modena – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Modena, 9 gennaio https://www.carmillaonline.com/2023/01/08/modena-9-gennaio/ Sun, 08 Jan 2023 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75481 di Giovanni Iozzoli

Questa cosa mi successe una decina di anni fa, mi pare, a Modena. Allora esercitavo al Centro Igiene Mentale di Vignola e mi prestavo volontario a fare un po’ di assistenza presso l’Hospice del Policlinico di Modena. Avevo appena finito il tirocinio, mi serviva farmi vedere in giro, allungare un po’ il brodo del curriculum. Non sono bei posti gli Hospice; lì si va a morire, punto. Ma alle volte si fanno delle conoscenze interessanti pure in mezzo ai moribondi.

Mi avevano chiamato d’urgenza, una mattina di Gennaio, poco dopo il rientro dalle ferie. Doveva essere il 12 [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Questa cosa mi successe una decina di anni fa, mi pare, a Modena.
Allora esercitavo al Centro Igiene Mentale di Vignola e mi prestavo volontario a fare un po’ di assistenza presso l’Hospice del Policlinico di Modena. Avevo appena finito il tirocinio, mi serviva farmi vedere in giro, allungare un po’ il brodo del curriculum.
Non sono bei posti gli Hospice; lì si va a morire, punto. Ma alle volte si fanno delle conoscenze interessanti pure in mezzo ai moribondi.

Mi avevano chiamato d’urgenza, una mattina di Gennaio, poco dopo il rientro dalle ferie. Doveva essere il 12 o il 13, non mi ricordo. Faceva un freddo cane. Avevano bisogno all’Hospice di uno psichiatra e quel giorno non avevano nessuno disponibile. Volevano che li si aiutasse a risolvere il mistero di un ospite piovuto lì non si sa come. Ero libero e andai.
Il medico responsabile mi diede le prime informazioni, mentre entravamo nei corridoi asettici e giallognoli, illuminati dalle luci smorte.

– Questo, collega, è un caso piuttosto curioso; si tratta di un signore molto anziano, messo piuttosto male, ovviamente, altrimenti non sarebbe qui; però lucidissimo, molto presente a se stesso. L’hanno trovato due giorni fa accasciato sotto il portico del Teatro Comunale; non aveva più neanche la forza di alzarsi.
– Ma cos’ha, precisamente?
– Un tumore al cervello, allo stadio terminale. Ci ha detto che era ricoverato al San Raffaele di Milano, da dove praticamente è scappato; da lì ci hanno spedito tutta la documentazione. Dai primi accertamenti, oltre che dalle carte, ci sembra proprio questione di giorni. Però è lucido. Ed evidentemente, chissà come, aveva ancora la forza di arrivare alla stazione di Milano e prendere il treno per farsi portare qui…
– Ma che è venuto a fare a Modena, ha qualcuno qui?
– No, nessuno. Ma nessuno neanche a Milano. Non è sposato, non ha figli, o parenti in rapporti con lui. Dice che della sua famiglia non è rimasto più nessuno e quelli che ci sono si vergognerebbero di lui – ma secondo me non parlava della sua vera e propria famiglia..era un’allusione a qualcos’altro… Anche a Milano ci hanno confermato che non sono conosciuti recapiti di parenti o amici; è solo, solo al mondo; venga collega… è qui… la stanza 4… dentro c’è solo lui.
– Quindi non si capisce perché è venuto proprio a Modena?
– Non lo sappiamo… forse un posto vale un altro… forse la lucidità va e viene e si è ritrovato qui senza sapere neanche lui perché. A volte capita, agli anziani che non ci stanno più con la testa. Salgono sul primo treno e via. Ha 87 anni, deve essere un ex militare, colto e distinto, anche di buon umore – considerata la criticità della sua situazione. La prego solo: non lo faccia agitare, non gli stia addosso… senta solo se ha bisogno di qualcosa, se le confida che c’è qualcuno da chiamare…
– E l’assistenza religiosa?
– Cortese ma fermo, non ha voluto saperne del prete; e anche con noi non va meglio…forse lei riuscirà a stabilire un contatto… non vorrei che dopo la morte saltasse fuori, che so, che era uno importante… se ha qualcosa da dire, vorremmo che la dicesse a lei…
– Ah… ho capito. Avete paura che vi muoia qui, abbandonato da tutti, un grande musicista in incognito, o un poeta di 50 anni fa…
– Lei scherza, ma vedrà che non sembra una persona ordinaria… dà l’idea di un politico; sui documenti c’è scritto che è un pensionato del Ministero dell’Interno; veda un po’ lei, se riesce a farsi dire qualcosa… prego dottore, da questa parte.
– Grazie…

Mi avvicinai con una certa cautela alla soglia della stanzetta e infilai piano la testa nella porta socchiusa; le pareti erano bianche e rosa, con una bella vetrata, tutta luminosa; l’odore dei medicinali era dolciastro ma sopportabile.
Anche se ero già con tutti e due i piedi dentro la stanza, battei rispettosamente le nocche sull’anta della porta ormai aperta:
– permesso, si può entrare…?
– Preg-go… preg-go… – rispose una voce forte, roca, un po’ tremante, ma ancora decisa.

Avanzai prudente:
– mi scusi se la disturbo, sono il dottor Coppola.
– Oh… bene… ancora un altro dottore… preg-go… dov’è il suo camice, la sua divisa?

Lo sguardo dell’uomo era dritto e fermo, e ti fissava senza soggezione, mentre le folte sopracciglia nere e grigie, attraverso un loro impercettibile movimento, davano un ombra dura e ironica al suo guardare.
Era un uomo forte, sicuro di sé, abituato a comandare, nonostante gli 87 anni, il pannolone e la consapevolezza della fine vicinissima.
Un chiaro accento sardo – quell’inconfondibile incatenamento delle sillabe, che rende le frasi scandite e quasi faticose – ben si legava al suo nome: Gavino Atzori.
In un attimo capì di non avere davanti un vecchietto rincoglionito da far piangere e consolare.
Giocai subito a carte scoperte.

