Monica Pareschi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Pareschi, Munch e le delizie crudeli della sospensione https://www.carmillaonline.com/2024/12/07/pareschi-munch-e-le-delizie-crudeli-della-sospensione/ Sat, 07 Dec 2024 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85616 di Franco Pezzini

Monica Pareschi, Inverness, pp. 174, € 15, Polidoro, Napoli 2024.

Traduttrice eccellente e attivissima, Monica Pareschi è anche un’elegante e sorprendente narratrice. Sorprendente non nel senso relativo che un lettore non possa attendersi un esito alto da chi quotidianamente ingaggia al suo livello un corpo a corpo con la parola (è autrice del resto del bel romanzo È di vetro quest’aria, Italic Pequod, 2014, e di pregevoli racconti apparsi su varie testate); ma in senso assoluto, per l’impatto di narrazioni che – non sembri un’affermazione naïf, non è affatto scontato – continuano a sollecitare ancora a libro chiuso. [...]]]> di Franco Pezzini

Monica Pareschi, Inverness, pp. 174, € 15, Polidoro, Napoli 2024.

Traduttrice eccellente e attivissima, Monica Pareschi è anche un’elegante e sorprendente narratrice. Sorprendente non nel senso relativo che un lettore non possa attendersi un esito alto da chi quotidianamente ingaggia al suo livello un corpo a corpo con la parola (è autrice del resto del bel romanzo È di vetro quest’aria, Italic Pequod, 2014, e di pregevoli racconti apparsi su varie testate); ma in senso assoluto, per l’impatto di narrazioni che – non sembri un’affermazione naïf, non è affatto scontato – continuano a sollecitare ancora a libro chiuso. E si può essere grati al direttore Orazio Labbate, per averlo inserito della collana Interzona.

Iniziamo col dire che questi racconti elegantissimi, godibilissimi e dunque capaci (altra dote non scontata) di farsi divorare, presentano varia metratura, dai molto brevi ad alcuni di ampio respiro, sia pure con un senso del ritmo e un equilibrio dosatissimi, come l’“Inverness” che chiude la raccolta. E partiamo dalla definizione di quarta di copertina:

 

Una raccolta di racconti spietata che si dipana a mo’ di lunga narrazione fondata su una deliziosa crudeltà sentimentale.

 

Un’opera fondata sui sentimenti più nascosti, sulle piccolezze mostruose, vitree, che tutti noi coviamo mentre amiamo e mentre odiamo. Una costellazione di racconti che divaricano l’anima piano piano, come cristalli Swarovski. In queste storie c’è, nell’incontro con l’altro, una paura antica: incontri sbagliati e mancati, incontri fatali. Baci velenosi. Bambine dai difetti repellenti. Addii freddi e intollerabili, ricambiati in parte e scambiati per eterne maledizioni. Il confine sottile tra il vedersi davvero e l’inorridire […].

 

Il che già dice qualcosa di fondamentale: sono racconti crudeli. Ma con la marcia in più, rispetto a certa scipita crudeltà splatter che si limita ad affettare i corpi, di raccontare con straordinaria misura e piglio autenticamente letterario reazioni che ci inabitano tutti, tagliando come un bisturi sulla carne viva della nostra interiorità. Tagliando a base di conati cerebrali, tentazioni e tanti irrisolti: qualcosa che seziona il nostro modo di porci rispetto agli altri, di guardarli, di sfiorarli, in particolare nelle dinamiche dei sentimenti.

Dunque crudeltà: basti pensare alla spaventosa vita di campagna di “Primo amore”, ai corteggiatori/gabbiani manipolatori di varie storie, al gioco al massacro di “Troppo amore uccide”, alla brutalità infelice di Gheri in “Mors tua vita mea”, alla repellente Mariangela di “Un bacio, ancora” con la sua sozza e inattesa iniziazione della protagonista, alla troppo disinvolta e privilegiata P. di “Inverness”. Una crudeltà che colpisce i più fragili – quelli archiviati dalla vita a opere di brave famiglie, o i socialmente nell’angolo – ma anche persone in fondo realizzate, e tuttavia insidiate per dinamiche di potere, sessuale in primo luogo.

