Montedison – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un Nord Europa fuori dalle cartoline https://www.carmillaonline.com/2024/08/06/un-nord-europa-fuori-dalle-cartoline/ Tue, 06 Aug 2024 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83491 di Paolo Lago

Al giorno d’oggi, moltissimi luoghi del mondo vengono “brandizzati” e venduti dall’industria del turismo ai consumatori di tutto il mondo; si tratta di luoghi che vengono fatti apparire intrappolati in stereotipi creati dalla macchina spettacolare di quella stessa industria e sembrano ormai consolidati nell’immaginario collettivo. Ad esempio, possiamo pensare alle spiagge delle Maldive o a quelle di Miami Beach, tratteggiate come incontaminati luoghi di sogno, oppure alle immagini turistiche del Nord Europa e della Lapponia, in cui vediamo paesini fiabeschi coperti di neve. Eppure, anche le località fiabesche, incapsulate negli stereotipi creati dal turismo spettacolare, sono toccate da [...]]]> di Paolo Lago

Al giorno d’oggi, moltissimi luoghi del mondo vengono “brandizzati” e venduti dall’industria del turismo ai consumatori di tutto il mondo; si tratta di luoghi che vengono fatti apparire intrappolati in stereotipi creati dalla macchina spettacolare di quella stessa industria e sembrano ormai consolidati nell’immaginario collettivo. Ad esempio, possiamo pensare alle spiagge delle Maldive o a quelle di Miami Beach, tratteggiate come incontaminati luoghi di sogno, oppure alle immagini turistiche del Nord Europa e della Lapponia, in cui vediamo paesini fiabeschi coperti di neve. Eppure, anche le località fiabesche, incapsulate negli stereotipi creati dal turismo spettacolare, sono toccate da problemi ben reali, legati al cambiamento climatico, all’antropizzazione eccessiva, alla pervasiva industrializzazione che inquina e deturpa paesaggi. Infatti, come scrive Fabio Deotto in un interessante reportage sul tema del cambiamento climatico, steso attraverso diversi luoghi della Terra, “l’idea che ci siamo fatti del mondo in cui viviamo raramente si basa su esperienze in prima persona, il più delle volte è filtrata da un qualche tipo di schermo che può renderci ciechi alla sua degradazione”1 perché, in fin dei conti, “è come se stessimo guardando delle cartoline spedite da un luogo che ha smesso di esistere prima che arrivassero a noi”2. Le immagini che ci propina lo spettacolo del turismo sono delle “cartoline sbiadite” perché rappresentano dei luoghi falsi e falsificati: se vedessimo, ad esempio, delle immagini di Miami Beach con le sue bellissime spiagge penseremmo che quegli spazi siano racchiusi ancora entro uno splendore iconico mentre invece nel mondo reale la città è assediata dall’acqua alta e da alghe puzzolenti3.

Ci sono due recenti film che ci offrono una rappresentazione alquanto reale del Nord Europa – nella fattispecie la Lapponia svedese – lontano dagli stereotipi imposti dalle “cartoline sbiadite”. Si tratta di Abisso (The Abyss, 2023) del regista svedese Richard Holm e di La ragazza delle renne (Stöld, 2024) di Elle Máriá Eira. Il primo si ambienta in una città della Svezia del Nord, Kiruna, che sta sprofondando a causa del crollo delle miniere che lambiscono il centro abitato. Probabilmente anche perché si ispira a un fatto vero (il crollo della miniera di Kiruna, avvenuto nel 1961), il film offre uno spaccato della vita quotidiana nella città nordica (la più settentrionale della Svezia, a nord del circolo polare artico) assai vicino alla realtà. Frigga, la protagonista, responsabile della sicurezza nelle miniere, deve lottare per tenere unito il suo nucleo familiare attraversato da varie vicissitudini (la figlia che partecipa a proteste ambientaliste, un figlio scomparso nel crollo, un marito che non si rassegna alla separazione e un nuovo compagno vigile del fuoco giunto da Uppsala) e successivamente dovrà vedersela con un crollo che inghiotte lentamente la sua città. Il Nord Europa che ci mostra Abisso, nonostante la sua inclinazione un po’ allucinatoria verso il genere del disaster movie, è realistico e inserito in una quotidianità dura e ripetitiva, fino all’evento catastrofico finale. Il film riesce a materializzare di fronte all’occhio degli spettatori la vita che si svolge quotidianamente a Kiruna, rifuggendo qualsiasi visione estetica o edulcorata. Capiamo inoltre quanto sia invasiva, per quella stessa esistenza che tutti i giorni sempre uguale si ripete, la presenza di una creazione umana come la miniera che è fonte di guadagno e sviluppo ma anche foriera di distruzione. Come un boomerang, lo sviluppo si ritorce contro gli stessi cittadini invadendo gli spazi più intimi e privati delle loro vite fino a far mancare la terra sotto il parco giochi dei bambini nel giardino della scuola. Anche se il piccolo che stava precipitando nella buca viene salvato in extremis dalla sua maestra, la scena, emblematicamente, mostra l’abulicità dello stesso sviluppo capitalista che non esita a devastare e uccidere persino i bambini pur di espandersi a macchia d’olio.

Il disastro che le miniere stanno lentamente provocando ha costretto la popolazione locale a trasferire l’antico centro storico in una zona più sicura, denominata “nuova Kiruna”. Anche questa situazione riflette quella reale, in cui il trasferimento della città vecchia in quella nuova è ormai quasi avvenuto (come si evince dalla voce “Kiruna” di Wikipedia). Si tratta di un fenomeno di delocalizzazione che non guarda in faccia a niente e a nessuno: in primo luogo alle abitudini quotidiane degli abitanti, che si vedono le vite stravolte e, in secondo luogo, anche agli edifici di rilevanza storica che, comunque, come leggiamo sempre nella voce di cui sopra, sono stati “trasferiti”. Si potrebbe pensare a quanto è avvenuto nel 1950 a Curon Venosta, in Alto Adige, quando l’antico paese venne allagato per costruire la diga della Montecatini, l’azienda chimica (la stessa che gestiva le miniere di Ribolla nel grossetano, sconvolte nel 1954 da un’esplosione che ha provocato la morte di quarantatré minatori) che poi si trasformerà in Montedison. Anche in questo caso gli abitanti del paese, per esigenze legate allo sviluppo industriale, furono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni. Del vecchio insediamento resta il campanile che spunta dalle acque del lago di Resia, e che conferisce un fascino ambiguo e misterioso al luogo, tanto che vi è stata ambientata una serie TV che spazia dall’horror al mistero, Curon (2020).

