più provocatorie rendendole profittevoli26:

rispetto alla scena inglese indagata da Hebdige le cose sono cambiate e parecchio, tanto da rendere oggi problematico anche solo ricorrere al termine sottocultura nelle modalità con cui vi si ricorreva qualche decennio fa. Ad essere mutata è anche la capacità della macchina del business di mercificare e di riassorbire fenomeni nati più o meno con intenzioni sottrattive, se non antagoniste, rispetto al sistema stesso. […] Da qualche tempo lo stesso ricorso alla provocazione è divenuto una strategia utilizzata con una certa frequenza dalla cultura e della moda manistream. […] Nella contemporaneità sembra ormai che normalità e devianza, da questo punto di vista, siano due strade, nemmeno così diverse, che conducono all’omologazione della mercificazione. Indipendentemente da quale sia il percorso seguito, le identità faticosamente costruite necessitano comunque di conferme, di una patente ottenuta attraverso una pubblica accettazione e qua fanno capolino i social network, ove i like o altri indicatori di apprezzamento rappresentano l’unità di misura del successo davanti al pubblico27.

Nelle sottoculture geek, sostiene Angela Nagle, l’idea di preservare il proprio ambito da contaminazioni che potrebbero “normalizzarlo” è molto presente. In tali ambienti generano forte disprezzo, ad esempio, le giovani ritenute un po’ superficiali con gusti mainstream che tentano di inserirsi nelle sottoculture alt-right utilizzando scorrettamente gli indicatori di appartenenza al gruppo dimostrano così di non aver compreso lo status elitario dei suoi appartenenti e per questo sono trattate con ostilità.

Come molte sottoculture, anche quelle della galassia alt-right, quasi sempre dominate da nerd maschi e bianchi, guardano con ostilità a tutto ciò che non appartiene alla loro cerchia. Chi, ad esempio, non trova esaltante il ritorno al separatismo razziale o l’idea di porre fine all’emancipazione femminile viene frequentemente accusato in internet, soprattutto se donna, di essere “normie” e “basic bitch”. «Siamo al punto che l’idea di essere figo/controculturale/trasgressivo può mettere un fascista in posizione di superiorità morale rispetto a persone normali», scrive Nagle; occorre dunque «riconsiderare il valore di queste idee di controcultura ormai stantie e logore»28.

Angela Nagle, oltre all’indubbio merito di ricostruire i conflitti culturali online degli ultimi decenni che hanno contribuito a formare l’immaginario di tanti giovani statunitensi che nel frattempo si sono fatti adulti, mostra anche come ribellione, provocazione e logiche controculturali che prendono di mira il sempre più logoro establishment non siano affatto esclusiva di una sinistra che, quando non si palesa essa stessa come establishment, ha saputo esprimere

un progressismo puramente identitario e autoreferenziale, cresciuto a sua volta nelle sottoculture web e arrivato poi nei campus universitari […]. Tutto d’un tratto sembrano lontanissimi i giorni dell’utopia, della rivoluzione digitale senza leader di Internet, quando i progressisti si rallegravano che “il disgusto” fosse “diventato un network” e fosse esploso nella vita reale29.

Quel disgusto fattosi network online non ha fatto che rigurgitare dapprima sullo schermo, poi fuori da esso, i peggiori istinti di esseri umani alienati e incapaci di mettere radicalmente in discussione un modello economico, di vita e di relazioni sociali che rappresenta la causa principale delle loro sofferenze.

Di certo la via di uscita non la si otterrà inseguendo le promesse reticolari-partecipative di un web sempre più indirizzato al controllo comportamentale e predittivo, capace di estrarre profitto anche dalle pretese antisitemiche sullo schermo più radicali, né rincorrendo le logiche della “pillola rossa” rivelatrice di verità il più delle volte coincidenti con semplicistici ribaltamenti di quanto passa il manistream, credendo davvero che le culture dei due ambiti siano nettamente differenziabili.

Le tecnologie della connettività online che stanno facendo la fortuna dell’alterntive right si stanno rivelando inadeguate allo sviluppo di esperienze realmente trasformative della realtà in senso libertario e solidaristico.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, […] non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento30.

In astinenza da piazze e socialità novecentesche, occorrerà  negare sostegno a un establishment impresentabile, non tanto perché “corrotto” ma innanzitutto in quanto espressione di un sistema di per sé indifendibile, e al contempo evitare di farsi prendere dalla frenetica ricerca di facili quanto improbabili scorciatoie ottenute attraverso semplicistici “ribaltamenti” di quanto è mainstream, di guardare a indigeribili alleanze, di indirizzarsi verso logiche complottistiche e parole d’ordine improponibili pensando davvero di poter controllare il mostro anziché farsi dominare da questo.

La pillola rossa dell’alt-right – serie completa


Bibliografia

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  2. Kristin Bezio, Ctrl-Alt-Del: GamerGate as a precursor to the rise of the altright, in “Leadership”, 2018, vol. 14, n. 5. 

  3. Anita Sarkeesian, Anita Sarkeesian Looks Back at GamerGate, in “Polygon”, 23 dicembre 2019 

  4. Michael Salter, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  5. Ivi 142 

  6. Ivi, p. 143. 

  7. Ivi, p. 169. 

  8. Ivi, p. 146. 

  9. Ivi p. 147. 

  10. Ivi, pp. 149-151. 

  11. Ivi, p. 161. 

  12. Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017. 

  13. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 56-57 [su Carmilla]

  14. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, 2017, p. 22 [su Carmilla]

  15. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, op. cit., pp. 73-74. 

  16. The People v. O.J. Simpson: American Crime Story (2016) – prima stagione della serie televisiva American Crime Story prodotta da FX Netwoks – riprende il libro di successo The Run of His Life: The People v. O.J. Simpson (1997) di Jeffrey Toobin. 

  17. Cfr. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto, op. cit. 

  18. Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2023, p. 13. 

  19. Ivi, p. 69. 

  20. Ivi, p. 71. 

  21. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018 

  22. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018,, pp. 143-144. 

  23. Ivi, p. 149. 

  24. Sarah Thornton, Club Cultures. Music, Media and Subcultural Capital, Polity Press, Cambridge, 1995. 

  25. DickHebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano, 2017. Sul volume si veda: Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, in “Il Pickwick”, 18 ottobre 2017. 

  26. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Quando lo street style diventa mainstream, in “Carmilla”, 5 giugno 2022. 

  27. Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, op. cit. 

  28. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, op. cit., p. 152. 

  29. Ivi, p. 168. 

  30. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 126-127 [su Carmilla]

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La pillola rossa dell’alt-right – 2 https://www.carmillaonline.com/2023/07/14/la-pillola-rossa-dellalt-right-2/ Fri, 14 Jul 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77740 di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva [...]]]> di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva per ciò che è accettabile; dal momento in cui il discorso viene riconosciuto come consueto e condivisibile, l’utente viene accompagnato in modo “naturale” verso lo stadio successivo ove incontrerà immagini più forti e discorsi più radicali.

Naturalmente, gli individui affiliati anche in modo informale all’alt-right sono relazionali nel senso che sono connessi a vaste infrastrutture sociali e comunità online. Ma non appartengono a un’organizzazione e nemmeno a una cellula. Infatti, questi giovani, spesso disoccupati, si ritirano intenzionalmente dalla società, abbracciando il loro nuovo isolamento sociale anziché rifuggerlo […] Le recenti violenze perpetrate dall’alt-right sono difficili da prevedere e prevenire. Il razzismo e la xenofobia degli aggressori sono stati alimentati, coltivati e incoraggiati negli ambienti più disparati della rete […] Istigando soggetti alienati attraverso una retorica basata sull’odio e l’antagonismo, l’esito non può che essere distruttivo. Le condizioni che alimentano e incentivano l’indignazione, che incitano alla violenza, che perpetuano gli stereotipi razzisti, prima o poi spingeranno un soggetto particolarmente impressionabile e psicologicamente debole a comportamenti estremi1.

Gli individui che esprimono idee vicine all’alt-right sono il più delle volte persone comuni – spesso giovani bianchi disoccupati che si isolano intenzionalmente dal resto della società – che, un passo alla volta, meme dopo meme, video dopo video, hanno maturato convinzioni che considerano corrette e lapalissiane. Pur non facendo parte di gruppi “emarginati” o “assediati”, i discorsi di molti uomini bianchi che si sono avvicinati all’alt-right sono infarciti di retorica di persecuzione e vittimismo. Stando a un recente rapporto, circa undici milioni di statunitensi si dicono persuasi che nel loro paese i bianchi siano le “vittime” ed esprimono la profonda convinzione dell’importanza della “solidarietà bianca”2. «In breve, ci sono undici milioni di americani potenzialmente ricettivi ai messaggi dell’alt-right. Considerato nel più ampio contesto della popolazione, il simpatizzante dell’alt-right è un normale radicale e un estremista mainstream»3.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto su cui può far presa la retorica dell’alt-right è un individuo disilluso e cinico che, anche quando socialmente inserito, non trova felicità nella sua quotidianità e nel sistema politico che la governa. Un individuo alla ricerca di una sua dimensione all’interno di una comunità strutturatasi nell’universo online su una specifica questione che spesso diventa la sua unica questione esistenziale, una figura che, secondo Matteo Bittanti 4, non è molto diversa da quella di tanti gamer appassionati di giochi “sparatutto in prima persona” che magari, in diversi casi, sono usciti dagli schermi per partecipare all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Oltre che poter contare su una rete di supporter influenti e su un’immensa disponibilità economica, senza le quali, è bene sottolinearlo, nessuna escalation si sarebbe potuta dare, Trump ha saputo sfruttare la cultura dell’altrnative right permettendole di contaminare l’establishment. Nell’analizzare il successo del tycoon statunitense, Alain Badiou5 ha argomentato come a suo avviso le posizioni politico-culturali di questo outsider rappresentino una sorta di “esteriorità interna” al sistema, un’esteriorità dispensatrice di false promesse portate avanti con un linguaggio roboante, violento, demagogico, irrazionale e semplicistico che non ha esitato a recuperare vecchi immaginari nazionalisti, razzisti, bigotti e sessisti, pur presentandoli, talvolta, in maniera nuova.

