Moses Asch – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 14 Apr 2025 09:49:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Licantropi, poesia, vino e folk music stralunata: in memoria di Michael Hurley (1941- 2025) https://www.carmillaonline.com/2025/04/08/licantropi-poesia-vino-e-musica-folk-stralunata-in-memoria-di-michael-hurley-1941-2025/ Tue, 08 Apr 2025 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87820 di Sandro Moiso

Oh the werewolf, oh the werewolf Comes a-stepping along He don’t even break the branches Where he’s been gone

For the werewolf, for the werewolf Have sympathy Because the werewolf he is someone Just like you and me (Michel Hurley –Werewolf Song, 1964)

In anni in cui la mania del collezionismo discografico non aveva ancora sostituito il semplice piacere dell’ascolto della musica, qualunque cosa fosse o rappresentasse al di là degli interessi del mercato, e prima che l’attenzione per il vinile rosso, nero, verde o trasparente oppure da 180 grammi prendesse il sopravvento sulla qualità e [...]]]> di Sandro Moiso

Oh the werewolf, oh the werewolf
Comes a-stepping along
He don’t even break the branches
Where he’s been gone

For the werewolf, for the werewolf
Have sympathy
Because the werewolf he is someone
Just like you and me

(Michel Hurley –Werewolf Song, 1964)

In anni in cui la mania del collezionismo discografico non aveva ancora sostituito il semplice piacere dell’ascolto della musica, qualunque cosa fosse o rappresentasse al di là degli interessi del mercato, e prima che l’attenzione per il vinile rosso, nero, verde o trasparente oppure da 180 grammi prendesse il sopravvento sulla qualità e l’originalità delle esecuzioni era facile, negli Stati Uniti, trovare negozi in cui migliaia di dischi ancora sigillati anche se non di recente pubblicazione venivano venduti a 99 cents.

Così, prima che ogni collezionista fosse convinto da abili e meschini commercianti, che si pensano mercanti d’arte mentre si comportano soltanto da straccivendoli e rigattieri, oppure dagli interessi delle case discografiche di poter mettersi in casa autentiche opere d’arte, seppur ampiamente riproducibile in vari formati, simili a quelle uniche di Picasso, mi capitò, in un negozio di Berkeley, di ritrovarmi tra le mani un disco assolutamente sconosciuto, la cui unica attrattiva era per me rappresentata dall’etichetta, la Folkways, e da una copertina con una fotografia virata in color mattone con il volto onesto e la chitarra di un giovane folksinger di cui non avevo mai sentito parlare prima, nemmeno tra le pagine già scritte all’epoca da un imperversante Bertoncelli.

Unica cosa certa, vista l’etichetta, era che dovesse trattarsi di un disco di folk “duro e puro”, privo degli orpelli e dei suoni elettrici aggiunti al genere dallo sviluppo del folk rock degli anni precedenti. La Folkways Records & Service Co., infatti, era stata la prima casa discografica a proporre al pubblico autori e cantautori come Woody Guthrie, Pete Seeger, Cisco Hustono e i materiali sonori raccolti in giro per l’America e per il mondo da John e Alan Lomax, padre e figlio, che vanno considerati tra i fondatori della moderna etnomusicologia.

In questo modo, l’etichetta che avrebbe prodotto dischi di blues, gospel, jug e suoni prodotti delle comunità bianche e nere degli stati del Sud e delle montagne americane, contribuì a dare vita al cosiddetto folk revival dei primi anni Sessanta. Anche se rimane celebre il rifiuto opposto da Mose Asch alla pubblicazione delle prime canzoni di Bob Dylan, che avrebbe poi trovato in John Hammond il proprio mentore presso la Columbia Records.

Moses Asch era nato in Polonia, nel 1905. Nel 1912, la famiglia Asch aveva lasciato la Polonia, a causa dell’antisemitismo e si era stabilita a Parigi e soltanto nel 1915 sarebbe emigrata a New York e in quella città, dopo la guerra, Asch avrebbe iniziato a lavorare come ingegnere del suono.

Nel 1940, Asch fondò la Asch Recordings e si concentrò sulla pubblicazione e la vendita di dischi fonografici. Asch estese eccessivamente le sue operazioni e andò in bancarotta nel 1948. Ma Asch fu in grado di resuscitare la sua carriera discografica nello stesso anno facendo in modo che la sua segretaria, Marian Distler, avviasse una nuova casa discografica, la Folkways Records, a suo nome. La nuova etichetta sarebbe poi rapidamente passata dalle registrazioni a 78 giri ai long playing a 33.