Anche La ragazza delle renne mostra un Nord Europa fuori dagli schemi imposti dallo spettacolo dominante. Con piglio quasi da cinema antropologico, racconta infatti dell’esistenza quotidiana di un gruppo di Sami della Svezia settentrionale. È uno scorcio di Nord Europa del tutto estraneo al limbo incantato spacciato dall’industria del turismo. Come sempre scrive Deotto nella sua inchiesta attraverso il mondo che, tra l’altro, tocca anche Kiruna,

il viaggio in Lapponia viene venduto ai turisti come un passaggio in un mondo “altro”, un superamento della soglia che separa l’ordinario dallo straordinario, e per assolvere a questa promessa si è finito per consolidare un’immagine illusoria fatta di slitte trainate da husky, cerimonie di attraversamento del circolo polare artico e alberghi a forma di igloo, tutte cose che nulla hanno a che fare con la cultura tradizionale di questo posto e che per di più finiscono per obliterarne le reali vulnerabilità. Così, mentre Babbo Natale riceve ospiti nel suo studio fotografico, le sue renne stanno rischiando l’estinzione4.

I Sami del film devono vedersela con l’odio xenofobo degli svedesi, che uccidono le loro renne e compiono continui sabotaggi ai loro danni, mentre il cambiamento climatico rende sempre più difficile l’allevamento di questi animali. A causa della maggiore frequenza di piogge causata dall’innalzamento delle temperature, i pascoli sono spesso ricoperti di ghiaccio e inaccessibili alle renne. Come afferma Åsa Larsson Blind, presidente del Saami Council (un’organizzazione che si batte per i diritti del popolo Sami), in un’intervista rilasciata a Fabio Deotto, “per la prima volta nella nostra storia ci troviamo costretti a foraggiarle e a trasportarle in camion. Il punto è che i pascoli sono sempre più frammentati, colpa delle miniere, ma anche della ‘colonizzazione verde’. Vogliono salvare l’ambiente con dighe e pale eoliche, ma di fatto stanno deturpando ancora di più la nostra terra”5. I Sami del film vivono in condizioni molto dure ma, nonostante tutto, si battono per portare avanti l’attività tradizionale del loro popolo, l’allevamento delle renne. Di fronte all’occhio dei turisti, il loro popolo, i loro costumi e le loro usanze sembrano ancora incastonati in una “cartolina sbiadita”: una turista, infatti, chiederà ad Elsa, la giovane protagonista del film, di fotografarla nel suo costume tradizionale. Eppure, la ragazza, come la sua famiglia e il suo popolo, è pienamente inserita in una realtà dove bisogna lottare duramente per difendere i propri diritti, e lei non si tirerà indietro, nemmeno di fronte ai dolorosi suicidi che si abbatteranno sulla comunità giovanile dei Sami e nemmeno di fronte alla marginalizzazione a cui la sottoporrà il suo stesso popolo. La giovane Sami è l’emblema della resistenza di un’intera cultura di fronte all’avanzamento di una globalizzazione che sembra andare di pari passo con i disastri legati al cambiamento climatico: come afferma Larsson Blind nella citata intervista, il riscaldamento globale “sta minacciando la sopravvivenza di un’intera cultura, che invece avrebbe senso preservare proprio in quanto detentrice di una conoscenza specifica delle dinamiche naturali locali”6.

I due film in questione hanno perciò il merito di presentarci uno spaccato di vita dei paesi del Nord Europa fuori dalle trappole delle “cartoline sbiadite”, per utilizzare ancora l’efficace espressione di Deotto. Un processo di ‘cartolinizzazione’ – si potrebbe azzardare – e di ‘vetrinizzazione’ dei territori a uso e consumo dell’industria del turismo: anche gli spazi naturali di tutto il mondo, come le città, sembrano infatti sottoposti a un continuo processo di gentrificazione7. Ma sotto la fragile membrana della vetrina c’è sempre e comunque la realtà, dura, mai rigida e scontata, mai facile, con tutte le sue contraddizioni che, oggi, anche in seguito alla globalizzazione galoppante e al surriscaldamento climatico, stanno diventando sempre più ciniche e violente.


  1. F. Deotto, L’altro mondo. La vita in un pianeta che cambia, Bompiani, Milano, 2021, p. 15. 

  2. Ibid

  3. cfr. ibid

  4. ivi, p. 169. 

  5. ivi, p. 179. 

  6. ivi, p. 180. 

  7. Cfr. G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, Il Mulino, Bologna, 2015 e S. Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma, 2019. 

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Il saccheggio ambientale di Massa Carrara in un libro di narrativa-inchiesta https://www.carmillaonline.com/2015/11/19/il-saccheggio-ambientale-di-massa-carrara-in-un-libro-di-narrativa-inchiesta/ Wed, 18 Nov 2015 23:01:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26596 Milani[(Pubblichiamo un estratto del libro di Giulio Milani La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri, Laterza 2015, pagine 220 € 19.) La vicenda muove dalle lotte che si sviluppano nel territorio di Massa Carrara, prima e dopo la grave alluvione che si è prodotta nel novembre del 2014 a causa dello sversamento di detriti dell’escavazione del marmo nel fiume Carrione, cementificato lungo il suo corso e in corrispondenza della foce. L’inchiesta, scritta in prima persona con la tecnica della “narrativa-saggistica”, si collega subito con la precedente stagione di lotte contro il polo [...]]]> Milani[(Pubblichiamo un estratto del libro di Giulio Milani La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri, Laterza 2015, pagine 220 € 19.)
La vicenda muove dalle lotte che si sviluppano nel territorio di Massa Carrara, prima e dopo la grave alluvione che si è prodotta nel novembre del 2014 a causa dello sversamento di detriti dell’escavazione del marmo nel fiume Carrione, cementificato lungo il suo corso e in corrispondenza della foce. L’inchiesta, scritta in prima persona con la tecnica della “narrativa-saggistica”, si collega subito con la precedente stagione di lotte contro il polo chimico apuano, la cui parabola ha trovato un drammatico epilogo con l’incidente del 17 luglio 1988 e l’esplosione del serbatoio di un pesticida altamente nocivo nello stabilimento Farmoplant della Montedison. Venticinque anni più tardi, l’autore entra per caso in contatto con un ex operaio e con suo fratello, che all’epoca aveva combattuto per la chiusura della fabbrica. Prende così avvio un’inchiesta molto particolare, fatta di analisi delle fonti, verifica del racconto dei testimoni, momenti di confronto tra generazioni. Emergono, nel conflitto tra interessi privati e interessi pubblici, i legami tra l’Emilia Romagna, la Toscana e la Liguria in fatto di infiltrazione mafiosa e business dei rifiuti, dai tempi della chimica di Gardini e del gruppo Ferruzzi fino al movimento terra e denaro degli ‘ndranghetisti che fanno base in Lunigiana; dalle pagine epiche della ritirata di Russia e della Resistenza anarchica si passa alle vicende di sfruttamento selvaggio, di inquinamento e incuria del territorio che sono accadute e continuano ad accadere, a Carrara come nel resto d’Italia, per il profitto di un grumo di potere ben consolidato. MB]