Come diversi analisti, anche Badiou ritiene che il successo di Trump sia stato costruito sfruttando quel senso di profonda frustrazione derivata dall’incapcità di proiettarsi nel futuro patito da larghi strati della popolazione privi, come sintetizza efficacemente Fabio Ciabatti, di «un insieme sufficientemente forte e articolato di principi condivisi in grado di fungere da mediazione tra il soggetto individuale e il progetto collettivo dell’emancipazione, di costituire un’unione strategica globale di tutte le forme di resistenza e di azione politica»6.

La “pillola rossa” offerta dall’alt-right e la “pillola blu” dispensata dall’establishment, al di là del diverso colore, conterrebbero, in definitiva, il medesimo principio attivo volto a preservare le fondamenta basilari di un sistema che non ammette alternative a sé stesso.

Sandro Moiso individua nella retorica del “duro lavoro”, onnipresente nel discorso dell’alt-right trumpiana, uno degli elementi cardine del suo successo tra la working class statunitense.

Perché è proprio nel concetto di lavoro inteso come partecipazione alla creazione della ricchezza della Nazione che si nasconde la grande fascinazione esercitata dal fascismo su una parte significativa della classe operaia. Nazionalismo, razzismo, esclusione e prevaricazione di genere, bellicismo non sono altro che i corollari, a livello ideologico, di un concetto che è penetrato in profondità nella mentalità di coloro che collegavano e collegano ancora il benessere proprio alla fatica e allo sfruttamento produttivo. […] Il barbecue famigliare e buy american cui il nuovo presidente invita i suoi elettori è fatto di cibo spazzatura e di illusioni di grandezza, di violenza e odio nei confronti degli immigrati e di qualsiasi nemico. Esterno o interno che sia7.

Tutto ciò, sostiene Moiso, era già presente, per quanto in maniera meno esplicitata, in quell’establishment di cui l’universo alt-right trumpiano si dichiara nemico. Rispetto alla tranquillizzante “pillola blu” proposta dall’establishment liberal-democratico o conservatore, ciò che la “pillola rossa” alt-right trumpiana ha esplicitato è «l’intima connessione tra interesse privato e nazionale che è il fondamento dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta. Da cui deriva l’intrinseca e inscindibile connessione che corre tra le politiche liberali e il loro rovescio apparente: il fascismo»8.

Se al fine di “smascherare” qualche personaggio o istituzione dell’establishment nel corso del tempo hanno fatto ricorso a forme di “hacktivismo moralizzatore” tanto militanti di sinistra che di destra, questi ultimi hanno saputo garantirsi una certa egemonia all’interno della chan culture. Spetta a 4chan il ruolo di apripista in tale ambito. Per dare un’idea del bacino su cui ha potuto contare la cultura di destra fattasi egemone su 4chan, basti pensare che la sezione del forum Something Awful intitolata The Anime Death Tentacle Rape Whorehouse, inaugurata nel 2003, luogo di ritrovo di tanti appassionati di anime giapponesi, ha  raggiunto circa 750 milioni di visualizzazioni mensili nel 2011.

Attraverso una prolifica produzione di meme e troll la comunità di 4chan ha dato voce a una cultura profondamente misogina di appassionati di videogame di guerra e di film come Fight Club (1999) di David Fincher e The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski, per quanto letti da una prospettiva probabilmente altra rispetto a quella degli autori. L’anonimato consentito dal sito ha certamente incoraggiato i partecipanti a esprimersi senza freni in un’escalation sempre più sguaiata in cui l’ironia e la parodia hanno finito per intersecarsi con le provocazioni, le minacce e gli insulti della destra radicale. «La troll culture di 4chan brulicava di razzismo, misoginia, deumanizzazione, pornografia disturbante e nichilismo anni prima di diventare una forza centrale dietro l’estetica e lo humor della alt-right»9.

Ad accomunare tanti frequentatori di 4chan e gli estremisti della destra più radicale è stata la comune insofferenza nei confronti del politcally correct, del femminismo, del multiculturalismo e, soprattutto, il timore che tali tendenze potessero “infettare” il loro mondo online privo di regole e dominato dall’anonimato. Il livello degli insulti e delle minacce online ha spesso preso come bersaglio le donne accusate, in definitiva, di aver condotto al declino del “maschio occidentale”. Nella preoccupazione per la mascolinità bianca e occidentale che emerge in molta web culture anonima e priva di leader, secondo Nagle, si potrebbero cogliere  la avvisaglie di un malessere occidentale che va ben al di là dello specifico.

All’espansione di politiche identitarie liberal ha fatto da contraltare il proliferare di reazioni sempre più sguaiate e incattivite portate avanti, in internet, attraverso raffiche di meme e troll virulenti fino alle minacce dirette con tanto di  pubblicazione di informazioni riservate, indirizzi compresi, dei soggetti presi di mira, soprattutto da parte dei gamer antifemministi, dunque allargando, di fatto, la sfera d’azione al di fuori degli schermi.

Secondo Nagle a diffondere la misoginia – come del resto il razzismo, la transfobia ecc. – presente in internet nelle pieghe del corpo sociale, più che le frange radicali dell’alt-right sarebbe stata la sua componente maggioritaria, la cosiddetta alt-light, grazie a personaggi come Milo Yiannopoulos, molto popolare su Twitter e su diversi blog, Mike Cernovich, autore di una celebre guida all’essertività maschile, e una schiera di produttori di meme (Pepe the Frog ecc.) mossi, più che da una visione politica precisa, dalla propensione al politicamente scorretto fine a sé stesso.

Sebbene si tenda ad associare la cultura della trasgressione alla sua manifestazione negli anni Sessanta del secolo scorso nell’ambito di quella rivoluzione sessuale che ha nei fatti minato alle fondamenta la famiglia tradizionale, di per sé, sostiene Angela Nagle, la trasgressione si è storicamente mostrata «ideologicamente flessibile, politicamente intercambiabile e moralmente neutr[a]» tanto da poter «caratterizzare la misoginia tanto quanto la liberazione sessuale»10.

Figure di spicco delle battaglie culturali condotte dalla destra trumpiana come Milo Yiannopoulos e Allum Bokhari nel tratteggiare il pantheon intellettuale dell’alternative right citano personalità quali: Oswald Spengler (Il tramonto dell’Occidente, 1918); H.L. Mencken, avverso al New Deal e promotore di una critica nietzschiana alla religione e alla democrazia rappresentativa; Julius Evola, soprattutto per la sua esaltazione dei valori tradizionali maschilisti; Samuel Francis, paleoconservatore avverso al neoconservatorismo capitalista. Anche la Nouvelle Droite francese rientra nell’eterogeneo pacchetto di influencer a cui guarda l’alt-right statunitense.

Durante gli anni della presidenza Obama, sostiene Nagle, i millenial liberal dotati di buon livello culturale non hanno approfittato dello spazio offerto dai nuovi media dopo il declino dei quotidiani e delle televisioni generaliste, tradizionali luoghi di dibattito politico. Si sono limitati a riempire le piattaforme di contenuti melensi, pieni di sentimenti edulcorati ritenendoli sia attrattivi che utili a costruire identità politica.

Affetto da miopia o da sprezzante disinteresse e snobismo, l’universo liberal non ha saputo/voluto vedere come nel frattempo l’alt-right stesse costruendo un impero mediatico online alternativo e stratificato capace di intercettare «adolescenti che creavano meme ironici e pubblicavano online contenuti contrari all’etichetta comportamentale di Internet formavano un esercito di riserva di produttori di contenuti, composti perlopiù di immagini in stile manga e anime spesso utilizzati in un contesto di umorismo nero»11.

Un esercito facilmente convocabile da parte di celebrità della destra alternativa online come Milo Yiannopoulos, Andrew Breitbart, Cathy Young, Mike Cernovich, Alex Jones, Richard Spencer, ecc. Un mileu di personalità decisamente eterogeneo per quanto accomunato dal livore nei confronti della politica e del giornalismo tradizionali che, dopo l’elezione di Trump, evento che ha ulteriormente rafforzato la loro notorietà mediatica, in molti casi ha dato luogo, come prevedibile, ad esasperate lotte intestine.

La metafora della “pillola rossa” ha permesso tanto ai misogini quanto ai razzisti di raccontare come si sono “risvegliati” «dall’ingannevole prigione mentale del pensiero liberal»12. L’alt-right ha un ruolo di primo piano nella cosiddetta  “maschiosfera”, ambito egemonizzato dalla misoginia di individui in preda a forme di risentimento nei confronti delle donne, come nel caso di quanti si dichiarano soggetti al “celibato involontario” o denunciano le preferenze delle donne per i “maschi alfa” su quelli “beta”. «Sotto i vessilli del “movimento degli uomini” negli Stati Uniti si sono riuniti gruppi di diverso orientamento, da quelli cristiani come i Promise Keepers al movimento mitopoietico del poeta Robet Bly, impegnato nella ricerca dell’autenticità maschilista persa in una società moderna femminilizzata e atomizzata»13.