– Io sono uno psichiatra, non un oncologo, sig. Atzori. L’Hospice mi ha chiamato qui per capire quali sono i suoi bisogni… se c’è qualcuno da avvisare.
– No, grazie dottore (il vecchio sembrava apprezzare la mia franchezza). Ho già spiegato anche agli altri suoi colleghi: voglio finire qui, a Modena, il tempo che mi resta, tanto un posto vale l’altro… e poi… a Modena ho dei ricordi. Dei ricordi importanti.

– Giusto – dissi sedendomi sulla sedia a fianco al letto – com’è finito proprio a Modena?… ha qualcuno qui che desidererebbe…
– No… non precisamente… Da 50 anni vengo tutti gli anni, per una ricorrenza speciale. Negli ultimi due o tre anni purtroppo avevo saltato, sa’, il decorso della malattia me lo aveva impedito; ma ormai sentivo che questo era il mio ultimo anniversario e allora mi sono deciso: ho preso il treno e sono venuto fin qui, per onorare l’ultima commemorazione… Certo, la mia uscita dal San Raffaele è stata poco regolamentare – ammiccò Gavino -, ma ogni tanto bisogna anche aggirare le regole, se creano troppi intralci… mi capisce, no?

Mi protesi un po’ in avanti e notai bene la forza di quel volto squadrato. La pelle era cuoio secco e scuro, maculata di chiazze marroni, ma i lineamenti non erano quelli cascanti un vecchio; e anche i capelli argentei erano abbastanza folti per un uomo della sua età.
– ma davvero non ha nessuno qui… un parente… un fratello… un figlio che possiamo avvisare?
– No. I miei conoscenti sono tutti al Cimitero da tanti anni… di vivo non c’è più nessuno che conosca a Modena… ma lei è meridionale, vero dottore?
– Si… sono di Napoli…
– Ovviamente… dovunque sono andato in vita mia – e ne ho girati di posti – c’era sempre “uno di Napoli”…
– E lei è sardo, sig. Atzori?
– Si, sono della provincia di Sassari… ma ormai vivo in continente da più di 60 anni.
– e perché è venuto qui, Gavino? – ripetei la domanda, a costo di sembrare insolente, perché intuii che quello era il punto cruciale della storia da chiarire.

Atzori esitò un attimo, lasciando trapelare un indecifrabile sorrisino; aveva qualcosa da dire, e aveva anche deciso di dirla, ma voleva anche far capire al suo sconosciuto interlocutore che quella parte del discorso non apparteneva più al semplice “pour parler”, si entrava in un’altra zona più delicata e solenne, che meritava rispetto e cautela.

– vengo ogni anno, come le ho detto, perché qui è cominciata la mia… come dire, la mia carriera. Nove gennaio del 1950. Le dice niente?
– La sua carriera?
– Si, la mia carriera nello Stat-to, nelle istituzioni… – e pronunciò la parola Stato con una marchiatura forte, come parola sacra, non mediabile.
– Che mestiere faceva sig. Atzori?
– Sono stato in Polizia e poi sono passato alle dipendenze dirette del Ministero degli Interni. Tutta la vita per lo Stat-to. Tutta una vita in trincea, caro dottorino.

Riusciva ad essere solenne senza essere pedante, anche se non mi aveva ancora lasciato capire granchè. Pur senza grandi esperienze professionali, sapevo essere un buon ascoltatore. Per qualche strano motivo, quel distinto vecchio funzionario, mi aveva scelto come depositario di una qualche confessione laica, quel genere di cose che spesso, negli Hospital, le persone vicine alla fine sentono di potersi permettere.
Avvicinai la sedia al letto, aguzzai lo sguardo e l’attenzione, come a dare l’ok al sig. Atzori.

Lui capì e continuò:
– è cominciato tutto qui a Modena, 59 anni fa… tutta la mia vita; io ero un giovane agente di PS, avevo 24 anni. Non avevo fatto le scuole, non avevo speranze o prospettive. Avevo indossato la divisa solo per la sopravvivenza e mi sarebbe toccata sicuramente in sorte una vita meschina, mediocre, uno tra i tanti nella truppa – e lo diceva storcendo la bocca carnosa e livida, come se l’evocazione di quella mediocrità ancora lo riempisse di disgusto.
– Quella mattina c’era freddo e nebbia, e fumi neri, perchè i picchetti li facevano bruciando legno vecchio, pneumatici e tutto quello che si trovava. Povera gente. Erano come i miei, che avevo lascito a casa, in campagna. Ma in mezzo a loro, dietro alle loro file, c’erano gli altri, il nemico…
– Come il nemico… quale nemico?
– Volevano solo lavorare, io li capivo; era dura davvero a quell’epoca. Poi all’improvviso, dopo tante piccole scaramucce, successe la tragedia. Le mitragliatrici entrarono in azione. Io non ci capivo più niente. Però non scappavo. Tenevo la posizione. In mezzo alla nebbia, alle pietre e agli spari. Portavamo certi cappottoni pesanti come bare, con le bandoliere, gli schiavettoni, non riuscivamo neanche a muoverci…

Ormai il vecchio non mi guardava più negli occhi. Parlava da solo, fissando il povero Gesù Cristo rinsecchito, sulla parete vuota, di fronte a lui.

– Lei ha parlato di tragedia, Gavino: ma quale tragedia…?
– I fatti di Modena, il cosiddetto “eccidio delle Fonderie”, non se li ricorda?

Un po’ stupito, feci segno di no con la testa, vergognandomi (mi ricordavo i morti di Reggio Emilia, quelli della canzone, e poi vagamente quelli di Battipaglia, Avola, e qualche altro, ma quelli di Modena proprio no…).