Senza che nessuno potesse prevederlo, l’8 novembre 2014 una città – e una provincia – col più alto tasso di disoccupazione della Toscana, un tasso di disoccupazione giovanile al 64%, il triplo della media nazionale (dati Istat), coi cinema e i teatri in perenne ristrutturazione, i negozi del centro che chiudono, le case deprezzate (ma marmo ovunque, come in un cimitero di viventi), ha all’improvviso ritrovato quello spirito di ribellione, quel desiderio di riscatto, che hanno prodotto l’ultimo sussulto di orgoglio di una comunità sull’orlo della morte civile.

Dalla mia prospettiva appena defilata – preoccupato com’ero di tenere a bada i piccoli che quel sabato avevo portato con me –, avevo (e ho ancora) negli occhi il cielo tornato azzurro dopo l’alluvione e il sole che riscaldava la strada, le scale, le aiuole e i muretti assiepati di manifestanti; avevo (e ho ancora) nelle orecchie i canti di burla e le grida di rabbia che s’innalzavano e subito abortivano come singhiozzi davanti al municipio di Carrara… Ho ancora negli occhi il sinistro cappio da impiccagione che qualche testa calda aveva assicurato alla cima di una canna da pesca e che sventolava sotto le finestre della sala consiliare al primo piano… Ho ancora negli occhi e nelle orecchie la perplessità e la rabbia delle persone che accanto a me si passavano le parole del sindaco Zubbani, quando ha affrontato l’anello di assedianti più vicino all’ingresso: sosteneva, lui che ha amministrato per dieci anni, di non sentirsi in alcun modo responsabile per quel disastro; sosteneva che lui e la sua giunta non avevano fatto nulla, in generale, di cui doversi scusare. I responsabili erano altri: la Provincia, i tecnici, gli ingegneri che avevano realizzato un argine inadatto… Non loro, mai. Ed è qui che è partito il primo fumogeno e il sindaco è stato costretto, mentre un fiume di contestatori lo inseguiva, a risalire di corsa le scale fino al primo piano, fino alla sala di rappresentanza del Comune da cui era sceso per tenere il suo discorso: gli ultras della Carrarese – gli Indians Cani Sciolti –, spingendo il cordone di polizia schierato a difesa del sindaco, con senso sportivo del momento hanno avuto la prontezza di forzare le porte d’ingresso e riversarsi dentro. La riscossa popolare, irripetibile, già contagiava tutta la città, diventava una notizia, raggiungeva la nazione…

Senza che nessuno potesse prevederlo, è risorto dalle ceneri della lotta al polo chimico apuano la versione 2.0 dell’Assemblea permanente: un presidio di lotta al degrado ambientale e di protesta contro la politica; l’occupazione di una sede comunale che è andata avanti, nei mesi successivi, facendosi forza con l’appello della partigiana Francesca Rolla – “Non abbandonare la città” –, il cui mite e materno volto di vecchina campeggiava da quasi un anno in un murales sull’affaccio di piazza delle Erbe: la stessa inaccerchiabile, piccola piazza da cui, nel luglio del ’44, era partita la protesta delle donne contro lo sfollamento ordinato dall’esercito di occupazione tedesco. Con l’hashtag/slogan “Carrara si ribella”, si sono organizzati tavoli di lavoro, raccolte di fondi e aiuti per gli alluvionati, concerti di beneficenza, blog di informazione, proiezioni di film e letture collettive di libri di inchiesta, un gruppo Facebook dove sfogarsi e confrontarsi a margine delle assemblee, analisi sulle cause dell’alluvione e sul dissesto idrogeologico, discussioni-fiume in diretta streaming sulle colpe degli amministratori e degli amministrati, sugli obiettivi da perseguire e sui mezzi per raggiungerli, sulle forme di democrazia diretta e di controllo dal basso da introdurre nel regolamento comunale, sulle regole di cui dotare l’assemblea nella gestione dei rapporti interni e delle comunicazioni verso l’esterno, insieme a incontri con esperti di settore – dalla gestione del territorio al contrasto alle mafie – tra cui quel Mauro Chessa, geologo, che aveva legato l’eventualità di nuove alluvioni agli sversamenti di marmettola e altri detriti della lavorazione del marmo direttamente nel fiume Carrione. Ne è scaturito un giornale autoprodotto, e una serie di cortei, soprannominati “Degrado tour”, che nei mesi successivi hanno sfilato lunga la via crucis delle tante opere finanziate con soldi pubblici e mai finite, oppure abbandonate nell’incuria, nonché puntuali manifestazioni di protesta con migliaia di partecipanti.”