Nel 1952, il regista ed etnomusicologo Harry Smith compilò per Asch una antologia di folk music americana, una raccolta di canzoni popolari indigene del sud e del mid-west degli Stati Uniti, che fu il primo disco a non tracciare una rigida distinzione tra cantanti folk bianchi e neri; antologia che, considerata l’epoca, sarebbe diventata “la raccolta più importante del suo genere”.

Uno dei principi che spinsero Asch a dirigere l’etichetta, che dalle origini fino alla sua morte ha distribuito 2.168 album discografici, fu che mai un singolo titolo fosse cancellato dal catalogo Folkways. Dopo la sua morte, le registrazioni della Folkways Records furono acquisite dalla Smthsonian Institution e Asch stabilì nel suo testamento che nessun titolo sarebbe stato cancellato e che i nastri master rimasti inediti nell’archivio di Folkways avrebbero dovuto essere esplorati. Cosa che, tra le tante altre, ha fatto sì che un critico musicale del «New York Times», Neil Alan Marks, abbia potuto affermare che: “La Folkways Records è stata per i folkloristi e i musicisti la fonte talmudica di gran parte del materiale primario. Il suo fondatore, Moses Asch, potrebbe avere più a che fare con la conservazione della musica popolare di qualsiasi altra singola persona in questo paese”.

Dunque, tenere in mano un Lp prodotto da quell’etichetta prometteva già una sorta di viaggio nella cultura popolare americana anche se, certamente, la sorpresa nell’ascoltarlo fu grande lo stesso. Era un disco per voce e chitarra dall’arrangiamento scarno ed essenziale, eppure, eppure…

Quel misto di dolore, naïveté e storie surreali di licantropi che si librava dai solchi dal disco rivelava fin dal primo ascolto qualcosa di inaspettato. Così First Songs, pubblicato nel 1964 e ritrovato da chi scrive nel 1977, tra i dischi ancora sigillati ma dalla copertina “bucata” che ne segnalava lo scarso successo commerciale, segnò l’inizio di una passione pari a poche altre, in termini musicali, nei confronti di Michael Hurley.

Michael Hurley era nato il 20 dicembre 1941 nella contea di Bucks, in Pennsylvania, e aveva scritto la sua prima canzone (in cui si immaginava un aeroplano) quando aveva cinque anni, ricevendo la sua prima chitarra, quando aveva 16 anni, da uno dei fidanzati della sorella maggiore; motivo per cui imparò a suonarla da autodidatta in un modo idiosincratico che avrebbe in seguito sempre caratterizzato le sue esecuzioni.

New York lo aveva attratto fin da adolescente, così come, oltre alle birre e all’alcol, lo avevano attratto i giovani frequentatori di Washington Square e dei locali del Greenwich Village in cui andava sviluppandosi un nuovo amore per la musica folk, in parte animato proprio dall’antologia di Harry Smith citata prima1. Così, dopo aver formato un gruppo chiamato Three Blues Doctors con Steve Weber e Robin “Rube” Remaily, iniziò a suonare in un club nel Village.

Il soggiorno del gruppo a New York fu breve, e non molto tempo dopo il loro ritorno a Bucks County, Hurley partì per Cambridge, Massachusetts, mentre Weber e Remaily avrebbero poi contribuito, insieme a Peter Stampfel, a formare gli Holy Modal Rounders, uno dei gruppi più deraglianti e squinternati della scena folk degli anni successivi2 e che poté vantare almeno per un album, Indian War Whoop del 1967, lo scarso contributo alla batteria dell’attore e scrittore Sam Shepard. Gruppo con cui per anni Hurley avrebbe ancora incrociato il suo percorso artistico.

Lo stile di vita perlomeno turbolento, unito alla passione per gli alcolici, fece sì che Hurley finisse con l’essere ricoverato nel reparto di tubercolosi del Bellevue Hospital di New York, dove fu curato per mononucleosi e danni al fegato, nonché per tubercolosi. Soltanto dopo quell’esperienza, di cui sarebbe rimasta la traccia autobiografica nel suo primo album, e dopo essere tornato in Pennsylvania, incontrò Fred Ramsey Jr., un archivista folk e ingegnere del suono che, tra le altre cose, aveva registrato le ultime sessioni di Leadbelly. Fu proprio Ramsey a convincere Moses Asch, forse a caccia di nuovi talenti dopo l’autentico smacco commerciale rappresentato dall’aver sottovalutato il talento del giovane Dylan qualche anno prima3, a firmare un contratto con Hurley per un lp che sarebbe poi diventato First Songs.