Tra le figure più note della galassia in cui misoginia e razzismo si mescolano vi è sicuramente James C. Weidmann (“Roissy in DC”) autore di proclami in cui miscela psicologia evoluzionista, antifemminismo e difesa della razza bianca dicendosi convinto che il “declino della civiltà bianca” derivi dall’immigrazione, dalla mescolanza razziale e dalla scarsa attività procreativa delle donne bianche “fuorviate dal femminismo”. Secondo Weidmann, tale declino potrebbe essere invertito attraverso la “restaurazione del patriarcato” e la “deportazione di chi non è bianco”.

Il sito Vox Day, oltre a vedere nel femminismo una minaccia per la civiltà occidentale, palesa la sua contrarietà al concetto di “stupro nel matrimonio” ritenendolo “un attacco all’istituto del matrimonio, al concetto di legge oggettiva e, di fatto, al fondamento stesso della civiltà umana”. Il movimento separatista di uomini eterosessuali Men Going Their Own Way (MGTOW) rifiuta “relazioni romantiche” con donne per protestare contro la cultura che le invita alla realizzazione personale e all’indipendenza. Tra i personaggi più in vista a cui si rifà il movimento vi è lo scrittore maschilista e suprematista bianco Francis Roger Devlin, nemico della “morale elastica” e della “confusione dei ruoli”.

Secondo Nagle molti giovani statunitensi sono attratti dalla galassia dell’estrema destra per il suo denunciare la rivoluzione sessuale come causa delle unioni matrimoniali sempre meno durature e per il suo aver posto fine ai vincoli del matrimonio non appena scemato il rapporto d’amore sgravando i coniugi dal tradizionale obbligo di sacrificarsi per la famiglia. Il prolungarsi indefinito dello stato di irresponsabilità adolescenziale avrebbe dunque condotto a una gerarchia sessuale in cui le donne, rotti i vincoli di monogamia, si concederebbero quasi esclusivamente ai maschi al vertice della piramide sociale condannando tanti altri al celibato involontario.

L’ostilità viscerale degli uomini nei confronti delle donne presente sul web sembra spesso mossa da un senso di rivalsa nei loro confronti. «Sono proprio i giovani uomini con difficoltà relazionali con l’altro sesso e che hanno sperimentato il rifiuto a riempire spazi come Incel, la sezione di Reddit dedicata al celibato involontario, nella quale cercano consigli o soltanto la possibilità di esprimere la propria frustrazione»14. La rabbia che cova tra i livelli inferiori della “gerarchia sessuale”, ossia i maschi che si sentono scarsaemnte desiderati dalle donne, è tale da esplodere, in taluni casi, in maniera estrema.

Alla maschiosfera appartengono anche i Proud Boys, fondati da Gavin McInnes, che si rifanno alla dottrina “No Wanks” e che indicano tra i loro principi guida: «governo minimo, massima fedeltà, opposizione alla correttezza politica, diritto a detenere armi, guerra alle droghe, confini chiusi, opposizione alla masturbazione, culto dell’imprenditorialità e culto delle casalinghe»15. McInnes ha più volte affermato di aver derivato alcune linee di condotta dalla scena hardcore statunitense degli anni Ottanta; non a caso le stesse produzioni grafiche dei Proud Boys riprendono la pratica do-it-yourself degli ambienti punk-hardcore.

L’eterogeneo universo dell’alternative right statunitense si contraddistingue anche per la presenza di una serie di teorie del complotto proliferate e cresciute online poi, in taluni casi, uscite dagli schermi fino a raggiungere il manistream16.

I teorici del complotto lavorano sullo stupore, sulla fascinazione, sui punti di vista inconsueti. Nel fare questo, intercettano e soddisfano bisogni autentici: nelle nostre vite abbiamo bisogno di sorpresa, meraviglia, nuove angolature da cui guardare il mondo e sentirci diversi. I teorici del complotto forniscono tutto ciò e fanno sentire speciali i loro seguaci. Non a caso usano la metafora della “pillola rossa” tratta dal film Matrix: prendere la pillola rossa significa scoprire la verità sul complotto e vedere finalmente la griglia nascosta della realtà»17.

[continua]


La pillola rossa dell’alt-right completo: Parte 1 – Parte 2  – Parte 3


  1. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 158-159. 

  2. Cfr. George Hawley, The Demography of the Alt-Right, in “Institute for Family Studies”, 9 agosto 2018. 

  3. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, op. cit., p. 161. 

  4. Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023 [su Carmila] 

  5. Alain Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, Milano, 2018. 

  6. Fabio Ciabatti, Dopo Trump, il rilancio dell’idea comunista per superare lo sgomento, in “Carmilla”, 12 maggio 2018. 

  7. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), in “Carmilla”, 21 febbraio 2017. 

  8. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), op. cit. 

  9. Ivi, p. 149. 

  10. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 53. 

  11. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 66. 

  12. Ivi, p. 126. 

  13. Ivi, p. 125. 

  14. Ivi, p. 139. 

  15. Ivi, p. 135. 

  16. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018. 

  17. Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, op. cit. 

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Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 3 https://www.carmillaonline.com/2022/10/15/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-3/ Sat, 15 Oct 2022 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73969 di Emilio Quadrelli

L’asimmetria della guerra

Abbiamo detto, all’inizio del testo, che quanto accaduto in Val Susa non è altro che il rimpatrio di un modello ampiamente sperimentato in una serie di territori, ai quali è stata sottratta la dignità della dimensione statuale, e posti sotto sicurezza attraverso una serie di operazioni di polizia. Ma tutto ciò cosa ci racconta? Cosa significa la compenetrazione di militare e poliziesco? Perché affidare al militare compiti polizieschi e alla polizia ruoli propri dell’esercito? Evidentemente nella messa in forma della guerra deve essere accaduto qualcosa. [...]]]> di Emilio Quadrelli

L’asimmetria della guerra

Abbiamo detto, all’inizio del testo, che quanto accaduto in Val Susa non è altro che il rimpatrio di un modello ampiamente sperimentato in una serie di territori, ai quali è stata sottratta la dignità della dimensione statuale, e posti sotto sicurezza attraverso una serie di operazioni di polizia. Ma tutto ciò cosa ci racconta? Cosa significa la compenetrazione di militare e poliziesco? Perché affidare al militare compiti polizieschi e alla polizia ruoli propri dell’esercito? Evidentemente nella messa in forma della guerra deve essere accaduto qualcosa. Ma se qualcosa è accaduto nella messa in forma della guerra significa che dentro il “politico” qualcosa di non secondario si è modificato. Significa che la relazione simmetrica che faceva da sfondo all’agire della politica ha conosciuto una sostanziale modifica. In altre parole si è passati da un modello simmetrico a uno asimmetrico. Ma tutto ciò rappresenta una novità assoluta oppure, a conti fatti, non si tratta d’altro che di una nuova attualizzazione di un modello, quello coloniale, che ha a lungo accompagnato la nostra storia? La relazione politica asimmetrica e il conseguente modello che si porta appresso non è esattamente la rimessa in circolo di quanto ampiamente sperimentato nei confronti delle colonie? Questo, a conti fatti, sembra essere il cuore della questione. Per molti versi, infatti, sembra di essere precipitati, subito dopo la fine della “Guerra fredda”, all’interno di uno scenario internazionale che ha forzatamente accantonato uno degli aspetti centrali della storia novecentesca: la decolonizzazione. Ora, indipendentemente da qualunque giudizio si possa dare sulla decolonizzazione, una cosa appare comunemente accertabile: la decolonizzazione ha fatto sì che, i popoli senza storia, entrassero prepotentemente nello scenario politico internazionale.

A partire dalla Prima guerra mondiale, attraverso un processo che si prolunga sino agli anni Settanta del secolo scorso, le popolazioni non occidentali si conquistano, armi in pugno, il diritto a esistere in quanto entità politiche. Il “Movimento dei Paesi non allineati”, con ogni probabilità, ne ha rappresentato la sintesi politica per eccellenza. Si tratta di un moto storico senza precedenti poiché rompe drasticamente tutti gli equilibri politici e culturali che, pur in condizioni storiche profondamente diverse e modificate, parevano darsi come storicamente immodificabili. Più che significativa la regolarizzazione politica a cui, proprio in tale contesto, perviene la figura del partigiano. Si tratta di un passaggio importante e che, per molti versi, mostra tutta la forza politica che l’Ottobre è stato in grado, prima di porre in campo, quindi di scatenare. È con l’Ottobre infatti che i “popoli senza” storia acquistano dignità di linguaggio e, con questa, accedono a pieno titolo al mondo della politica. Ciò che con la Grande rivoluzione era stato posto come semplice principio astratto nell’Ottobre trova la sua piena concretezza. Le conseguenze pratiche della legittimità delle guerre anticoloniali comportano ricadute non secondarie sulla concettualizzazione della guerra e la sua conduzione. Le guerre anticoloniali sono, in prevalenza, guerre di tipo partigiano. Anche quando, come nel caso del conflitto vietnamita, è presente un esercito regolare la lotta nei territori occupati dal fronte imperialista è condotta da forze partigiane politicamente organizzate nel fronte di liberazione nazionale. Il fatto che, queste forze, abbiano ottenuto, non solo di fatto ma formalmente, un riconoscimento politico non è qualcosa di poco rilevante. Basti pensare a come nel corso della Seconda guerra mondiale, dove pur la guerra partigiana assunse ruoli e dimensioni considerevoli, non si pervenne mai a un suo riconoscimento giuridico formale e il partigiano continuò a essere ascritto all’ambito del fuorilegge.