Eppure, come accennato, un altro elemento torna a serpeggiare come un filo grigio, forte in queste storie. La dimensione cioè di conati, tentazioni e irrisolti: infatti ricorrente, ed elemento connotante la raccolta, è il tema della sospensione. Una sospensione sfiorata, in atti che vengono consumati in anestesia o alla fine come in un cono d’ombra, ne “I baci di Munch o la perfezione dell’amore”: dove il focus resta sul prodromo all’amplesso, quasi in virtuale sospensione di quanto segua. Atti che invece non vengono consumati, pur proiettando tutta la loro potenza allusiva o decomponendosi nell’onirico, come in “Primo amore”, in “Fiori” (“Non è successo niente”) e “Troppo amore uccide” – dove a sospendersi sono intere relazioni. O ancora nella scena chiave di “Mors tua vita mea” (“In fondo, a ben pensarci, non è successo niente”), e nella tentata predazione seduttoria, vorace e alla fine grottesca, di “I gabbiani”. Poi ci sono mete che non vengono raggiunte (l’Inverness del racconto è quasi un controcanto dell’Itaca di Kavafis, non solo nell’esito ma nella simbolica qui fallimentare del viaggio); e baci – di nuovo – che restano sbavature impossibili da cancellare nella vana attesa di pacificarsi in qualche modo, come appunto in “Un bacio, ancora”. E in tutte queste storie, esplicita o virtuale ma incalzante, quella sospensione della vita che è l’invecchiare e trascorrere verso la morte.

I maschietti in scena sono in gran parte sordidi, immaturi, viriloidi di mezza tacca; le donne spesso raffrenate da ombre divoranti, compulsioni sociali, perplessità radicali o malattie. Le coppie sembrano fatte per non funzionare, esaurirsi in una sessualità tutta eventuale – e spesso sospesa – e tanta solitudine. Le amicizie non mostrano la pietas sperata, le complicità fanno acqua o si esauriscono in teatrini sovraccitati che rivelano liaisons malamente velate. Né si può attribuire il quadro amaro solo alla stagione fascistoide in cui siamo a mollo: alcune storie proiettano nel passato, forse i tempi permettono solo di evocarle come emblematiche, anche se evidentemente non si tratta di studi sociologici. Al netto d’altronde di un’amarezza generale – e a tratti di una maliziosa ironia – la raccolta è troppo sottile nelle sue analisi interiori, troppo pungente, elegante e (usiamo pure il termine, che non svilisce) troppo divertente per risolvere personaggi e bozzetti in stereotipi.

Significativa la scena della ragazza il cui zaino viene perquisito da corrucciati e superficiali poliziotti: le mani sporche, la rabbia e l’ironia che l’operazione suscita nelle battute di lei, il rapporto fallimentare tra i sessi, i pregiudizi verso il non allineato, la forzatura a tirar fuori il proprio intimo… e quella parallela con l’intimo psicologico e fisico insidiato per tutta la raccolta in rapporti sentimentali sghembi, estorsivi, voraci – come vede nel bacio, “prodromo crudele del banchetto amoroso”, la voce narrante di “I baci di Munch o la perfezione dell’amore”. Un racconto felicemente in testa alla raccolta: il Munch del Grido e del Vampiro (cioè l’Amore e dolore qui citato), nonché dello struggente Il bacio (pure ovviamente menzionato), dove le carni degli amanti sembrano fondersi in un impasto cereo più inquietante che romantico, appare una sorta di patrono della malinconia crepuscolare e iperborea di questi testi. Dove una speranza ormai archiviata e un dolore sordo trascinato lasciano nondimeno emergere come un palpito di sguardo il tremolio fragile di una bellezza: “[…] due cose insieme come sempre, e non sa come tenere entrambe, il dolore e la bellezza della sua vita”.

Ma in un contesto di solidarietà fallite la sospensione si fa spesso separazione, scelta di solitudine. La netta freddezza evocata dal nome Inverness cui punta una ragazza dalla vita repressa (“è un nome pieno di sole e di luce ghiacciata, azzurra. Un nome che contiene l’inverno”) è in fondo la freddezza di quella solitudine invernale che alla fine incontra (“Poi proseguiamo, divise, negli anni”), come qui tanti altri personaggi. Dio ci guardi dalle preghiere esaudite, diceva santa Teresa.

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Monica Pareschi: traduttrice, editor e scrittrice https://www.carmillaonline.com/2014/06/21/monica-pareschi-traduttrice-editor-scrittrice/ Fri, 20 Jun 2014 22:01:04 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15326 di Roberto Sturm

PareschiSturmMonica Pareschi è una delle più importanti traduttrici italiane e ha tradotto, tra gli altri, autori del calibro di James G. Ballard, Doris Lessing e Bernard Malamud. Lavora nel campo dell’editoria anche come editor freelance e cura una collana di classici femminili per Neri Pozza. Recentemente ha esordito nel campo della narrativa con un’antologia di racconti, edita da Italic Pequod, di qualità sorprendente dal titolo È di vetro quest’aria.