No no no I won’t go down no more
No no no I won’t come down no more
No no I won’t go
No no I won’t go
No no no I won’t come down no more

Stars are rolling in and out of my ears
Stars are rolling in’n’n’n’n and out of my ears
Well they roll in and out
Make me want to jump and shout
No no no I won’t come down no more

(No, No, No, I Won’t Come (Go) Down No More – Michael Hurley 1964)

Asch anticipò a Hurley 100 dollari per fare un secondo album, e iniziò a registrare altro materiale con Ramsey, ma l’LP non fu mai completato, a causa sia del carattere erratico del cantautore che del contenuto delle sue canzoni il cui marchio era costituito, così come sarebbe poi sempre rimasto da una musica folk giocosamente surreale, spiritosa, riflessiva, piena di gioia e di dolore allo stesso tempo. In un insieme di suoni spesso stravaganti anche se tratti quasi esclusivamente dall’uso di strumenti acustici, con la chitarra che si alternava ad uno stridente violino oppure al banjo e a un kazoo, accompagnati talvolta dalle imitazioni vocali degli strumenti a fiato.

Hurley, nomade per natura, trascorse diversi anni viaggiando frequentemente e suonando occasionalmente, ma tuttavia, gli amici di Hurley negli Holy Modal Rounders iniziarono a registrare le sue canzoni e la voce sul suo lavoro, caratterizzato di rondini in volo nel cielo sopra le missioni californiane, vagabondi e lupi mannari amanti del vino e in cerca di gentilezza , iniziò a diffondersi. Col tempo, uno degli amici di Hurley dei tempi di Bucks Country, Perry Miller, adottò il nome d’arte Jesse Colin Young e formò una band chiamata Youngbloods.

Il gruppo ottenne un grande successo nel 1969 con la canzone Get Together, che raggiunse la Top Ten proprio quando il loro contratto con la RCA Victor Records stava per scadere. Così firmarono con la Warner Bros., che come incentivo offrì loro la loro etichetta, la Raccoon Records motivo per cui Young decise di far incidere Hurley per il loro nuovo catalogo.

Hurley preferiva spesso registrare a casa piuttosto che andare in studio. Gran parte del suo lavoro aveva un’affascinante atmosfera lo-fi, una delle qualità che lo hanno reso un eroe e uno spirito affine alla successiva scena freak folk, così Armchair Boogie, il secondo album del cantautore, venne registrato da Young nella camera da letto di Hurley, nel 1971.

When the swallows come back to Capistrano,
That’s the time I hope that you come back to me.
When you whispered farewell in Capistrano,
That’s the time the swallows flew out to the sea.

Ah, the mission bells will ring,
The chapel choir will sing.
The happiness you bring
When we go hand in hand.

(When the Swallows Come Back to Capistrano – M. Hurley, 1971)

Poi, nel 1972, fu la volta di Hi-Fi Snock Uptown (“snock” era allo stesso tempo uno dei soprannomi di Hurley e una frase che usava per descrivere il suo suono), con diversi membri degli Youngbloods ad accompagnarlo nel corso della registrazione, che ancora adesso è considerato uno dei suoi dischi migliori. Have Moicy!, del 1976, una collaborazione con gli Unholy Modal Rounders (nome che era stato cambiato in seguito all’uscita di Steve Weber dal gruppo), con cui aveva cominciato a suonare regolarmente, con canzoni come Griselda, What Made My Hamburger Disappear oppure Jealous Daddy’s Death Song avrebbe finito col rappresentare un piccolo capolavoro di folk urbano e segnato il passaggio ad un’altra etichetta specializzata in folk, bluegrass, blues e musica tradizionale americana, la Rounder Records, fondata nel 1970 a Somerville, Massachusetts.

Il disco fu un successo immediato di critica e vendette inaspettatamente bene. La Rounder Records mise sotto contratto Hurley come artista solista. I suoi due album per Rounder, Long Journey del 1977 e Snockgrass del 1980, sono stati considerati tra i suoi lavori migliori, ma quando la Rounder gli propose di incidere un album per bambini, Hurley decise di cercare una nuova etichetta discografica.

Comunque è ancora un universo frutto di uno stile decisamente naif quello che il cantautore ci racconta e descrive in Snockgrass, intriso di influenze blues, folk e jug band e, ancora una volta, caratterizzato da una copertina contenente una delle tipiche immagini da fumetto realizzate dallo stesso Hurley, poiché la maggior parte degli album di Hurley presentano in copertina le sue opere grafiche, spesso con una coppia di lupi antropomorfi, Boone e Jocko, che sono spesso presenti nei suoi fumetti, come le precedenti, e contenente un titolo riferito al nome di una band con cui il cantautore si era esibito in precedenza: Automatic Slim & the Fatboys.

