morto-vivente – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Zombie: il soggetto e la massa https://www.carmillaonline.com/2018/11/30/zombie-il-soggetto-e-la-massa/ Thu, 29 Nov 2018 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49877 di Gabriele Guerra e Maurizio Marrone

Gli zombie sono tra noi. Questa affermazione ormai è diventata mainstream, nella sua intenzione scopertamente politica di vedere nella figura del morto vivente che è mosso soltanto dal desiderio di nutrirsi degli esseri umani; nella raffigurazione del compiuto dominio capitalistico, della “zombificazione” dei rapporti sociali, del collasso di qualsiasi forma di convivenza. Come tutte le affermazioni mainstream, però, questa raffigurazione, pur contenendo degli indirizzi critici notevoli, sta diventando una frase irriflessa, che non si chiede davvero chi siano gli zombie e chi siamo [...]]]> di Gabriele Guerra e Maurizio Marrone

Gli zombie sono tra noi. Questa affermazione ormai è diventata mainstream, nella sua intenzione scopertamente politica di vedere nella figura del morto vivente che è mosso soltanto dal desiderio di nutrirsi degli esseri umani; nella raffigurazione del compiuto dominio capitalistico, della “zombificazione” dei rapporti sociali, del collasso di qualsiasi forma di convivenza. Come tutte le affermazioni mainstream, però, questa raffigurazione, pur contenendo degli indirizzi critici notevoli, sta diventando una frase irriflessa, che non si chiede davvero chi siano gli zombie e chi siamo noi. Gli zombie, con la loro apatia, quel loro incedere in un mondo in rovina alla ricerca esclusivamente di fonti primarie di sostentamento, in realtà “portano alle estreme conseguenze la crisi del processo di individuazione”, come è stato notato da Rocco Ronchi.1 Questo autore si è confrontato filosoficamente con la moda zombie, rilevandone le caratteristiche letteralmente trans-umane. Secondo questa lettura lo zombie è il nostro prossimo che ha cessato per sempre di essere tale, con il quale non si può instaurare alcun rapporto possibile che non sia di mero conflitto. Quindi – aggiunge Ronchi – non esiste lo zombie, esistono solo gli zombie, massa indistinta e priva di ogni forma di individuabilità, “un plurale che non ha più l’uno come unità di misura”.2 In questo senso gli zombie rappresentano l’esatto antitipo del Leviatano di Hobbes che vediamo nel suo celebre frontespizio: un sovrano che domina la città, il cui corpo è formato da tutti i suoi sudditi. Agli zombie Ronchi riserva, con una intuizione davvero interessante, il titolo greco – già rintracciabile in Platone – di onkos, “peso”, “massa”.

Insomma: gli zombi sono una massa asoggettuale, oncologica, priva di volontà e scopo che non siano quelli di distruggere gli umani viventi, i soggetti. Questi invece formano una massa di tante individualità autocoscienti; in questo senso si potrebbe dire che l’onkos costituisce l’estrema propaggine teoretica delle descrizioni della massa che Elias Canetti compie in Massa e potere. Proprio su questa inaggirabile contraddizione fondamentale tra una massa di zombie incoscienti e la comunità di soggetti coscienti occorre riflettere seriamente, per evitare facili derive simboliche (gli zombie che stanno sempre per qualcos’altro), o facili liquidazioni. Dire che lo zombie, essendo puro corpo, si collega a “una biopolitica immaginaria dei corpi dei lavoratori”3 costituisce un’acuta osservazione rispetto alla genesi della figura dello zombie e al nesso strettissimo che instaura con il capitalismo e i suoi sistemi storici di dominio e di controllo; ma al tempo stesso si espone al pericolo di poter essere considerata come una delle tante figure di questo stesso sistema, quasi fosse un concreto antesignano, o un simbolo, del proletariato.
A prendere davvero sul serio la massa degli zombie come onkos, invece, occorre preventivamente interrogarsi sul suo statuto filosofico, e pensiamo che sia sempre Rocco Ronchi a fornire il quadro teorico di riferimento. Nella sua opera più recente, Il canone minore,4 egli tenta di definire delle coordinate storico-filosofiche di tipo nuovo che descrivano le modalità di esistenza dell’essere umano nel mondo. Tale essere umano qui è definito come non naturale, come un essere del possibile, in grado cioè di non fare qualcosa. Lo zombie invece somiglia allo scorpione di quell’apologo classico, ricordato sempre da Ronchi, che chiede alla rana un passaggio sul dorso per attraversare un fiume, promettendole di non pungerla. Cosa che invece fa, e alla rana dolorosamente stupita che gliene chiede conto mentre entrambi stanno annegando risponde che quella era la sua natura, che non poteva fare altrimenti. Lo zombie non può non mordere, insomma, come lo scorpione non può non pungere; mentre il soggetto umano è come il Bartleby melvilliano, che risponde sempre con I would prefer not to alle ingiunzioni a eseguire un compito. “Avrei preferenza di no” è dunque il motto dell’essere umano capace di deflettere dalla coazione “naturale” all’azione.

Ma se fosse lo zombie a mostrare una simile attitudine? Esiste un esempio nella vasta letteratura zombie che sembra andare nella direzione di una risposta a questo interrogativo: il romanzo del 2015 La ragazza che sapeva troppo,5 che mostra, nel solito mondo postapocalittico squassato da un’epidemia zombificante, una seconda generazione di morti viventi nati da madri infette. Essi si trovano nella terra di nessuno che separa i vivi sani dai morti viventi malati: esseri senzienti, che però regrediscono alla fame atavica di carne umana non appena sentono l’odore del sangue. La protagonista, di nome Melanie, è una bambina che scopre la sua natura duale, imparando a conviverci e anzi alla fine a farla fruttare. Realizza così il cammino dell’eroe che porta dall’acquisizione di sé e del proprio compito alla sua realizzazione attraverso il superamento di una serie di ostacoli. Il viaggio dell’eroe, inerente a qualsiasi testo che intenda porre la questione del soggetto nel mondo, in questo esempio estremo di letteratura zombie, comincia proprio quando si riaccende la coscienza: dall’onkos come insieme indifferenziato di un molteplice che ha perso il suo principio di unificazione, ovvero la capacità per gli individui di essere soggetti, si mostrano dei segnali di individuazione di un soggetto in grado di ri-fondare una comunità – senz’altro inedita e a tratti non riconoscibile come tale, ma sicuramente portatrice di un qualche futuro collettivo.
Melanie incarna insomma una possibile linea di individuazione di qualcosa come una soggettività al di là dell’onkos, una sorta di contraddizione in atto nel mondo, che del soggetto riprenda le categorie di atto e potenza, dell’onkos la massa “pesante”, e riconfiguri il tutto in forme e modi che superino sia la questione, tradizionalmente aristotelica del soggetto, sia le derive apocalittico-nichilistiche dell’onkos.
Crediamo che queste riflessioni di Rocco Ronchi intorno al soggetto e alla sua pretesa “naturalità”, come anche quelle intorno alla natura dello zombie possano andare ben al di là di una riflessione eccentricamente elegante circa la “zombologia”. Possano cioè fungere da spunto prezioso, se abbandoniamo l’ontologia dello zombie e per così dire viriamo su una sua “estetica”; ovvero sulla percezione che di esso – dell’altro, del corpo dell’altro – si sta dando in questi sventurati tempi.
Gli zombie sono tra noi, dicevamo. Il che oggi significa, fuori dalla metafora filmica: i migranti che arrivano in Europa, dopo un viaggio davvero eroico, tra mille incidenti e pericoli, vengono percepiti come una massa indistinta (e quanto pesante nel dibattito pubblico!) e dunque minacciosa, proprio come gli zombie che assediano in massa gli umani superstiti. E se fosse possibile invertire il processo degenerativo della percezione, e leggere in quelle masse di migranti il momento in cui dall’onkos emerge un soggetto individuabile, una massa di soggetti individuabili? È possibile cioè rintracciare una nuova genealogia del soggetto (e dell’eroe) proprio laddove il sistema compie il massimo sforzo per trasformare in onkos una comunità potenziale? Occorre insomma una riflessione all’altezza del fatto che l’essere umano non solo può non, ma anche del fatto che si comporti come lo scorpione della favola. È qui può giungere in soccorso una riflessione inedita sullo statuto degli zombie.

[Nell’ambito del ciclo di incontri sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe”, il Gruppo di Studio Antongiulio Penequo discuterà di eroi, zombie e migranti con Rocco Ronchi il 12 dicembre alle ore 19.00 (Libreria Caffè Giufà via degli Aurunci 38, Roma). Il tema dell’eroe è già stato affrontato su “Carmilla” da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui, qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio Marrone (qui e qui), Gabriele Guerra (qui e qui) e Pierpaolo Ciccarelli. Riguardo alla figura del morto vivente si segnalano inoltre i contributi di Gioacchino Toni (qui)]


  1. Rocco Ronchi, Zombie outbreak, La filosofia e i morti-viventi, Textus, L’Aquila 2015, p. 14. 

  2. Ivi, p. 25. 

  3. Antonio Lucci, Metafore della non-morte. Riflessioni culturologiche sul potenziale metaforico della figura dello zombie, in “Trópos”, n. 2, 2016, p. 104. 