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 73 https://www.carmillaonline.com/2015/10/01/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-73/ Thu, 01 Oct 2015 20:02:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25013 di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010 Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla [...]]]> di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010
Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla miopia nazionale e vai con la solita lagna – dove andremo a finire, signora mia! – che non sappiamo valorizzare le nostre opere e qui e là. La verità, la mia verità, però, è che Noi credevamo è un film inerte, intorcinato, plumbeo, girato in spazi angusti (perché pensato angustamente), senza rispetto per lo spettatore, pensando a sé come autore che fa un po’ il cazzo che gli pare coi soldi dello Stato e poi so’ cazzi tua capire cosa voglio dire. Che non è difficile intuire subito: il Risorgimento nasce in un clima torbido, tra attese e tradimenti, e questo continuo gioco sotterraneo e insincero è la base dell’Italia, un albero dalle radici marce. Solo che a raccontarlo così ti marciscono anche i coglioni e fin dai primi minuti. Allora: un film è un racconto, ma se fai di tutto perché non ti ascolti nessuno, amico mio, allora diventa un soliloquio e il problema è tuo, eh. E mica voglio limitare la voglia di sperimentare con la narrazione o di essere ostico, ci mancherebbe. Però se mi porti nel tuo carruggio e mi fai fare questo giro tortuoso, poi voglio arrivare davanti a un panorama magnifico. E invece qui è come se camminassimo per tre ore sotto il sole a picco, tra sterpi, merde di capra e vipere per arrivare a vedere Punta Perotti. Le vicende narrate precise ve le cercate in Rete – in due parole: tre giovani fanno il Risorgimento, con esiti diversi e comunque comune delusione – vi dico solo che il commissario Montalbano in una precedente incarnazione è stato Francesco Crispi, mafiosetto e coinvolto nell’attentato a Napoleone III che costò la vita a Orsini. Forse (io ci ho sempre creduto, m’è bastata la parola di quell’ira di Dio di Carlo Di Rudio, ecco). Comunque: a me è mancato clamorosamente una narrazione coerente e un’idea di cinema. Ho visto del teatro filmato e neanche bene, senza equilibrio nel racconto. Attori bravi, direi. Ma manca troppo altro: due ore e quaranta di un’opera che si voleva anche didattica, che sapesse celebrare criticamente l’unità d’Italia; e invece abbiamo una pallata, involuta, ostica, respingente. Non ho trovato neanche – perché poi son capace di accontentarmi di un po’ di plasticità, io, che diamine – alcuna invenzione visiva, nessuna immagine che mi abbia fatto sgranare gli occhi: tutto piattissimo, senza vita, inanimato. Che poi, no, qualche bella inquadratura c’è, ma proprio le conti sulle dita e su questa durata è pochissimo: io voglio notare quando l’inquadratura è sciatta, non il contrario. È come se andassi al ristorante e lo chef non si preoccupasse della freschezza delle materie prime, dell’uso dei condimenti e della cottura… a fine cena cosa dico? Però i grissini, buoni? Eddai, Marto’, eh. Giancarlo De Cataldo, cospiratore col regista, nel suo romanzo I traditori – che con Noi credevamo ha molto in comune – usa delle furbizie (sesso e carnazza, duelli etc.), degli accorgimenti, ma anche un controllo astuto della materia narrativa: le storie si aprono e si chiudono. Certo che col romanzo è più semplice, ma nessuno ha ordinato di farne un film: qui è tutto triste ed esangue, ripetuto mille volte, con alcune parti girate praticamente come 24, in tempo reale… C’è un episodio ambientato in un carcere che – giuro – potrebbe essere l’espediente per estorcere confessioni (l’episodio, non il carcere). Vabbeh: gli è venuto male? Forse. E non sarà un problema (anche se sulla faccenda dei soldi pubblici ci sarebbe da discutere, ma lo facciamo un’altra volta). O magari il problema è nostro, penso durante la visione, di fianco a Barbara che sbuffa anch’essa. E poi, all’improvviso, cosa ti vedo sul grande schermo? Una bella struttura scheletrica in cemento armato, a metà Ottocento. Non scherzo. Mi dico: no, un errore non può essere, sarebbe veramente al di là del bene e del male. E allora capisco: la METAFORA (bestemmione da scomunica censurato). L’Italia è il paese la cui edificazione è rimasta a metà, capisci?, coi tondini arrugginiti che escono ancora dai pilastri, aspettando di tirar su le pareti e di completare la costruzione. E allora quando ghigliottinano Orsini e percorrono una scalinata in griglia metallica con cent’anni di anticipo sulla sua concezione, lì, la metafora qual è? Che i francesi avevano direttori di cantiere avantissimo? O sono sciatterie che da Autori ci possiamo permettere, tanto chi se ne frega? Ecco, lì ho perso la testa, lo confesso. M’è venuto lo s’ciupun e ogni cosa, a quel punto è diventata fonte di irritazione, come la prima dell’Hernani o i garibaldini che nella vita combattono e recitano e lo fanno notare più volte… Martone, mabbasta! La mistica del teatro e il pubblico con la sciarpetta che partecipa al rito borghese e poi si va a scofanare un piatto de cozze, a te t’ha rovinato, credimi. Una consolazione, almeno, l’avrò trovata? Massì, la nasuta Francesca Inaudi, qui contessa di Belgiojoso, con quel collo da cigno, il petto affannato e l’aria smarrita come in una tela di Boldini… A tanto mi riduco. (Cinema Ariosto, Milano; 7/1/11)

ddv7302814 – Non è ancora domani (La pivellina) di Tizza Crovi e Rainer Frimmel, Austria/Italia 2009 e la mia intervista al Maestro Bernardo Bertolucci, o quasi
Film tenerissimo, quasi documentaristico: una messa in scena zavattiniana e minimale sovrastata da una ricchezza di sentimenti straripante. Nel quartiere di San Basilio a Roma la signora Patty trova una bimba abbandonata in un parco. Due anni di dolcezza innocente di cui si innamorano tutti, nel campo di roulotte dove Patty vive. E la pivellina cresce tra artisti di strada, improvvisati fratelli maggiori e Patty che vuole sapere di più. Grande intensità e nessun appeal commerciale, ma questo film sa aprirti il cuore, segnatevelo. Ah: in questi giorni s’è consumata una tragedia! Ricordo a quelli di Rolling Stone che il Maestro Bertolucci compie settant’anni a breve, il 16 marzo: urge articolo barra intervista barra celebrazione. Il direttore mi dice: bravo! Va e uccidi! Allora chiamo Bernardo a casa ed è gentilissimo, parla e ascolta il suo fan un po’ scemotto. Ci mettiamo d’accordo per un ulteriore appuntamento telefonico per definire giorno e ora, a Roma, per un’intervista vis-à-vis. Quando lo richiamo alla vigilia dell’incontro lo sento in grande difficoltà finché non mi chiede un po’ scocciato come funzionino le cose a Rolling Stone. Me lo chiedo anch’io, perché sarà Enrico Ghezzi a intervistarlo, nonostante io avessi già ottenuto consenso e stabilito tutto con la redazione. Grande imbarazzo – e di fronte a Ghezzi non mi metto certo a fare casino, anche se la sua intervista in ostrogoto sarà comprensibile a sole tre persone, BB, lui e io – ma il Maestro intuisce il mio disagio e anzi mi consola e mi racconta ancora, soddisfacendo ogni mia curiosità. Parlottiamo un po’ di tutto (anche di Jim Morrison e Agnès Varda o di Pink Floyd e David Gilmour a Sabaudia, suo ospite) però poi, a malincuore, tocca attaccare. Per cui, alla fine, è come se l’avessi intervistato, ma solo per me. Tiè, Ghezzi. (Dvd; 13/1/11)