Gli album dei primi anni settanta avevano infatti incoraggiato Hurley a ricominciare a suonare regolarmente in pubblico, incluso un tour con altri artisti dei Raccoon, ma dopo la decisione della Warner Bros. di staccare la spina dall’etichetta, ponendo fine alla sua collaborazione con una major, Michael si unì per un periodo a una band del Vermont chiamata Puddledock, con cui si mise in viaggio con un nuovo nome, Automatic Slim & the Fatboys per l’appunto, trovando seguaci nel Vermont e nel Massachusetts, e registrando del materiale su un registratore a quattro tracce che avrebbe trovato una pubblicazione tardiva nell’album del 2011 Fatboy Spring.

Hurley collaborò con l’etichetta indipendente Rooster per il suo album successivo, Blue Navigator del 1984, ben accolto anche se, non molto tempo dopo la sua uscita, un incendio nel magazzino della Rooster distrusse le scorte dell’LP e i nastri master, trasformandolo in questo modo in un ricercato oggetto da collezione prima che la Feeding Tube Records lo ristampasse nel 2021. Watertower del 1988 fu registrato per la Fundamental Records poco prima che l’aumento degli affitti portasse Hurley a lasciare il Vermont in favore di Richmond, in Virginia, e prima che l’artista americano iniziasse a creare registrazioni fatte in casa e disponibili solo su cassetta da vendere ai suoi spettacoli, così come fumetti e dipinti.

Solo nel 1994 avrebbe potuto incidere un nuovo album, Wolf Ways, in cui venne inclusa una nuova versione di Werewolf, che nel 2003 sarebbe stata ripresa da Cat Power (alias Chan Marshall) nel suo album You Are Free, e diversi brani già comparsi nel precedente, ma sostanzialmente inedito, Watertower. Wolf Ways uscì, invece, sul mercato discografico quando uno scrittore e fan tedesco che gestiva una piccola etichetta tedesca (Veracity) lo portò in Europa per suonare alcuni concerti e si convinse a pubblicare un nuovo album. L’etichetta pubblicò Parsnip Snips nel 1995, ma i problemi finanziari avrebbero contribuito alla sua prematura chiusura non molto tempo dopo l’uscita di quest’ultimo, rendendolo un’altra rarità fino a quando la Mississippi Records non ha ne pubblicato una nuova edizione nel 2009.

Una fanzine irlandese dedicata a Hurley, Blue Navigator, pubblicò il suo successivo progetto in studio, Bellemeade Sessions del 1998, un raro album dominato da cover piuttosto che da originali. Weatherhole del 1999 è stato registrato invece per la Koch Records, ma quando la proposta decadde prima ancor di andare in stampa, Nick Hill, A&R dell’etichetta, si fece avanti per pubblicarla lui stesso sulla sua etichetta indipendente Field Recording Co.

Poi l’esoterico interprete di un mondo naif ma non infantile, poiché sarebbe come definire i quadri di Henri Rousseau detto il Doganiere come illustrazioni per l’infanzia, avrebbe ancora girato per l’Europa e il Regno Unito nei primi anni del XXI secolo, contribuendo a dare impulso anche alla sua carriera discografica. L’etichetta tedesca Trikont organizzò la pubblicazione di Sweetkorn nel 2002, seguito da un album registrato alla fine di un tour irlandese, Down in Dublin (2005).

Il culto di Hurley avrebbe iniziato ad espandersi quando un certo numero di artisti più giovani iniziarono ad interpretare cover dei suoi brani, come Devendra Banhart e la già citata Cat Power. Proprio l’etichetta Gnomonsong di Banhart avrebbe pubblicato due dei suoi album, Ancestral Swamp del 2007 e Ida Con Snock del 2009. Blue Hills del 2010, pubblicato dall’etichetta indipendente Mississippi Records, presentava in gran parte Hurley al pianoforte e all’organo a pompa piuttosto che alla chitarra. Mentre Back Home with Drifting Woods del 2012 ha resuscitato registrazioni inedite del 1964, alcune delle quali provenienti dalle sessioni per il secondo album incompleto dei Folkways.