La decolonizzazione interrompe quell’ordine del discorso fondato sulla “civiltà bianca ed europea” che aveva consentito di considerare gran parte dell’umanità come qualcosa di antropologicamente diverso e inferiore. Un dato “obiettivo” che nessuna frattura storica interna al mondo europeo era stata in grado di porre radicalmente in discussione. Su ciò la stessa Grande rivoluzione si era vista costretta a fare marcia indietro. Neppure l’ala più estrema e progressista della borghesia era riuscita a estendere l’uguaglianza oltre la “linea del colore”. Questa linea si mostrava invalicabile e l’universalismo dei diritti rimaneva pur sempre confinato tra quei popoli e quelle nazioni che potevano vantare “storia, linguaggio e cultura” mentre, tutti gli altri, rimanevano ascritti, senza soluzione di continuità, all’ambito dell’indistinto. A fronte di popoli e nazioni certe si stagliavano le miriadi di etnie senza nome e senza volto. I diritti dell’Uomo erano sì universali ma non tutti gli esseri umani erano, in quanto tali, immediatamente Uomo e quindi portatori di diritti universali. Un’aporia che, in realtà, la Grande rivoluzione eredita dall’Umanesimo il quale, fin dalla sua nascita, coltiva tale ambiguità come le guerre di conquista extra europee, pre – moderne, sono lì a ricordare.

In poche parole l’eguaglianza è cosa che va riconosciuta ed elargita con parsimonia. La borghesia rivoluzionaria non è in grado di spingersi oltre tanto che, quando le suggestioni dell’89 approderanno tra i popoli di colore, per i giacobini neri non vi sarà altra soluzione che la forca. A imporsi è un ordine discorsivo il quale finisce con il diventare banale retorica di senso comune all’interno di tutti gli ambiti sociali. La differenza obiettiva e “naturalista” esistente tra noi e loro si sedimenta in profondità tanto da diventare “ciò che tutti sanno”. Un razzismo che, a differenza di quanto accade tra i teorici della razza tout court, non ha bisogno di essere teorizzato e continuamente rafforzato. La vera forza di questo ordine discorsivo sta, piuttosto, nella sua debolezza. È questo razzismo debole, e proprio per questo difficilmente estirpabile, ad attraversare per intero le formazioni economiche e sociali prima europee, poi occidentali. Di ciò, anche se è storia di oggi, ne si avrà una facile conferma quando, con l’irrompere prepotente dei nuovi flussi migratori, le retoriche xenofobe e razziste non troveranno troppi ostacoli a conquistarsi un certo protagonismo politico nelle nostre società così come, in maniera del tutto speculare e complementare, gran parte di questo razzismo, nuovo e arcaico al contempo, troverà la sua migliore sistematizzazione nelle retoriche multiculturaliste.
Ma non anticipiamo e riprendiamo il filo del nostro discorso.

Abbiamo detto dei limiti che la stessa Grande rivoluzione si porta appresso. Su questa scia l’aveva seguita, almeno tacitamente, lo stesso movimento operaio organizzato nella Seconda internazionale. Sino a Lenin e ai bolscevichi, sino alla costruzione dell’Internazionale comunista, i popoli di colore, rimangono popoli senza storia e senza linguaggio. Un retaggio che, in Occidente, continuerà a essere a lungo il non detto di parte del movimento operaio. Di fronte alle lotte di liberazione dei Paesi sottoposti al giogo coloniale le titubanze degli stessi partiti comunisti occidentali non saranno proprio impasse da nulla basti pensare al comportamento del PCF nei confronti della guerra di liberazione algerina o alle dichiarazioni del PCI, attraverso il suo leader Palmiro Togliatti, rispetto alla legittimità dei possedimenti coloniali italiani per non parlare dei Partiti socialisti i quali, in non pochi casi, hanno condotto in prima persona la guerra contro i moti emancipatori dei popoli coloniali. In poche parole, la guerra fuori dai confini del “mondo civile”, è sempre stata qualcosa la cui messa in forma rimandava a uno scenario non commensurabile a quello abitualmente vigente tra entità politiche che si riconoscevano appartenenti al medesimo campo. Anche in guerra, come su tutti gli altri piani della vita, il principio di eguaglianza valeva solo all’interno di un ambito ristretto di popoli e nazioni.

La rottura epocale dell’Ottobre consiste proprio nell’aver universalizzato non tanto i Diritti dell’Uomo ma la dimensione politica dei popoli. Con l’Ottobre la “civiltà bianca” è costretta a riconoscere che tutti gli abitanti del globo hanno il diritto di organizzarsi politicamente e, pertanto, di essere posti su un piano di pari grado e dignità. Alla fine, pur se a denti stretti, USA e Francia (tanto per citare casi ampiamente noti) devono trattare con il FLN del Vietnam e con il FLN algerino considerandoli entità politiche a tutti gli effetti. Non per caso l’ONU è stato un terreno di battaglia, simbolico ma non secondario, di questo esercizio di diritto. Il riconoscimento legittimo presso l’ONU ratificava esattamente la dimensione politico – statuale alla quale una popolazione era pervenuta. Una parentesi, alla scala della storia, che si è protratta, all’incirca, per una sessantina d’anni e che da più di trenta anni è stata nuovamente posta al bando e che, non per caso, ha, di fatto, delegittimato l’ONU stesso diventato sempre più, da istituzione internazionale deputata a equilibrare i conflitti internazionali, a strumento delle politiche imperialiste. Basti pensare a come l’ONU ascrivi ormai abitualmente le lotte partigiane delle popolazioni sotto occupazioni, nell’ambito del terrorismo. Un modo neppure troppo raffinato per ascrivere all’ambito della criminalità ogni forma di resistenza e sottrarla così alla dimensione propria del “politico” e ricondurla nella più malleabile categoria del nemico privato. Con ciò il senso delle operazioni di polizia internazionale comincia a farsi più chiaro. A essersi ormai decisamente incrinato è tutto il quadro politico affermatosi con la fine della Seconda guerra mondiale.

Dal 1989 in poi, nei confronti delle popolazioni non appartenenti al Primo mondo, a riemergere è esattamente una linea di condotta che rimanda appieno alla situazione vigente prima dell’Ottobre. Tutto ciò è stato messo in atto attraverso una serie di operazioni anche culturali delle quali è opportuno occuparsi. Uno degli effetti immediati del post ’89 è stata la messa in mora di tale universalizzazione mentre, di pari passo, prendevano forma tutte quell’insieme di retoriche incentrate sul culturalismo così come, al posto delle entità statuali e nazionali, a emergere erano le singolarità etniche e l’insieme di conflittualità che, inevitabilmente, queste si portano appresso.

Subito dopo l’89 il mondo è stato oggetto di un nuovo bipolarismo solo che, questa volta, la divisione non nasceva sulla adesione alla forza militare della NATO o a quella del Patto di Varsavia ma su basi del tutto diverse. Da una parte, la sfera Occidentale e i cosiddetti Paesi emergenti, raggruppavano Stati politicamente organizzati mentre, il resto del mondo, sommava in maniera abbastanza confusa e caotica etnie e culture le quali non potevano far altro che essere nuovamente oggetto di un “processo di civilizzazione”. Le differenze non sono secondarie. Mentre nel primo caso, per forza di cose, a emergere non poteva essere altro che un conflitto tra eguali nel secondo, a emergere, era un non luogo privo di qualunque ordinamento politico a fronte di realtà statuali politicamente certe e organizzate. La distanza tra i due mondi diventava pertanto incommensurabile. Una nuova epopea coloniale si faceva non solo possibile ma necessaria. A emergere, in tale contesto, diventa l’esistenza di un nuovo forte noi contrapposto a un altrettanto forte loro. Di tale formazione è opportuno trarne la genealogia.

Questo noi ha preso forma all’interno di due contenitori più che diversi complementari. Da un lato il razzismo tout court delle formazioni di destra. Un razzismo un po’ sempre uguale a se stesso sul quale vi è ben poco da dire. In questo caso, il noi, ha funzionato come collante identitario attraverso il quale si ribadisce la “naturalità” della supremazia dell’occidentale nei confronti del resto del mondo. In questo caso, infatti, la “linea del colore” attraversa anche tutte quelle popolazioni che, pur bianche, risultano estranee alle retoriche politiche e culturali del mondo occidentale. Si tratta di un noi che, per molti versi, rimanda a una enfatizzazione e declinazione nazionalista dello Stato/Nazione e dei suoi perimetri e che, in non pochi casi, entra in rotta di collisione con le trasformazioni “post/nazionali” proprie dell’attuale fase imperialista globale. Comunemente questo modello politico/concettuale è ascrivibile al mondo dei populismi i quali si oppongono, o almeno su questo trovano la linfa del loro successo, alla costruzione di un blocco politico su base Continentale governato dalle frazioni transnazionali della borghesia imperialista finanziaria. Il costante richiamo a quell’entità mai chiaramente definibile come “popolo” ne rappresenta, insieme all’inconsistenza e indeterminatezza, tanto l’ambiguità quanto la sua capacità di catturare consensi non secondari tra quote di classe operaia impoverita o piccola borghesia proletarizzata. Questo ordine discorsivo, pur quantitativamente non irrilevante, non è stato però l’ordine discorsivo dominante delle nostre società. Accanto a questo razzismo becero e bifolco ha fatto prepotentemente capolino un altro tipo di discorso, quello che per comodità possiamo definire l’ordine del discorso multiculturale, che ha organizzato e declinato le retoriche razziste su basi completamente diverse.