ddv7303815 – Brutto forte, Jumanji di Joe Johnston, USA 1995
Film per bambini nonostante bordeggi l’horror (sempre per bambini). È ripetitivo, non simpatico, non coinvolgente, con effetti, trucchi e trucco – oltretutto – di scarso valore. La fotografia autunnale è bruttina e il cast presenta assortite facce da scemi su cui spicca Kirsten Dunst con la sua consueta espressione da procione, con gli occhi incavati. Robin Williams è un po’ Re pescatore, un po’ prof da Attimo fuggente, un po’ – insomma – lo stesso personaggio che interpreta sempre. A Sofia il film piace, a me per niente: spero di non doverlo vedere più di dieci volte. (Dvd; 15/1/11)

ddv7304816 – Per la serie “Cartoni che mi vorrei scopare”, Biancaneve e i sette nani di David Hand, USA 1937
La più bella del reame? Ma dove? Ma mille volte la Regina, mi piglio, io! Ma hai visto che occhietti sordidi, quella bella signora un po’ goth girl? E pure esperta in arti magiche… ma t’immagini i giochini che ti fa ‘sta qui se si beve il filtro? E la mela sai dove te la mette? E invece no, l’eroina è la benedetta Biancaneve che, a dispetto di un nome da cocainomane persa, è invece una verginella che rassetta casa, sempre con lo straccio in mano per togliere qualsivoglia filo di polvere, con gli occhioni sgranati e la boccuccia a cuoricino… giusto un principe necrofilo se la può baciare una così, una già morta dentro prima che addenti la renetta avvelenata. Naaa, no way, il Cacace non ci sta! Detto questo, il film è tecnicamente clamoroso, animato benissimo, con sfondi acquerellati da urlo e pieno d’invenzioni visive che danno ritmo a una vicenda esilissima e straconosciuta e comunque variata perché Disney vedeva lontano e conosceva bene la parola “adattamento”. L’avevamo negato a Sofia temendo reazioni scomposte (la cugina Anna non ha mangiato mele per un anno e diceva che mia nonna era la strega cattiva), invece è andata bene anche con la piccola Elena. Bisogna fortificarle fin da piccole, queste: non sanno cosa le aspetta là fuori. Il dvd è ricco di bonus e tra le diverse scene tagliate presenta anche quella clamorosa della gang bang dei sette nani con Biancaneve finalmente scatenata. No, scherzo, purtroppo. Comunque extra interessanti, se siete un po’ depressi e volete vedere come si realizza un cartone. (Dvd; 17/1/11)

ddv7305817 – Preferirei di no, ma Baciami ancora, di Gabriele Muccino, Italia 2010
Menami ancora, dovrebbe chiamarsi ‘sta roba, con riferimento particolare al regista. Non so neanche da dove cominciare… è il sequel de L’ultimo bacio e i difetti del predecessore sono esasperati fino al ridicolo. È tutto gonfiato all’inverosimile e risulta completamente fasullo, come il plot raccontato con nessuna attenzione alla crescita, allo sviluppo, alla definizione psicologica dei protagonisti in una successione di scene madri fuori controllo, montate velocissime, commentate da musiche mixate male, con un sacco di cantato che si sovrappone ai dialoghi. Abbiamo le corse forsennate sotto la pioggia, le urla disperate, i pianti a dirotto, i pentimenti accorati, Stefano Accorsi che canta la Vanoni o che in voce off enuncia perle come “è per la mancanza di cura nelle cose più semplici che facciamo gli errori più grandi” oppure “gli errori si pagano tutti”… Ma l’avete scritto scopiazzando dei Baci Perugina? Nei credits scopro che i cosceneggiatori del regista sono gli ineffabili Rulli e Petraglia, capaci di concepire una scena in cui una madre legge a un bimbo di dieci anni… Moby Dick. Giuro. Mica una versione semplificata, no, proprio Melville. Muccino e i due impuniti hanno presente Moby Dick? Letto a un bambino di dieci anni? E perché non l’Ulisse di Joyce, già che ci siamo? I fratelli Karamazov, no? Mah. (Gli farei l’assolo di Moby Dick, ma dei Led Zeppelin, in testa). Finisce in ulteriore vacca con parti concitate, promesse solenni e già la certezza che si faranno tutti nuove corna con annessi scazzi violenti, bimbi traumatizzati etc. etc. In questa corsa al ridicolo la regia infila due riferimenti kitschissimi a Il cacciatore (quando la compagnia di amici idioti canta in macchina e nelle scene della roulette russa), uno a C’eravamo tanto amati e un omaggio all’amico americano Will Smith, come a rimpiangere qualcuno che, almeno, sa recitare. Perché il vero crollo di un film ambientato in questa città magica, Roma, dove c’è sempre il parcheggio libero sotto casa, sono gli attori. Salvo per amore incondizionato Vittoria Puccini e per simpatia Pierfrancesco Favino, ma il resto del cast sembra una combriccola di amatori in gara per la peggiore interpretazione possibile. Ma non c’è gara, vince con distacco abissale Accorsi: “Quando un attore è stonato e senza talento viene definito cane… ecco il termine è perfetto nel caso specifico”. Infatti, meglio di così era impossibile sintetizzare ciò che si pensa dell’attore che questa frase la pronuncia, un Accorsi, appunto, con la faccia sempre perplessa, come se si chiedesse – giustamente – come sia finito lì. Quanto è carogna Muccino, a fargli enunciare questo epitaffio? Gli altri: il giovane Giannini, Adriano, recita sempre ingobbito, sembrando un incrocio tra sua padre Giancarlo e Silvio Orlando; Giorgio Pasotti è truccato come Giovanni di Aldo, Giovanni e Giacomo quando interpretava Johnny Glamour, ed è francamente inguardabile. Del resto Accorsi è pettinato come Donald Sutherland nel Casanova, per cui tutto torna. Ah: e poi c’è Valeria Bruni Tedeschi, il mistero gaudioso del cinema francese e italiano, l’imbarazzo puro, una che eviteresti di riprendere anche nel filmino delle vacanze. Un solo pregio consolatorio per il pubblico che ha speso i soldi del biglietto di questa troiata: lo vedi e ti senti tutto il tempo Einstein. (Dvd; 22/1/11)