  4. Rocco Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017. 

  5. M.R. Carey, La ragazza che sapeva troppo, Newton Compton, Roma 2015. 

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Nemico (e) immaginario. Da dove diavolo vengono e cosa accidenti sono tutti questi zombi? https://www.carmillaonline.com/2017/03/29/36629/ Tue, 28 Mar 2017 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36629 di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha [...]]]> di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» Tommaso Ariemma

«la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima […] quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e […] allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla» Rocco Ronchi

Riprendiamo, ancora una volta, il volume AA.VV., Critica dei Morti Viventi (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già preso in esame nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“] per soffermarci sui alcuni scritti che, in un modo o nell’altro, vanno alla ricerca delle radici dell’immaginario zombi (Cateno Tempio e Tommaso Ariemma) e tentano di definire cosa i living dead siano (Rocco Ronchi).

  • Dalla parte degli zombi

«Lo zombi è una figura endemica della nostra epoca e si è diffuso proprio come l’epidemia che lo vede di solito protagonista: in maniera capillare, in ogni angolo del mondo, cangiante, pervasivo, inquietante, senza lasciare via di scampo» (p. 92). L’epidemia zombi, sappiamo, fa la sua comparsa al cinema nei primi anni Trenta grazie ad Victor Halperin per poi esplodere sui grandi schermi nel 1968 con il primo film-zombi di George Romero ma, sostiene Cateno Tempio nel suo “Dalla parte degli zombi”, si potrebbe affermare che la figura dello zombi sia nata ben prima di assumere i connotati di figura horror propria dell’età contemporanea. «Pare infatti che la dialettica servo-padrone della Fenomenologia hegeliana sia compenetrata di spirito haitiano. La rivoluzione di Haiti fu quasi un corollario di ciò che avevano dimostrato i francesi nel 1789. O forse ne fu un effetto collaterale indesiderato, visto che alla fine si ritorse contro l’impero coloniale francese e a farne le spese fu in qualche modo addirittura Napoleone, che nel 1802 vi aveva mandato un contingente militare guidato dal cognato Leclerc. Gli schiavi neri s’erano ribellati e ambivano all’abolizione della schiavitù e all’indipendenza di Haiti, che finalmente, dopo proteste, manifestazioni e ribellioni a partire sin dal 1790, fu ottenuta nel 1804» (p. 93).

La studiosa americana Susan Buck-Morss (Hegel, Haiti and Universal History, 2009) sostiene che Hegel conoscesse le vicende haitiane e se così stanno davvero le cose «ancor più della rivoluzione francese, il movimento dialettico che ha improntato la storia politica da Hegel in poi trae origine proprio dai fatti di Haiti, ossia dalla rivolta degli schiavi neri contro i padroni bianchi. I servi sono non solo i contadini e i proletari; i servi sono soprattutto gli schiavi veri e propri, sfruttati dalla borghesia rampante dell’Europa che si dilata “spiritualmente” fino a diventare Occidente, in una determinazione concettuale che travalica i confini geografici per comprendere luoghi collocati in ogni parte del globo. Il destino storico-mondiale – temporale – della nostra cultura è questo: l’Occidente è la distensio animi del capitalismo borghese. La dialettica servo-padrone ne è la figurazione più icastica e spietata. Nella battute finali del Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels ricalcano la dialettica hegeliana, sostituendo al servo e al padrone rispettivamente la classe oppressa e la classe dominante. Ciò che per Hegel era, diciamo così, un fatto di coscienza individuale, per Marx ed Engels diventa un fatto di coscienza di classe. Ai singoli si sostituiscono le categorie di appartenenza. Ma il meccanismo rimane intatto. Per Hegel, il servo si sottomette per non morire. Tuttavia, non può essere più riconosciuto come “persona” perché nella rinuncia alla propria libertà – a vantaggio del salvare la pelle – non ha raggiunto la verità del riconoscimento della propria persona come autocoscienza autonoma, in quanto sottomessa al padrone. Il servo non è una “persona”: è solamente un non-morto. Il padrone, per contro, finisce con il trovare la verità della propria coscienza autonoma nella coscienza servile, perché è da essa che trae sostentamento e godimento. Così ogni coscienza passa nel suo opposto: il signore si fa non autonomo, quindi servo; quest’ultimo si convertirà nella vera autonomia. Quasi alla fine del Manifesto si assiste a un processo analogo. Alla classe oppressa devono essere assicurate le condizioni di sussistenza. Tuttavia, con il proletariato moderno si assiste al fenomeno per cui esso cade sempre più in basso e diventa sempre più povero. Per questo motivo, secondo Marx ed Engels, la borghesia non può più essere la classe dominante, perché non è in grado di garantire la vita ai propri schiavi, ai proletari. Questi ultimi hanno dovuto provvedere a “nutrire” la classe dominante dei padroni. Ma ora, gli schiavi proletari sono talmente poveri da essere sprofondati in condizioni tali che i padroni si vedono costretti a doverli nutrire anziché essere nutriti da loro. I padroni nutrono i servi. Ossia, i servi, metaforicamente, si nutrono dei padroni» (pp. 94-95).

Sarebbe dunque grazie alla ribellione haitiana degli schiavi che l’Occidente ha iniziato a considerare il servo come un “non morto” che il padrone si trova a dover nutrire. A partire dalla ribellione haitiana, attraverso Hegel, Marx ed Engels, si arriva agli zombi come “non morti” che si nutrono di altri individui. «Lo zombi, dunque, è uno schiavo di tipo particolare che si ribella a una classe dominante di tipo particolare, ossia uno schiavo moderno (nero o proletario) che si ribella alla classe dei padroni bianchi, borghesi e capitalisti. Il concetto di zombi, così come inteso nella cultura occidentale, nasce circa un secolo prima della sua rappresentazione artistica in senso lato. Il rivoluzionario è un non morto» (p. 95).

intheflashDunque, continua Cateno Tempio, nella contemporaneità il comunista è un morto vivente e con la progressiva scomparsa dei partiti comunisti, a partire dal crollo sovietico, il contesto zombi muta e le narrazioni sugli zombi spesso danno l’apocalisse come già avvenuta ed il risultato è la convivenza con i living dead.

Nella serie In the Flesh (ideata da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell, 2013-2014) è stata trovata una “cura” per i “risvegliati”, si tratta dunque di scongiurare l’apocalisse/rivoluzione attraverso la reintegrazione dei “parzialmente morti” non soggetti ad invecchiamento ed ormai privi di appetito. «È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» (p. 95).

  • Immaginario zombi e desiderio di un apocalittico isolamento radicale

Tommaso Ariemma, nel suo “Archeologia zombi”, parte dalla constatazione che buona parte delle rappresentazioni dei morti viventi non motivano la loro comparsa; essi “ci sono già”. Da dove vengono allora questi zombi? Affermando che essi “ci sono sempre stati” si mette in discussione l’assunto di base che li vuole legati al contemporaneo ed al connubio tecnologia-capitalismo. Indipendentemente dal significato che oggi possiamo dare alla figura dello zombi non è possibile ridurre tale figura esclusivamente a tale connubio; il morto vivente ha una lunga tradizione che, suggerisce lo studioso, non può essere disgiunta dalle origini della cultura filosofica occidentale.

La figura del morto vivente è conosciuta nell’antichità. «Gli antichi filosofi ricercavano una forma di “morte in vita” – ciò che in fin dei conti era la vita contemplativa – distinta, se non addirittura opposta a un’altra forma di “morte in vita”, rappresentata dalla vita quotidiana. Un’analogia fatta dal giovane Aristotele è decisamente istruttiva su questo punto» (p. 36). Al fine di chiarire il rapporto tra anima e corpo Aristotele fa riferimento ad un tipo di tortura praticata dai pirati etruschi che prevedeva che un vivo venisse legato in maniera speculare ad un cadavere in putrefazione. L’individuo ancora in vita veniva alimentato fino a quando la superficie del suo corpo, a causa del contatto coi vermi, diventava indistinguibile da quella del cadavere. I due corpi venivano slegati soltanto quando apparivano anneriti dalla putrefazione e per gli etruschi tale annerimento superficiale segnalava un’esposizione ontologica di un processo di decomposizione già iniziato dall’interno. Il giovane Aristotele, facendo riferimento a tale macabro supplizio, comparava il legame tra l’anima ed il corpo al legame esistente nella tortura etrusca tra corpo vivente e corpo morto. «Per il giovane Aristotele, ancora legato alla filosofia platonica, il corpo vivente non è mai semplicemente vivente. L’anima che si rapporta a tale corpo, inoltre, si trova nella stessa situazione del supplizio etrusco. In fin dei conti, per Aristotele, ogni vivente umano è un morto vivente» (p. 37).

Il pensiero antico, continua Ariemma, ha risposto alla condizione umana con «una vita contemplativa – separata il più possibile dalle perturbazioni offerte dal corpo – che è, a tutti gli effetti, un’altra morte in vita» (p. 37). Nel Fedone di Platone è ravvisabile la ricerca di una vita contemplativa «secondo la quale la morte stessa veniva intesa come una sorta di purificazione dal corpo e quindi gradita» (p. 38). A tale idea il pensiero occidentale si è ispirato per secoli e l’ideale della vita contemplativa «si è spinto al punto da decretare letteralmente una condizione dei “non contemplativi” che non può non ricordare quella degli zombi» (p. 38).