Andando al sodo l’ordine discorsivo multiculturale aveva un unico e sostanziale progetto strategico: deprivare della dimensione del “politico” tutte quelle popolazioni esterne ed estranee non solo al mondo occidentale, questo è qualcosa che hanno sempre fatto tutte le variabili del discorso colonialista, ma alla “concreta” forma politica assunta dall’Occidente. Questo il vero punto della questione. In apparente contrapposizione alle retoriche della destra il discorso multiculturale spostava le differenze tra noi e loro dal piano della “naturalità” a quello delle culture. L’ordine discorsivo proprio del multiculturalismo spostava la differenza dal colore della pelle, della razza o dell’etnia sul piano delle gerarchie culturali. A fronte di un Cultura, con la c maiuscola e dal portato immediatamente globale, propria delle classi dominanti internazionali si stagliavano le infinite piccole culture particolari e locali proprie di quelle popolazioni non coscientemente globalizzate.

Una gerarchia obiettivamente immodificabile il cui riconoscimento doveva dar vita a un modello sociale all’interno del quale, le piccole culture (sotto l’attenta vigilanza della Cultura), trovavano un proprio spazio sia di legittimazione che di libertà. Mente la destra, un po’ goffamente, chiedeva insistentaltroemente l’omologazione e l’omogeneizzazione culturale, reiterando le retoriche proprie dell’assimilazione, la società “civile e democratica” optava per un modello che, a conti fatti, riportava in auge le retoriche proprie della “riserva indiana”. Non diversamente dalla destra non poneva in discussione il valore indiscusso dello “stile di vita” occidentale ma, mentre ribadiva con forza ciò, riconosceva ai popoli non occidentali o non occidentalizzati il diritto a conservare, negli appositi spazi a questi assegnati, i propri “riti” e le coeve “usanze”. In questo modo, oltre a rendere visibile, soddisfacendo in tal modo quella sete di orientalismo proprio delle società coloniali, l’ agli occhi curiosi e morbosi delle popolazioni locali, confinava le popolazioni non occidentali all’interno di codici culturali dai quali non avrebbero più potuto emanciparsi. Nel riconoscimento della cultura altra si realizzava un sostanziale processo di imprigionamento politico e sociale. Una prassi, a dire il vero, neppure troppo nuova poiché, qualcosa di simile, le nostre società lo avevano già ampiamente sperimentato, pochi anni addietro, nei confronti delle proprie classi subalterne. Un passaggio intorno al quale vale la pena di soffermarsi.

(fine terza parte – continua)

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Il reale delle/nelle immagini. Riflessioni sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea https://www.carmillaonline.com/2017/10/07/reale-dellenelle-immagini-riflessioni-sulla-cultura-visiva-politica-nellitalia-contemporanea/ Fri, 06 Oct 2017 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40941 di Gioacchino Toni

Paolo S.H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea, Meltemi, Milano 2017, pp. 150, € 15,00

«Le immagini e il campo del visivo in generale sono da sempre arene profondamente politiche, spazi in cui si riversano questioni legate alla gestione del potere e alla divisione delle risorse» (Paolo S.H. Favero, p. 12)

Secondo Michel Foucault (Sorvegliare e punire, 1975) se in epoca pre-moderna l’essere guardati e descritti è un privilegio del potere, in particolare del re che si concede, di tanto in tanto, agli occhi del popolo, nella modernità le cose sembrano [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo S.H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea, Meltemi, Milano 2017, pp. 150, € 15,00

«Le immagini e il campo del visivo in generale sono da sempre arene profondamente politiche, spazi in cui si riversano questioni legate alla gestione del potere e alla divisione delle risorse» (Paolo S.H. Favero, p. 12)

Secondo Michel Foucault (Sorvegliare e punire, 1975) se in epoca pre-moderna l’essere guardati e descritti è un privilegio del potere, in particolare del re che si concede, di tanto in tanto, agli occhi del popolo, nella modernità le cose sembrano invertirsi e l’atto del guardare diviene sinonimo di controllo e disciplinamento operato dal potere nei confronti degli individui. Oggi, sostiene l’antropologo Paolo S.H. Favero, riprendendo il concetto di “ipertrofia visiva” così come è espresso da Lucien Taylor (Visualizing Theory, 1994), le immagini hanno un ruolo centrale nel modo di vivere dell’essere umano che ne è sia consumatore che oggetto di monitoraggio visivo. Secondo lo studioso la commistione tra visivo e digitale non ha però condotto alla dissoluzione della realtà materiale ma a rendere le immagini parte della concretezza della materialità quotidiana collegando la vita online con quella offline. In sostanza le immagini non avrebbero allontano l’individuo dal reale ma si sarebbero fuse con il quotidiano.

Se Marshall MacLuhan (Gli strumenti del comunicare, 1967 – orig. 1964) sosteneva che i mezzi elettronici erano diventati protesi del nostro corpo, oggi occorrere «chiedersi se i nostri corpi non stiano diventando protesi dei mezzi di rappresentazione visiva. La progressiva fusione tra tecnologia e corpo e l’immersività che caratterizza il mondo della produzione d’immagini porta a chiederci se forse non siamo entrati nell’era del Plenopticon (una sorta di post Panopticon), un’era nella quale non abbiamo più bisogno di un re che ci osservi, ma in cui siamo noi stessi a osservarci reciprocamente nella nostra orgiastica produzione di co-presenza visiva» (p. 16).

Nel corso del tempo la fotografia sembra aver via via preso il posto della parola come portatrice di testimonianze grazie probabilmente a quel «potere affettivo delle immagini [capace di] generare quel surplus che in qualche modo ci riesce a commuovere, a collocare la nostra sensibilità all’interno di un evento avvenuto in tempi e luoghi lontani da noi» (p. 18). Sull’onda delle riflessioni di Roland Barthes (La camera chiara, 2003 – orig. 1980) che vogliono le immagini fotografiche capaci di evocazione, oltre che di descrizione, nel loro contenere qualcosa (punctum) capace di colpire l’osservatore tirandolo dentro l’immagine, si può allora, secondo Favero, individuare nel visivo una chiave utile a comprendere il contesto politico in cui si vive e il volume Dentro e oltre l’immagine si propone proprio di riflettere su tale questione applicata al contesto dell’Italia contemporanea.

Nel contesto italiano le immagini «sono intrinsecamente politiche e ci offrono soprattutto una possibilità di attuare una decostruzione di rappresentazioni comuni sulle quali si fonda la vita pubblica» (p. 19). Una parte importante dell’analisi dello studioso deriva da una ricerca sul campo attuata a Roma nel quartiere Esquilino tra il 2005 ed il 2007, coincidente con un momento in cui le storie del luogo vanno a collocarsi in un contesto nazionale in cui i media, sotto le vesti dell’intrattenimento celavano messaggi “ri-producenti” «una distanza (a volte proprio ontologizzata) fra “italiani” e “immigrati”, tra “uomini” e “donne”, tra “eterosessuali” e “non-eterosessuali”. Spesso si coglievano anche messaggi apertamente razzisti, omofobici e sessisti» (p. 19). Le strade dell’Esquilino all’epoca abbondavano di scritte contro rom, immigrati, omosessuali e slogan fascisti in diversi casi in onore del boia nazista Priebke mentre i media nazionali sostenevano le politiche ostili ai migranti presentandoli attraverso immagini di orde anonime di invasori e la televisione, a reti unificate, inondava i programmi «di ricchi décolleté e “lati B” di ignote soubrette (la solita riduzione della donna a collezione di dettagli anatomici). Questa era anche l’era in cui la visibilità si affermava come un fine a se stante. Momento nel quale personaggi del Grande Fratello diventavano opinion makers e nel quale una soubrette televisiva (ex partecipante a Miss Italia e protagonista di copertine di riviste per uomini) riusciva a realizzare una vertiginosa carriera “politica” e a diventare Ministro per le pari opportunità. Questi erano anche gli anni dell’ambiguo “sdoganamento” della politica e nei quali ministri e uomini d’affari si inserivano nelle case dei cittadini tramite i programmi di cucina e di calcio» (p. 20).

Presto sarebbero arrivati gli anni in cui Berlusconi avrebbe sentenziato che “in Italia non ci sono mai stati campi di concentramento, ma solo campi di villeggiatura”, in cui le battute sui Kapó si sarebbero inserite in un contesto ove termini come “frocio”, “negro”, “terrone” e “zoccola” venivano ormai tranquillamente utilizzati anche dai media come semplici e innocenti “modi di dire”, dove i cori razzisti negli stadi sarebbero stati  indicati come “cori a sfondo territoriale” e dove la Federazione di calcio avrebbe eletto un presidente capace di sostenere, tra le altre cose, che i calciatori di colore prima di far parte delle squadre italiane erano semplici mangiatori di banane.

«Dentro e oltre l’immagine entra in questa particolare epoca della storia e vuole offrire una serie di riflessioni sul significato nonché sul ruolo politico e sociale della cultura popolare visiva nell’Italia contemporanea. Basato su ricerche etnografiche in campi quali il cinema, la televisione, il documentario, la fotografia e la cultura (materiale e visiva) di strada, il libro affronta l’arena della visualità come un campo nel quale si possono decodificare continuità e rotture politiche ed ideologiche» (p. 21). Tutto ciò viene indagato dall’autore nella sua posizione di insider/outsider, di colui che conosce bene la cultura e la società italiane essendo di famiglia italo-svedese, ma che vive e lavora all’estero, capace dunque di avere un’osservazione sufficientemente esterna per restare colpito da ciò in cui si imbatte ma anche di trovarsi in una posizione abbastanza interna al mondo indagato per indignarsi e voler cambiare le cose.