– E già… voi giovani… non ricordate… ignorate la storia del vostro paese. Eppure, a mio modesto avviso, quel 9 Gennaio andrebbe ricordato, come le date delle battaglie importanti. Cominciò lì, cominciò tutto quel giorno – almeno per me. Eravamo nel vivo dello scontro. Eravamo sul crinale della storia, senza saperlo. Io mi trovavo vicino a un fossato, più in basso rispetto ai binari, in fondo allo stradello dove adesso c’è la farmacia. Lì, nei pressi, un ufficiale e un paio di colleghi avevano accerchiato un manifestante con le mani alzate, lo colpirono col calcio del fucile sulla faccia e sulla testa, poi lo spinsero nel fosso e gli spararono: il graduato con la sua Beretta e l’agente con la carabina. Gli spararono a freddo, davanti ai miei occhi; io ero lì, giovane, spaurito, non capivo cosa stesse succedendo, ma stavo al posto mio, stringevo il mio fucile forte, non indietreggiavo. L’esercito nemico era fatto di povera gente, brava gente; ma dietro a loro si combatteva una battaglia gigantesca. C’erano loro e c’eravamo noi. E io stavo sulla linea del fronte, sul terrapieno dei binari che dividevano le Fonderie dalla città. Quella era la linea di combattimento, e io là stavo. E vidi boccheggiare quel povero ragazzo in un lago di sangue, e poi lo vidi estratto dal fosso dai suoi assassini – i miei colleghi – e abbandonato, esanime, sulla strada sterrata.

Ero allibito, non riuscivo a cogliere il senso di quella rivelazione, come giustificasse la sua presenza qui, che parte in commedia avesse svolto quel vecchio moribondo.
Gavino colse il mio stupore e provò a spiegare:
– era una guerra; ma era un nemico onorevole, pieno di valore, con le sue ragioni. E’ per quello che non ho mai smesso di onorarli, tutti gli anni, da 59 anni, appunto.

Continuava a non capire come quel dramma di mezzo secolo fa avesse influenzato così potentemente la vita del sig. Atzori, fino ad indurlo, addirittura, a venire a morire là, in quella specie di luogo del delitto che era per lui la città di Modena.
– Per me cominciò tutto in quella mattina di fumo e di piombo. E di lutto. Quella mattina fu per me come una rinascita, ero venuto al mondo una seconda volta tra i binari e le mura delle vecchie Fonderie Riunite. Dopo i tragici fatti, come si diceva allora, tornati nella caserma di Bologna, l’ufficiale che avevo visto sparare – me lo ricordo ancora, si chiamava Marchini, è morto tanti anni fa – mi avvicinò e mi disse con forza che dovevo tenere la bocca chiusa, perché quello a cui avevo assistito non era stato un omicidio, ma un legittimo atto di guerra. Perché eravamo in guerra. E a me, soldato e patriota (Gavino spalancava gli occhi con solennità) era richiesto silenzio e collaborazione. Così disse. Io ero emozionato. Era la prima volta che un graduato veniva da me e si rivolgeva in modo diretto a questo piccolo capraio sardo.

Gavino sorrideva piano, ricordando la sua gioventù di fame e obbedienza cieca, quando per la prima volta in vita sua ebbe l’occasione di servire la Repubblica delle baionette.
– fui talmente concorde e risoluto che Marchini cominciò a fidarsi sempre più di me, mi prese a benvolere e cominciò a inserirmi nel suo giro riservato di uomini; poi mi fece prendere la terza media e dopo 5 anni ero già al servizio degli Affari Riservati, avevo svoltato verso la direzione giusta. Certo, l’avvio della mia carriera era dipesa da una circostanza fortuita – l’aver assistito a un omicidio; ma tutto quello che venne dietro, l’ho costruito io, passo dopo passo, giorno dopo giorno, con abnegazione, lavoro duro. E tanta fede nelle istituzioni e nello Stat-to, per cui avevo una venerazione. Certo, non ero cieco, vedevo anche io le cose storte. Ma il peccato dentro la Chiesa è segno della sua Santità, così ragionavo allora, con una mentalità da clericale, più che da soldato.

La lucidità di Gavino, a un passo dalla morte era impressionante.
Parlava piano e non sbagliava un termine o un congiuntivo. Era davvero un uomo notevole, che doveva aver passato la vita nello sforzo di imparare, di migliorarsi, in mezzo a migliaia di rapporti da battere a macchina, su carta copiativa, e in quel training doveva aver preso confidenza profonda col mondo astruso delle parole, della narrazione burocratica.

– Certo, non ho mai dimenticato da dove sono partito, la mia origine…
– Parla della Sardegna?
– No, no… parlo del terrapieno, dei binari, parlo di Modena e del sangue innocente di sei ragazzi: tutto cominciò da lì. E io tutti gli anni, in incognito, ogni 9 gennaio, mi recavo alle pubbliche celebrazioni per onorarli, per ricordarli; Arturo Chiappelli, Angelo Appiani, Roberto Rovatti, Ennio Gragnani, Arturo Malagoli, Renzo Bersani. E raccoglievo anche notizie sui figli dei deceduti. Una, la piccola Marisa, ne avrà sentita parlare, andò a stare bene, se la prese in casa quel gran signore di Togliatti, un galantuomo – nemico si, ma galantuomo, gente di altri tempi, di altra pasta… Tutti gli anni, il 9 gennaio, mi infilavo in incognito, in mezzo al corteo delle bandiere rosse, e stavo lì, come a dire a quei ragazzi: io sto facendo strada nella vita, a me è andata bene e a voi è andata male, ma non mi dimentico di voi. Per molti anni le memorie dei vivi, dei compagni, dei parenti, facevano di quelle cerimonie qualcosa di molto toccante, di molto vivo. Poi il tempo passa; il ricordo di quella strage era offuscato dal sopraggiungere dei fatti nuovi, dei tempi nuovi, spesso altrettanto terribili: nel ’60 c’erano stati anche i morti di Reggio Emilia, e poi Genova e via via avanti, un Paese in continuo sussulto, indomabile, una battaglia ogni giorno. A Modena, più o meno nell’area della strage, costruirono un grande cavalcavia. Il cippo delle celebrazioni era sempre pieno di fiori, ma si era come ristretto lo spazio di quella memoria. E anche le manifestazioni diventavano sempre più rituali, una faccenda da amministratori, da fasce tricolori e discorsi ufficiali. Del resto, dopo gli anni ’50, tutto era cambiato. La città stava diventando ricca, pasciuta, nessuna guerra era più in corso, né fredda né calda; i comunisti erano diventati tutti amministratori, cooperatori e quant’altro: non onoravano più con fervore i loro morti, li utilizzavano solo per nobilitare il loro passato, per giustificare l’ascesa sociale che avevano fatto. Solo io ero davvero commosso e partecipe – sempre, tutti gli anni.
Io ricordavo, io sapevo che voleva dire quel cippo, solo io riconoscevo in quell’evento un grande passaggio, per l’Italia e per la mia modesta vita.