Il filosofo idealista Fichte capovolge il rapporto viventi / morti apparenti: i morti sono i non-idealisti nel loro trascinarsi per il mondo nell’involucro biologico, mentre gli autenticamente viventi sono coloro che si sono ridestati all’idealismo reale. Dunque «la vita contemplativa, l’ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, “inventa” la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria» (p. 38). Dunque, secondo Ariemma, l’immaginario degli zombi può essere considerato «il prodotto esasperato ed eccessivo, fantasia horror per eccellenza, proprio dell’ideale di vita che per secoli l’Occidente si è dato» (p. 38).

Il manifestarsi di tale immaginario ha certamente a che fare con gli sviluppi tecnologici tendenti a disincarnare gli esseri umani ma l’origine di tale sviluppo tecnologico, soprattutto nell’ambito del visivo, deriva da quella concezione greca nei confronti della vita.

zone_one_coverL’origine metafisica del fenomeno è ravvisabile secondo lo studioso tanto nel romanzo Zone One (2012) di Colson Whitehead, ove si narra di una pandemia che ha devastato la Terra trasformando gli esseri umani, che nella rappresentazione cinematografica preromeriana di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin.

«A completamento delle radici metafisiche della figura dello zombi è mancato, tuttavia, sempre un elemento: finora, infatti, le rappresentazioni che esplicitavano il morto vivente (romanzi, film, serie tv, videogiochi) mancavano di una fantasia spaziale implicita nell’avanzata degli zombi. Cosa desiderano, in realtà, coloro che sfuggono agli zombi? Desiderano un’isola. Un pezzo di terra puro, incontaminato e di difficile accesso per gli zombi. In fin dei conti, l’immaginazione di queste creature non è separabile dall’immaginare isole o posti che fungono da isola» (p. 40). Ebbene, tale esplicitazione è presente in Zone One ed essendo gli zombi «proiezioni negative della vita contemplativa, ne consegue che quest’ultima, così come l’istituzione della metafisica stessa, sono possibili e compresi proprio all’interno di una teoria dell’isola […] Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è allora un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» (pp. 40-41).

  • Ma che cosa sono i living dead?

Nello scritto “L’immagine omonima” – che funge da introduzione all’intero volume – Rocco Ronchi più che chiedersi da dove vengono i living dead, cerca di definire cosa essi siano. Secondo lo studioso i living-dead non sono definibili in base alla negazione, essi sono neutri, né vivi né morti, del vivente il dead è l’omonimo. Non essendo né vivo né morto, né umano né non umano, il dead non è identificato da nessuna negazione; del vivente il dead non è il contrario, la sua natura è pienamente affermativa ma quello che afferma è la differenza pura.

I dead sullo schermo sembrano dare immagine a quanto vi è di liminare nell’esperienza umana. Molti dei casi metaforizzati dai living dead sono accomunati dall’affiorare di «una esperienza pura, che non è esperienza di niente e di nessuno e che, non è nemmeno esperienza, almeno nel significato abituale del termine. Quando l’esperienza va in stallo, i dead possono insomma pretendere al titolo di metafora. Non diciamo forse di un uomo molto malato che è divenuto la sua ombra? Di che stiamo parlando se non del morto-vivente che albeggia in lui, ormai divenuto irriconoscibile? Se allora dovessimo rendere intuibile questa esperienza desoggettivizzata che appare in margine ad una vita che declina […] dovremmo immaginarla come un’esperienza ridotta alla sola dimensione del trauma. I dead, del resto, non hanno né corpo né volto ma solo una carne tumefatta e una faccia piagata. La violenza nei loro confronti non è forse legittimata per il fatto che tutta la loro risibile esistenza consiste, dopotutto, nel subire insensatamente dei colpi?» (p. 13).

Il motivo per cui probabilmente i dead ci sono così familiari è forse dovuto al percepire «che la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima, che quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e che allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla. Il cinema ci aspetta al varco, perché già da sempre siamo fatti di cinema, cioè dell’affermazione di una differenza pura. Non è forse questa la ragione per cui gli antichi immaginavano il morire come quel quell’istante in cui l’anima, spirando, si congeda dal corpo trasformandosi in pura immagine? E si trattava di un’immagine solamente omonima, differente per natura dall’originale, un’immagine a cui, dopo l’Ade, solo il cinema ha saputo dare un’immaginaria consistenza» (pp. 13-14).


A questo link le uscite precedenti di Nemico (e) immaginario

 

 

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Nemico (e) immaginario. Processi di zombificazione ed umanità 2.0 https://www.carmillaonline.com/2017/02/23/nemico-e-immaginario-processi-di-zombificazione-ed-umanita-2-0/ Wed, 22 Feb 2017 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35755 di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada [...]]]> di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada alcune caratteristiche di critica radicale presenti nel genere sin dall’inizio. Livio Marchese nel suo breve saggio “La fabbrica degli zombi: da Caligari al Grande Fratello”, contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già affrontato su Carmilla nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“], con un occhio di riguardo alle responsabilità dei media e dell’audiovisivo, indaga la trasformazione dalla figura del morto vivente alla luce di quella che può definirsi una mutazione dell’essere umano.

Lo scritto prende il via dall’analisi di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, opera che porta per la prima volta gli zombi sul grande schermo e può essere considerato il film archetipo del genere. In tale film gli zombi sono individui resi dominabili e sfruttabili come forza-lavoro da stregoni vudù che li mantengono in uno stato di morte apparente. L’atmosfera del film, sostiene Marchese, rimanda al cinema espressionista tedesco degli anni Venti ed in particolare a Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920) di Robert Wiene. La relazione tra cinema e zombi, secondo lo studioso, non si risolve però in una mera predilezione tematica o iconografica ma potrebbe, addirittura, essere di natura ontologica.

In una sequenza del film di Wiene ambientata in una fiera all’interno di un tendone nella cui oscurità, che rimanda alla sala cinematografica, «gli spettatori borghesi assistono allo spettacolo del morto vivente e interrogano l’onnisciente sonnambulo sul loro futuro. La risposta è inequivocabile: “morte!”. Vista da questa prospettiva, la sequenza appare portatrice di un presagio agghiacciante: lo spettatore, cercando la risposta alle proprie domande esistenziali nei “morti viventi”, nelle vuote parvenze, ottuse e bidimensionali che infestano lo schermo, va incontro a un destino funesto, finendo per assimilarsi ad esse. In altre parole, il cinema, o meglio, “certo” cinema zombifica lo spettatore, rendendolo un inerte automa. Lo diceva Buñuel, l’immagine in movimento è un’arma potentissima, tanto meravigliosa, quanto pericolosa. Agendo sugli stati psichici più profondi, essa può liberare e prolungare lo sguardo, quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Il cinema è un’arte patogena, l’immagine una spora e il “complesso dello zombi” la malattia che affligge l’umanità del terzo millennio» (pp. 19-20). Da un certo punto di vista White Zombie, sin dai primi anni Trenta, mostra quel che sarebbe divenuta l’umanità.

Secondo Marchese la portata della mutazione dell’essere umano contemporaneo è esplicitata in maniera esemplare dal film The Last Man on Earth (L’ultimo uomo della Terra, 1964) di Ubaldo Ragona / Sidney Salkow, ispirato al romanzo I am Legend (Io sono leggenda, 1954) di Richard Matheson. Nel film tutto risulta minaccioso e lo stesso dottor Robert, l’ultimo esemplare della vecchia umanità, pur immune alla contaminazione, «è destinato a soccombere ai nuovi mostri eterodiretti, in quanto rappresentante di un passato ormai superato e da cancellare […] La conclusione ultrapessimista del film, che fa di Robert quasi una figura cristologica, suggerisce la tragica considerazione della necessità ma, al tempo stesso, dell’inutilità del pensiero-azione, che nulla può di fronte a un cambiamento così epocale. Da questa prospettiva, L’ultimo uomo della Terra appare come un terrificante apologo sulla Grande Mutazione» (p. 21).

La figura dello zombi irrompe sul finire dei tumultuosi anni Sessanta grazie a Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero; da allora fino agli anni Ottanta del Novecento un certo cinema zombi mantiene la sua feroce critica nei confronti della società, del militarismo e di un certo uso della scienza. Successivamente ecco il rappel à l’ordre normalizzatore, ed al giro di boa del terzo millennio il genere zombie tende ad essere recuperato dal sistema in linea con «quella mutazione conformista che un po’ tutto il cinema di genere – e quello fantastico in particolare – sembra aver pagato all’apocalisse dello sguardo» (p. 22). Tutto ciò in linea con il rappel à l’ordre a cui è sottoposta l’intera società nel corso degli anni Ottanta.

