mondiali – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il conflitto nello spazio dello sport. Storie di sport e politica 1968-1978 https://www.carmillaonline.com/2018/05/27/45696/ Sun, 27 May 2018 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45696 di Alberto Molinari – Gioacchino Toni

Alberto Molinari – Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 284, € 20,00

[Si riporta un estratto dall’Introduzione al volume ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«What do they know of cricket who only cricket know?» Cyril Lionel Robert James

«Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio» José Mourinho

Con l’indiscutibile capacità di intervenire con una frase ad effetto, un vero e proprio coup de théâtre, nel ridondante sottofondo che accompagna le partite di calcio, l’allenatore José Mourinho riesce [...]]]> di Alberto Molinari – Gioacchino Toni

Alberto Molinari – Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 284, € 20,00

[Si riporta un estratto dall’Introduzione al volume ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«What do they know of cricket who only cricket know?»
Cyril Lionel Robert James

«Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio»
José Mourinho

Con l’indiscutibile capacità di intervenire con una frase ad effetto, un vero e proprio coup de théâtre, nel ridondante sottofondo che accompagna le partite di calcio, l’allenatore José Mourinho riesce spesso a conquistare il centro della scena sportiva. «Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio» è una di quelle battute in grado di catturare l’attenzione e di distinguersi nel discorso pubblico sportivo. La frase dell’allenatore portoghese sembra richiamare l’affermazione «What do they know of cricket who only cricket know?» contenuta in Beyond a Boundary di Cyril Lionel Robert James – una pietra miliare degli studi post-coloniali, pubblicata nel 1963 – che, a sua volta, fa il verso a un passo contenuto in English Flag (1891) di Rudyard Kipling: «What should they know of England who only England know?». Grande appassionato di cricket, in Beyond a Boundary James esplora la psicologia e l’estetica del gioco, la sua funzione nelle politiche imperialistiche inglesi e nelle dinamiche di decolonizzazione, le questioni di classe, sociali e razziali che attraversano la dimensione sportiva, mostrando come sia impossibile tenere separato lo sport da ciò che lo circonda. Il binomio sport e politica, insomma, come chiave di lettura della realtà sportiva in una prospettiva capace di coniugare passione per il piacere e la bellezza dello sport e sguardo critico attento alle sue implicazioni storico-sociali. […]

In tutto il mondo il ’68 apre una stagione di conflitti animata da una molteplicità di attori che esprimono una richiesta di partecipazione e di allargamento degli spazi di democrazia, rivendicano diritti, rifiutano i sistemi autoritari, criticano le strutture politiche e sociali dominanti, si ispirano a ideali di emancipazione e di liberazione umana. La conflittualità si riverbera anche nell’universo dello sport, facendo emergere le contraddizioni inscritte in uno dei più importanti fenomeni di massa e mettendo in discussione la sua presunta neutralità e separatezza. Nella dimensione mondiale dello sport nascono movimenti di protesta che irrompono nelle competizioni, investono gli organismi istituzionali e gli equilibri politico-sportivi internazionali. Scontrandosi con culture e assetti consolidati, queste dinamiche generano fratture e resistenze, trasformazioni e chiusure conservatrici.

Considerati tradizionalmente luoghi chiusi, neutri e pacificati […] gli spazi dello sport vengono riconfigurati, simbolicamente o materialmente, come spazi aperti, fluidi e contesi. Alimentata da un’esposizione mediatica sempre più ampia e pervasiva, la risignificazione degli spazi sportivi e della loro valenza simbolica avviene attraverso gesti e azioni eclatanti di immediata risonanza planetaria […], nelle mobilitazioni del “maggio” francese dello sport, nella “primavera di Praga” degli sportivi cecoslovacchi, nei boicottaggi delle competizioni che prevedono la presenza di paesi razzisti come il Sudafrica.

D’altra parte, l’utilizzo dello spazio sportivo globale per dare visibilità a rivendicazioni politiche e sociali contribuisce ad acuire la crisi di legittimazione delle istituzioni sportive internazionali, a partire da quelle olimpiche, investite da critiche radicali e incapaci di riformarsi. A fronte delle grandi manifestazioni sportive sempre più spettacolarizzate affette da “gigantismo” e condizionate dalle logiche di mercato, perde di credibilità la retorica dello sport come disciplina “pura” e “disinteressata”, “zona franca” al riparo dalla realtà “esterna”. […]

Dalla temperie del ’68 scaturisce una serie di riflessioni critiche sullo sport, contenute in tre ricerche commentate e presentate in forma antologica nella seconda sezione del volume. A ridosso del “maggio” francese la rivista «Partisans», vicina all’estrema gauche, raccoglie una serie di interventi di giovani impegnati nella ricerca teorica e nella militanza politica (Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm), pubblicati in Italia nel volume Sport e repressione. Attingendo a diverse fonti teoriche, dal marxismo alla psicoanalisi, e richiamandosi alle istanze emerse dal movimento studentesco i saggi propongono uno studio critico sullo sport e sulla cultura del corpo nella società capitalistica e denunciano come sotto il pressante invito a “fare sport” da parte della “cultura borghese” si celi un intento educativo di stampo repressivo.

Nel 1970 esce in Italia Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista del sociologo tedesco Gerhard Vinnai. L’autore, che si ispira alla Scuola di Francoforte […], intende svelare il carattere mistificante dell’ideologia […] che pervade anche il mondo dello sport e in particolare il calcio, denuncia la sua mercificazione e individua i nessi che lo legano ai processi di socializzazione e alle dinamiche psicologiche dell’aggressività e del narcisismo. Il terzo saggio, pubblicato in Italia alla vigilia delle Olimpiadi di Monaco, è Olimpiadi dello spreco e dell’inganno di Ulrike Prokop. Il filo conduttore […] è lo svelamento della retorica olimpica, a partire dall’ideologia pedagogico-sportiva del fondatore dei Giochi olimpici moderni, Pierre de Frédy, barone di Coubertin. […]

Letti a distanza di anni, questi saggi appaiono per diversi aspetti viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine unilaterale e riduttiva del fenomeno sportivo. Da un punto di vista storico, rappresentano però i primi tentativi di suggerire piste di ricerca e interpretazioni non convenzionali dello sport, capaci di influenzare e arricchire anche il dibattito italiano su una molteplicità di temi: i nessi tra sport e logiche di mercato, la mercificazione e la spettacolarizzazione dell’attività sportiva, la cultura del corpo veicolata dalla ricerca ossessiva della performance, la strumentalizzazione delle manifestazioni sportive in chiave di propaganda politica.