– Perché dice “per l’Italia”?

Gavino assunse un tono didattico, tremendamente serio; era capace di passare dal ricordo disincantato al ragionamento logico in una frazione di secondo; quel tumore stava succhiando la sua vita, ma non era riuscito a corrodergli il cervello.

– Vede, furono quelle azioni, quelle simili a quella a cui mi trovai a partecipare io, e tutte le altre, tante, successive, di cui fui esecutore consapevole, che determinarono davvero il corso della vita repubblicana. Eravamo noi, in quelle trincee improvvisate, che facendo un lavoro indubbiamente sporco, spostavamo piano piano l’asse del timone. La nostra determinazione – migliaia di giovani e meno giovani armati, pronti davvero a tutto, anche a sparare sui compatrioti civili – portò quell’uomo intelligente di Togliatti a riflettere bene sulla situazione, sulle conseguenze delle sue scelte. Gli avevamo fatto capire che nessuna forzatura sarebbe stata consentita, nessun Soviet sarebbe mai nato in Italia. E anche uno sciopero, se superava una certa sottile linea di demarcazione, poteva diventare un atto di guerra e finire male. Noi eravamo pronti: elezioni o non elezioni. Lui lo sapeva.
– Ma lui chi?
– Togliatti. Era intelligentissimo. Sapeva che era arrivato al punto limite e non poteva fare un passo oltre. La Patria era presidiata, sempre, notte giorno. Davanti ad ogni cancello di stabilimento dove loro costruivano una cellula di fabbrica, lì c’eravamo noi. Soldati, con e senza divisa, ma sempre soldati. Pronti a tutto.
– Ma mi scusi, per capire meglio: perché sente il bisogno, tutti gli anni…
– Lei è disorientato, perché voi giovani non avete il senso dell’onore… quello lo capisce solo chi ha respirato l’aria della guerra. E’ cominciato tutto lì, da fatti come quelli di Modena. Loro dicevano: strage operaia… quanti scioperi, quanta demagogia, boicottavano l’economia nazionale… Ma alla fine vincemmo noi.
Secchia fu messo in disparte. E gli agitatori diventarono tutti sindaci, consiglieri di amministrazione e presidenti di consorzio. A noi andava bene. Il messaggio era arrivato. La nave era stata faticosamente ricondotta in porto.
La mia carriera era andata avanti, molto avanti.