28_DayDunque, sostiene Marchese, al filone haitiano-vudù, esauritosi, salvo qualche rara eccezione, attorno alla metà degli anni Sessanta, ed alla serie di film di (ed alla) Romero, contraddistinti da una feroce critica sociale, succede una terza ondata di cinema zombi inaugurata da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle, film che non manca di richiamare The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973) di George Romero. Ad essere messa in scena nel film di Boyle è una realtà in cui gli esseri umani si trasformano in creature antropofaghe non appena venuti a contatto con agenti virali. Tale nuova ondata zombi è spesso associata al clima catastrofico, paranoico e d’incertezza diffusosi soprattutto dopo l’attacco alle Twin Towers, in cui entrano in causa anche l’invadenza dei media e la crisi economica.

Secondo lo studioso nella produzione cinematografica e televisiva dell’ultimo quindicennio, salvo rare eccezioni, la figura dello zombi ha perso tanto il fascino del filone haitiano, quanto la sferzante critica sociale e politica presente nell’ondata romeriana. Marchese accusa le produzioni più recenti di ripetere sostanzialmente il medesimo schema narrativo con poche varianti: l’irrompere dell’orrore nella quotidianità borghese, la catastrofe mostrata in diretta dalla tv, le città evacuate in un clima da fine del mondo, la pandemia, l’incubo del contagio e del contatto con l’“altro”, la dissoluzione di ogni ordine sociale, i problematici rapporti tra i superstiti…

«All’apice del suo successo planetario – la “zombitudine” ha valicato i margini del fotogramma ed è diventata una moda, quasi uno stile di vita (imperdibile l’interessantissimo documentario Doc of the dead di Alexander O. Philippe, 2013) –, bisogna rilevare come il cinema zombi post 11 settembre, sul piano etico ed estetico, si caratterizzi per una piattezza narrativa disarmante e per il conformismo delle soluzioni stilistiche, che sul piano strettamente iconografico appaiono spesso quasi ricalcate, in maniera a dir poco inquietante, sul modello delle riprese televisive di quel tragico evento» (p. 24).

Diary of the Dead (Le cronache dei morti viventi, 2007) di George Romero viene indicato da Marchese come un’interessante riflessione metalinguistica. La storia è quella di uno studente di cinema che, intendendo realizzare un film horror, finisce col trovarsi catapultato in un mondo in cui i morti tornano in vita attaccando i vivi e decide di sfruttare l’occasione per realizzare “un horror in presa diretta”. È il protagonista, Jason, ad essere un vero zombi: «malato di immagine e drogato di virtuale, si relaziona a un mondo che va in pezzi protetto dallo schermo della videocamera. Forte della convinzione di dover informare la gente su ciò che accade, ma non esitando ad aggiungere gli effetti sonori più sinistri al montaggio finale allo scopo di amplificare il terrore, perché “la verità a volte non basta”, Jason sconta il delirio d’onnipotenza e l’egomania di coloro che nutrono una fiducia ottusa nel virtuale, nella falsa democraticità della Comunicazione, credendo di poter salvar l’umanità postando l’ennesimo video su internet, seduti nel buio della loro cameretta» (p. 27). Il film coglie e restituisce il nauseante disorientamento derivato dall’eccesso di immagine a cui si è sottoposti nella società contemporanea contraddistinta da un’ossessione generalizzata per la registrazione di immagini e relativa condivisione attraverso i media.

«Diary of the dead è anche un interrogativo nichilista su cosa significhi fare cinema oggi, all’epoca dell’apocalisse dello sguardo, e su quale senso possa avere continuare a raccontare storie, a inventare immagini, a inflazionare con ulteriori cine-frammenti un mondo nel quale la verità e la realtà fattuale appaiono non più conoscibili e scomposte in innumerevoli e non verificabili ipotesi-di-realtà che si annullano a vicenda, affogando nel vortice costante di un rumore di fondo frastornante che ha come esito ultimo l’indifferenza di fronte al reale, il sonnambulismo percettivo, quella morte dello stupore che coinvolge ormai tutti quanti, produttori e fruitori d’immagini» (p. 28).

Marchese risulta molto severo nei confronti della produzione audiovisiva zombi più recente tanto da salvare quasi soltanto il buon vecchio Romero che, con opere come Land of the Dead (La terra dei morti viventi, 2005) e Survival of the dead (L’isola dei sopravvissuti, 2009), dimostra di saper ancora padroneggiare la metafora del morto vivente per riflettere sulla deriva della società e sulla condizione umana.

only-lovers-left-alive«Spia sintomatica del comune sentire dell’umanità del terzo millennio, il cinema zombi non va oltre la remunerativa ambizione di registi e produttori d’immagini di soddisfare il bisogno di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore, da parte di un pubblico che in essa trova sfogo catartico e compiacimento. A fronte di tanto eccesso di ostentazione, vedere tutto per non pensare a nulla, gli zombi più credibili, i Veri Zombi, sono quelli dell’ultimo capolavoro di Jim Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono (2013). Che non si vedono quasi mai e che compaiono solo nei discorsi dei protagonisti, due raffinati vampiri che vivono isolati dal mondo, difendendo gelosamente il loro spazio vitale dalla contaminazione con gli “zombi”, gli esseri umani, che ritengono colpevoli di aver distrutto la natura, rinnegato la vera arte, pervertito la scienza e smarrito il senso del bello» (pp. 29-30). Dunque, gli zombi siamo noi nel manifestare «indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» (p. 30).

Secondo Marchese ormai il cinema che parla di “veri zombi” non ha a che fare tanto con i film, più o meno truculenti, che si ostinano a mettere in scena orrorifiche creature barcollanti, bensì è quello «che racconta gli effetti della Grande Mutazione sull’evoluzione della natura umana, spingendoci a riflettere in particolar modo sulla responsabilità dei media e dell’audiovisivo nel compimento della profezia caligariana» (p. 30) ed a tal proposito si sofferma su tre film: Benny’s video (1992) di Michael Haneke, Tony Manero (2008) di Pablo Larrain e Reality (2012) di Matteo Garrone.

L’opera di Haneke mostra gli effetti del bombardamento d’immagini sul comportamento umano. Benny, il protagonista del film, che mantiene i contatti con mondo quasi soltanto in maniera indiretta attraverso un monitor che riproduce la realtà esterna all’abitazione e passa buona parte della giornata visionando film horror, uccide una coetanea da poco conosciuta, anch’essa del tutto assuefatta alle immagini cruente. «Dopo aver trascinato il corpo inerte per la stanza, Benny asciuga il sangue sul pavimento con un lenzuolo. Quando lo riappende al suo posto, dopo averlo lavato, esso non reca più alcuna traccia: è come uno schermo televisivo sul quale scorrono gli orrori più inenarrabili senza lasciare impronta. Le immagini, nell’era della Comunicazione, scorrono in un flusso costante, amorfo e volatile, ma la loro eredità psichica ed emotiva è persistente ed esiziale» (p. 31).

Il film di Pablo Larrain è ambientato nel Cile di fine anni Settanta e racconta la storia di Raúl Peralta, un ballerino ossessionato dalla figura di Tony Manero protagonista di Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera, 1977) di John Badham. La macchina da presa segue Peralta «per le strade fatiscenti di una città avvolta da una cappa plumbea, opprimente e claustrofobica, in un contesto umano degradato, privo di tessuto connettivo e dedito solo alla sopravvivenza. Il punto di vista dello spettatore coincide con quello di Raúl, che come un animale braccato è indifferente a tutto ciò che non riguarda direttamente il conseguimento del suo scopo» (pp. 31-32). Il ballerino intende partecipare ad uno show televisivo in cui si premiano i sosia perfetti dei personaggi famosi e non esita ad uccidere chi sembra frapporsi alla sua identificazione con Tony Manero. «Identificarsi con i divi dello spettacolo, riprodurne gesti, movimenti e adottarne il look, rappresenta l’unica via di fuga in una società che non lascia spazio all’individuo. La massima mortificazione della libertà individuale provoca schizofrenicamente ulteriore desiderio di omologazione» (p. 32).

Anche nell’opera di Garrone siamo alle prese con un personaggio ossessionato dal raggiungimento della notorietà televisiva. Nel film, ambientato a Napoli, il pescivendolo Luciano decide di partecipare alla selezione per il Grande Fratello e nella snervante attesa di risposta il «sogno di fama e di successo s’impossessa di lui sotto forma di un’ossessione maniacale che può trovare sbocco solo nella dissociazione psichica. Da questo punto di vista, Reality è un film davvero terrificante. Garrone racconta l’alterazione nella percezione della realtà prodotta dalla società dello spettacolo su un’umanità fiaccata da desideri, sogni di successo, frustrazioni, ansie, paure. Non è un film sulla realtà virtuale, ma sulla virtualità della realtà in un mondo dominato dal culto dell’Apparire, in cui il Grande Fratello ha sostituito Dio ed è la televisione a fornire quella speranza d’immortalità che un tempo era promessa dalla fede o dalle ideologie» (pp. 32-33).

È dunque questa “umanità 2.0”, totalmente plasmata dall’immaginario dei media a mostrare, secondo Marchese, i segni inequivocabili della zombificazione in atto, se non avvenuta.