La terza sezione del volume si concentra sul caso italiano. Nella prima parte viene analizzata l’evoluzione dell’associazionismo sportivo […] e la nascita di nuove esperienze di base che raccolgono le istanze di partecipazione e di cambiamento del mondo giovanile. Anche sulla scia del ’68 e delle teorie critiche di taglio sociologico, l’associazionismo italiano avvia un percorso di profondo rinnovamento teorico e pratico, elabora concezioni dello sport alternative rispetto a quella dominante, promuove forme di socializzazione e pratiche sportive inclusive, si batte per il diritto allo sport inteso come dimensione che, al di là dello svago e della ricerca della prestazione, deve fornire strumenti di emancipazione e di crescita sul piano individuale e sociale. A questi temi si mostra sensibile anche la “nuova sinistra” che, sia pure in modo discontinuo, apre le pagine dei suoi quotidiani a riflessioni sui risvolti politici e sociali dello sport.

Il percorso prosegue con il capitolo “Sport e contestazione”. […] Tra il 1968 e i primi anni Settanta manifestazioni, occupazioni di spazi dello sport, contestazioni di competizioni punteggiano l’universo sportivo italiano in diverse città. Negli anni successivi le mobilitazioni si intensificano e si connotano soprattutto nel segno dell’antifascismo e dell’antirazzismo. […] Nel 1974 gli organismi sportivi democratici e i movimenti “terzomondisti”, appoggiati dalla stampa di sinistra, chiedono, senza successo, di boicottare la semifinale di Coppa Davis Sudafrica-Italia. Poco dopo un ampio fronte di opposizione riesce a bloccare la trasferta italiana degli Springboks, la nazionale sudafricana di rugby composta da soli bianchi, simbolo dell’apartheid nello sport. L’anno successivo le polemiche investono la partita di calcio Lazio-Barcellona, prevista all’indomani dell’ultimo efferato episodio di repressione delle opposizioni messo in atto dal regime di Francisco Franco. Il 1976 è l’anno della contestazione di una nuova trasferta della nazionale di tennis, questa volta per la finale di Davis nel Cile di Pinochet. […] Con le campagne contro i mondiali di calcio organizzati nel giugno 1978 in Argentina dal regime di Videla si esaurisce l’“onda lunga” del Sessantotto nello sport. […]

L’ultima parte del volume è dedicata al dibattito sulla violenza nel mondo del calcio, sul tifo e sul fenomeno degli “ultras”. Tra gli anni Sessanta e Settanta si assiste ad un’impennata dei comportamenti violenti che tendono a trasferirsi dall’interno all’esterno degli stadi. Sulle pagine della stampa italiana emerge una forte preoccupazione per la crescita di fenomeni analoghi alle forme di “teppismo” sportivo diffuse in altri paesi […]. Nel giugno del 1970 il dibattito sul tifo si sposta su un terreno molto diverso. Nei mondiali di calcio in Messico l’Italia batte in semifinale la Germania Ovest con un rocambolesco 4 a 3. Quando termina l’incontro, in tutto il paese una folla esultante si riversa per le strade. Questa inedita esplosione di nazionalismo sportivo colpisce gli opinionisti della stampa che si cimentano in diverse interpretazioni del fenomeno. Poco dopo l’attenzione si sposta sulla nuova fisionomia assunta dallo scenario degli stadi: sugli spalti compaiono coreografie e strumenti del tifo fino ad allora sconosciuti […] e diventano sempre più frequenti gli scontri tra opposte fazioni di tifosi, durante e dopo le partite. […]

Il libro ricostruisce le vicende e i temi sin qui sommariamente richiamati attraverso il prisma della stampa, con l’intento di fare emergere tanto le dinamiche politiche e sociali che caratterizzarono l’universo sportivo quanto le rappresentazioni che ne furono date e le riflessioni e i dibattiti che suscitarono nel contesto italiano. Eventi e processi di quella stagione vengono quindi contestualizzati storicamente e commentati in un percorso antologico basato su fonti a stampa di diverso tipo (grandi quotidiani di opinione e sportivi, riviste, organi dei partiti di sinistra e della “nuova sinistra”, periodici dell’associazionismo sportivo). […]

Nella temperie di quella stagione emergono diversi temi ancora attuali che offrono spunti di riflessione sulle trasformazioni e le involuzioni dello sport, attraversato dalle contraddizioni di un mondo sempre più globalizzato. Tra finanziarizzazione delle grandi società e grave sofferenza delle piccole, sport-spettacolo ed esperienze alternative di base, fenomeni di razzismo e pratiche inclusive, l’universo dello sport continua a misurarsi con problemi e scelte di fondo che rimandano alla dimensione politica.

 

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Maracanaço 3/5 – Cristiano Ronaldo a Manaus – Mundial 2014 https://www.carmillaonline.com/2014/06/22/maracanaco-35-cristiano-ronaldo-manaus-mundial-2014/ Sat, 21 Jun 2014 22:00:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15705 di Simone Scaffidi Lallaro

1.ManausStati Uniti-Portogallo, 22 giugno 2014  

Non si torna indietro di un secolo in soli dodici giorni. Quattro partite di calcio, seppur di un Mondiale, non bastano a far rivivere a Manaus il clima del 1912. Gli inglesi sulle carrozze, le nobildonne francesi vestite da catrine messicane, i grandi baroni tedeschi della gomma e i tenori italiani più importanti del tempo da lì a pochi anni si trasformarono in ricordi. Alle spalle si lasciavano le tracce del loro passaggio: la rete tramviaria elettrificata, i bordelli di lusso, i maestosi palazzi privati e una costosissimo teatro dell’opera [...]]]> di Simone Scaffidi Lallaro

1.ManausStati Uniti-Portogallo, 22 giugno 2014  

Non si torna indietro di un secolo in soli dodici giorni. Quattro partite di calcio, seppur di un Mondiale, non bastano a far rivivere a Manaus il clima del 1912. Gli inglesi sulle carrozze, le nobildonne francesi vestite da catrine messicane, i grandi baroni tedeschi della gomma e i tenori italiani più importanti del tempo da lì a pochi anni si trasformarono in ricordi. Alle spalle si lasciavano le tracce del loro passaggio: la rete tramviaria elettrificata, i bordelli di lusso, i maestosi palazzi privati e una costosissimo teatro dell’opera a dominare la piazza centrale di Manaus. La città, nel cuore della foresta amazzonica, all’epoca contava poco più di 20.000 abitanti ed era come oggi raggiungibile soltanto dal cielo o dopo giorni di navigazione sul Rio delle Amazzoni.