ddv7306818 – Io non ho capito granché Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, Italia 2010
Film che ha ricevuto tanta simpatia critica e anche un discreto riscontro di pubblico. Lo proviamo in una sera in cui Barbara rifiuta i miei documentari bellissimi perché vuole ridere. Figurati! Un gruppo di amici suonatori decide di attraversare a piedi la Basilicata dal Tirreno allo Ionico (o il contrario, ho già rimosso) per arrivare a suonare in una festa di piazza. Contrattempi, amori, canzoni indolenti, incontri, destini che si incrociano e scoperte. Basilicata coast to coast è inerte e inoffensivo, ha lo scatto del ronzino che porta gli strumenti dei nostri eroi, ma come se gli avessero segato i garretti. È un film civile e come fai a parlarne male? Un inno alla Basilicata, alla sua gente discreta, alla sua cucina stratosferica, ai paesaggi clamorosi. Però, ragazzi, manca la storia, c’è solo l’idea. Non una battuta memorabile, canzoni gradevoli che ti passano senza lasciarti nulla, attori con belle facce, costretti da un copione senza nerbo a farci intuire tutto: è un attimo che ti cresca il terzo coglione, eh, e bello gonfio. (Vi do un consiglio: se volete una grande storia d’ambientazione lucana, e ridere e pensare, allora regalatevi un libro di Gaetano Cappelli, datemi retta). (Dvd; 24/1/11)

ddv7307819 – Basito di fronte a Il volatore di aquiloni di Renato Pozzetto, Italia 1987
Surreale è dir poco. Pozzetto (Urca; sì, si chiama così) vola in deltaplano dal suo Lago Maggiore verso il mare, ma rimane incantato da Milano (e avvelenato dallo smog) e atterra a San Siro dove para diversi rigori a Rummenigge. Da qui si dipana un viaggio/omaggio attraverso la città dove la concatenazione degli eventi ricorda più Entr’acte che altri film interpretati dal comico di Laveno. Qui Renato scrive e dirige e si sente: l’omaggio a Milano è personale, nel senso che per quanto si citino e si visitino le opere dei finanziatori (Rinascente, Cariplo – con la presentazione dello straordinario Bancomat! -, Montedison, Metro Milanese, Comune e Max Meyer) il racconto prende deviazioni fantastiche in cui non mancano atti d’accusa allo smog meneghino o alla mancanza di spazi per i bimbi, sempre espressi nel tono sognante e poetico del regista. Detto questo, poi, la pellicola (poco più di un’ora di durata) è pressoché indigeribile nella sua follia. Ci sono momenti più riusciti (la parte con Boldi, con una gara a chi raggiunge le più alte vette del nonsense) e altri sinceramente noiosi, con gag gelide e il ritmo questo sconosciuto. Però Il volatore di aquiloni (da una canzone di Jannacci) è una cosa talmente stramba che alla fin fine gli vuoi bene, come a un figlio scemo, e pure bruttarello. Uscì direttamente in vhs e credo che non l’abbia visto nessuno. (Dvd; 26/1/11)

ddv7308820 – Ancora agghiacciante: Children of the Stones di Jeremy Burnham, Trevor Ray, Peter Graham Scott, Gran Bretagna 1976
Questo Prigionieri delle pietre lo dava al pomeriggio RaiDue, credo nel 1979. Sul mitico televisore Voxson in bianco e nero avevo visto tutti gli episodi fuorché l’ultimo e la cosa mi bruciava da più di trent’anni, anche perché nessun mio coetaneo ne aveva un ricordo utile. Poi, con la magia della Rete ho ritrovato i sette episodi in una versione scintillante, con sottotitoli in italiano (e Dio ringrazi i volenterosi anonimi). Ricordavo poco dell’impianto narrativo generale, ma una marea di particolari che, puntualmente ho ritrovato: le musiche angoscianti (tutte sospiri asmatici e urla), il senso di mistero, le luci allucinate, il costante senso di smarrimento e pericolo. Trama: l’astrofisico Adam Brake e il figlio Matthew raggiungono il paesino di Milbury, un borgo da 50 anime sorto su un antichissimo cerchio megalitico. La popolazione è decisamente ebete e il circo è condotto dal sinistro astronomo Hendrick. Gli estranei si insospettiscono e tentano la fuga e… E mo’ vi cercate voi l’ultima puntata. Che questa roba che mescola paganesimo, buchi neri, altre dimensioni e bolle temporali fosse pensata per un pubblico infantile ha dello straordinario: da molti quarantenni inglesi (fonte Wiki https://en.wikipedia.org/wiki/Children_of_the_Stones) lo sceneggiato viene tuttora ricordato come un’esperienza terrificante. Discreta fattura (anche se le luci negli interni sono sempre smarmellate… “Everything open!” avrà detto il direttore della fotografia, alla Boris), attori bravi, inglese limpido, abbigliamento seventies semplicemente vomitorio, oltretutto cromaticamente rallegrato dal consueto buongusto albionico. Ambientato nel paesino di Avebury (che adesso non visiterei manco se pagato) gli episodi sono sette e durano 25 minuti, con pausa intermedia (!): generalmente Barbara cominciava a rantolare verso i 15 minuti per crollare presto prigioniera di un sonno di pietra. Ad ogni modo: mini-serie che è una figatina, anche dopo tutti questi anni e seppur indirizzato a un pubblico di ragazzini, come me, del resto. (Gennaio 2011)

ddv7309821 – Piccolo e bello: L’uomo fiammifero di Marco Chiarini, Italia 2009
Sincero, toccante, realizzato con poco – materialmente – ma mettendoci tantissimo cervello, idee, invenzioni. Fin troppe. L’universo fantastico di un bimbo che vive con un padre tanto distante quanto bestialmente affettuoso. Pannofino (il papà, già inarrivabile René Ferretti in Boris) è bravo anche in un ruolo drammatico, così come i piccoli attori (anche se ridoppiati). Dell’infanzia, questo film ci restituisce lo stupore per il meraviglioso, con effetti magici nella loro semplicità, come faceva certo cinema d’inizio secolo, ma quell’altro. È un film per bambini per adulti (è piaciuto più a me che a Sofia, per capirci) e non saprei come definirlo altrimenti, se non come intelligente e meritevole. Forse non riuscito fino in fondo ma molto più che dignitoso. Non è vero che il cinema italiano sia in crisi, sono in crisi gli italiani, spettatori e non al cinema. (Dvd; 28/1/11)

ddv7310822 – Truffa truffa ambiguità: Valzer con Bashir di Ari Folman, Israele/Germania/Francia 2008
La strage di Sabra e Chatila, come incubo rimosso. Non solo dal protagonista del film, anche dal regista, direi, che alla fine assolve se stesso e in qualche modo quella generazione di israeliani che combatté l’ennesima sporca guerra. Del conflitto sembrano non capirci niente lui e i suoi commilitoni, che assistono sgomenti al prevalere della follia, della paura e del cinismo dei generali. Il film è amaro, plasticamente splendido, inventivo, spiazzante e crudele e riesce a farti provare pietà e costernazione con dei disegni animati, forse l’unico modo impensabile per mettere in scena un orrore che ci si è rifiutato di vedere per troppi anni. Però la sensazione di un discorso autoassolutorio mi mette in difficoltà e nel cervelletto, incastonata come una pietruzza dell’Intifada, rimane parecchia insoddisfazione. In termini puramente estetici, il film è comunque notevolissimo. Saran contenti i palestinesi. (Dvd; 29/1/11)