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Nemico (e) immaginario. Mutazioni nell’immaginario dello zombi https://www.carmillaonline.com/2017/02/15/nemico-e-immaginario-mutazioni-nellimmaginario-dello-zombi/ Wed, 15 Feb 2017 22:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35731 di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_critica-dei-morti-viventi Il rappel à l’ordre contemporaneo. Dalla paura della morte all’ossessione della malattia, dalla critica radicale ad una visione conservatrice

«lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte […] per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» Antonio Lucci

«il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» Antonio Lucci

Riprendiamo la serie “Nemico (e) immaginario” grazie ad alcuni spunti interessanti offerti dal breve saggio “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” di Antonio Lucci contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016), ove sono presenti anche scritti di Rocco Ronchi, Livio Marchese, Tommaso Ariemma, Tommaso Moscati, Emiliano Cinquerrui e Cateno Tempio.

Lucci ripercorre la trasformazione dell’immaginario degli zombi costruita dagli strumenti narrativo-mediatici contemporanei ripercorrendo al contempo il tipo di frames che tale immaginario veicola e rafforza. Nonostante George Romero trasformi, sin dalla fine degli anni Sessanta, decisamente la figura dello zombi rispetto alle sue origini haitiane, lo studioso individua tre elementi che restano sufficientemente costanti: gli zombi sono morti che tornano in vita,  sono sempre più di uno e sono una massa indifferenziata.

Lo zombi haitiano messo in scena dal film White Zombies (L’isola degli zombie, 1932) di Victor Halperin è esplicitamente vittima del sistema capitalista; è un morto che viene risvegliato da uno stregone che lo priva di volontà per renderlo schiavo impotente mancante di bisogni e desideri ed è impossibile da redimere. L’immaginario dello zombi haitiano è costruito sul terrore per una schiavitù che rischia di essere eterna, tanto che nemmeno con la morte l’individuo riesce ad emanciparsi da essa. Si tratta di un immaginario che prospetta uno stato atemporale in cui esiste soltanto il lavoro ed il comando.

«Questo elemento – lo zombi come paradossale controfigura dell’oppresso – resterà sempre, più o meno dichiaratamente, come elemento caratterizzante il frame-zombi. […] Gli zombi-drogati delle piantagioni della HASCO […] erano lavoratori senza forza-lavoro, in quanto per essere forza-lavoro, in una prospettiva marxiana, bisogna essere innanzitutto forza, ossia qualcosa che vive, e che vivendo eccede il lavoro, si ricarica delle proprie energie, della propria vitalità, dopo, malgrado e al di là del proprio impiego nell’attività produttiva. Lo zombi haitiano, privato anche di questa potenzialità produttiva, non è più né forza-lavoro (ma solo lavoro) né proletariato, in quanto privato persino della potenzialità di creare prole, di essere vita che perpetua sé stessa, ma pura morte, nuda morte che cammina: walking dead. Lo zombi – incarnazione visiva del ritorno del rimosso freudiano – si vendicherà di questa schiavitù preoriginaria nelle sue incarnazioni successive, che da un lato renderanno la figura dello zombi un emblema della critica al capitalismo, mentre dall’altro esso diventerà una macchina da riproduzione, un prole-tario nel senso letterale del termine: un ente nel cui essere ne va della propria produzione e riproduzione» (pp. 72-73).

Se il film Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero può essere interpretato in chiave antirazzista, con The Dawn of the Dead (Zombi, 1978) di George Romero è esplicatamene l’immaginario capitalista ad essere messo in discussione e, secondo lo studioso, in questo film mutano alcune caratteristiche fondanti del frame-zombi: «se, infatti, l’idea originaria per cui lo zombi porta in sé un potenziale critico nei confronti delle strutture di potere esistenti era già presente in nuce nella figura della mitologia haitiana (lì, come visto, la critica alla schiavitù si esprimeva indirettamente come critica nei confronti del malvagio stregone-schiavista, simbolo del padronato bianco), essa si presenta ora con una forza sempre maggiore nelle trasposizioni cinematografiche romeriane» (p. 74). In realtà già sul finire del primo film di Romero, al di là della critica al razzismo, si trovano alcuni elementi che resteranno costanti nella produzione romeriana, come la critica nei confronti di governanti e militari palesemente incapaci di proteggere la popolazione nelle situazioni di pericolo.

«L’inoperosità dello zombi diventa in questo film paradigmatica (gli zombi sono pura “potenza di non”, una potentia negativa per eccellenza, in quanto il loro agire non crea mai nulla, nessun prodotto, ma solo l’opposto di un prodotto, un non-prodotto, vale a dire la contraddizione in atto che è il morto vivente) assieme al rovesciamento della sua posizione proletaria. Se – come visto – lo zombi haitiano era deprivato sia della sua inoperosità (base di qualsiasi forza, anche di quella produttiva) sia della sua capacità procreativa di generazione e riproduzione, lo zombi romeriano – al contrario – rappresenta l’oppresso nel momento della sua rivolta e propagazione: gli zombi romeriani sono (non-) morti che creano altri, potenzialmente infiniti, seguaci della loro stessa non-morte, portando così alle sue conseguenze estreme, critiche e massime il proprio potenziale prole-tario. Gli zombi, dunque, mutano con Romero – in maniera importante anche se non direttamente percepibile – le coordinate-base dei loro frames di riferimento: restano massa, ma da asservita diventano soggiogante, non sono più in potere di un padrone, ma fanno parte di un movimento eminentemente acefalo, collettivo e organizzato “dal basso” nella propria assenza di opera» (pp. 75-76).

28-days-laterUna nuova mutazione dell’immaginario zombi, sostiene Lucci, ha a che vedere con «la teoria del complotto e l’ansia sociale nei confronti dei possibili risvolti tanatologici (e tanatopolitici) della medicalizzazione sempre più evidente della cosa pubblica» (p. 76). Secondo lo studioso è a partire da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle che tale filone diviene il nuovo standard per il genere zombi, anche se in realtà nasce insieme alle prime opere di Romero, basti pensare a The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973). «Fin dall’inizio, quindi, potremmo dire che nella testa del creatore dello zombi sul grande schermo, e più in generale nell’immaginario collettivo, lo zombi e l’infetto sono l’uno il Doppelgänger dell’altro, camminano – claudicanti – assieme» (p. 77).

Dunque se da un lato lo zombi è un morto che ritorna, dall’altro è un vivo malato. «Le due figure non possono mai totalmente coincidere: a livello cinematografico, infatti, vi è piuttosto una sovrapposizione iniziale che diviene poi una staffetta tra i due generi, per finire con una sostituzione praticamente totale […] lo zombi-morto appartiene a uno stadio dell’immaginario (e dei media) – a un frame – che ormai appare superato, e al contempo a un momento della storia culturale occidentale in cui il tema della morte sta per essere definitivamente messo da parte – sia nel dibattito pubblico che nelle angosce che dominano le rappresentazioni collettive – per lasciare il posto a quello della malattia, ingigantito nella forma della pandemia» (pp. 77-78).

A partire da 28 Days Later, sostiene Lucci, le narrazioni insistono nell’indicare l’origine degli zombi nella contaminazione da virus, solitamente derivante da un esperimento militare o da un atto terroristico, e ciò determina un allontanamento dell’immaginario zombi dalle sue origini ove veniva data importanza alla tematica della morte ed a quella del lavoro e della sottomissione. La variante contemporanea dello zombi tende piuttosto a concentrarsi sullo zombi infetto che spesso perde la proverbiale goffaggine e lentezza per divenire un corridore affamato, dunque una perfetta incarnazione dei valori della società capitalistica realizzata.

Lo zombi contemporaneo, lo zombi-infetto, non è più un morto che ritorna e se «il potenziale critico dello zombi-morto si esprimeva per contrasto metaforico (gli zombi erano gli schiavi, o le vittime incoscienti – e al fondo innocenti dell’innocenza propria dei morti – delle macchinazioni militari o governative), gli zombi-infetti sono sempre più spesso solo la molla d’innesco di film che hanno al proprio centro un’antropologia pessimistica, e che hanno come fine quello di mostrare come – in una società resettata, in cui le istituzioni collassano e tornano al punto zero, grazie a o per colpa degli zombi – l’essere umano sia il vero mostro» (p. 79).

Lucci sottolinea come nelle recenti produzioni audiovisive, nonostante lo zombi-infetto sia tale a causa di un virus propagato, più o meno volontariamente, da altri, l’accento tende ad essere posto non tanto sui rapporti tra esseri umani e zombi, quanto piuttosto sulle dinamiche intercorrenti tra i gruppi umani dopo l’apocalisse. «In questo modo, mostrando la crudeltà dell’animale umano allo stato di natura, il genere si rovescia da cultural-critico in conservatore: vengono, infatti, sempre più affermati i valori della famiglia, del gruppo, della leadership (un tormentone, nei film del genere, la domanda “Who is in charge?”, “Chi comanda qui?”), della violenza “giustificata”, della sopravvivenza del più “adatto”. In questo punto il frame-zombi, pur rimanendo, subisce un reframing radicale, passando dall’essere incarnazione di un immaginario resistenziale, ad essere supporto di un’immagine della società connotata da caratteri appartenenti al mondo concettuale conservatore» (pp. 79-80).