Eppure l’Europa aveva occhi e capitali solo per lei: la donna che alimentava la finanza londinese e allattava con il suo liquido bianco e colloso i conquistadores della gomma. La nutrice che si prendeva cura dei bambini per essere violentata giorno dopo giorno dal padrone. Fino a quando un signore di origini irlandesi non dichiarò al mondo che in Malesia le piantagioni di hevea – la pianta da cui si estrae il caucciù – erano più produttive e convenienti di quelle amazzoniche. E allora il padrone rinnegò la nutrice, la abbandonò e si preoccupò di violentare un ventre fertile all’altro capo del mondo. Ma prima strappò alla nutrice il prezioso seme della gomma e lo impiantò in Asia. Fu allora che il sipario calò, l’Europa si dimenticò di Manaus, Manaus ringraziò e il ciclo della gomma ebbe fine.

Cristiano è seduto accanto a Coentrão sull’aereo che da Salvador porta la nazionale portoghese a Manaus. Come un bimbo si è battuto per avere il posto vicino al finestrino: non vuole perdersi il verde della foresta amazzonica dal cielo. Anche Coentrão è curioso di cosa ci sia là sotto, i due si spingono ridendo, la coscia destra del difensore portoghese sfiora il ginocchio sinistro del Pallone d’oro, Cristiano lo ritrae rapido e si fa serio in un istante. Nonostante il riposo, le infiltrazioni e l’allenamento differenziato una fitta all’altezza della rotula lo sorprende, erano settimane che quella manciata di spilli che trafigge la carne dall’interno verso l’esterno non si ripresentava.

2.ManausIl dolore svanisce immediatamente, come da copione, ma Cristiano è già lontano con la mente. Coentrão non si accorge della smorfia e ne approfitta per lanciarsi sul finestrino e guadagnarsi la foresta. Riposare, chiudere gli occhi, illudersi che rilassando la mente anche il tendine si allenterà. Riaprirli sopra Manaus e non credere che dalla selva possa spuntare una città di due milioni di abitanti. Un particolare ti colpisce, più dell’immenso stadio in cui giocherai: è una cupola verde-oro come la bandiera del Brasile, una cupola che sovrasta un edificio rosa nella piazza centrale della città.

L’elefante, rosa come i delfini che abitano il Rio delle Amazzoni, è il Teatro Amazonas, una grande opera costruita e arredata con le materie prime più pregiate della terra: marmi di Carrara per le scale, vetri di Murano per i lampadari, mobili francesi per gli interni, acciaio inglese per la struttura e tegole importate dall’Alsazia. Su quelle tegole il tuo sguardo si ferma. Il teatro, inaugurato dalla voce di Enrico Caruso su La Gioconda di Ponchielli, ha funzionato dal 1897 al 1924 per poi cadere in abbandono e ritornare a vivere dopo settantaquattro anni di inattività. Il dito indice di Coentrão davanti al tuo naso ti costringe a distogliere lo sguardo dalle tegole colorate. Ora squadrate insieme il tuo di teatro, il palcoscenico dove puoi recitare solo la parte di attore protagonista, altrimenti il pubblico ti fischierà.

Un nuovo e imponente teatro inaugurato all’alba del 2014 e costruito con materiali e tecnologie di ultima generazione, un’arena calcistica da 40.000 spettatori e 219 milioni di euro. Una balena bianchissima arenata su uno scoglio grigiastro al centro di un mare di alberi verdissimi. Una bianchezza che mantiene sempre fresche le sue rovine e che non ammette il verde della decadenza completa. È proprio lì sotto che dovrai vendicare l’ologramma di te stesso – insieme oberato e svuotato di colori come un pallone mai sporcato –  apparso a Salvador.

La fitta al ginocchio sinistro non si presentava da almeno due settimane, contro la Germania solo i fischi riservati al fantasma di Cristiano Ronaldo avrebbero potuto impensierire i tendini rotulei del Cristiano Ronaldo in carne ed ossa. Ora la fascia elastica cosparsa di crema aderisce perfettamente al ginocchio, il medico la applica con cura e la fissa con un nastro adesivo bianco alla coscia e allo stinco del depilatissimo testimonial di Armani. Ogni tre ore dovrà sostituirla con una nuova. Medico e giocatore escono insieme dall’albergo e salgono sul pullman, battute ironiche accolgono il talento di Madeira, lui non se la prende e risponde con un ghigno e un occhiolino. L’autista si perde nel quartiere dei bordelli per poi ritrovare la via del porto. Qui, un battello di medie dimensioni attende la seleção portoghese: a prua è stampato il logo giallo e blu del Banco do Brasil mentre a poppa è dipinta in lettere cubitali la scritta: “Tudo è força, mas sò Deus è poder”.

3.ManausÈ prevista una gita in barca di qualche ora, giusto il tempo per vedere i curiosi benzinai galleggianti e arrivare alla confluenza tra Rio Negro, Rio Solimoes e Rio delle Amazzoni, dove le acque dei primi due fiumi si incontrano senza confondersi e si assiste allo scorrere parallelo di un flusso di colore marrone e uno di colore blu scuro. Ventitré cappellini verdi e rossi si sporgono ad ammirare lo strano fenomeno. Pochi minuti dopo Cristiano allunga la gamba sinistra su una sedia vicina alla battagliola, il medico srotola la benda e la appoggia sul tavolino, poi con un gesto rapido afferra il tubetto di crema e la applica al ginocchio, una folata di vento lo sorprende facendo cadere il nastro adesivo bianco mentre la benda sul tavolino vola via, il medico la rincorre senza risultati, Meireles prova a fermare la sua corsa con una gamba, entrambi si sporgono e la vedono capitombolare in acqua. Il medico torna al suo posto e conclude la medicazione senza ulteriori contrattempi.

Mancano pochi giorni alla sfida con gli Stati Uniti e la stampa nordamericana parla solo di lui e del suo nome. Ronaldo si chiama così in onore di Ronald Reagan, attore preferito dal padre e presidente degli Stati Uniti d’America dal 1981 al 1989. L’anno in cui Cristiano nacque il suo omonimo era impegnato a trafficare armi con l’Iran per finanziare le azioni dei Contras contro il governo sandinista in Nicaragua, ma questo i giornali si guardan bene dal ricordarlo e sviolinano chilometri di agiografie e parallelismi tra i due. Ronaldo sa poco di Reagan, si ripromette di leggere la sua autobiografia dal titolo Where’s the rest of me? Ha ancora la gamba sollevata e appoggiata sulla sedia quando estrae il tablet dal marsupio e la compra seduta stante su Amazon. Neppure per un istante pensa che il nome della multinazionale di Seattle gli sta scorrendo sotto il culo.