Fece uno sforzo, come a scegliere dal canestro della sua memoria, un episodio che servisse a spiegare meglio a quello psichiatra ignorante la delicatezza delle sue mansioni:
– dunque… lei avrà almeno sentito parlare del Golpe Borghese… no?
– Beh… sì… più o meno.
– Ecco (e lì fece un sorriso birichino): io ero fra quelli che stavano dentro al Ministero degli Interni ad aspettare i golpisti. Ero confuso nel mucchio – fascistoni, fanatici, militari – ma dietro c’eravamo noi: se fosse andata male coprivamo la ritirata, se fosse andata diversamente, gestivamo la nuova situazione. Dovevamo essere sempre un passo avanti alle cose, saperle e infilarcisi in tempo. Ancora oggi – pensi – so dove sono nascosti un bel po’ di quei fucili che furono rubati quella notte; secondo me sono ancora lì, dove li avevamo sepolti..
– Ma… stiamo parlando di Gladio?
– No… no… quella era una cosa coreografica, per qualche commendatore che invece di andare a caccia, la domenica, andava a fare l’esercitazione paramilitare. Noi eravamo un’altra cosa: noi eravamo l’anello di ferro che difendeva la Repubblica, la nostra storia non è scritta da nessuna parte. Dopo gli anni ’70 andai in pensione. Fui consultato come consulente durante il sequestro Moro – una brutta storia, povero Presidente, praticamente nessuno lo voleva vivo, ed ebbero ragione, perché da quel morto cominciò la disfatta delle BR. E poi misi il naso anche nella trattativa Cirillo. Là si era deciso invece che bisognava salvarlo, quel vecchio trafficante. Ma ormai avevamo vinto. Si poteva anche trattare.
– E così… ogni anno… torna a Modena…
– Sì. Negli ultimi 25 anni, poi, avevo meno impegni, meno riserbo. Dopo la cerimonia mi facevo un giro in centro. Andavo all’Accademia, dove in gioventù un pecoraio come me non sarebbe mai potuto entrare (ma la mia carriera era stata più cruciale e più brillante di quella di un generale). E poi, a pochi passi, c’era la piccola Biblioteca, quella che sembrava un convento. E andavo là a passarmi un’oretta di pace. Mi faceva malinconia, perchè era la classica piccola Biblioteca di provincia; io non sono un letterato, ma immaginavo tutti i mediocri scrittori di provincia stipati dentro gli scaffali; quante piccole storie, magari importanti, belle (come la mia) che però pochi o nessuno avevano mai sentito nominare. La piccola provincia, le sue piccole ombre scure, dove tante cose importanti maturano discrete, ma nessuno le celebra.
– Lei ha dei rimpianti, sento. E’ per quello che è sempre venuto qui?
– Sulla mia carriera e i prezzi, diciamo così, che ho dovuto pagare, non ho niente da rimpiangere. E’ vero, non mi sono mai sposato; viaggiavo molto in Italia e all’estero, non mi era possibile metter su famiglia e come le ho detto, non ho rimpianti in tal senso. Però… però… una piccola cosa… quella mi è rimasta lì… (e si picchiò faticosamente sul torace)… e non scende, non va né su e né giù, e spesso ci ripenso, anche in questi momenti in cui, come si dice, dovrei pensare ad altro.
– Che cosa?
– Quei ragazzi, quelli di Modena. Quelli erano eroi, sono morti da eroi. Hanno delle strade intitolate a loro, hanno le commemorazioni; sono finiti sui libri di storia. Certo, oggi il ricordo è molto ridimensionato, ed è naturale – il tempo passa. Però in generale hanno avuto il loro posto nella Storia patria. Ma di noi? Chi sa niente di noi? Chi si ricorda di noi?
– Voi… voi chi? Cioè, a chi si riferisce in particolare?
– Noi, noi, anonimi, noi migliaia di fanti senza nome, senza volto, senza generalità: noi che abbiamo combattuto, che abbiamo fronteggiato la minaccia, che abbiamo piegato come un ferro caldo la storia repubblicana… Cosa sarebbe stata l’Italia senza di noi? Certo, eravamo collocati nella zona grigia, i nostri mezzi non sempre furono ortodossi, le nostre frequentazioni nell’ombra, i nostri protetti, non era gente raccomandabile: ma proprio per questo, chi mi ringrazierà per essermi dovuto sporcare le mani con bombaroli e mafiosi, chi ricorderà mai i nostri reparti senza gagliardetti? In servizio non è rimasto più nessuno… stiamo morendo tutti. E in tanti anni non c’è n’è uno che ha parlato, fra noi – tanto per farle capire che razza tosta di gente siamo. Noi eravamo dappertutto: entravamo nelle urne… negli armadietti degli spogliatoi delle officine… nelle Università… nelle caserme, nei sanatori… dappertutto: la montagna stava franando e noi tessevamo una rete di sicurezza per evitare che la nazione si sfaldasse… Niente da dire, onore ai morti: ma i vinti saranno ricordati dalle lapidi, mentre noi, i veri vincitori, siamo ignorati, schiacciati nel cono d’ombra del malaffare, nel lavorio delle commissioni d’inchiesta; le nostre storie, a brandelli, sono chiuse dentro vecchi dossier mezzi mangiati dai topi, infilati negli scantinati della Repubblica – e mostrava una ferita leggera al posto del sorriso, di inconsolabile amarezza.

– ah… allora è questo che la turba, che la rende così loquace, con questo dottore sconosciuto…

Ma il vecchio non rispondeva: ormai consumava il suo rimpianto dentro un contegno sobrio, come parlando a se stesso…

– le bombe, le stragi, il golpe… è facile giudicare da fuori, guardare la Storia dalla finestra… ma quando ci sei dentro, è tutta un’altra cosa. La Storia siamo noi, dicevano i comunisti… Non è vero, non è vero: la storia siamo Noi… siamo sempre stati Noi… Ci davano il lavoro sporco da fare, sussurravano ordini a mezza bocca, nessuno parlava chiaro perché nessuno si doveva compromettere: facevano allusioni, ci comunicavano la loro preoccupazione – la situazione è grave, ci dicevano… rischiamo l’abisso. E noi agivamo. Nessuno ci diceva grazie. Però arrivavano le promozioni, e quello era il segno del consenso, della legittimazione…
Conservo ancora dei documenti, delle lettere, che farebbero molta luce su certi eventi, su certi rapporti, su certi grandi statisti che poi facevano finta di non conoscerci.
Ne ho salite di scale, nella vita. Ma erano scale buie, dentro androni di Ministeri e caserme. Nessuno ci ha conosciuto e nessuno ci conoscerà. Stiamo andandocene tutti. E quando noi saremo morti i giovani non conosceranno la vera storia d’Italia.

– Perché, finché…
– Finché vivo, dice?
– Finché… ne ha ancora il tempo, la lucidità, perché non scrive un memoriale…?

Il vecchio rise educatamente e tossì, lasciando filare una piccola scia di bava dall’angolo della bocca:
– Noi non siamo gente da memoriale. Sa dove finirebbe il mio memoriale? In qualche angolo della Delfini, o di qualche altra piccola preziosa sconosciuta Biblioteca di provincia. Siamo stati manovali della storia… I memoriali li facciamo scrivere ad altri… Ma va bene così… dottore, va bene così… ormai… Mi sono solo voluto sfogare un po’, prima di togliere il disturbo… Se avessi parlato con un prete lo avrebbe scambiato per un moto di pentimento, e magari mi avrebbe dato pure l’assoluzione. Meglio lei, che per mestiere non deve giudicare nessuno, né può assolvere nessuno… Mi piace pensare che qualcuno, almeno qualcuno, ricordi la storia vera, la storia giusta, come girarono davvero le cose. Per ogni subbuglio o rivolta o insurrezione, c’è sempre un esercito di difensori che sanno tenere la posizione: sarà sempre così. Sorgiamo come dalla terra, per mantenere l’ordine… non c’è modo di sbarazzarsi di noi. Adesso vada Dottore, secondo me siamo stanchi tutti e due. Se, di quando in quando, le capiterà di ripassare davanti alle vecchie Fonderie, vada a salutare quei ragazzi e porti un fiore a nome mio, sul cippo. Cominciò tutto lì.