Nella serie di fumetti The Walking Dead, da cui è tratta l’omonima serie televisiva, vi è un momento in cui esplicitamente la narrazione dello zombi-morto finisce col coincidere con quella dello zombi-infetto: «nel mondo di TWD un’infezione dall’origine sconosciuta ha colpito tutti in potenza, ma il divenire-zombi si attualizza solo una volta che (non importa come) si muore. Dunque l’infezione (preoriginaria) e la resurrezione (necessaria e inevitabile, come in un’inevitabile realizzazione postmoderna del dogma cristiano) finiscono per coincidere in un’unica narrazione, dove la teoria del complotto fa da sfondo. TWD riesce così, da un lato, a rimanere una serie paradossalmente “mortalista” (dove cioè la morte svolge ancora un ruolo portante nella determinazione dello zombi, in pieno stile romeriano, anche se affiancata dall’idea della zombificazione come risultato di un virus), anche laddove […] la narrazione dello zombi-infetto sposta l’accento più sui rapporti umani e sulle implicazioni delle macchinazioni (complottiste) delle entità statali nell’epoca pre-apocalisse. Questo punto (il “mortalismo”) è di particolare rilevanza in TWD, perché, paradossalmente, fa “rientrare” lo stato d’eccezione che l’outbreak, per definizione, crea: nel mondo di Rick Grimes e della sua compagnia, infatti, gli zombi (ossia la presenza quotidiana della morte) sono la normalità, la morte che essi incarnano e rappresentano è inevitabile… così come necessariamente, anche per noi, la morte è, e non può che essere» (pp. 80-81).

A differenza di ciò che avviene nelle narrazioni romeriane, in The Walking Dead gli zombi sembrano essere divenuti parte della normalità. A tal proposito Lucci si sofferma sull’episodio intitolato “The Grove” (n. 14 – Stagione 4) in cui la piccola Lizzie, aggregatasi a Carol dopo aver perso la madre, si dimostra incapace di considerare gli zombi ontologicamente diversi dagli umani. Tale logica appare inconcepibile ai personaggi adulti e, attraverso essi, tende a risultare assurda anche allo spettatore. «In realtà, dal punto di vista logico, l’atteggiamento di Lizzie è perfettamente coerente con le coordinate ontologico-esistenziali del mondo in cui sta crescendo: gli zombi sono (in un modo del tutto peculiare, per noi inconcepibile) persone, fanno parte della realtà, di quella determinata realtà, è impossibile ignorarli, e – soprattutto per chi conosce solo quel mondo, come i bambini, appunto – ghettizzarli ontologicamente, come un’anomalia che non va accettata in alcuna maniera, appare parimenti assurdo. La paradossale figura di Lizzie rappresenta l’interiorizzazione parossistica delle categorie del mortalismo assoluto che la presenza della morte entificata (ossia dello zombi) porta nel proprio orizzonte logico». (pp. 81-82).

Nelle narrazioni delle serie televisive, che hanno tempi narrativi lunghi, le categorie logiche, ontologiche ed etiche, constata Lucci, mutano facilmente rispetto alla realtà pre-apocalittica ed il genere zombi (sia nella variante dead che in quella dell’infetto) non può che mettere in scena strutture sociali e morali trasformate mentre nei film, che hanno tempi di narrazione meno dilatati, ed il racconto tende a svilupparsi a ridosso dell’apocalisse, si possono più facilmente esporre elementi di critica culturale, mostrando gli esseri umani in balia di situazioni estreme. «Laddove l’apocalisse diventa uno stato acquisito, essa viene normalizzata, e la funzione della narrazione-horror quale esperimento mentale viene meno» (p. 82).

the-walking-deadFacendo riferimento alla puntata intitolata “Them” (n. 10 – Stagione 5) lo studioso si sofferma su una frase pronunciata da Rick Grimes: “We are the walking dead!”. Con tale affermazione si ha il superamento del dualismo tra zombi-morto e zombi-infetto; l’uomo e lo zombi finiscono col coincidere. E non è casuale, continua Lucci, che tale frase venga pronunciata dopo lo scontro tra il gruppo di Grimes e gli abitanti di Terminus, che intendevano sperimentare un’utopia post-apocalittica accogliente ed avendo dovuto far ricorso alla violenza per difendere la propria libertà, si sono poi trasformati in un gruppo militarizzato incline al cannibalismo.

Dunque, conclude Lucci, l’affermazione “We are the walking dead!” «è vera non solo perché ogni vivente, nel mondo di TWD, è già sempre infetto (senza contare che – anche prima dell’infezione – ogni vivente porta in sé la propria morte), ma anche e soprattutto perché in un mondo dove la resurrezione è avvenuta senza giudizio, tutti – vivi e morti – sono zombi, e tutto è permesso. I cannibali di Terminus, al fondo, così come Lizzie, sono abitanti perfetti di un mondo in cui le coordinate storiche ed etiche di riferimento non possono che essere mutate, e dove gli ancoraggi della morale pre-apocalisse (ad esempio concetti come “persona”, “comunità”, “fratellanza”, “onore”, ecc.) perdono tutto il loro valore. Anche qui, nella variante post-apocalittica e post-moderna dello stato di natura hobbesiano, il genere zombi perde il suo valore cultural-critico, normalizzandosi, e diventando anzi conservatore: vengono rimpiante quelle istituzioni che invece l’esperimento mentale dell’apocalisse metteva radicalmente in questione. Infatti, in un mondo dove tutto è permesso, dove non c’è Dio, e la prova di questa assenza è (al contrario di quello che sosteneva San Paolo) proprio l’avvenuta resurrezione dei morti, rimane solo la speranza che arrivi un qualche Leviatano (nella forma militarizzata dell’esercito o in quella tecnocratica di una cura), in quanto Deus ex machina, a salvarci» (p. 82).


Qua l’intera serie “Nemico (e) immaginario

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Nemico (e) immaginario. Incapacità di sognare alternative e volontà di autodistruzione https://www.carmillaonline.com/2016/08/03/zombie-scenari-apocalittici-incapacita-sognare-un-altro-mondo-volonta-assistere-allautodistruzione/ Wed, 03 Aug 2016 21:30:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31153 di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti [...]]]> di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti tanto dalla delega elettorale, quanto dal giovanilistico pulviscolo dei messaggini gravitanti attorno ai “nuovi politici”) e dai mass media (che dispensano illusioni di partecipazione attraverso la presenza del pubblico in studio, telefonate in diretta, messaggini autoreferenziali via social media ecc).

Per comprendere qualcosa in più sulla realtà contemporanea può essere d’aiuto indagare la finzione. Nel saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Mimesis, 2014), la figura dello zombie e gli scenari apocalittici, frequentemente ad essa associati nelle produzioni audiovisive contemporanee, vengono indagati come manifestazioni delle angosce e delle paure occidentali.

«Se il reale non è dato bensì è da interpretare, la finzione può rivelarsi di grande aiuto per due ragioni complementari e contraddittorie. Innanzitutto […] perché, come ogni cosa, la finzione è segnata e porta su di sé l’impronta della mano che l’ha creata, essa ci dà informazioni – per seguire la metafora – su questa mano. Proprio come possiamo interpretare la psiche di un artista osservando le sue tele, così possiamo interpretare una cultura, e in seguito a poco a poco anche una società, osservando l’immaginario che essa ha prodotto. Allo stesso tempo l’oggetto della finzione – l’immaginario, a maggior ragione –, attraverso la sua natura metaforica può aiutarci a pensare alla nostra epoca poiché distante da essa. Lo zombie lo illustra perfettamente: se è figlio della nostra cultura esso è anche una figura estrema e fuori dal contesto, e sotto questo aspetto divertente, buffa, spassosa. L’estremo, essendo così distante dal nostro quotidiano, scioccando il nostro immaginario e perfino la nostra società, si offre dunque come una svolta per guardarla» (p. 109).

Nel ricostruire per sommi capi lo sviluppo della figura dello zombie l’autore parte, inevitabilmente, dalle culture africana ed haitiana, ove, attingendo dall’immaginario della schiavitù, lo zombie rimanda tanto ad un soggetto depersonalizzato, incapace di ribellarsi, quanto all’idea di resurrezione cristiana. Nel corso dell’Ottocento la figura dello zombie entra a far parte del folklore statunitense ed europeo fino a far capolino nella letteratura e nel cinema grazie ad opere come il romanzo The Magic Island (1929) di William Seabrook ed il film White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, con Bela Lugosi.

Successivamente Coulombe si sofferma sul mutamento della figura dello zombie operata dalla trilogia di Geoge A. Romero composta da Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), Dawn of the Dead (Zombi, 1978) e Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985). In questi film, che delineano una nuova figura di zombie, poi ripresa da vari registi, non siamo di fronte ad un vivente scambiato per morto ma ad un morto che pare un vivente, un “quasi-vivente”. Prende così piede l’immagine dello zombie in avanzato stato di decomposizione e «non è più l’effetto di un maleficio eseguito da uno stregone, egli è ora senza padrone e se serve come strumento di un piano, questo è segreto e oscuro» (p. 25).