La benda impregnata di crema non affonda e continua la sua corsa verso est lasciandosi alle spalle i benzinai galleggianti e il cemento armato di Manaus. Un delfino rosa le taglia la strada proprio mentre viene trascinata in un’ansa del fiume chiamata Paranà do Jacaré. Qui, come il nome suggerisce, si spiaggia su una piccola duna di sabbia accanto a una ventina di esemplari di caimano nero, resta immobile e si secca al sole come una squama di coccodrillo. La poca crema che ha addosso riaffiora solidificata tra le maglie elastiche. Ora la benda da bianca assume un colorito giallastro grazie a un mix di sole, sabbia e crema. Dopo qualche ora, l’improvviso movimento della coda di uno dei rettili la rimette in cammino, dapprima scivola lentamente in acqua per poi essere trascinata violentemente dalla corrente sotto un fitto acquazzone equatoriale.

4. manausLa pagaia di una canoa manovrata da due bambine a torso nudo la sfiora, il movimento oscillante dell’acqua la culla sulla superficie, sembra la giusta quiete dopo la tempesta; e invece no, una batteria di pagaiate la colpisce con violenza, la benda affonda e riaffiora in una danza spasmodica tra aria e acqua. Un fischio grave accompagna la danza, è la sirena di una nave, una grossa imbarcazione si staglia a poche decine di metri dalla benda, è piena zeppa di amache e pullulante di donne, uomini e bambini. È così che la gente arriva a Manaus e attraversa la foresta amazzonica, questo è il mezzo pubblico, basta procurarsi un’amaca magari comprata a Belem nella Casa das Redes e in cinque giorni di navigazione dalla foce delle Rio delle Amazzoni si giunge fino a Manaus. L’aereo è roba da gringos. Qui dormi all’aperto e ti snoccioli albe e tramonti per cinque giorni consecutivi.

Le canoe corrono incontro alla nave e dall’alto piovono sacchi di plastica, due gringos – gli unici di tutta la nave – scattano foto e chiedono il perché di quel gesto, cosa contengono quei sacchi. Le bambine e i bambini più fortunati li issano come reti sulle canoe, i meno fortunati inseguono la scia della nave con foga guardandola sparire tra la selva. Sono regali per i poveri, questi bambini non possiedono nulla. Noi abbiamo di più, noi doniamo, un piccolo gesto per colonizzare il loro immaginario, per regalare loro un desiderio che mai avrebbero, per urlare al mondo che tifiamo pacifismo. E intanto il grande battello ricolmo di amache passa senza fermarsi, senza scambiare una parola ma lanciando un dono e uno sguardo commiserevole. Un po’ come firmare un autografo senza guardarti neppure in faccia: un dono sterile, sarebbe meglio chiacchierare un po’ ma qui non ci sono porti a cui attraccare e i calciatori non si confondono con la gente.

Cristiano è concentrato, deve vendicare il fantasma di una settimana fa, bianchissimo come la bocca della balena che ora lo divora. Ci si perde in quest’arena. Si sono persi Raimundo Nonato Lima Costa (49 anni), Marcleudo de Melo Ferreira (22 anni), José Antonio Nascimento Sousa (50 anni) e Antonio José Pita Martins (55 anni) in questa arena, quando la copertura eco-sostenibile li ha travolti. Lo spogliatoio, il lettino, il rito della benda. Cristiano ha dimenticato quei nomi, c’è stato un tempo in cui ha saputo ma ora ha rimosso, le urla dei manifestanti provano a farglielo ricordare ma lui è troppo concentrato a scrivere la storia del calcio. Fra pochi minuti si affronteranno Portogallo e Stati Uniti, penultimo appuntamento del ciclo del calcio di Manaus che prevede quattro match mondiali. Cosa accadrà dopo è un’incognita già vissuta:gli scettici prevedono settantaquattro anni di inattività, gli ottimisti grandi concerti internazionali che attireranno folle oceaniche e i nostalgici dell’Estadio Nacional del Chile hanno già immaginato per l’arena un futuro da penitenziario.

Puntate precedenti a questo link.

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Maracanaço 2/5 – Maria Catala a Brasilia – Mundial 2014 https://www.carmillaonline.com/2014/06/19/maracanaco-25-maria-catala-a-brasilia-mundial-2014/ Wed, 18 Jun 2014 22:01:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15366 di Simone Scaffidi Lallaro

1.BrasiliaColombia-Costa d’Avorio, 19 giugno 2014

Siamo molte e molti qui a Rio de Janeiro. Tutti architetti e architette: Mikel e Iñigo dal País Vasco, Rebeca e Pablo dalla Galizia, Andrés e Jimena da Madrid, Victor da Maiorca e una manciata di Marie provenienti da tutta la penisola iberica. Io sono una di quelle e per distinguermi dalle altre – Maria “Manaus”, Maria “Caipirinha”, Maria “Niemeyer” – mi chiamano Maria “Catalã”.

Sono arrivata a Rio due anni fa, dopo un mese avevo già un lavoro, [...]]]> di Simone Scaffidi Lallaro

1.BrasiliaColombia-Costa d’Avorio, 19 giugno 2014

Siamo molte e molti qui a Rio de Janeiro. Tutti architetti e architette: Mikel e Iñigo dal País Vasco, Rebeca e Pablo dalla Galizia, Andrés e Jimena da Madrid, Victor da Maiorca e una manciata di Marie provenienti da tutta la penisola iberica. Io sono una di quelle e per distinguermi dalle altre – Maria “Manaus”, Maria “Caipirinha”, Maria “Niemeyer” – mi chiamano Maria “Catalã”.

Sono arrivata a Rio due anni fa, dopo un mese avevo già un lavoro, dopo tre ho rinnovato il visto di turismo e dopo sei sono dovuta rientrare in Spagna se non volevo diventare clandestina, certo una clandestina di serie A perché europea ma sempre clandestina. Tornata a Barcellona mi sono iscritta online a un’università privata di Rio de Janeiro e sono riuscita a ottenere dal consolato brasiliano di Madrid un visto da studente della durata di un anno. Ho pagato la retta dei primi tre mesi, saltata su un volo e ritornata nella stessa casa diroccata nel quartiere di Santa Teresa, nello stesso studio d’architettura su Rua Joaquim Moutinho.

Le prime lezioni dell’Università privata le ho anche frequentate ma di prendermi in giro mi sono stufata presto. Un conto è raccontarle al consolato di Madrid e alla Polícia Federal brasiliana, un conto è raccontarle a me stessa. I miei dodici mesi “in regola” li ho conquistati e questo mi basta. Per noi emigranti spagnoli si è fatta più dura ottenere un timbro sul passaporto da quando il governo di Madrid ha deciso di rispedire al mittente un aereo brasiliano pronto all’atterraggio in suolo iberico. La sequela di incidenti diplomatici ce la siamo presa nel culo tutta noi mica quegli stronzi di diplomatici, spagnoli o brasiliani poco cambia. Questa storia dell’iscrizione fittizia all’università per me è una novità ma c’è gente che da anni va avanti così. Ci ringraziano ogni giorno del nostro lavoro in nero altamente qualificato ma nessuno chefe si decide mai a compilare le carte per una puta mierda de visa de trabajo.