ddv7311824 – Il disincanto sia con te: Guerre stellari di George Lucas, USA 1977
Questo l’ho visto la prima volta nell’estate del 1978 in un cinema di Rapallo, con mia madre. Dovevo, se no ero fuori dal dibattito. Non ero rimasto folgorato come invece era avvenuto a molti miei coetanei (però mia madre mi offrì cinquemila lire dell’epoca pur di uscire tra primo e secondo tempo e io rifiutai testardamente, rinunciando a una fortuna) e oggi son curioso di capire che reazione possa avere Sofia che però di anni ne ha due meno di me – all’epoca – ed è decisamente più sveglia – di me, oggi. E apprezza. E io? Mah! Film lineare, sempliciotto, con effetti speciali allora innovativi e oggi ingenui, continua a sembrarmi narrativamente troppo easy, ma anche popolare nel senso migliore: epico, archetipico, con diversi richiami alla cultura pop USA (Il mago di Oz, il cinema western – vedi Han Solo). Elegantissime le guardie imperiali, evidenti i rimandi iconografici al nazismo per le divise dei comandanti dell’Impero Galattico, molto anni Settanta le capigliature, squallido – quasi casual – l’abbigliamento dei ribelli, con una predominanza arancione da operaio dell’autostrada e caschi che sembrano dei wok rovesciati. Alec Guinness è il miglior Padre Pio della galassia, Luke esibisce un kimono felpato (ma a un certo punto tira fuori un poncho alla Eastwood) e la principessa Leila ha due grossi bagel di trecce sopra le orecchie. Non c’è mai sangue, mai mai mai, e aleggia una sottile tensione amorosa tra Luke e Leila che subito Sofia individua – ah, l’intuito femminile – e mi sa che qui ci scappano anche i due seguiti, maledizione. (Dvd; 9/2/11)

(Continua – 73)

@DzigaCacace usa Twitter male

Qui altre Divine Divane Visioni, pensate

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I pesi e le misure (parte seconda) https://www.carmillaonline.com/2013/07/13/i-pesi-e-le-misure-parte-seconda/ Fri, 12 Jul 2013 23:57:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7607 di Alexik

giustizia_ciecaLa prima parte è stata pubblicata  qui.

“Io ero il legale delle ferrovie “Q” e della Indemnity Company che assicurava i proprietari della miniera. Ho influenzato giudici e giurie, e le alte corti, per sconfiggere le rivendicazioni degli infortunati, delle vedove e degli orfani, e così mi sono fatto una fortuna. L’associazione degli avvocati cantò le mie lodi in un’altisonante delibera. E numerose furono le corone funebri – Ma i topi hanno divorato il mio cuore e un serpente ha fatto il nido  dentro il mio cranio !” 

Edgar Lee [...]]]> di Alexik

giustizia_ciecaLa prima parte è stata pubblicata  qui.

“Io ero il legale delle ferrovie “Q”
e della Indemnity Company che assicurava
i proprietari della miniera.
Ho influenzato giudici e giurie,
e le alte corti, per sconfiggere le rivendicazioni
degli infortunati, delle vedove e degli orfani,
e così mi sono fatto una fortuna.
L’associazione degli avvocati cantò le mie lodi
in un’altisonante delibera.
E numerose furono le corone funebri –
Ma i topi hanno divorato il mio cuore
e un serpente ha fatto il nido  dentro il mio cranio !” 

Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River.

Nei processi per disastri ambientali o stragi di fabbrica le dirigenze e le proprietà dell’industria italiana sfoggiano avvocati di grido, costosi “principi del foro” pagati coi denari risparmiati sulle misure di sicurezza.

Sicuramente da questo punto di vista non bada a spese il conte Marzotto, attualmente imputato per le morti operaie della Marlane, che affida la sua difesa a Nicolò Ghedini – parlamentare PDL e storico legale di Berlusconi –  oltre che a Massimo Dinoia e a Guido Calvi, membro non togato del CSM, docente universitario e senatore PD.  Pisapia, per decenza, dopo la nomina ha rinunciato all’incarico.

Il nome dell’avvocato Dinoia riappare a fianco della Solvay di Spinetta Marengo nel processo in corso contro il polo chimico alessandrino. Il suo è, in ordine di tempo,  l’ultimo incarico di un lungo curriculum forense che parte dalla difesa di più di 200 imputati di tangentopoli, continua con Antonio Di Pietro e con l’ex capo della security di Telecom Giuliano Tavaroli, fino ad approdare a Ruby Rubacuori.  Dinoia è affiancato nel collegio difensivo da Domenico Pulitanò, ordinario di diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Nello stesso processo la Montedison si è avvalsa di Tullio Padovani, già difensore di Mussari per il caso MPS.

A Torino, per il rogo alla Thyssenkrupp, l’amministratore delegato Harald Espenhahn ha scelto Franco Coppi, altro legale di Berlusconi che ha annoverato nella sua clientela anche Giulio Andreotti e Gianni De Gennaro (per il massacro alla Diaz).

L’ex presidente di Italcantieri Giorgio Tupini, imputato per i morti dei cantieri navali di Monfalcone, si è invece rivolto ad Alessandro Cassiani, che fino a pochi anni fa presiedeva a Roma  l’ordine degli avvocati.

Insomma, l’intero gotha dell’avvocatura italiana viene schierato contro lavoratori e cittadini ammalati, contro le associazioni che li sostengono, contro le vedove degli operai.

Un’avvocatura che ha avuto modo di sperimentarsi, nel corso di un ventennio di berlusconismo, all’interno di una particolare “cultura” giuridica che fa della prescrizione l’obiettivo principale della difesa, da raggiungere allungando i tempi del processo con gli artifizi più fantasiosi e pazzeschi.