Particolarmente importante nell’evoluzione romeriana dello zombie è il romanzo I Am Legend (Io sono leggenda) di Richard Matheson, pubblicato nel 1954, in cui si narra di Robert Neville, ultimo uomo sopravvissuto ad una misteriosa epidemia che ha trasformato il resto dell’umanità in vampiri. «Qui ritroviamo l’idea, ripresa da Romero, di una seconda specie che si nutre degli uomini, che nasce dall’umanità stessa e che tuttavia dimostra una natura così differente da quella umana da desiderare una propria autonomia» (p. 26). Romero struttura così film che riflettono sulle condizioni di esistenza in un mondo ormai alla deriva, ove i rapporti sociali appaiono fortemente compromessi.

Le produzioni audiovisive più recenti, pur mantenendo l’idea di castigo divino come giudizio morale sulla civiltà occidentale «metteranno in scena una modalità di trasmissione più in linea con i timori che animavano gli anni ’70 e soprattutto ’80: ormai si diventerà zombie solo dopo essere stati morsi da un individuo infetto o semplicemente attraverso il sangue. Così lo zombie, questo morto tornato alla vita, costituirà un’inquietante metafora dell’affetto da AIDS, considerato un vivo che tuttavia è condannato alla morte e al contagio del suo prossimo» (p. 29). La figura dello zombie perde così la sua connotazione fantastica per incarnare «la metafora di un’inquietudine rispetto a una nuova immagine di morte – l’AIDS – e il timore legato alle ricerche sulla biotecnologia» (p. 30) dando immagine, inoltre, al turbamento contemporaneo rispetto al senso della morte.

Il cinema zombie «incarna la sconfitta dell’Occidente fino alla sua autodistruzione. Un male prodotto dall’Occidente che dà vita a creature subumane si rivela in grado di decimare la popolazione del pianeta» (p. 30) e gli esseri umani che si trovano a fronteggiare il pericolo zombie dimostrano il peggio di sé mostrandosi del tutto incapaci di andare al di là del loro cinico individualismo.

La prossimità tra uomo e zombie impone interrogativi circa i limiti della condizione umana e la possibilità dello statuto umano di decadere. Siamo al tempo stesso attratti ed inquietati dallo zombie perché non sappiamo cosa sta dietro al silenzio della sua coscienza. Quando lo zombie non è attivo nell’aggredire l’uomo, si mostra a quest’ultimo in uno stato di apatia che richiama facilmente l’immagine di un individuo gravemente traumatizzato, la figura del sopravvissuto ad un disastro che “si fa zombie”, “assente da se stesso”, come se l’enormità del trauma avesse «fatto vacillare ciò che ci rende umani: la nostra capacità di pensare» (p. 48). Dunque, lo zombie ci inquieta nel suo stato apatico in quanto evoca una condizione dell’uomo possibile, seppur rara.

A partire da tali ragionamenti Coulombe si chiede: «Siamo sicuri che lo zombie rappresenti la figura dell’eccezione? Questa perdita della nostra capacità di pensare è necessariamente il frutto di un incidente? Si tratta sempre di qualcosa di raro e irrimediabile? Osservando la nostra società un po’ più attentamente si nota che il “traumatizzato” sembra incarnare non soltanto un incidentato ma molti soggetti che sono vittime della modernità e della sua crudele logica della performance. Bisogna dunque pensare al dramma non come a un evento singolare e contingente, bensì come alla corrosione progressiva del carattere prodotta dal ritmo dell’Occidente stesso. Lo zombie non è la figura dell’eccezione ma incarna più ampiamente un frammento della nostra condizione contemporanea nella quale la maggior parte di noi potrebbe, in un momento o nell’altro, identificarsi» (pp. 49-50).

Walter Benjamin (Sur quelques thèmes baudelairiens), riprendendo le analisi freudiane relative al trauma, analizza lo shock causato non tanto dalla brutalità dell’attentato terroristico o della guerra, ma dalla successione di molteplici shock quotidiani che finiscono col turbare la soggettività dell’individuo rendendolo sempre più insensibile al mondo e refrattario a nuove esperienze. «Lo shock della modernità non produce gli zombie da un giorno all’altro. Nel cuore della modernità risiede tuttavia qualcosa di simile al divenire-zombie, per riprendere il linguaggio deleuziano. L’appiattimento della soggettività e la difficoltà di vivere nuove esperienze segnano l’orizzonte della nostra condizione (post)moderna» (p. 51).

L’aggressività e la violenza dello zombie tradiscono invece un’altra inquietudine contemporanea, cioè che «sotto la facciata della nostra civiltà batte il cuore di una bestia sanguinaria. Noi saremmo fondamentalmente dei mostri» (p. 53). Nei film sugli zombie si narra infatti la storia di un’epidemia che porta a galla la brutalità celata sotto alla facciata della nostra civiltà. «Questi film mostrano una concezione cinica e oscura della psiche, una concezione che comunque non hanno inventato: lo zombie evoca un certo tipo di ritorno allo stato di natura» (p. 54). Chiaramente lo “stato di natura” è un espediente filosofico utilizzato al fine di immaginare il comportamento umano in caso di abolizione delle regole e delle convenzioni sociali ma, fa notare lo studioso, «se in Hobbes, come negli altri teorici dello stato di natura, una tale condizione non corrispondeva a uno stato storico ma a un’ipotesi teorica, i media contemporanei non hanno colto questa sfumatura. Questi ultimi pensano allo stato di natura come alla chiave di lettura e al punto di fuga della violenza contemporanea» (p. 55).

piccola-filosofia-dello-zombieCoulombe, riprendendo alcune riflessioni di Giorgio Agamben (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita), sottolinea come lo zombie, perdendo la coscienza, si trovi a perdere ogni forma di bios, dunque di statuto umano, avvicinandosi alla figura dell’homo sacer greco, dunque per molti protagonisti umani dei film può non essere un problema uccidere lo zombie in quanto la sua esistenza è ritenuta indegna. «Se lo zombie è una figura immaginaria, il comportamento dei protagonisti nei suoi confronti fornisce indicazioni sulla nostra cultura. Qui la reazione dei protagonisti davanti allo zombie è molto simile alle reazioni che noi abbiamo di fronte a individui che si trovano in uno stato vegetativo irrimediabile» (p. 58). Dunque, secondo lo studioso, «La gioia e l’inquietudine dei film di zombie sono basate proprio sul fatto che essi replicano l’equivoco di questo statuto tanto quanto le sue conseguenze. Recandoci nei cinema assistiamo alla storia di persone che uccidono coloro la cui vita è ormai indegna di essere vissuta; giocando ai videogiochi ci carichiamo perfino del “lavoro sporco”. In qualche modo il nostro è uno sfogo ultimo poiché le nostre pulsioni aggressive e omicide hanno trovato la loro liberazione su una creatura passiva ma pericolosa, la cui morte e tortura non costituiscono più un crimine» (pp. 58-59).

«Se lo zombie è una figura grottesca, buffa e divertente, esso è anche sintomatico dei dubbi nei confronti dei limiti di ciò che è proprio dell’uomo: il pensiero. Un tale dubbio sulla coscienza […] comporta più profondamente un dubbio sociale rispetto al ruolo di questa coscienza, anche un dubbio che porta a chiedersi che cosa voglia dire essere cittadino. Non abbiamo il mostro che meritiamo ma quello che temiamo. La coscienza ha così espulso il suo incubo: lo zombie. Avendo ormai ribaltato il cogito cartesiano, il fatto di riflettere non sembra più stabilire nulla di determinante né utile. L’ordine del mondo – quello del liberalismo economico, quello dell’urgenza – è ormai senza guida, le sue necessità sono cieche. Questo nuovo ordine non accorda più alcun ruolo alla coscienza intesa come momento di introspezione che permette un’etica singolare e personale, un distacco dal mondo per pensarne la coerenza. Il mondo sembra ora più che mai una macchina ben oliata in cui le modifiche e le riflessioni sul suo senso – direzione e significato combinati – non sembrano più necessarie. Lo zombie è la figura di un’assenza e il fatto che noi possiamo riconoscerci in lui dice molto sulla contingenza del pensiero e in senso lato sul suo ruolo nella nostra società» (pp. 60-61).

Nelle società occidentali contemporanee la morte è celata, nascosta, e lo zombie incarna la morte di cui non si è più in grado di parlare. «La finzione si sostituisce a ciò che la nostra cultura non sa più mostrarci» (p. 72). Nella cultura occidentale ormai da tempo votata al “controllo del corpo”, si sostiene nel saggio, «il morto-vivente costituisce, nella sua stessa carne, un ritorno del represso: rappresenta un corpo abietto, squarciato, impuro. Lo zombie mostra la lenta degradazione dei corpi e delle cose mettendola in scena, una degradazione che la nostra cultura cerca di nascondere fuori dal campo del visibile. Lo zombie è la vendetta dell’informe. Se la morte è l’ultimo tabù della società occidentale, esso insiste per mostrarlo e per sottolineare metaforicamente la rivincita della morte sul vivente» (p. 19). È come se la parte nascosta dell’uomo, attraverso gli zombie, fosse resa improvvisamente visibile a spettatori desiderosi di assistere a rappresentazioni ripugnanti.