Mia nonna quando ha saputo che me ne andavo in Brasile a cercar lavoro m’ha subito domandato se questo Brasile non era vicino all’Argentina. E io le ho detto che sì, che ci confina pure ma è molto più grande e là parlano il portoghese. «E lo so ben, menina, che là parlan la lingua della tua vecchia, anzi, dicon che là, non parlan proprio, contan che la gentecanta!» È nata a Penavaqueira la mia vecchia, un paesino di campagna vicino a Ourense in Galizia, e lo spagnolo le è sempre andato per traverso almeno quanto Franco, Salazar e tutte le loro croci inghiottite insieme. L’Argentina invece era un ricordo dolce dei racconti di quand’era piccina, ché la sua mamma era nata lì e la sua nonna emigrata oltreoceano per un pezzo di terra promessa e mai mantenuta. «Ora sei tu che parti e sfidi l’oceano. Io me ne resto qui a resister, attaccata a questo scoglio, come la terra mia resiste al tuonar dei cavalloni. Boa viaxe, querida!»

Come la vecchia della mia vecchia partivo senza piani da architettare ma per un pezzo di terra da edificare. Invece che al porto di Lisbona in terza classe, il baule lo riempivo del mestiere che in Spagna m’avevan perculato a suon di speculazioni e lo imbarcavo al gate di Barcellona. Il volo più economico mi costringeva a scali bizzarri: Francoforte-Salvador-San Paolo e finalmente Rio; ma avevo poco da lamentarmi: la vecchia della mia vecchia c’impiegò quasi un mese per vedere le fauci de la Plata.

2.BrasiliaVentidue ore dopo il contatto tra il carrello di atterraggio e la pista dell’aeroporto Galeao di Rio mi svegliava di soprassalto. Sono trascorse solo tre settimane ma la strada in taxi dall’aeroporto al centro è mutata d’improvviso. Alte barriere si innalzano ai lati della carreggiata di destra, paraocchi per un cavallo d’acciaio e cemento con in groppa centinaia di taxi e van. I pannelli che impediscono la vista dei morros sono colorati da bombolette anestetizzate, murales istituzionali che aggiungono violenza alla violenza. Se si gira lo sguardo verso sinistra s’intravede invece l’ampiezza della Baia di Guanabara con Niteroi sullo sfondo. Perché queste barriere? «le hanno tirate su per il Mundial» mi risponde il tassista. Dopo qualche minuto sorride, bestemmia Pelè, e continua: «le autorità possono al massimo nascondere una città in una favela, ma non una favela in una città. Rio è uma favela com a cidade no meio non il contrario. Rio non la puoi nascondere».

Non faccio in tempo ad entrare nello studio che mi propongono un lavoro a Brasilia. Un mese per visionare e coordinare i lavori in un palazzone del centro. Un incarico di responsabilità, così lo chiamano loro; che in Spagna me lo sogno, penso io. Vivere qualche settimana a Brasilia, per un’architetta, è come per un’antropologa immergersi tra le popolazioni della Melanesia e provare a toccare con mano il kula di Malinowski. Il primo impatto è devastante. Arrivo di sera, il sole non mi aspetta, la mia capa sì, salgo sulla sua macchina e ci avviamo verso il centro. Tutto intorno è il deserto. Ripenso alle immagini in bianco e nero del libro di architettura, alla spianata di terra – rossa annotava la didascalia – immortalata in uno scatto aereo e poi alle facce sorridenti di Lucio Costa, Oscar Niemeyer e Burle Marx con alle spalle gli scheletri del sogno modernista.

Gli scheletri. Eccoli. Prendono vita davanti ai miei occhi. Più surreali che mai. Sbucano marziali ai lati della strada i parallelepipedi dei ministeri, si ripetono uguali uno dopo l’altro alla medesima distanza. Vestono divise fosforescenti di vetro e cemento e arginano il fiume d’asfalto e prato inglese che sgorga tra loro. Si squadrano simmetrici e freddi, automi pronti a riversarsi sulla piana per dar manforte alla fanteria. Ma dove sono tutti? La città è spettrale, donne e uomini assenti. Sfrecciamo sulla quarta delle sei corsie che costeggiano i ministeri alla nostra destra. Al di là del prato di cui non s’intravede la fine, altre sei corsie e altri ministeri sinistri. Nessun uomo a piedi può avere cittadinanza in questo organismo urbano pianificato. Nessuna donna attraverserebbe a piedi queste strade. Nessun bambino giocherebbe in questo prato ghiacciato.

3.BrasiliaOrganismo pianificato per chi Juscelino? Para quem? Per la tua industria di automobili JK? Di quanti schiavi dal nordest ti sei servito per costruire dal nulla una città in soli quattro anni? Non bastavano centinaia di anni di deportazione dall’Africa alle Americhe ora dalla costa li costringevi ad emigrare all’altipiano di Goiàs! Da zero a mille metri di altitudine, dalla brezza dell’oceano all’afa dell’interior. Un buon governo doveva finalmente prendersi la responsabilità di completare l’opera colonizzatrice, tu hai avuto il coraggio di intraprendere la strada giusta. L’unica possibile, quella del progresso. Da vero pioniere hai occupato e popolato i territori dell’interno per capitalizzare le risorse minerarie che offrivano. Di braccia ne avevi quante volevi e le hai sfruttate a volontà. Quanti sono i candangos seppelliti sotto l’ordine di Brasilia? Quanti Juscelino, quanti Lucio, quanti Oscar, quanti Burle?

La mente vola a quell’altro folle di Le Corbusier, vorrei scacciare i suoi scritti dalla testa ma le torri che s’innalzano parallele in fondo alla piana mi costringono al ricordo. Intrappolata tra i pensieri, come quel braccio che le unisce, apro le labbra di stupore: due scodelle compaiono ai lati delle torri. In quella aperta verso il cielo si riversa la Camera, in quella cappottata a terra è rinchiuso il Senato. Il potere è tutto qui. Rivedo le due facciate del tomo di storia di architettura occupate dalla pianta di Brasilia: lo scheletro di un aereo, il fossile di un uccello dalle grandi ali. In questo momento, Maria, ti trovi nella cabina di comando, abbiamo appena percorso tutta la fusoliera dell’aereo. La città è perfettamente organizzata e ordinata, ci sono le zone riservate alle attività commerciali, c’è il distretto delle banche, quello dei supermercati, degli hotel, delle farmacie e così via. Sulle ali dell’aereo si sviluppano le superquadras, ovvero i complessi residenziali “tipo” di Brasilia, uniformi e omologati. Stiamo andando lì.