Land of Lo-Fi del 2013 è uscito per la Mississippi Records in edizione limitata, e Bad Mr. Mike è seguito nel 2016. Poi è stata la volta di Redbirds at Folk City, pubblicato nel 2017, tratto da uno spettacolo dal vivo del 1976. Living Ljubljana del 2018 è un’altra registrazione d’archivio, questa volta da un concerto del 1995 a Lubiana, in Slovenia. The Time of the Foxgloves del 2021 ha messo insieme brani registrati sia in casa che in studio ed è stato pubblicato poche settimane prima che il cantautore festeggiasse il suo 80° compleanno. È stato l’ultimo album pubblicato durante la sua vita, ma Hurley ha continuato a fare concerti fino alla sua morte avvenuta il 1° aprile di quest’anno all’età di 83 anni.

Trovando rifugio in quell’angolino di aldilà in cui già l’avevano preceduto altri gloriosi freak newyorkesi come Tuli Kupferberg (1923-2010) e Steve Weber (194-2020) e al cui tavolo da qualche tempo a questa parte, in compagnia di Dave Van Ronk (1936–2002), si è trasferito anche Amadeo Bordiga (1889-1970), per parlare di ciclismo davanti ad un piatto di cozze, dopo essersi accorto di quanto fosse diventato noioso l’angolo riservato ai comunisti.

You can hear his long holler from away across the moor
That’s the holler of a werewolf when he’s feeling poor
He goes out in the evening when
The bats are on the wing
And he’s killed some young maiden before the birds sing

Once I saw him in the moonlight
When the bats were a-flying
All alone I saw the werewolf and
The werewolf was crying

Crying “Nobody, nobody, nobody knows
How much I love the maid as I tear off her clothes”
Crying “Nobody, nobody knows my pain
When I see that it’s risen, that full moon again”

Crying “Nobody, nobody knows my pain
When I see that it’s risen, that full moon again”

(Werewolf – Michael Hurley)


  1. Sulla scena musicale newyorkese a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta e in particolare per la scena folk che gravitava intorno a Washington Square e al Greenwich Village, si veda qui  

  2. Il cui brano più famoso presso il grande pubblico fu sicuramente Bird Song compreso nella colonna sonora del film Easy Ryder, diretto da Dennis Hopper nel 1968, e tratto dall’album The Moray Eels Eat The Holy Modal Rounders, pubblicato dalla Elektra alla fine degli anni Sessanta.  

  3. Si veda in proposito B. Dylan, Chronicles – Volume 1, traduzione di Alessandro Carrera, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2005 (ed.originale americana 2004).  

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Inside Dave Van Ronk https://www.carmillaonline.com/2014/03/04/inside-dave-van-ronk/ Mon, 03 Mar 2014 23:10:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13164 di Sandro Moiso

llewyn davis Ancora un film americano

L’ultima fatica cinematografica dei fratelli Coen, Inside Llewyn Davis1 , non appartiene certamente alle opere più importanti dei due autori americani, ma riesce comunque a trasmettere l’immagine e le contraddizioni di un’epoca e di un ambiente che hanno segnato in maniera significativa l’evoluzione della musica americana moderna. L’epoca è quella compresa tra i primi anni cinquanta e la seconda metà degli anni sessanta del secolo appena trascorso, mentre l’ambiente è quello dei musicisti del folk revival del Greenwich Village di New York.

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di Sandro Moiso

llewyn davis
Ancora un film americano

L’ultima fatica cinematografica dei fratelli Coen, Inside Llewyn Davis1 , non appartiene certamente alle opere più importanti dei due autori americani, ma riesce comunque a trasmettere l’immagine e le contraddizioni di un’epoca e di un ambiente che hanno segnato in maniera significativa l’evoluzione della musica americana moderna. L’epoca è quella compresa tra i primi anni cinquanta e la seconda metà degli anni sessanta del secolo appena trascorso, mentre l’ambiente è quello dei musicisti del folk revival del Greenwich Village di New York.

Al centro delle vicende, che si sviluppano nell’arco di pochi giorni, si staglia la figura di Llewyn Davis, musicista e cantante folk di origine irlandese, spiantato, costantemente indeciso tra il proseguire una poco significativa carriera artistica oppure riprendere il mare come membro dell’ equipaggio di qualche nave mercantile. Un proletario della cultura, insomma, costantemente a caccia di un impiego sia sotto forma di ingaggio in qualche locale oppure sotto quella di un nuovo e migliore contratto discografico oppure, ancora, a bordo di una nave destinata a solcare i mari del mondo.