Nel mondo contemporaneo tendente al controllo del corpo, lo zombie rappresenta allora «un ritorno a un’animalità primitiva, ma anche al godimento che questo ritorno del rimosso procura. L’abiezione rimanda dunque a una dialettica in cui affetti, disgusto e godimento si uniscono: il godimento dello zombie e il disgusto negli spettatori; il disgusto del godimento dello zombie per lo spettatore e il godimento attraverso il disgusto nel morto-vivente» (pp. 75-76). Ed il ritorno del rimosso sotto forma di finzione grottesca, secondo lo studioso, induce lo spettatore alla risata di alleggerimento.

Lo zombie, con il suo corpo squarciato, “aperto”, privo di individualità ed in perenne trasformazione, è una figura che ribalta i valori della cultura occidentale contemporanea. «La risata, l’ordine capovolto del mondo, la morte temporanea: l’universo dello zombie sembra portare a compimento il progetto carnevalesco. È quindi facile interpretare questo genere cinematografico come rivoluzionario e sovversivo, come del resto molti hanno già fatto. Tuttavia a questo cinema manca ancora una parte essenziale dell’organizzazione carnevalesca: la sua capacità di offrire un “futuro migliore” e un mondo basato sulla negazione dell’ordine stabilito. Il rovesciamento dei valori dello zombie non propone luoghi di emancipazione per la classe popolare […] ma la vittoria di una nuova specie debole e alienata; il carnevale non è sognato per l’uomo ma per una creatura che ha avuto la meglio su di lui. Non si tratta di qualcosa di innocente. Il grottesco dello zombie diventa ancora il sintomo non solo del rifiuto della morte e della carne nella nostra cultura, ma anche della nostra incapacità di sognare un futuro alternativo per l’uomo» (p. 80).

Dunque, secondo Coulombe, quel che si manifesta nella figura dello zombie è una volontà di rovesciamento delle costrizioni sociali del tutto priva di progettualità. «Nel momento in cui la trama lo renderebbe possibile, l’orrore non riesce a trasformarsi in utopia» (p. 81). Da tale incapacità di sognare un altro mondo, si ripiega, dando sfogo ad una certa pulsione di morte, sulla volontà di assistere, almeno, alla distruzione del mondo occidentale.

In diversi film apocalittici o di zombie, la macchina da presa indugia su strade ed edifici da cui è improvvisamente scomparso l’essere umano. A partire da tali immagini di città abbandonata, Coulombe struttura un interessante confronto con il senso di sublime delle rovine romantiche. Se, in questo ultimo caso, il sublime risulta malinconico in quanto fondato «sull’incolmabile distanza che separa il viaggiatore dalle civiltà che costruirono questi monumenti, di cui restano ormai solo le rovine» (p. 91), dunque si tratta di un sentimento del sublime determinato dalla forza del tempo, nel caso delle città post apocalittiche abbandonate il sublime pare piuttosto fondarsi sulla contraddizione tra una realtà urbana generalmente caotica e frenetica e la città improvvisamente priva di esseri umani, silenziosa e statica. «Assistiamo allora a un fallimento dell’immaginazione, incapace di figurarsi che cosa abbia potuto fermare una tale dinamica. L’effetto di questa distruzione è sublime perché è invisibile, e per questo impossibile da collocare, da limitare, da inquadrare» (pp. 92-93).

Se le rovine romantiche lasciano intravedere la scomparsa di una civiltà, di cui, appunto, restano solo le rovine, le “rovine” post-apocalittiche cinematografiche, in questo caso, “mostrano” la sparizione dell’essere umano. «L’assenza è un concetto di grande portata poetica poiché non richiama il nulla o un vuoto, ma una mancanza. Una persona in lutto ce lo saprebbe dire, il defunto è ancora presente ovunque […] In questo caso è necessario pensare all’assenza come a una presenza negativa […] Queste città abbandonate sono malinconiche perché piene di tutti gli individui assenti che indicano, in negativo, il movimento abituale della città» (p. 91).

Buona parte dei film di zombie, pur mantenendo un alone di mistero circa le cause di questa improvvisa assenza umana nelle città e del dilagare dell’epidemia, tendono ad insinuare l’idea che le responsabilità della scomparsa degli uomini siano del tutto umane e non per forza di cosa generate da qualche maldestro esperimento scientifico. La scomparsa dell’essere umano è genericamente una “punizione meritata” dall’uomo e non per questo o quello sconfinamento particolare; è un’intera civiltà chiamata in causa.

Lo studioso sottolinea come, da qualche tempo, la cultura occidentale risulti attraversata, anche grazie ai mass media, da pensieri apocalittici. Tali pensieri attingono «tanto dai grandi drammi del ventesimo secolo quanto dalla sensazione, provata dal soggetto, di essere ormai impotente di fronte alle logiche capitalistiche che lo dominano e che distruggono progressivamente l’ambiente» (p. 94).

Coulombe sottolinea come sebbene la sensazione di vivere in un’epoca di declino non sia certo una novità, la contemporaneità sembra però aggiunge nuovi aspetti a questo sentimento di degradazione morale. Tra questi l’autore sottolinea «la nostra recente capacità di distruggere il pianeta e la crescita interrotta dalle disuguaglianze sociali nell’occidente come nell’economia mondiale» (p. 95).

Pur consapevole della distruzione del pianeta in atto, l’individuo contemporaneo non sembra disposto ad intervenire. «Perché, se il mondo è al limite della distruzione, tentare di costruire qualcosa, di investirci? Il relativismo che ha conquistato l’occidente rende difficile qualunque azione fondata sui valori che superano il puro interesse personale o la frustrazione […] il pessimismo contemporaneo sembra ancora più sinistro poiché può contare su un sentimento generale di malessere nel nostro rapporto con gli altri […] Questa inquietudine e questo pessimismo finiscono per annebbiare le temporalità e ci lasciano l’impressione che non solo sarebbe troppo tardi per rimediare ma che siamo già in uno scenario post apocalittico: […] Da qui il sentimento, che progressivamente conquista le coscienze e i media, di un ritorno allo stato di natura che renda necessario l’egoismo, un incentrarsi su di sé e sulla semplice sopravvivenza» (p. 97).

Dunque, come sanno bene soprattutto i migranti che tentano di mettere piede nelle città occidentali sempre più fortificate, «ogni sconosciuto è un potenziale nemico, ogni amico è in potenza morto vivente, non restano che i membri della propria famiglia ai quali aggrapparsi» (p. 98).

Gli audiovisivi che ci raccontano di zombie ci mostrano come nel momento in cui si è costretti a lottare per la sopravvivenza, ciascuno finisce col decidere quel che è giusto per se stesso sentendosi in diritto di farsi giudice unico. «La civiltà distrutta sullo schermo, anche se distrutta da un’orda di morti viventi, ci ricorda questo pianeta morente evocato da numerosi discorsi ambientalisti, o questo pianeta sovrappopolato che non riesce a nutrire tutti gli abitanti. I film di zombie mettono in scena la fine del mondo di cui ci minacciano i media, mostrano il precipizio al bordo del quale ci troviamo. E anche la caduta. È stupefacente quanto questa caduta figurata ci tranquillizzi. Da una parte essa evoca una punizione percepita come meritata – i media ci rimproverano. Eppure, allo stesso tempo, desiderando la punizione di cui è minacciato, l’uomo rientra in possesso di un certo controllo sul proprio destino, anche solo per assistere alla perdita di quest’ultimo. Questa logica ha un nome: pessimismo» (p. 100).

TWD_987Coulombe indica come di fronte all’opprimente senso di impotenza, l’uomo tenti di sfuggire ad essa prendendo una posizione simbolica capace di restituire un qualsiasi ascendente, anche solo in maniera sacrificale; la pulsione di morte sarebbe allora causata dalla volontà di ritrovare un briciolo di controllo sulle cose che ci stanno attorno; «una parte di noi desidera la distruzione dell’umanità come modo – metaforico – di riprendere il controllo di un fenomeno che ci è generalmente imposto. Il sogno dell’apocalisse funziona come una pulsione di morte non semplicemente, comportando una distruzione dell’umanità, ma permettendo di liberarsi da una passività – sociale, politica ecc… – imposta. La fine dell’umanità sarebbe il nostro riscatto, non ne saremmo più vittime poiché l’avremmo, almeno immaginariamente, sognato, sperato» (p. 103).

I film di zombie «ci divertono perché dipingono una civiltà distrutta da nemici grotteschi. Di fronte all’ambiguità del mondo, di fronte all’incertezza del nostro futuro, di fronte a un’ondata di sentimento di colpevolezza mentre pensiamo alle sorti del pianeta, il cinema zombie ci intrattiene e ci rassicura. Non c’è più quel senso di colpa, non c’è più quella paura: per due ore lo spettatore osserva queste rappresentazioni con un sorriso appena accennato, vedere l’annientamento del mondo causa una piccola vertigine e un senso di conforto» (p. 106).

Secondo Coulombe «Abbiamo bisogno dell’aiuto della finzione per sopportare la nostra condizione di uomini» (pp. 107-108) e, verrebbe da aggiungere alla luce dell’attualità, quando la finzione non basta a lenire la disperazione, in assenza di capacità di sognare un mondo diverso, possono generarsi mostri reali. Insomma, se il sonno della ragione genera mostri, l’incapacità di sognare alternative non è da meno.

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