Ecco la tua supequadra – vivrai qui per un mese – ecco la tua macchina – senza questa a Brasilia non puoi muoverti –  ecco il tuo indirizzo – non spaventarti:

Shcgn 706/707, Bloco D, Entrada 16, 2º Pavimento

Asa Norte. Brasília – DF

70740-640, Brasile

A Brasilia tutti gli indirizzi hanno molti numeri e una buona quantità di lettere, dovrai abituarti. È un mese infinito quello che trascorro nella capitale. I lavori nel palazzone del centro vanno a rilento, dovrò rimanere almeno un altro mese, il pensiero mi dà rabbia. Non ho ancora nessuno che possa assomigliare neppure lontanamente a un amico. Fortuna che i muratori sono simpatici. Il colore della loro pelle è la stessa dei deportati che hanno costruito Brasilia nel 1956. Forse non hanno mai smesso di costruirla. Nella mia superquadra non c’è una piazza. La sera non ci sono luoghi di aggregazione. Con chi socializzo? Scendo in strada, mi metto al volante, parcheggio, entro in uno pseudo locale d’ambientazione texana, ordino hamburger e patatine, la musica è alta, le immagini scorrono sugli schermi, la birra Antarctica scorre giù per l’esofago e risale fino alla testa. Scorrono altre immagini, scorrono altre antarctiche. Eppure a Rio bastava uscire in strada, andare a una festa, bersi una caipirinha di venerdì alla Pedra do Sal. Qui è tutto più difficile. A Brasilia non succede nulla.

4.BrasiliaMi sveglio con una resaca da far invidia alla terra della mia vecchia. Sono in ritardo e sono ancora ubriaca. Corro per le scale. Inserisco la chiave e sfreccio al lavoro. All’altezza dell’Eixo Monumental strabuzzo gli occhi. Tarderò. Quanti sono? Sembrano migliaia. Non credevo che quelle dodici corsie più centinaia di metri di prato potessero essere occupate da esseri umani. I manifestanti sono seduti a terra, alcuni sventolano le bandiere del dell’MTST, il Movimento Dos Trabalhadores Sem-Teto, altri hanno le teste coperte da copricapi indigeni. Archi alla mano e facce dipinte rivendicano il diritto alla terra, la stessa che lo Stato federale brasiliano vuole demarcare e spartirsi. Scendo dalla macchina e vado incontro alla moltitudine ma prima che possa confondermi con la folla il fumo bianco dei lacrimogeni mi acceca, mi accascio, torno indietro, corro, mi chiudo in macchina e, anche se non voglio, questa merda negli occhi mi costringe a piangere. Qualcosa si muove. Dov’era prima tutta questa gente?

Arrivo al lavoro con gli occhi lacrimanti, i muratori mi guardano con preoccupazione, mi chiedono cosa sia successo, gli racconto del fumo, dei manganelli che spezzano gli archi, delle facce dipinte di sangue. Fernando si avvicina e mi guarda gli occhi. Ti hanno colpita? No, ma non riesco a smettere di piangere. Forse ora un po’ ne ho anche voglia. Corre di sotto e torna con cinque lime tra le mani. Li taglia, li spreme e mi applica il succo intorno agli occhi e alla bocca. Gli occhi rimangono gonfi ma dopo qualche minuto il bruciore si allevia. Grazie. Avranno ammazzato qualcuno? Forse. L’Esplanada dos Ministérios sembra fatta apposta per uccidere, il prato è un cimitero inglese senza croci.

I mondiali sono iniziati da una settimana. Qui, nel contestatissimo stadio intitolato a Mané Garrincha, la prima partita si è giocata quattro giorni fa. Hanno speso milioni per ristrutturare un’arena calcistica che potrà ospitare migliaia di persone. Peccato che a Brasilia non sappiano giocare a calcio. La squadra più blasonata milita in serie C e quando ci sono duemila tifosi ad acclamarla è un evento storico. Ma i grandi burocrati dicono che qui si potranno ospitare grandi manifestazioni internazionali che noi non ci immaginiamo neppure. Maledico il governo insieme a Fernando e agli altri lavoratori. Malediciamo i mondiali e i soldi cacciati al vento da un governo che si ostina a prostituirsi al capitalismo. Le partite di Brasile e Spagna però non vogliamo perdercele. A casa di Bruno vediamo Brasile-Croazia e Spagna-Olanda, mentre nel bar di un amico di Fernando, tra una Itaipava e l’altra, ci sgoliamo Brasile-Messico e Spagna-Cile. Ci sono voluti i lacrimogeni per riconoscerci, socializzare e ritrovarsi insieme.

5.Brasilia***

La notizia è di quelle inaspettate, nei piani alti dello studio di architettura qualcuno ha deciso di rinunciare ai biglietti per la partita di questa sera. Con Fernando e gli altri la tentazione di andare allo stadio la abbiamo avuta più di una volta questa settimana. Due motivi ci hanno frenato: il costo dei biglietti spropositato e l’idea stessa di legittimare ciò che continuiamo a ritenere una guerra internazionale ai danni della popolazione brasiliana. Le partite del Brasile sono le meno accessibili. La seleçao si paga cara. Cinque biglietti gratuiti, che facciamo? Chi gioca? Colombia-Costa d’Avorio. Non sono il Brasile ma non ci pensiamo due volte. Usciamo dall’edificio e ci dirigiamo a piedi verso lo stadio. Blindato. La polizia a cavallo, la stessa che caricava all’Esplanada, circonda l’arena. Li odiamo tutti, dal primo all’ultimo. Ci perquisiscono ad uno ad uno. Finalmente entriamo. Immenso. Esagerato. Colorato. La musica di Shakira e la presenza di poliziotti ovunque rovina il colpo d’occhio. Le formazioni entrano in campo: casacca gialla per i colombiani, verde per gli ivoriani. Le maglie richiamano la bandiera del Brasile. La pelle in campo è la stessa dei muratori di Brasilia. Avrebbero potuto costruirla loro. Continua…

[Puntate precedenti a questo Link]

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Brasile: cartografie delle disuguaglianze https://www.carmillaonline.com/2013/11/28/brasile-cartografie-delle-disuguaglianze/ Wed, 27 Nov 2013 23:01:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10987 di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia [...]]]> di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia di migliaia di persone, scese per le strade a manifestare. Già, ma a manifestare per cosa? Occorre fare un passo indietro e osservare da una certa distanza gli eventi che hanno portato alle proteste di giugno, per non commettere l’errore di ridurre il tutto a un fuoco di paglia. Se è vero che le dimensioni, le pratiche e la radicalità di questo movimento sono fuori dall’ordinario per il Brasile, questo però va visto in prospettiva rispetto agli eventi che lo hanno anticipato. Qui vogliamo cercare di fornire un quadro sul contesto economico e sociale, sulla geografia urbana dei territori, sugli spazi dove si intersecano gli interessi di stato e capitale e quelli delle classi popolari.