Proletario nelle origini e nell’attitudine, comunista per scelta, come rivela in un momento del film, e disperato intrattenitore di pubblici distratti nei café newyorchesi oltre che sfigatissimo tombeur de femmes. Un personaggio spesso antipatico, scomodo come quasi sempre sono i protagonisti della cinematografia dei Coen, ma dotato di una sua intrinseca coerenza. Soprattutto nel rifiutare tutto ciò che potrebbe limitarne la libertà espressiva e di movimento.

Tra un viaggio a Chicago, in compagnia di un musicista jazz sarcastico e tossicomane (interpretato dal solito bravissimo John Goodman), e svariate incursioni, a caccia di qualche dollaro, in una casa discografica legata alla musica tradizionale (in cui è facile individuare la Folkways Records di Moses Asch) ed incapace di promuovere adeguatamente i giovani artisti, il personaggio interpretato da Oscar Isaac corre contro tempi ed eventi che sembrano costantemente sfuggirgli di mano.

Anzi, che sembrano proprio prendersi gioco di lui. Troppo in anticipo sul rinnovamento del folk, che avverrà poi con altri nomi ed altri musicisti, ma allo stesso tempo troppo in ritardo con il suo gusto per una musica prodotta quasi artigianalmente. In tempi di musica ed artisti prodotti, poi, industrialmente. E in cui una critica troppo sincera e tutt’altro che allusiva può essere ripagata con una gran scarica di pugni da parte di un marito adirato e violento.

Tempi in cui il suicidio poteva costituire la “soluzione del problema”, l’estrema risorsa contro la sconfitta e la delusione. Così la figura dell’amico suicida, presa a prestito dai tanti folksinger che decisero così di troncare la loro vita negli anni sessanta (Peter La Farge, Phil Ochs, Paul Clayton) accompagna le vicende del protagonista, che sembra, in più di un momento, pensare alla stessa soluzione per sfuggire ai suoi fantasmi, alla delusione artistica e alle difficoltà economiche.
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Ritagliato sulla figura di Dave Van Ronk, colui che fu descritto come il sindaco del Greenwich Village o, almeno, di quelle vie dedicate ai locali dove si suonava musica folk ( MacDougal Street e Bleecker Street) e dallo stesso Dylan come “il re e il signore indiscusso” di quella zona di Manhattan che gravitava intorno a Washington Square, il film ne ripercorre, sintetizzandoli, alcuni momenti topici della carriera. Avvicinandoli nel tempo e dando loro quel tocco di tristezza e di dramma che spesso fa sì che le commedie di Joel ed Ethan Coen lascino quasi sempre in bocca al pubblico il sapore amaro della sconfitta personale e dell’errore inevitabile.

E proprio questo sapore amaro accompagnato, però, da un’abbondante dose di ironia e di cinismo avvicina i fratelli Coen allo spirito dell’autentico Van Ronk e, forse, anche al sano materialismo privo di fronzoli e di orpelli inutili che ne hanno sempre caratterizzato sia le scelte musicali che di vita. Come ben dimostra la sua autobiografia recentemente pubblicata in Italia da Rizzoli2 .

Ancora un libro

Io sono un marxista e un materialista” (pag.367). Da questa netta affermazione, probabilmente inaspettata per la gran parte di coloro che si interessano alla musica americana, occorre iniziare per comprendere il senso della ricerca musicale di Dave Van Ronk, spentosi nel 2002 all’età di sessantasei anni, e del giudizio che egli dava della società e dell’ambiente musicale in cui e con cui si trovò a vivere e convivere.

manhattan folk La cifra politica, infatti, segna tutta la sua esperienza, fin dagli anni cinquanta. Ripercorrere attraverso la sua penna, e quella dell’amico Elijah Wald che ha dovuto completarne la biografia dopo la sua dipartita, gli anni che vanno dai tempi del senatore McCarthy a quelli della Nuova Sinistra degli anni sessanta e anche oltre, significa entrare in una sorta di caleidoscopio di sigle ed intenzioni che potranno sorprendere molti lettori.

Van Ronk ci guida attraverso le sue esperienze prima nel movimento anarchico, poi tra i rimasugli degli Industrial Workers of the World fino alla sua adesione al trotzkismo e al comunismo di sinistra, senza mai interrompere il suo più totale rifiuto di ogni forma di stalinismo. E dei prodotti culturali che ne derivavano. Il tutto, però, condotto con animo, allo stesso tempo, cinico e gentile; completamente privo di qualsiasi retorica partitocratica o intellettualistica.