Monica, cosa ti ha spinto al debutto come scrittrice? Credo che per alcuni traduttori tradurre sia come aggirare il problema, come [...]]]> di Roberto Sturm

PareschiSturmMonica Pareschi è una delle più importanti traduttrici italiane e ha tradotto, tra gli altri, autori del calibro di James G. Ballard, Doris Lessing e Bernard Malamud. Lavora nel campo dell’editoria anche come editor freelance e cura una collana di classici femminili per Neri Pozza. Recentemente ha esordito nel campo della narrativa con un’antologia di racconti, edita da Italic Pequod, di qualità sorprendente dal titolo È di vetro quest’aria.

Monica, cosa ti ha spinto al debutto come scrittrice?
Credo che per alcuni traduttori tradurre sia come aggirare il problema, come prendere voce senza essere autorevoli. Conosco anche persone che hanno fatto il percorso inverso, per esempio Tommaso Pincio con cui parlavo pochi giorni fa. I traduttori sono i lettori per eccellenza e credo che spesso siano scrittori mancati o timidi che scrivono con parole altrui: una traduzione letteraria di alto livello s’inscrive nella cifra della scrittura, quindi scambiare le parti ritengo sia una cosa abbastanza naturale. Forse l’aver fatto del tradurre il mio mestiere ha a che fare con il desiderio di scrivere: una cosa un po’ vicaria. Di fatto ho sempre pensato di avere i tic e le idiosincrasie dello scrittore. Un modo esagerato e per certi versi perverso di vedere le cose.
Devo dire che ho cominciato a scrivere con una certa cautela, io sono anche editor, e penso e spero di avere un editor interno che funziona un po’ da super io: mi ritengo una scrittrice molto trattenuta e ciò credo derivi dal fatto che lavoro con le parole. In questi casi forse ci si accosta alla scrittura con una consapevolezza diversa. Con meno libertà, anche.

Quanto conta all’interno della tua attività di scrittrice il lavoro di traduttrice ed editor?
Non vorrei continuare a tradurre a tempo pieno, adesso avrei voglia di scrivere e dedicarmi all’editing, nonostante sia stato difficile pubblicare l’antologia. Gli editori vedono sempre con diffidenza i racconti. Sono belli, mi hanno detto in diversi, ma torna con un romanzo. A me però interessa esplorare questa misura narrativa forse anche perché non troppo pubblicata in Italia. Personalmente sono dubbiosa riguardo alle operazioni editoriali che confezionano un romanzo partendo da una raccolta di racconti. Spesso vedo che certi prodotti editoriali, nati per essere qualcos’altro, vengono trasformati in romanzi ma io non ho voglia di sperimentare questa strada.
Avrei voglia di scrivere, ti dicevo, e staccarmi dalle traduzioni perché noto che occuparmi della lingua altrui disturba la mia scrittura autoriale: oltre alla stanchezza alla fine di una giornata dedicata alla traduzione, ho bisogno di fare silenzio – anche letterario, far tacere la scrittura altrui – per scrivere. Anche perché, per forza di cose, credo, la mia scrittura è comunque molto legata alla mia attività di traduttrice: un’influenza digerita e metabolizzata che proviene dagli autori su cui ho lavorato c’è senz’altro, e io mi sono misurata principalmente con scrittori che hanno una voce molto potente avendo fatto poca gavetta in questo campo. E una voce letterariamente potente occupa molto spazio mentale, creativo, psicologico. Occorre metabolizzarla e, in qualche modo, liberarsene, prima di scrivere qualcosa di originale.

Hai un punto di vista privilegiato per illustrarci lo stato attuale dell’editoria italiana. Crisi persistente, ristagno o parvenza di ripresa?
Sono molto pessimista, mi dispiace. Negli ultimi due anni ho vissuto le cose un po’ più dall’interno rispetto a quando facevo soltanto la traduttrice e vedo un’editoria molto incerta e disordinata nelle proprie scelte, non riesco a individuare delle linee editoriali precise oltre alla corsa al si salvi chi può. Vedo come le cose non funzionano, le case editrici riducono il personale e sono sempre più frettolose, più oberate e quindi più disattente: questo fa male ai libri e a chi ci lavora. Anche il versante economico è sempre più difficile. Dirò una banalità, ma si pubblica tantissimo e gli editori con cui lavoro mi dicono che se non pubblicassero così tanto non potrebbero sopravvivere. Sono felice di occuparmi di una collana di classici perché mi sembra che sia il momento di rallentare e oltre che leggere occorrerebbe rileggere per tornare ai tempi naturali della fruizione del libro. Questa riproposizione dei classici spero che abbia, oltre a una motivazione economica, dato che sui classici non si pagano i diritti che scadono dopo settanta anni dalla morte dell’autore, l’idea del testo che rimane sullo scaffale della libreria per più di due mesi, al contrario della vita dei libri che escono oggi.