I prodromi di una rivolta

I primi fuochi della protesta nascono a seguito dell’aumento del prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici in diverse città brasiliane, prima fra tutti São Paulo, operati ad inizio giugno 2013. Per molte persone, soprattutto lavoratori e studenti, un aumento di pochi centesimi fa la differenza tra l’accedere o meno al servizio e colpisce quindi in maniera diretta il diritto alla mobilità.

Queste proteste erano state precedute da mobilitazioni analoghe per la diminuzione del costo dei mezzi pubblici nel settembre dell’anno prima a Natal, città da quasi un milione di abitanti nel nordest del paese, nel marzo seguente a Porto Alegre e in maggio a Goiânia.

Per comprendere la viralità e l’estensione di queste proteste, ciò che le lega assieme nel tempo e nello spazio, occorre osservare e analizzare quei fili invisibili che intersecano assieme mobilità e sviluppo urbano: fili che nel contesto brasiliano disegnano la mappa delle disuguaglianze sociali e della divisione di classe.

La questione della mobilità nelle grandi megalopoli brasiliane costituisce un indicatore importante rispetto ai processi di ristrutturazione urbana che si articola sulla direttrice di una triplice esclusione: economica, spaziale e sociale. È evidente, infatti, come la dimensione del trasporto pubblico coinvolga e informi il quadro complessivo della definizione di spazio urbano metropolitano.

Città globali: Rio de Janeiro.

Per iniziare a cogliere questo aspetto è sufficiente fare un esempio concreto e ripercorrere la storia dello sviluppo urbano degli ultimi anni di una delle megalopoli più importanti del Brasile: Rio de Janeiro. La città carioca in tutto il Brasile è seconda solo a São Paulo sia in quanto a popolosità sia per il prodotto interno lordo. A livello economico, il settore manifatturiero ha svolto, almeno fino agli anni ‘80, un ruolo di primo piano e accanto a questo l’estrazione e la raffinazione di petrolio e gas, oltre a costituire una delle principali fonti di approvvigionamento energetico del Brasile, ha attirato diverse multinazionali petrolifere. Essendo stata capitale del Brasile per circa due secoli, la città ha sempre avuto una capacità attrattiva per i capitali nazionali e internazionali e questo ha favorito l’emergere di un polo finanziario, dei servizi e delle telecomunicazioni che negli ultimi decenni è divenuto estremamente rilevante.

A questo sviluppo economico, a questa produzione di ricchezza, è corrisposto l’aumento delle disuguaglianze sociali, con una polarizzazione sempre più marcata tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati. Un tipo di sviluppo che, come teorizza Saskia Sassen, ha coinvolto tutte le città globali attraverso la mondializzazione del mercato del lavoro e la finanziarizzazione delle economie, portando alla costituzione di nicchie economiche del terziario avanzato ad altissimo profitto e di vaste aree del settore dei servizi a bassa qualifica e con una mobilità sociale pressoché assente. Un quadro ben rappresentato anche dal punto di vista spaziale: nelle città globali – quindi anche a Rio – il quartiere della Borsa e della finanza è rigidamente diviso da quello dei servizi o dai quartieri-dormitorio.

A Rio de Janeiro questa divisione territoriale è particolarmente evidente: la zona del centro, quella più antica e nucleo originario della città, è caratterizzata oggi dai grandi palazzi della Borsa, delle banche, delle multinazionali e degli uffici dei colossi delle telecomunicazioni; la zona sud è quella delle residenze dei più ricchi, delle località di villeggiatura per turisti e delle attrazioni per i ceti più abbienti, oltre che sede di una delle più costose università private del Brasile: la Pontificia Università Cattolica; la zona nord è quella dove risiede parte del ceto medio ma soprattutto quella con il più alto numero di favelas, immense baraccopoli spesso senza elettricità, gas e acqua potabile dove vive circa un quinto della popolazione di tutta la città, quella che non può permettersi gli affitti troppo alti o che non può acquistare un immobile: le classi popolari – in questa zona si trova anche la sede dell’università pubblica di Rio de Janeiro; la zona ovest è quella dove è possibile osservare lo stridente contrasto tra quartieri ricchi e quartieri poveri, tra slums e zone residenziali ultramoderne: la parte nord per estensione accoglie diverse baraccopoli mentre la parte sud vede quartieri abitati da classi abbienti ma che non possono permettersi la zona sud.

Negli ultimi decenni Rio de Janeiro ha avuto un intenso sviluppo economico, dovuto sia a rinnovate attività estrattive di petrolio e gas, sia ad un mercato finanziario aggressivo e in espansione. L’aumento di alcuni indicatori della ricchezza economica media, danno una visione assolutamente distorta delle reali condizioni materiali: a fronte di un aumento dei profitti e del reddito per i ceti più abbienti, è aumentato il numero delle persone sotto la soglia di povertà. La risposta delle istituzioni non si è fatta attendere e, per tenere sotto controllo il malessere sociale, nel 2008 sono state introdotte le Unidade de Polícia Pacificadora, un’unità speciale di polizia con l’obiettivo ufficiale di pacificare militarmente i quartieri controllati dai trafficanti di droga: in realtà una velleitaria risposta securitaria che vuole ridurre la complessa problematica della disuguaglianza sociale a un problema di ordine pubblico.

Mega eventi

All’interno di questo scenario, possiamo considerare il mega-evento come un dispositivo che viene messo in campo in quanto rete complessa di rapporti di potere che vengono risoggettivati (o desoggettivizzati) secondo un nuovo discorso e nuove retoriche. Per dispositivo intendiamo – nell’articolazione che ne dà Giorgio Agamben nel suo Che cos’è un dispositivo? – quella complessa rete di relazioni di potere che, in forma discorsiva o non-discorsiva, produce o destruttura la soggettività dei viventi; è cioè «un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve; tanto del detto che del non-detto» e si manifesta come «un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati». Parliamo di dispositivo – come elemento disciplinare – perché il mega-evento va a incidere e a ridefinire in maniera conflittuale processi economici, politici, sociali e nondimeno spaziali. Se prendiamo il mega-evento come oggetto di analisi, possiamo riuscire a scorgere, attraverso le sue implicazioni, l’articolazione delle retoriche del potere.