Socchiuse gli occhi quieto e malinconico, e infilò entrambe le braccia sotto la copertina leggera, come a chiudersi in un bozzolo che era un congedo definitivo.
Me ne andai, perché il colloquio era finito – tutto stava finendo.
Mentre scendevo le scale, mi accorsi di non averci mai pensato davvero. Tutta la storia patria, soprattutto quella più torbida, non era stata gestita da marziani o da mostri, ma da gente normale, buoni vicini di casa; impiegati dello Stato sempre attenti agli scatti di carriera o ai rimborsi; servitori anonimi di Dipartimenti Speciali senza sigla.

Bloccai sul nascere ogni indignazione: non ero in grado di dare giudizi su nessuno, neanche su un vecchio tagliagole ministeriale; anch’io mi portavo dentro qualche segreto inconfessabile e una lunga scia di dissimulazioni.
Uscii velocemente dall’Ospedale, senza ricontattare il responsabile di turno dell’Hospice; non avevo voglia di chiacchiere e non avevo niente da aggiungere, rispetto a quello che sapevano già. Gli avrei mandato una mail appena tornato a Vignola.
Ma non presi subito la strada di casa.
Rifeci la strada tortuosa del pellegrinaggio annuale di Gavino. Perché tutto era cambiato – i luoghi, le persone – eppure tutto era rimasto misteriosamente immobile. Mi recai al cippo commemorativo, con le piccole foto e la retorica repubblicana stampata sulla lapide; e poi verso l’Accademia, sontuosa e vuota, come una cattedrale. E poi finalmente andai a sedermi un po’ nella Biblioteca che tanto piaceva a Gavino, perché custodiva i piccoli scrittori sconosciuti (perchè anche lui si sentiva un “autore” sconosciuto). In pochi capitoli, in pochi chilometri, era racchiusa tutta la nobiltà e la decadenza di una storia piccola ed essenziale: la vita di Gavino, la provincia minima, le sue Fonderie chiuse e sventrate, le sue piccole Biblioteche, con i ragazzi stravaccati sotto i porticati, che esibivano facce precocemente disilluse, di chi sa che non lascerà segni o tracce – facce forse simili a quella del giovane Gavino, prima che si imbattesse nell’omicidio che avrebbe cambiato la sua esistenza. Questo ci restava: tutto il passato squadernato alle spalle e davanti un futuro insondabile.
La crisi ci stava mangiando il cuore; si capiva che non c’erano più soldi, non c’era più benzina, né gioventù viva, nelle officine, come nelle biblioteche.
Se ne andava languido, il Modello Emiliano, come un macchinario obsoleto, con gli ingranaggi sbeccati, che non girano più. E tutti – i vivi e i morenti – parevano in attesa.

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Te lo ricordi l’8 marzo al carcere? https://www.carmillaonline.com/2021/12/01/te-lo-ricordi-l8-marzo-al-carcere/ Wed, 01 Dec 2021 06:15:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69470 Assemblea nazionale, sabato 4 dicembre a Santa Croce di Carpi.

di Alexik

“Possiamo tenervi per anni in condizioni disumane, stipati nelle celle come in carri bestiame. Possiamo annullare da un momento all’altro quello che resta dei vostri minimi diritti. Possiamo massacrarvi di botte quando vi ribellate a tutto questo, anche se siete inermi e in overdose. Possiamo lasciarvi in agonia per ore e ore. Possiamo lasciarvi morire. Possiamo fare in modo che tutto questo succeda nella piena impunità, che valga solo la nostra versione dei fatti e che tutte le colpe vi ricadano [...]]]> Assemblea nazionale, sabato 4 dicembre a Santa Croce di Carpi.

di Alexik

“Possiamo tenervi per anni in condizioni disumane, stipati nelle celle come in carri bestiame.
Possiamo annullare da un momento all’altro quello che resta dei vostri minimi diritti.
Possiamo massacrarvi di botte quando vi ribellate a tutto questo, anche se siete inermi e in overdose.
Possiamo lasciarvi in agonia per ore e ore.
Possiamo lasciarvi morire.
Possiamo fare in modo che tutto questo succeda nella piena impunità, che valga solo la nostra versione dei fatti e che tutte le colpe vi ricadano addosso.
Possiamo continuare a criminalizzarvi anche da morti e farla pagare cara ai sopravvissuti”.

Mentre rileggo il decreto di archiviazione del Tribunale di Modena sulla peggiore strage carceraria della storia della Repubblica, il senso del testo in lessico giudiziario mi suona più o meno in questo modo.
L’atto dispone che le morti di Hafedh Chouchane, Bilel Methani, Slim Agrebi, Ali Bakili, Lofti Ben Mesmia, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu, Abdellha Rouan1, avvenute durante la repressione della rivolta del marzo 2020 nella casa circondariale Sant’Anna e nel corso dei successivi trasferimenti ad altre carceri, non meritino nemmeno la fatica dell’apertura di un processo.
Sentenzia, il decreto, che l’assunzione di estesi quantitativi di medicinali “è la causa unica ed esclusiva del decesso dei nove carcerati“.

Per quanto ormai sia diventato abituale nel Belpaese veder sfumare nel nulla le indagini che coinvolgono il personale dei corpi dello stato (l’ultimo caso in ordine di tempo è quello sulla morte di Matteo Tenni per mano di un carabiniere), il provvedimento di archiviazione del GIP di Modena, che accoglie le richieste della Procura, si distingue dalla media per gravità.
Esplicita è la decontestualizzazione dei fatti.
Vengono ignorate platealmente le denunce dei pestaggi presentate da vari detenuti, che descrivono, fra l’altro, le violenze esercitate da parte della polizia penitenziaria sui loro compagni  “a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti”.
Denunce che sono state tenute volutamente distinte e separate dall’inchiesta sui decessi, come se si trattasse di fatti diversi e scollegati.
Inutile dire che numerosi prigionieri presenti al Sant’Anna in quei giorni di marzo non sono stati minimamente considerati come  potenziali testimoni delle circostanze della morte dei loro compagni.
Altro aspetto abnorme è l’esclusione del Garante nazionale dei detenuti e dell’Associazione Antigone dal novero delle “persone offese”, scelta che rappresenta non solo un atto di delegittimazione, ma anche una modalità per definire inammissibili i loro atti oppositivi e le perizie dei loro consulenti, che mettono in discussione su più punti la versione ufficiale (in particolare sul mancato approfondimento delle lesioni riscontrate sui cadaveri).
L’unico atto oppositivo ammesso, quello dei familiari di Hafedh Chouchane, viene liquidato senza rispondere nel merito ai dubbi sulla tempestività del soccorso.