A proposito della collana di Neri Pozza?
I primi tre titoli della collana, quelli già usciti, sono stati scelti in modo molto idiosincratico e, diciamo, affettivo. Jane Eyre è un libro che ho letto in diverse età della vita, e ogni volta mi ha parlato in modo diverso. La piccola Fadette di George Sand l’avevo letta da bambina, e me lo ricordavo in modo nitido, in un qualche modo quella fiaba un po’ edificante mi aveva turbata – e infatti di motivi perturbanti ne contiene a iosa. La casa della gioia, di Edith Wharton, meno famoso dell’Età dell’innocenza, è un romanzo per certi versi più moderno, e aveva indubbiamente bisogno di una nuova traduzione che mettesse in luce questa grande attualità. Per quanto riguarda il futuro, insisterò con le Brontë, tutte e tre, e ci sarà una nuova Princesse de Cléves di Madame de La Fayette – un libro lontanissimo dalla mia sensibilità un po’ tempestosa (nel senso delle Cime!) – ma che mi affascina per l’esattezza geometrica con cui tratta i sentimenti, in particolare quello amoroso. E se me lo lasceranno fare, cercherò di espandermi geograficamente a nord, e temporalmente avanti, nel Novecento, e indietro, nel Medioevo.

Parliamo di editing: mi capita spesso di leggere romanzi – di esordienti ma anche di autori più affermati – che hanno delle ottime potenzialità che, se rese esplicite, avrebbero dato una qualità maggiore al testo. Nelle altre lingue come va?
Occupandomi di traduzioni, quando lavoro su autori contemporanei un editing, bene o male, è già stato fatto. Anche fuori dall’Italia credo che ci sia questa malattia della fretta perché mi capita di trovare veri e propri errori o magari delle piccole cose che se non danneggiano la qualità letteraria del testo danno fastidio.
Ho anche storie divertenti in merito, di cui una riguarda Ballard: ho tradotto Super Cannes e nell’originale a un certo punto c’è un rapporto sessuale tra i due protagonisti, Paul Sinclair e la giovane moglie Jane, e lei va in bagno a mettersi la spirale. Ho fatto un salto nella sedia perché la spirale in genere si mette dal ginecologo e non è una cosa piacevole. Ballard aveva già una certa età e sicuramente l’editor era un uomo e non ha pensato al diaframma, ha scritto proprio coil… Chiaramente i lettori italiani non hanno trovato alcuna spirale nel testo.
È anche vero che a volte si vedono vere e proprie lacune sull’impianto del testo: ho tradotto La casa rossa di Mark Haddon, dopo il successo de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, ed è stato molto faticoso perché il romanzo non comincia mai, ci vogliono cento pagine… Qui c’è stata una mancanza sulla struttura e questo libro, che pure secondo me aveva grandi potenzialità, non è andato per niente bene, infatti.

Le ambientazioni dei racconti di È di vetro quest’aria mi hanno colpito molto: rarefatte ed evanescenti, immobili come i protagonisti che sembrano in eterna attesa. Il tuo stile è molto essenziale e rigoroso. Giochi con le parole in maniera precisa, cercando di usarne il meno possibile. Non ci sono quasi mai riferimenti spazio–temporali che definiscano con precisione un luogo o un’epoca. Queste caratteristiche danno un taglio particolare ai racconti e secondo me rendono i testi più universali e, credo, più fruibili nel tempo, nel senso che manterranno più a lungo una loro attualità.
Cominciamo da quando dici che le vicende non sono situate in una situazione spazio–temporale precisa. È vero, non so quanto l’abbia fatto consciamente o quanto per un’idiosincrasia mia rispetto a certe narrative italiane… spesso sono infastidita dal regionalismo, dall’eccessiva attenzione di alcuni autori a una realtà molto locale, molto provinciale. Certo, m’interessa leggere ciò che accade in provincia però mi piacerebbe leggerlo come leggo Balzac, che sia applicabile alla provincia del mondo. Certe narrative italiane sono molto calate nel “territorio”… c’è tutta una linea di scrittura di giovani autori romani, per esempio, che ambientano le loro vicende nelle borgate, in una Roma di un certo tipo e io non riesco più a distinguere questi autori l’uno dall’altro. Trovo piccole marche di regionalizzazione che non mi piacciono. Per questo ho cercato altro, ma forse c’entra anche la mia storia personale di apolide, di sradicata.
Per quanto riguarda la lingua, è un po’ il discorso che facevo prima: auspicabilmente ho un editor interno, una specie di super io letterario molto cattivo che non mi permette di scrivere quanto vorrei. Il mio agente- editor, infatti, non è intervenuto sulla lingua: abbiamo discusso sulla successione dei racconti ma mi ha sempre detto che la lingua funziona, forse anche per il duro e umile lavoro quotidiano del tradurre, sicuramente una gran palestra per ogni scrittore.