Il grande evento da cui partire sono i Giochi Panamericani del 2007, che vengono ospitati interamente a Rio de Janeiro. In questa occasione, vengono avviati fin dagli anni precedenti diversi progetti di ristrutturazione urbana che riguardano sia la costruzione di nuovi complessi sportivi, stadi, arene, villaggi degli atleti, eccetera, sia interventi di “riqualificazione” di alcuni quartieri e la creazione di nuove infrastrutture. Secondo l’Observatório das Metrópoles, che si occupa da molti anni dell’impatto dei mega-eventi sui tessuti urbani, entrambe le tipologie di progetti hanno portato a processi di gentrification* e sradicamento delle comunità di quartiere in cui venivano messi in atto, a speculazioni nel mercato immobiliare e all’aumento generalizzato del costo della vita. Quello che preme sottolineare è come il discorso politico e la retorica sviluppista, messi in campo dalle istituzioni pubbliche dello stato di Rio de Janeiro (la macroregione di cui la città fa parte) e dall’imprenditoria privata convergano anche sul piano economico con investimenti e speculazioni sia del pubblico che del privato.

Il fatto che mette ancor più in evidenza la natura disciplinare di questa macchina astratta è il tentativo di ricomprendere all’interno dello stesso discorso istituzionale le critiche o i discorsi-altri al mega-evento con la nomina di una commissione speciale (CO-Rio) che monitorasse l’evolversi dei lavori: a questa commissione non ha peraltro partecipato nessun gruppo che si occupa della questione. Tra gli interventi urbani effettuati in questo periodo, il più esemplificativo risulta essere la costruzione dello Stadio Olimpico Engenhão, dal nome del quartiere che lo ospita: Engenho de Dentro, abitato prevalentemente da classe operaia e in misura minore da piccola borghesia. Lo stadio, che è finito per costare circa sei volte di più il prezzo preventivato ad inizio lavori, è stato edificato senza alcuna comunicazione con i residenti, molti dei quali anzi si sono trovati con la casa espropriata e poi demolita (chi la possedeva e non era in affitto).

Se possiamo considerare i Giochi Panamericani del 2007 come la forma ancora embrionale del dispositivo del mega-evento, con la maggior parte delle implicazioni ancora in nuce e non pienamente manifeste, negli anni successivi il tessuto metropolitano diventa sempre più terreno di scontro e disciplinamento. In vista della Confederation Cup del 2013 e del Campionato del Mondo di Calcio, di cui Rio ospiterà diverse partite, e soprattutto delle Olimpiadi di Rio del 2016, si estendono ulteriormente gli interventi securitari e urbanistici con tutto ciò che implicano in termini economici, sociali, spaziali.

Il primo di questi interventi che ci consegna la cifra del discorso pubblico istituzionale è la costituzione, come ricordato in precedenza, di un’unità speciale di polizia di prossimità col compito di pacificare alcuni quartieri più a ridosso dei luoghi in cui si terranno i mega-eventi. Quartieri limitrofi a quelli più ricchi dove la stessa condizione di povertà è elemento da nascondere, da rimuovere, da controllare.

Sul piano degli interventi urbani, la costruzione di infrastrutture, edifici e complessi sportivo/abitativi, oltre ad aver intaccato il tessuto urbano – in misura simile o maggiore a quella descritta prima per lo stadio Engenhão – ha provocato un boom del mercato immobiliare, con un aumento dei prezzi e della rendita che da un lato ha compresso il potere di acquisto degli affittuari e dall’altro ha prodotto una speculazione da parte dei proprietari di case. In molti quartieri è quindi intervenuto un processo di sradicamento duplice: il primo, dove la coazione è diretta e amministrata dall’istituzione pubblica nella sua forma di polizia; la seconda, in cui la coazione appare meno evidente ma ugualmente violenta e che è spinta dalle logiche di mercato che portano gli abitanti del quartiere originari a non avere i mezzi per vivere e sopravvivere.

Un’attenzione particolare meritano gli interventi volti a “migliorare” la mobilità urbana che di fatto si sono rivelati distruttivi per il tessuto urbano in cui sono stati implementati. È il caso di alcuni progetti di costruzione di infrastrutture per i trasporti che passano per diversi quartieri popolari e favelas per congiungere il villaggio olimpico con l’aeroporto e che di fatto implicano dubbi vantaggi per la popolazione locale e anzi rischiano di provocare lo sgombero di alcune migliaia di persone.

A Providência, una delle favela più vecchie di Rio, è in atto, all’interno del progetto Morar Carioca finanziato dal Programa de Aceleração do Crescimento (PAC), un processo di eradicamento di circa un terzo della popolazione per favorire la costruzione di alcune funivie. Lo stesso programma prevede la costruzione di case popolari e l’erogazione di prestiti a basso interesse per i meno abbienti. Anche qui la retorica sviluppista si sposa con pratiche coercitive e di disciplinamento che vedono delocalizzare di fatto le classi popolari per favorire la speculazione immobiliare e la rendita e parallelamente attuare politiche di segregazione – le case popolari si troverebbero a nord-ovest, all’estrema periferia di Rio e scarsamente servite dai mezzi pubblici.

Ecco allora che sotto il velo dello “sviluppo anche per i ceti più disagiati” in occasione dei mega-eventi possiamo scorgere le maglie avviluppanti di nuovi rapporti di potere e disciplinamento che si manifestano nelle varie forme che si sono descritte.

Insorgenze

Ecco allora che le proteste per il trasporto pubblico e la mobilità libera e gratuita acquistano un peso e una qualità differenti se le vediamo legate a quelle durante la Confederation Cup e la Giornata mondiale della gioventù cattolica, e se le inseriamo nel contesto dello trasformazione/trasfigurazione della metropoli attraverso il dispositivo governativo del mega-evento. La radicalità e inclusività con cui si è espresso il movimento in questi ultimi mesi in Brasile e in particolare a Rio, la pluralità di istanze assunte da esso e la capacità di sperimentare differenti pratiche organizzative ci suggeriscono che quanto portato avanti può essere la spinta per la nascita di ulteriori terreni di lotta. Un movimento che emerga con forza dal conflitto tra governo delle cose e dei corpi, che possa rinnovarsi continuamente e trovare nuove forme.

* Descrive un particolare processo metropolitano per cui viene “riqualificato” un quartiere considerato degradato per poi rivendere gli immobili ad un prezzo più alto. Ovviamente facendo in modo che gli abitanti precedenti sloggino. La discriminante è chiaramente la creazione del profitto derivante dalla riqualificazione più che il miglioramento delle condizioni sociali del quartiere.

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