Il volume raccoglie sei diversi saggi scritti in momenti diversi, in alcuni casi pubblicati originariamente su riviste internazionali. Gli scritti possono essere divisi in due grandi blocchi con i primi tre che affrontano criticamente quella che viene indicata dall’autore come una delle rappresentazioni fondanti della cultura italiana, ossia la nozione di “italiano buono”. In questi primi tre interventi viene mostrato come tale rappresentazione, oltre ad essere parte della storia della cultura popolare italiana, sia uno strumento fondamentale per la costruzione dell’identità nazionale dell’Italia contemporanea. Nei successivi tre saggi viene invece indagata la cultura popolare visiva italiana focalizzando l’analisi sui rapporti tra società italiana e culture altre con cui questa viene a contatto.

Nel primo saggio Italiani, “brava gente”? l’autore mostra come tale rappresentazione venga oggi evocata per affrontare questioni inerenti i crimini a sfondo xenofobo e la partecipazione militare italiana ai conflitti internazionali. «L’espressione “italiani brava gente”, usata anche in situazioni colloquiali, implica, schiettamente parlando, che a differenza di altri, gli italiani siano per natura brava gente. Non nuocciono mai a nessuno e la loro storia (almeno per come loro stessi la conoscono) ne è apparentemente la prova. “Brutti eventi” sono ovviamente capitati (e capitano) anche qui, ma si tratta solo d’incidenti; altri popoli e nazioni hanno compiuto atti peggiori dei nostri. Ma gli italiani, non hanno mai realmente voluto nuocere. Nemmeno in epoca fascista» (p. 30).

Fino a qualche decennio fa gli stessi libri di testo nelle scuole non mancavano di rappresentare gli italiani come un popolo sostanzialmente di brava gente finito in balia delle follie mussoliniane e soprattutto straniere, quasi inconsapevolmente e involontariamente. L’onda lunga di tale lettura delle cose, sostiene lo studioso, la si rintraccia nelle maldestre affermazioni di qualche anno fa dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi quando ha sostenuto pubblicamente che, in realtà, in Italia non ci sono mai stati campi di concentramento, ma solo “campi di villeggiatura”. «E, in ossequio alla medesima logica, viene oggi detto agli italiani che le “guerre al terrore” alle quali partecipano, sono in realtà “missioni di pace” e che i loro soldati, riconosciuti ovunque come “brave persone”, non sono mai realmente esposti a minacce […]. Nello stesso modo, viene anche fatto credere che xenofobia e omofobia certamente risiedono altrove ma non nel “nostro” paese» (p. 31).

Insomma, il mito dell’italiano buono si rivela, dal punto di vista storico, uno strumento utile a celare eventi drammatici. A tale mito ricorrono spesso sia quei ragionamenti intenzionati a difendere le idee xenofobe e omofobe che quelli volti a giustificare la partecipazione militare italiana alla cosiddetta “guerra al terrore”. Viene dunque mostrato lo stretto legame esistente tra memoria, politica e identità evidenziando come «il concetto di “italiani brava gente” [sia] alla base della costituzione di un’identità nazionale moderna» (p. 50). Sull’argomento risultano frequenti i riferimenti di Favero agli studi di Angelo del Boca, questi ultimi ripresi più volte su Carmilla [1] [2] [3] da Armando Lancellotti.

Nel saggio Il “soldato buono” viene indagata criticamente la rappresentazione del soldato italiano nel cinema nazionale delle ultime quattro decadi mostrando come sia facilmente individuabile una continuità storica di tale rappresentazione. Lo studioso parte dalla presa d’atto che negli ultimi decenni in Italia si è diffuso, grazie ad un lento ma costante lavoro di costruzione, un orgoglio nazionale prima sconosciuto. «Tale processo vedeva coinvolti molti attori (dai media al sistema scolastico, ecc.) ed era fondato sull’inserimento nella cultura popolare di una serie di figure portanti, capaci di infondere fede e rispetto nella nazione, nello Stato e in coloro che lo rappresentavano. In un’epoca caratterizzata dalla partecipazione dell’Italia alla “coalizione dei volenterosi” e dal suo conseguente coinvolgimento nelle missioni di guerra in Iraq e Afghanistan, la figura del soldato, in una sorta di ricorso storico, sarebbero stata rivalutata. È diventata un pilastro portante nella creazione di un orgoglio nazionale» (pp. 54-55). A partire dalla convinzione che la figura del soldato sia davvero uno dei punti focali della costruzione dell’identità nazionale, Favero passa in rassegna la produzione cinematografica italiana del dopoguerra e i più recenti reportage dedicati al coinvolgimento italiano alle cosiddette “missioni di pace”.

Nelle modalità con cui la cultura popolare italiana ha mantenuto viva l’immagine del “soldato italiano buono” vi sono certamente alcune costanti. «Guidato da amore e altruismo, il “soldato buono”, a volte appare un briciolo egoista, codardo, opportunista e forse un po’ pigro. Ma risulta, comunque, assolutamente incapace di far del male e viene pertanto sempre sollevato da qualsiasi responsabilità storica. Questa rappresentazione, trova ampio riscontro nell’immagine dell’“italiano buono” nata per giustificare la prima (fallimentare) impresa coloniale» (p. 55). Dunque, tale autorappresentazione, che ha svolto storicamente, e continua a farlo, un ruolo di “lavanderia” delle vergogne nazionali, è indicata dall’autore come centrale nella creazione della moderna identità nazionale.

È il cinema italiano del dopoguerra ad essersi fatto carico della divulgazione di una rappresentazione del soldato edulcorata e familiarizzata: «Spostato dal contesto del belligerante patriottismo fascista, egli venne introdotto, a volte in modo ironico, nello spazio quotidiano della vita di famiglia» (p. 62). L’analisi di Favero si sofferma su tre film che hanno promosso un’immagine iconica del soldato capace, visto anche il successo di pubblico, di lasciare tracce importanti nella cultura popolare nazionale: Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, La Grande Guerra (1959) di Mario Monicelli e Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores. «Nei tre film, il soldato è sempre un uomo semplice e un po’ ingenuo, nonché un amante del divertimento. I soldati protagonisti di questi tre film sembrano tutti piuttosto inconsapevoli di quel che succede intorno a loro e di conseguenza, sono staccati e deresponsabilizzati dalla storia. Hanno in comune la vicinanza e l’affetto delle popolazioni locali che incontrano durante le loro missioni e dimostrano anche una particolare devozione nei confronti delle donne e delle madri. Anche se in alcune occasioni vengono presentati come ipocriti, opportunisti ed egoisti, in realtà sono “brave persone” il cui unico desiderio è quello di tornare a casa e vivere serenamente insieme ai loro cari. Incapaci di agire, questi soldati sono pertanto indubbiamente anche incapaci di fare del male» (p. 64).

Venendo ai recenti reportage relativi a quelli che vengono descritti come “buoni soldati italiani”, martiri contemporanei, lo studioso individua in tali rappresentazioni l’intero armamentario retorico volto a presentarli non tanto come soldati impegnati in azioni di guerra, ma come brave persone andate a portare aiuto, amate da donne bambini locali, in trepidante attesa di tornare a casa dalla propria famiglia, martiri vittime di atrocità sempre e solo straniere. Insomma il soldato italiano è un soldato diverso dagli altri, per certi versi non sembra nemmeno un soldato.

La seconda parte di Dentro e oltre l’immagine è dedicata, come detto, all’analisi della cultura popolare visiva nazionale a proposito dei rapporti tra la società italiana e le culture altre. Nel primo saggio di tale sezione, Perché Sanremo è Sanremo, lo studioso si occupa della questione di genere soffermandosi sulla rappresentazione dell’omosessualità nel contesto del Festival sanremese del 2012. L’edizione indagata era stata preceduta da alcuni interventi pubblici di Adriano Celentano volti a criticare duramente la stampa cattolica nazionale, in particolare «Avvenire» e «Famiglia Cristiana», accusata dal cantante di subordinare le tematiche religiose a quelle politiche. Con tali premesse prendeva il via un’edizione della manifestazione canora fortemente segnata dalla presenza di riferimenti a Dio e alla Fede. «È nel testo della canzone vincitrice del festival, cantata da Emma, che la “fede” si mette esplicitamente in dialogo con la “patria” proponendo una sorta di consolidamento “pop” del concordato tra Stato e Chiesa. Per raccontarci una storia di disoccupazione e precarietà, la cantante pugliese sceglie la figura di un soldato e un testo (peraltro criptico, scritto da Kekko dei Modà) che recita: “Ho dato la vita e il sangue per il mio paese e mi ritrovo a non tirare a fine mese, in mano a Dio le sue preghiere” e poi “ho giurato fede mentre diventavo padre, due guerre senza garanzia di ritornare, solo medaglie per l’onore”. Questa commistura di fede, patria e guerra ri-propone, oltre un possibile tentativo di provocazione dell’autore, la figura del “soldato buono” una delle rappresentazioni più forti e longeve (nonché politicamente ed eticamente dubbie) della cultura popolare italiana» (p. 81).