Dopo aver letto Il progetto, il racconto dell’antologia che mi è piaciuto di più, sono andato a prendere nella mia libreria Super Cannes di Ballard, convinto che lo avessi tradotto tu e trovando conferma. Questo tuo racconto è molto ballardiano, sia come ambientazione (un’enclave supertecnologica) che come trama, ma sei riuscita a rielaborare il grande scrittore britannico rispetto alle tue esigenze letterarie con assoluta autonomia, con un taglio davvero particolare.
Spero sia così. Questo è stato il racconto più difficile e tormentato essendo il più lungo e il più complesso. Un’ambientazione simile è anche nel racconto Corpo a corpo, in entrambi è in atto una guerra, al proprio corpo in Corpo a corpo e al corpo altrui (o in difesa del proprio) nel Progetto. Spero di essere davvero riuscita a fare qualcosa di originale anche perché conosco questa ambientazione: ho vissuto in un luogo del genere per due anni, poi è chiaro che sia il vissuto sia l’esperienza letteraria siano confluite nel testo. Personalmente ho trovato queste zone terribili, ho sofferto molto e mi sono sentita totalmente estraniata. Questa la genesi autobiografica e letteraria del testo. Però non si è trattato di un fatto programmatico, non ho mai pensato di scrivere “come Ballard”. Però a posteriori ho visto anche io che Ballard c’era, in questi racconti.

Ci sono diversi fili conduttori tra i tuoi racconti. In quelli che mi hanno colpito di più uno è l’amore, direi diversi tipi di amore (copri quasi tutto l’arco di una vita nella raccolta), e il senso di estraniamento dal mondo circostante dei personaggi. L’amore non è mai visto come strumento di redenzione e i protagonisti non vivono vite felici.
Sì, ho messo anche dei versi in testa a un racconto, Come in autunno sul boulevard, di Mariangela Gualtieri, una poetessa che amo molto. Sono personaggi che cercano amore, soprattutto passione, come la protagonista del primo racconto, ma spesso non sanno a chi darlo. Ho pensato molto alla successione dei testi, con la mia agente volevamo fare una cosa organica. Lei era molto preoccupata dalla parola “racconti” e l’ha voluta definire opera. Si parte da un grado zero, dalla protagonista del primo racconto che è completamente separata dalla propria emotività. Ha paura, come molti, della passione ma allo stesso tempo la ricerca e non sa come procurarsela. In questo tema entra anche Come in autunno sul boulevard, in cui la protagonista ha voglia di farsi una storia d’amore. Un desiderio che sento molto nella vita reale, persone che vorrebbero innamorarsi e che non ci riescono e a volte “si fanno un film mentale”, come la protagonista del racconto. Per i miei personaggi spesso l’amore è una velleità e questo credo faccia parte del nostro tempo.

Per chiudere, cosa legge Monica Pareschi nel tempo libero?
Allora, questa traduttrice nel tempo libero legge tanta poesia, perché appunto il tempo libero è poco e la poesia è scrittura altamente concentrata e distillata, quindi dal punto di vista dell’economia del tempo conviene. Benn e Celan tra i tedeschi (con testo a fronte perché il tedesco lo sapevo ma me lo sono un po’ dimenticato, e poi entrambi hanno traduttori bravissimi). Tra gli anglosassoni, che fanno come sempre la parte del leone: Eliot, soprattutto i Quartetti, Dylan Thomas, Plath, Sexton, Bishop, Christina Rossetti, Emily Dickinson. Tra gli italiani contemporanei soprattutto Mariangela Gualtieri e un poeta dialettale secondo me grandissimo, Paolo Bertolani. Poi Sereni e Pagliarani. Cristina Campo, sempre. Ho letto molto Flannery O’Connor e Carver, scrittori che sento affini per il senso di misteriosa religiosità che li pervade. Alice Munro, per gli stessi motivi. Uno scrittore che mi ha colpita tantissimo, anche se frequento di rado quelle latitudini, è Lindgren Torgny, svedese, che ha scritto un romanzo incredibilmente bello, Miele, edito da Giano anni fa. Ultimamente ho letto un bel libro di Alessandra Sarchi, L’amore normale, edito da Einaudi.

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