Per quanto molto meno mediatizzati (anzi, per meglio dire, sepolti nel silenzio) rispetto ai processi che vedono come imputato il nostro patetico ex premier, vari  procedimenti per inquinamento e omicidi sul lavoro sembrano seguire un copione molto simile. Consideriamone alcuni:

Solvay/Ausimont/Montedison di Spinetta Marengo

E’ il caso più eclatante fra i tentativi maldestri di approdo alla prescrizione. Nel procedimento 38 ex amministratori delegati, direttori di stabilimento, dirigenti e tecnici del polo chimico, sono inquisiti per avvelenamento doloso delle falde acquifere e mancata bonifica. Sotto lo stabilimento giacciono ancora almeno 500 mila metri cubi di veleni, quali cromo esavalente, cloro, arsenico, titanio, nichel, cobalto, mercurio, selenio, vanadio, piombo, cadmio, solventi aromatici e clorurati. Percolano in falda, inquinano pozzi. Settantadue i cittadini con pesanti danni alla salute costituitisi parte civile. Lo scorso marzo l’avvocato della Solvay Massimo Dinoia ha sollevato  l’eccezione di incompetenza territoriale della Corte d’Assise di Alessandria, per ottenere il  trasferimento del processo a Milano e far ricominciare tutto da capo.  Motivo ? I magistrati alessandrini – in qualità di potenziali consumatori di quell’acqua inquinata – potevano considerarsi parte offesa e non essere – pertanto –  sufficientemente equilibrati nel giudizio (!!!!). A Dinoia è stato già suggerito di richiedere il trasferimento del processo a Filicudi, visto che la falda inquinata va a finire nel Bormida, e di conseguenza nel Tanaro, nel Po e infine in Adriatico, escludendo dalla competenza qualsiasi giudice della pianura padana e della costa est della penisola. Peccato per lui (e per la Solvay) che il suo tentativo sia stato respinto. In giugno l’epidemiologo Ennio Cadum ha riportato il dibattito processuale su argomenti più seri: la sua indagine sull’intera popolazione di Spinetta (720 persone), confrontata con quella di Alessandria, ha dimostrato un eccesso del 70-80 % di malformazioni congenite, oltre a percentuali rilevanti di tumori alla laringe ed al 30/50% in più di malattie del cavo orale ed esofagee potenzialmente ricollegabili all’acqua inquinata.

Cantieri navali di Monfalcone

Di cosa avranno paura i dirigenti Italcantieri alla sbarra al tribunale di Gorizia ? Degli sguardi dei famigliari di quegli 87 operai ed operaie morti d’amianto in seguito al lavoro nei cantieri navali ? Paura del loro dolore, o della loro dignità ? Italcantieri, che ha ucciso i loro cari, ora accusa le vedove di essere “minacciose”, di non garantire ai giudici la giusta serenità. Perché la violenza non è condurre le persone a morire sputando sangue dai polmoni. Violenza è pretendere giustizia. Per questo l’avvocato Cassiani ha avanzato l‘istanza di trasferimento del processo per legittima suspicione. Lo ha fatto il 25 giugno, proprio nel giorno in cui era attesa la sentenza, lasciando attonite le parti civili. Se la Cassazione gli darà ragione bisognerà ricominciare il processo da zero, rendendo più accessibili agli imputati i termini per la prescrizione.

Sarebbe un precedente pericoloso, potrebbe essere usato per inibire le dimostrazioni di solidarietà agli operai e alle loro famiglie (presenza in aula, sit in fuori dal tribunale) anche in altri contesti processuali, e fornire un utile pretesto per l’annullamento di interi procedimenti. Sarebbe un pessimo segnale anche per il territorio goriziano, tenendo conto che il processo in corso è solo un primo atto, visto che quegli 87 operai e operaie fanno parte di una strage molto più vasta.  Nella sola sede Inail di Monfalcone dal 1980 al 2000 sono state riconosciute circa 2000 patologie asbesto-correlate. Dal 2004 al 2013 nel territorio di competenza della Procura di Gorizia ne sono state registrate 1921. Nella provincia l’incidenza di tumori da amianto è di 11,59 ogni 100.000 abitanti – il tasso più alto d’Italia – e il picco deve ancora arrivare. Si prevede che soltanto a partire dal 2020 potremo assistere ad un calo significativo dei casi di mesotelioma nel territorio.

Marlane di Praia a Mare

Si sta svolgendo a Paola il processo alla Marlane di Praia a Mare che vede imputati per disastro ambientale doloso, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose il conte Pietro Marzotto, il presidente del gruppo Marzotto (ex vicepresidente di Confindustria Veneto) Antonio Favrin, l’ex sindaco di Praia Carlo Lo Monaco oltre ad altri 10 dirigenti della fabbrica. Centosette gli operai morti o malati per esposizione al cromo, all’amianto e alle amine aromatiche.

Oggi a Praia la Marlane non c’è più, è stata delocalizzata ad est  assieme ai suoi veleni (si dice che sia a Brno, in Cechia). Lascia dietro di se le vedove degli operai, i capannoni diroccati e tonnellate di scorie tossiche sepolte dentro e fuori i terreni dell’azienda, contaminati da nichel, vanadio, cromo, mercurio, zinco, arsenico, piombo e Pcb. Una bomba a tempo per chi, a differenza dei capitali, non può (e non vuole) andarsene via.

Nel corso del processo il collegio difensivo ha puntato da subito sulla prescrizione, contestando la competenza territoriale del Tribunale di Paola e ottenendo continui rinvii (ben 6 fra il 2011 e 2012). Forse in parte ce l’ha fatta: alla fine di febbraio la Procura di Paola ha chiesto di archiviare le posizioni di 41 lavoratori morti per tumore più di 15 anni fa. Il tempo trascorso, infatti, ha mandato in prescrizione per gli imputati il reato di omicidio colposo. Ora l’unica strada percorribile e quella proposta dalle parti civili  di riformulare i capi di imputazione in omicidio volontario. La decisione, che era attesa per giugno, è ancora in sospeso.

Anic – Enichem di Ravenna

Non andrà in prescrizione il processo per 33 morti di amianto e 40 ammalati gravi al petrolchimico di Ravenna. Non ci andrà perché Loris Cimatti, manutentore all’Anic – Enichem per 30 anni, li ha fottuti tutti, resistendo fino al 2011 prima di morire di mesotelioma pleurico. L’inserimento del suo caso ha ampliato il tempo disponibile per lo svolgimento delle udienze, ma è terribile che le speranze di concludere il giudizio siano dipese dalla morte di un uomo.

C’è il rischio però che il processo si estingua per l’estinzione degli imputati: i 25 dirigenti incriminati per disastro colposo, omicidio colposo e lesioni colpose hanno tutti tra i 72 e i 92 anni. Altri 51 non figurano perché stramorti da tempo (da Enrico Mattei a Eugenio Cefis, da Raffaele Girotti e Gabriele Cagliari). (Continua)

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