Se poi al testo della canzone si aggiungono le dichiarazioni della cantante alla stampa che parlano della sua volontà di diventare madre come di una “missione” a cui tutte le donne sono chiamate, allora il patriottismo dispensato dalla canzone può essere interpretato come il «segnale di un nuovo conservatorismo giovanile all’interno di un paese ormai culturalmente invecchiato in modo irreparabile» (pp. 81-82). Di certo, sostiene lo studioso, l’immagine «della donna procreatrice, cui fa riferimento Emma, funziona paradossalmente bene in un contesto quale quello del festival, in cui le donne (con piccole dovute eccezioni) appaiono come la somma di parti anatomiche messe a servizio degli uomini, di cui fungono da spalla silente» (p. 82).

L’arretratezza italiana nell’affrontare la diversità di genere (o d’identità sessuale) emerge in maniera eclatante quando viene affrontato il tema dell’omosessualità. In questo caso la kermesse sanremese non manca di mettere in scena tutti gli stereotipi più scontati. L’immagine dell’Italia offerta dal festival è quella di un paese «dominato da uomini (maschi) eterosessuali e vecchi, chiuso su se stesso e con poca voglia di cambiare. Questo è un paese autoreferenziale, trincerato dietro una fede cattolica, che appare sempre più oggetto di opportunismo e molto raffinato nella sua capacità di mettere all’angolo (tramite, paradossalmente, la sua spettacolarizzazione) ogni forma di diversità culturale» (p. 84).

Nel saggio Lo spettacolo del multiculturalismo viene offerta una lettura critica del documentario L’Orchestra di Piazza Vittorio (2006) di Agostino Ferrante mettendo in rapporto l’idea di multiculturalismo suggerita dall’opera con il dibattito politico che ha caratterizzato le lezioni comunali romane del 2008. Alla realizzazione di Ferrante dedicata all’orchestra multiculturale dell’Esquilino, viene rimproverato di non approfondire i temi lanciati dalle sue immagini e di non giungere mai a un confronto paritario con l’Altro” dandogli realmente voce. «Il film sembra risentire della mancanza di un dialogo critico con lo stesso “Altro” che intende rappresentare e viene penalizzato dalla scelta di evitare di approfondire il contesto che ha reso possibile la realizzazione dell’Orchestra. Il fatto, per esempio, che la band abbia, nel corso degli anni, rinunciato a fare dichiarazioni apertamente politiche, temendo comprensibilmente di non essere poi in grado di creare una struttura solida che potesse pagare regolari stipendi ai musicisti (come spiegatomi da Mario Tronco durante un’intervista), delinea una situazione di fondo piuttosto critica che testimonia anche i paradossi che segnano le ideologie multiculturali contemporanee. Il film avrebbe potuto trarre dei benefici dall’approfondire queste tematiche, piuttosto che dal smorzarle in nome della rappresentazione dei “musicisti immigrati” come persone simpatiche» (p. 92).

Dalla visione dell’opera, sostiene ancora Favero, si individua come unico vero protagonista l’organizzatore italiano Mario Tronco mentre le vite dei musicisti sono soltanto sfiorate in superficie: «ci vengono presentati come personaggi abbastanza gioiosi, distaccati, bizzarri e divertenti, ognuno di essi rappresentante di quella “pittoresca” parte di mondo da cui proviene […] i musicisti ci vengono subito presentati (nel film e durante il concerto) in associazione alla loro nazionalità (mentre gli italiani alle loro città di provenienza). Ciò li rende principalmente “rappresentanti di un’etnicità” piuttosto che “musicisti professionisti”» (pp. 92-93). Insomma, secondo lo studioso il film «manca, da un punto di vista politico, di un riflessivo esporsi e dialogare con l’“Altro” che intende rappresentare. Questo forse riflette anche il destino dell’orchestra che, malgrado il suo intento originario, con gli anni si è trovata intrappolata a rappresentare la diversità e l’alterità, di fronte a un pubblico prevalentemente “bianco” e di classe media (partecipando ai loro concerti ho potuto notare la netta minoranza di stranieri presenti tra il pubblico) invece che a creare un ponte a cavallo di categorie razziali ed etniche […] Qui i migranti diventano oggetto dell’intrattenimento altrui invece che produttori di musica e di un film-denuncia a difesa dei loro diritti. La sensazione è che non sia stata sfruttata a dovere la splendida opportunità di mettere in discussione le categorie ferree che dividono gli “italiani” dagli “stranieri”» (pp. 93-94).

Gli ultimi due saggi sono dedicati rispettivamente all’immaginario italiano sull’India – Bello e distante. La politica dell’esotismo e la rappresentazione visiva dell’India nella cultura popolare italiana – e al mito del Nord nella cultura popolare italiana – ’O Sole mio: turisti charter italiani in visita al Sole di Mezzanotte di Capo Nord (Norvegia). Lo studioso indaga qui le esperienze turistiche di italiani a Capo Nord, la costruzione del Sole di Mezzanotte come oggetto mitico.

Dentro e oltre l’immagine decostruisce criticamente alcuni dei miti e delle rappresentazioni che hanno contribuito a costruire l’identità nazionale italiana e lo fa con gli occhi di un antropologo, Paolo S. H. Favero, che si trova nella particolare, e per certi versi privilegiata, posizione di insider/outsider.


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini

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I mostri dell’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2016/03/14/i-mostri-dellaccumulazione-originaria/ Mon, 14 Mar 2016 22:00:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29203 di Luca Cangianti

la-terra-dei-morti-viventi-recensione-24880-1280x16Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, 2016, pp. 202, € 15,00.

Spesso il mostro si presenta come revenant, entità che ritorna: spettro prodotto da un crimine occultato, vampiro proveniente dal passato feudale, creatura deforme che si rivolta al suo folle e malvagio creatore. Le figure di cui ci parla Gaia Giuliani nel saggio Zombie, alieni e mutanti sono il prodotto della violenza coloniale che l’immaginario collettivo proietta in forma capovolta in un futuro distopico e apocalittico: la creatura spaventosa che [...]]]> di Luca Cangianti

la-terra-dei-morti-viventi-recensione-24880-1280x16Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, 2016, pp. 202, € 15,00.

Spesso il mostro si presenta come revenant, entità che ritorna: spettro prodotto da un crimine occultato, vampiro proveniente dal passato feudale, creatura deforme che si rivolta al suo folle e malvagio creatore. Le figure di cui ci parla Gaia Giuliani nel saggio Zombie, alieni e mutanti sono il prodotto della violenza coloniale che l’immaginario collettivo proietta in forma capovolta in un futuro distopico e apocalittico: la creatura spaventosa che abita gli schermi “sembra essere oggi lo stesso cannibale barbaro e senza regole o il mostro dalle fattezze orrende che per cinquecento anni di espansione coloniale e imperialismo occidentale è stato combattuto dall’uomo ‘del Progresso’.” Con questa chiave di lettura e con una vasta strumentazione interdisciplinare che spazia dall’antropologia culturale agli studi di genere, queer e postcoloniali, Giuliani esamina la produzione cinematografica e televisiva fantahorror seguita agli eventi dell’11 settembre 2001 per indagare le paure e le forme politiche contemporanee che si celano dietro le narrazioni della fine del mondo.

copertina_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiGià George Romero aveva rappresentato i non morti come reietti della società capitalistica che tornano per chiederci il conto; nella Terra dei morti viventi lo zombie Big Daddy acquista perfino una coscienza antagonista e una soggettività politica. In serie televisive come Les revenants e In the flesh quest’aspetto è approfondito e accompagnato da un fattore mutuato dalle nuove guerre globali: la difficoltà di confinare territorialmente il nemico. In questi esempi “democratici” s’ingenera una dialettica di conflitto e convivenza tra vivi e non morti, mentre in altre narrazioni “reazionarie” come REC o WWZ la “cattiva coscienza coloniale” ritorna per contaminare mortalmente la vita quotidiana di un condominio metropolitano o per assediare le mura delle città umane. In questi casi il rapporto tra umani e morti viventi può essere unicamente di reciproco sterminio.
Gli zombie, insomma, sono il colpo di frusta dell’accumulazione originaria descritta da Karl Marx nel Capitale. Si tratta di quella fase di genocidi, violenze efferate ed espropri di beni comuni, necessaria a creare le condizioni d’avvio del modo di produzione capitalistico. Da questo punto di vista la natura di tale violenza può ben definirsi colonialista, indipendentemente dal suo verificarsi durante la conquista delle Americhe o in un contesto nazionale come quello delle enclosures inglesi. Illustrare questo snodo teorico con la figura dello zombie è un’operazione molto riuscita di modellistica concettuale, che ricorda per potenza euristica l’uso marxiano del vampiro come metafora sostanziale del plusvalore.

La figura dell’alieno è utilizzata dall’autrice per indagare il rapporto tra le società occidentali e l’alterità migrante. Il tentativo di far convivere gruppi culturalmente diversi di persone, senza contatto e reciproca dialettica, entra in crisi con gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, perché normalmente i gruppi sociali sono gerarchicamente ordinati e in competizione tra loro. In questo modo, la pari dignità dei gruppi sociali, come per tutte le forme astratte di uguaglianza, si rivela essere un modo per ribadire le forme esistenti di dominio. Il multiculturalismo così “non sarebbe stato per anni che un nuovo dispositivo ideologico in grado di democratizzare e ribadire, sotto nuove spoglie e per mezzo di inediti meccanismi, i vecchi metodi di gestione delle differenze”. Dalla crisi di tale politica nascono varie alternative di relazione con l’Altro: quella della segregazione descritta in District 9, quella dell’eliminazione illustrata nella Guerra dei mondi e in The Mist, quella dell’assimilazione per l’utilizzo dell’Altro nei lavori usuranti come in Moon e quello della convivenza, rappresentata nella scena finale di Monsters. Qui assistiamo a un’effusione affettiva tra piovre extraterrestri, che se non molestate possono vivere pacificamente accanto agli insediamenti umani.