Così come cantava, parlava questo perfetto esempio di newyorchese nato a Brooklyn nel 1936 e morto nella stessa città. Basti qui riportare un episodio, per capirne lo sguardo e l’esperienza che ebbe modo di farsi in un ambiente in cui la memoria delle rivoluzioni europee dei primi decenni del XX secolo erano ancora molto vivaci. “Un bavarese di nome Franz, che aveva fatto parte del movimento sindacale in Germania, mi raccontò di essere stato a Monaco al tempo dell’assalto al parlamento. Qualcuno gridava «Compagni! Dobbiamo mantenere l’ordine rivoluzionario. Non calpestate le aiuole». E tutti questi tizi, armati di fucile e quant’altro, si tolsero dall’erba e si misero in fila sui vialetti lastricati. Nel frattempo, all’altra estremità del vialetto, li attendevano le mitragliatrici. Franz si accorse di cosa stava accadendo, mollò il fucile e si incamminò nella direzione opposta. Andò fino ad Amburgo, salì su una nave e venne in America. Ma da quella esperienza, diceva, la classe operaia tedesca si era ritagliata un posto speciale nel suo cuore…” (pag. 75)

La prima vera scoperta della tradizione musicale folcloristica americana avvenne infatti negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, durante la Grande Depressione. Soprattutto nell’ambiente degli immigrati e del Partito Comunista Americano. “Il Partito comunista ebbe un ruolo chiave nella nascita di questo movimento musicale; (Woody) Guthrie per un po’ tenne persino una rubrica tutta sua sul «Daily Worker» (il quotidiano del partito). Ma dall’altro creava non pochi e trascurabili problemi. Tanto per cominciare c’erano i vari avvicendamenti negli incarichi politici, per cui i membri degli Almanac Singers si ritrovavano a cantare un pezzo antimilitarista come Plow Under o altri contro l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale durante il patto Molotov-Ribbentrop per poi gettare tutto dalla finestra per intonare canti patriottici militaristici inneggianti alla guerra quando la Germania invase l’Unione Sovietica” (pag. 68).

Questa esperienza, soprattutto quella degli Almanac Singers, avrebbe fortemente segnato la generazione di folksinger precedente quella di Van Ronk e di Dylan. E fu questa la linea di demarcazione che divise per anni dal nuovo movimento folk un personaggio come Pete Seeger. Che era ritenuto da tutti quei giovani musicisti un autentico padre putativo, ma che tardò a riconoscerli come suoi legittimi eredi, anche quando negli anni sessanta gli stessi presero le sue difese per permettergli di rientrare nel mondo della radiodiffusione e della televisione americana, da cui era ancora escluso come ai tempi di Joseph McCarthy.

Ma quello che avvenne nei locali e nelle strade del Greenwich, intorno a quella Washington Square che divenne un po’ la palestra all’aria aperta per un’intera generazione di folksinger, nel periodo narrato da Van Ronk fu ancora qualcosa di diverso e di più radicale, dal punto di vista musicale.
La prima riscoperta della tradizione orale e musicale americana aveva privilegiato le tradizioni dei lavoratori e le canzoni di lotta. Spesso questo aveva mantenuto invariata la separazione tra musica bianca e nera. I neri come Leadbelly e Josh White erano ben accetti principalmente quando attraverso i canali culturali del partito comunista prestavano la loro voce alla tradizione musicale bianca e, possibilmente, impegnata.
dylan e van-ronk I giovani “bianchi” del Greenwich, però, scelsero un altro approccio. Magari con scarse attitudini musicali, ma con tanta voglia di cambiare decisero che tutto il patrimonio della musica popolare americana andava salvaguardato. Se da un lato era quindi possibile risalire alle origini inglesi ed irlandesi di quella musica, dall’altra il blues e il jazz ne facevano anche indiscutibilmente parte. Così, mentre Bob Dylan costruiva il suo primo, vero successo, “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, sull’aria della vecchia ballata inglese “Lord Randall”, altri iniziarono ad andare a cercare i grandi esecutori di blues ascoltati sui vecchi dischi a 78 giri per portarli a suonare nei locali dove si suonava musica folk.

E anche se i primi ad avere successo furono dei gruppi bianchissimi come il Kingston Trio, tutto ciò aprì la strada alla riscoperta del blues in tutte le sue forme da un lato e alla nuova canzone cantautoriale dall’altro. Così mentre vecchi bluesman come Mississippi John Hurt, Skip James, Gary Davis e Lightnin’ Hopkins, solo per citarne alcuni, iniziavano a calcare le scene del Gaslight, dall’altra nuovi personaggi come Joni Mitchell, Leonard Cohen , Phil Ochs iniziavano a diventare le star del circuito folk.