Il decreto di archiviazione si fonda dunque su un’unica narrazione, quella di polizia:
la vicenda oggetto del presente procedimento ha trovato compiuta ricostruzione, nella sua genesi e nel conseguente sviluppo in termini spaziali e temporali, nelle relazioni redatte dalla Polizia penitenziaria e dalla Squadra Mobile della Questura modenese… e ad esse, pertanto, in ragione della accuratezza della struttura storico-narrativa … pare lecito operarsi integrale riferimento“.
A seguire, sulla base di tale accurata struttura storica-narrativa,  viene sancita “l’insussistenza di alcuna ipotesi di responsabilità in capo ai soggetti intervenuti nel processo gestionale della sommossa“.
Il tutto senza timore del ridicolo e con buona pace del conflitto di interessi.

Stante la deresponsabilizzazione degli agenti coinvolti è facile prevedere a chi saranno invece accollate tutte le responsabilità.
La Procura di Modena ha da poco richiesto sei mesi di proroga delle indagini sulla rivolta del Sant’Anna, che contano al momento 70 detenuti denunciati, di cui 3 per tentata evasione e 67 per incendio, devastazione e saccheggio.
Come ci ricordano le condanne per il G8 di Genova – che a 20 anni di distanza tengono un compagno ancora in galera –  il reato di devastazione e saccheggio viene punito con la reclusione da otto a quindici anni. Anni di prigione che potenzialmente andranno a gravare su persone che già stanno subendo il carcere, che in maggioranza vivono condizioni di estrema fragilità, e che rischiano di pagare un prezzo enorme per un giorno di ribellione.
Sappiamo già che dovranno subire altre tonnellate di fango mediatico, la negazione delle loro ragioni, i teoremi sul “chi c’è dietro?”, e tutti i dispositivi giuridici già sperimentati nella repressione dei movimenti.

Si rende necessario, ora più che mai,  prendere in carico l’estensione della solidarietà ai detenuti e alle loro famiglie, il sostegno dell’azione e della difesa legale, e l’impegno per rompere il muro del silenzio.
Sabato prossimo possiamo cominciare a parlarne e a organizzarci.

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TE LO RICORDI L’8 MARZO AL CARCERE?

8 marzo 2020.
Primo giorno di lockdown, scoppiano rivolte nelle carceri su tutto il territorio nazionale.
Perdono la vita tredici persone detenute, di cui nove della Casa circondariale Sant’Anna di Modena.
Nonostante la Procura di Modena si sia affrettata ad archiviare il più velocemente possibile, a che punto siamo con le ricostruzioni e le testimonianze sulla strage del carcere di Sant’Anna dell’8 marzo 2020?
Cosa comporterà il ricorso alla Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo)?
Come se la stanno passando i firmatari dell’esposto per la morte di Salvatore Sasà Piscitelli?
Come procedere per fare sì che una strage di queste dimensioni non venga dimenticata dopo essere stata frettolosamente archiviata?
Per riaprire le indagini sulla strage del carcere Sant’Anna, per sostenere chi ha il coraggio di denunciare le violenze subite, per rompere il muro di silenzio: convochiamo un’assemblea nazionale.

Sabato 4 dicembre 2021 – dalle 11,00 alle 18,00.
Circolo ARCI Arcobaleno, via E. Gilberti 1, Santa Croce di Carpi Modena

Programma:
Ore 11.00 – tavoli tematici di lavoro
– Istituzioni totali e psichiatria
– Come creare una rete di sostegno
– Carcere e informazione
Ore 13.00 – panini solidali per pranzo
Ore 14.00 – assemblea plenaria nazionale
Ore 18.00 – aperitivo e musica

Organizzano:
Comitato Verità e Giustizia per i morti del Sant’Anna
Associazione Bianca Guidetti Serra

Info e contatti: consigliopopolare.modena@gmail.com


  1. L’archiviazione non riguarda l’indagine sulla morte di Salvatore Piscitelli, avvenuta dopo il trasferimento nel carcere di Marino del Tronto, il cui fascicolo compete alla Procura di Ascoli. 

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Strage di Modena: il rischio di un colpo di spugna https://www.carmillaonline.com/2021/06/01/strage-di-modena-il-rischio-di-un-colpo-di-spugna/ Tue, 01 Jun 2021 08:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66553 di Alexik

E’ prevista per lunedì prossimo presso il Tribunale di Modena l’udienza per decidere dell’archiviazione del fascicolo riguardante la morte di otto detenuti nella rivolta del carcere Sant’Anna. Tre mesi fa il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio, assieme alle PM Lucia De Santis e Francesca Graziano, ha chiesto di passare un bel colpo di spugna sulla peggiore strage carceraria della storia della Repubblica, e in particolare sulla fine di Chouchane Hafedh, Methani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur, Rouan Abdellha. di Alexik