Infine Giuliani passa in rassegna alcuni film come E venne il giorno, Cecità, The Impossible, Melancholia, Codice 46 e Upside down illustrando l’immaginario reazionario che si nasconde dietro lo scenario di “disastro permanente” inaugurato con l’11 settembre. Le fantasie dominanti che emergono sono quelle della restaurazione del soggetto mainstream, dell’eliminazione eugenetica degli elementi “inferiori” e della ricostruzione della comunità a partire dalla situazione emergenziale – tutti elementi, questi, che ritroviamo nella pratica politica contemporanea.

Zombie, alieni e mutanti è un saggio di spessore accademico che attraverso le figure orrifiche della recente produzione cinematografica indaga con profondità i legami sociali, valoriali e affettivi delle comunità umane. Da questo punto di vista s’inserisce nel dibattito degli studi culturali e postcoloniali, fornendo al contempo al più vasto pubblico degli appassionati di fantahorror nuovi e inaspettati spunti di riflessione.

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I negri di Rio de Janeiro: meticciato vs multiculturalismo https://www.carmillaonline.com/2013/11/19/i-negri-rio-de-janeiro-meticciato-vs-multiculturalismo/ Mon, 18 Nov 2013 23:02:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10866 di Simone Scaffidi Lallaro

Catadores (vik-muniz)

[AVVERTENZA dell’AUTORE: nel testo che segue sono stati volutamente usati i termini “negro” e “negri”, senza virgolette né corsivo. Si è tentato così di tradurre  l’ordinarietà del razzismo nostrano e brasiliano nella sua forma più semplice e spietata, senza smorzature semantiche e politically correct da cena di gala]

Per l’ennesima mattina calpesto le pietrose discese di Santa Teresa, respiro la polvere dei lavori in corso di Lapa e osservo il vuoto lasciato dall’esplosione di una bombola di gas in praça Tiradentes. Supero il trafficante di figurine e all’improvviso [...]]]> di Simone Scaffidi Lallaro

Catadores (vik-muniz)

[AVVERTENZA dell’AUTORE: nel testo che segue sono stati volutamente usati i termini “negro” e “negri”, senza virgolette né corsivo. Si è tentato così di tradurre  l’ordinarietà del razzismo nostrano e brasiliano nella sua forma più semplice e spietata, senza smorzature semantiche e politically correct da cena di gala]

Per l’ennesima mattina calpesto le pietrose discese di Santa Teresa, respiro la polvere dei lavori in corso di Lapa e osservo il vuoto lasciato dall’esplosione di una bombola di gas in praça Tiradentes. Supero il trafficante di figurine e all’improvviso un negro scalzo dai pantaloncini a brandelli mi taglia la strada. Il sudore gli scorre lento sulla schiena frenato dalla polvere, i nervi in tensione dal collo al tallone ne arginano la discesa. Il negro sta trainando un carretto di legno carico di grosse sacche di plastica trasparente da cui fuoriesce un liquido incolore. Sudore e liquido si mescolano sull’asfalto ardente e si dissolvono in pochi secondi senza lasciare traccia alcuna del proprio passaggio, nulla possono le ombre mastodontiche dei grattacieli del quartiere Centro contro il sole cocente dei tropici.

Il negro trasporta ghiaccio. Il contrasto tra lo scintillante candore del suo carico e l’oscurità della sua ombra potrebbe giustificare da solo il settimo posto occupato dal Brasile nella speciale classifica redatta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale dei paesi con il PIL più elevato del globo. Penso a Fitzcarraldo, nel capolavoro omonimo di Herzog, e alla sua follia colonialista di impiantare una fabbrica di ghiaccio in Amazzonia. Dove lui ha fallito, altri hanno vinto. Dove lui ha ucciso per esaudire i suoi sogni di gloria e potenza altri hanno continuato ad uccidere. Negri o indios che siano vengono travolti dalla rovinosa bramosità di potere occidentale. Sia essa una nave che scavalca una montagna, sia essa una fabbrica di ghiaccio, le braccia e le morti che rendono possibile la criminale impresa rimangono le stesse.

Le ho proprio davanti a me quelle braccia. Le stesse che consentiranno al Brasile di Lula e Dilma di sfilare sulle passerelle dell’economia mondiale con capi da top-model-neoliberista: Mondiale 2014 e Olimpiadi 2016 saranno i pezzi forti della collezione estiva. Aspettando i grandi eventi sportivi, il negro e il ghiaccio si sciolgono insieme, l’uno rinchiuso in un involucro trasparente che ne accelera la liquefazione, l’altro intrappolato in un meccanismo tanto globale quanto locale che gli consuma le piante dei piedi giorno dopo giorno.

Meu nome è revolta

Largo de São Francisco de Paula è ormai vicino. La piazza e l’alto cancello mi separano dall’Istituto di Storia. A protezione dell’accademia si erge un esercito negro di mendigos. Sono sdraiati davanti alle sbarre. Venti paia di piedi nudi, sporchi e callosi, legati a quaranta fantasmi giovani e negri. Tre bambini si alzano d’improvviso e con uno sguardo complice fracassano due vecchie videocassette, sanno cosa stanno facendo. Con sicurezza ne estraggono le pellicole. La prima la legano a un sacchetto bianco della spesa targato Mundial (nota catena di supermercati carioca da non confondersi con l’evento che sta già contribuendo a cambiare radicalmente il volto della città), la seconda a un sacchetto nero della spazzatura. Gli aquiloni sono pronti al volo. La corsa forsennata dei bambini per la piazza non si fa attendere, il nastro nero stretto fra le dita si tende e i sacchetti si alzano nell’aria. Le donne sono poche, seminude come gli uomini, alcune allattano neonati tra le braccia, altre cercano riposo tra cartoni e lattine, altre ancora provano a varcare la soglia dell’Istituto di Storia per riempire bottiglie d’acqua potabile. Basterebbe accucciarsi e scattare una rapida istantanea per vedere nitide alle loro spalle le sbarre della prigione, il cancello dell’accademia, strumento supremo di segregazione razziale.

Dentro i bianchi, fuori i negri è la legge non scritta dell’università e della società brasiliana. L’università è pubblica e gratuita per tutti, un po’ come l’esistenza, verrebbe da dire, ma le possibilità di accedere a un’istruzione di livello e a un’esistenza dignitosa comporta comunque dei costi che, oltre a non essere equamente distribuiti, vanno al di là del valore nominale del PIL pro capite. Le università pubbliche in Brasile, come in altri paesi dell’America Latina, sono a numero chiuso e per accedervi è necessario avere una buona preparazione che non viene però garantita dalle scuole superiori pubbliche. Succede quindi che chi non può permettersi di frequentare una scuola superiore privata ha molte meno possibilità di passare il test per accedere all’università. Risultato: i poveri non possono frequentare la scuola superiore privata, i poveri sono in prevalenza negri e indios, i negri e gli indios rimarranno in gran parte esclusi dalla società.

Largo Sao Francisco de PaulaGli uomini e le donne che vivono davanti all’Istituto di Storia hanno tre principali occupazioni: schiavi nel grande mercato all’aperto che è il Centro di Rio de Janeiro durante il giorno, assaltatori di studenti e gringos, nel deserto far west che è il Centro di Rio de Janeiro durante la notte, e i catadores de lata ovvero i raccoglitori di lattine. Questi ultimi sono l’orgoglio della nazione, coloro che la consacrano primatista mondiale nel riciclaggio dell’alluminio. Ad ogni ora si aggirano per le vie di Rio de Janeiro in cerca di lattine vuote. Ogni chilo di alluminio raccolto, corrispondente a circa 67 lattine, si traduce in 3,00 reais (più o meno 1,00 €), una volta consegnato all’autorità competente. Il primato ha il peso sociale dei sacchi neri ricolmi di latta che gravano sulle spalle dei negri senza fissa dimora.

Viralata è una delle mie parole preferite in portoghese brasiliano, letteralmente significa: gira latta. Si usa per indicare i cani senza padrone, i randagi che vivono nella strada e spesso per sopravvivere sono costretti a girare le lattine vuote in cerca di qualche liquido da ingerire. Ma ha anche un altro significato, si usa per identificare un cane la cui razza non si riesce più a definire a causa dei molteplici incroci che si sono succeduti per generazioni e generazioni: un bastardo dunque.

Di viralata randagi abbandonati dalla società in Brasile ce ne sono a milioni. Molti meno sono i viralata bastardi a causa del consolidato e indissolubile connubio tra diseguaglianze sociali, distribuzione della ricchezza e discriminazioni razziali su cui si fonda il tanto osannato multiculturalismo brasiliano. La razza sfruttata ha un colore ben preciso, così come lo ha la classe dirigente brasiliana che si ostina ad abbracciare le logiche del più becero capitalismo mondiale, il quale ribadisce sempre con più forza la necessità di innalzare un solido muro sulla linea del colore per mantenere lo stato delle cose esistente. Ad ogni colore il suo ruolo sociale. Multiculturalismo appunto, non meticciato.

 

Ghost Track

A. Mohamed e Wu Ming 2, Timira. Romanzo meticcio, Einaudi, 2012

A. Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Agenzia X, 2012

A. Staid, Le nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù, Agenzia X, 2011

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