Dave attraversò tutto il periodo e ne attraversò tutte le tendenze: dalla riscoperta del jazz tradizionale al folk anglo-irlandese, passando per le jug band e le canzoni composte da Kurt Weil e Bertolt Brecht fino a Woody Guthrie e al blues, in cui fu particolarmente favorito dalla sua voce.
E quel brontolio profondo nella mia voce? Amico mio, sono asmatico. Più il tempo è brutto, più la mia voce è rauca e rasposa. E’ fantastico. Nasconde tutti i difetti” (pag. 231) ebbe modo di rispondere ad un giornalista che lo intervistava.

Anche se per Van Ronk “fu senza dubbio il successo di Bobby (Dylan) a mettere in moto il cambiamento. Fino ad allora il movimento folk era ancora molto legato alla tradizione, tanto che gli autori a volte spacciavano le proprie composizioni per pezzi tradizionali. Per certi versi, quindi, la cosa più importante fatta da Bobby non fu scrivere le canzoni, quanto dimostrare che era possibile scriverle” (pag. 341).

Innamorato delle belle canzoni, che spesso per lui non coincidevano con quelle impegnate o politiche, il nostro interprete dalla voce spesso cavernosa quanto quella di Tom Waits, non si preoccupò mai di avere un futuro come autore, ma si preoccupò sempre della qualità dell’esecuzione e del mantenere la propria personalità. Come quei bluesman neri cui riservò sempre la più grande ammirazione. “Il mondo che aveva generato quelle personalità non esiste più da parecchio tempo. Già all’epoca i musicisti più anziani sembravano spesso emissari di un’era mitica e ormai svanita […] (Ma) in fondo si trattava di uomini e donne adulti, e sapevano benissimo chi erano. E quella era una delle caratteristiche più importanti della loro musica, che la ragione stessa per la quale erano diventati famosi: suonavano e cantavano come persone che sapevano chi erano. Non era gente facile da impressionare. Non importa poi molto se sei un bracciante del Texas o un laureato di Harvard: se non sai chi sei, sei perso, a prescindere da dove finisci. Se invece lo sai, non ci sono problemi” (pp. 332 – 333).

Quando si trattava di musica politicamente impegnata, il mio sguardo si faceva altrettanto critico anche rispetto ciò che veniva scritto intorno a me. Avevo l’impressione che nessuno si fosse mai lasciato convincere di essere nel torto semplicemente ascoltando una canzone; in sostanza, quando scrivi una canzone di argomento politico, stai predicando a un coro di convertiti. Ovvio però che al coro servono canzoni e poi, quando un gruppo si ritrova a cantare insieme, i suoi membri diventano più solidali gli uni con gli altri […] ho sempre pensato che la politica è politica e la musica è musica. Brecht era stalinista, ma le sue migliori canzoni non sono staliniste.[…] E parlando di Paxton, Ochs o Dylan, le loro canzoni mi piacevano quando erano ben scritte, indipendentemente da ciò che dicevano, mentre quando non erano ben scritte non mi interessavano” (pag. 346)
dave_van_ronk In queste, e in molte altre osservazioni, sta la bellezza di una testimonianza quasi unica sulla musica folk americana e sull’ambiente politico e culturale che l’ha prodotta.

Alcune indicazioni di carattere discografico

Nonostante lo scarso successo commerciale, la discografia di Dave Van Ronk è piuttosto estesa e disseminata tra varie case discografiche (Folkways, Prestige, Verve Forecast, Polydor, Philo solo per citarne alcune), anche se di difficile reperibilità essendo ormai quasi tutta fuori catalogo. Per iniziare a farsi un’idea dello stile e del genere musicale vale forse la pena di ascoltare la colonna sonora del film dei Coen, prodotta e arrangiata dal solito, autorevole e bravissimo T-Bone Burnette, per poi passare a qualche antologia ancora reperibile come: Down in Washington Square, The Smithsonian Folkways Collection, Smithsonian Folkways 2013 oppure la classica raccolta Inside Dave Van Ronk, che dovrebbe ancora essere reperibile in edizione Prestige, o, ancora, i suoi ultimi dischi per la Philo come il bellissimo Sunday Street, ristampato nel 1999 dalla Rounder Records. Buon Ascolto… e buona lettura!


  1. in Italia A proposito di Davis  

  2. Dave Van Ronk e Elijah Wald, Manhattan Folk Story. Il racconto della mia vita, Rizzoli 2014, pp. 422, euro 18,00  

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