E’ prevista per lunedì prossimo presso il Tribunale di Modena l’udienza per decidere dell’archiviazione del fascicolo riguardante la morte di otto detenuti nella rivolta del carcere Sant’Anna.
Tre mesi fa il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio, assieme alle PM Lucia De Santis e Francesca Graziano, ha chiesto di passare un bel colpo di spugna sulla peggiore strage carceraria della storia della Repubblica, e in particolare sulla fine di Chouchane Hafedh, Methani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur, Rouan Abdellha.
1
La procura di Modena ha motivato la richiesta di archiviazione addebitando i decessi “alle complicazioni respiratorie causate dall’assunzione massiccia di metadone, in qualche caso accelerato e aggravato dall’assunzione di altri farmaci o da specifiche condizioni personali”, ed escludendo per tutti  “l’incidenza concausale di altri fattori di carattere violento“.
La procura sostiene inoltre che “nell’immediatezza della rivolta risulta essere stata tempestivamente assicurata assistenza sanitaria a tutti i detenuti da parte del personale sanitario intervenuto…  Risultano essere stati fatti quindi, nel contesto emergenziale, pure gravati dall’emergenza legata al COVID-19, tutti i necessari controlli, con interventi terapeutici di contrasto in loco, ove possibile, o con invio ai presidi sanitari cittadini nei casi più gravi“.

Sarà, ma il  bilancio di nove morti non depone a favore di questa narrazione edulcorata, smentita ormai da numerose testimonianze.
Fra queste, i racconti delle donne che l’otto marzo 2020 sono accorse davanti ai cancelli del Sant’Anna, avvertite della rivolta dal fumo nero che si innalzava dal  tetto del carcere, visibile da gran parte della città.
Rimasero per ore nell’angoscia che i loro cari morissero bruciati o soffocati dal fumo, cogliendo dal piazzale frammenti di ciò che succedeva all’interno: le truppe antisommossa con i caschi insanguinati, le divise insanguinate, i manganelli insanguinati, e non si trattava di sangue loro.
Si vedevano soltanto ragazzi che uscivano con le magliette, con i pantaloncini, in mutande, pieni pieni di sangue. É uscito un poliziotto con casco blu, non mi scordo mai …quando l’ho guardato quello lì era pienissimo di sangue.”2
Presto vennero posizionati dei pullman che ostruirono la visuale dall’esterno, ma non potevano attutire le urla.
Un cellulare ha registrato le grida d’aiuto .
Sei ore di urla abbiamo sentito dalle 2 fino alle 8 di sera. Noi ci chiedevamo: come mai queste ambulanze non prendono i detenuti e li portano in ospedale ? All’improvviso, in tarda sera, abbiamo iniziato a vedere la prima macchina funebre“.3

Oltre i cancelli, una macelleria messicana.

Io non c’entravo niente. Ho avuto paura… Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”.4

Io ero scappato sul tetto del carcere, così non mi sparassero, dopo ci hanno presi tutti e ci hanno messi in una camera e ci hanno tolto tutti i vestiti e hanno iniziato a picchiarci dandoci schiaffi e calci. Dopo ci hanno ridato i vestiti e ci hanno messo in fila e ci hanno picchiato ancora con il manganello, e in quel momento ho capito che ci stavano portando in un altro carcere. Da quante botte abbiamo preso che mi hanno mandato in una altro carcere senza le scarpe“.5

Era lui [l’ispettore] che ha ci ha detto, voi che non c’entrate con la rivolta, a respirare, però uscite solo in campo. E ci hanno picchiato da morire, abbiamo preso così tante manganellate che anche i poliziotti diventavano col sangue. Eravamo 30, 40“.

Mi sono morte due persone davanti e non ho potuto fare niente, perché comunque la mia sezione è andata a fuoco, abbiamo rischiato di morire anche noi…. Vai a capire se è stato veramente per il metadone o sono state delle botte. Io ho visto della gente per terra con la testa schiacciata e con gli anfibi sulla testa, e loro che continuavano a picchiare“.

“Io l’ho preso in braccio [uno dei detenuti poi deceduto] perché stava in gravi condizioni. L’ho portato per aiutare a portare in ambulanza a quelli. A portare in ospedale. Ma appena l’ho portato giù io, l’ho visto con i miei occhi come lo picchiavano. Non volevano sapere che lui c’entrava o non c’entrava con la rivolta”.6

Dello stesso tenore il contenuto dell’esposto presentato in dicembre da cinque detenuti trasferiti, dopo la rivolta, dalla casa circondariale di Modena a quella di Marino del Tronto (AP), assieme a Salvatore Piscitelli, che vi ha trovato la morte.

Gli scriventi dichiarano di aver assistito ai metodi coercitivi e ad intervento messo in atto da parte degli agenti della polizia penitenziaria di Modena e successivamente di Bologna e Reggio Emilia intervenuti come supporto. Ossia l’aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo.
L’aver caricato,detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi di informazione all’abuso di metadone.
Noi stessi siamo stati picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e private delle scarpe, senza e sottolineiamo senza,  aver posto resistenza alcuna. Siamo stati oggetto di minacce, sputi, insulti e manganellate, un vero pestaggio di massa
“.

Si tratta della seconda denuncia formalizzata, fra tante altre rimaste anonime per paura,  che però verrà valutata solo nel procedimento  per la morte di Salvatore Piscitelli – causata da ulteriori violenze e mancato soccorso dopo il trasferimento a Marino del Tronto – e non in quello per gli altri otto.
Una scelta che la dice lunga sulla reale volontà di perseguire, se non proprio la giustizia, almeno la chiarezza sui fatti di Modena.
Eppure, l’esposto contiene  a tal fine elementi di sicuro interesse:

dopo esserci consegnati, esserci fatti ammanettare, essere stati privati delle scarpe ed essere stati picchiati, fummo fatti salire, contrariamente a quanto scritto in seguito dagli agenti, senza aver posto resistenza sui mezzi della polizia penitenziaria usando i manganelli. Picchiati durante il viaggio fummo condotti c/o  alla C.C di Ascoli Piceno“.

È un tema ricorrente nei racconti di altri trasferiti, quello delle violenze e della mancanza di visite mediche,  obbligatorie prima dei trasferimenti in base all’ordinamento penitenziario. Visite mediche di cui la procura di Modena giura invece l’esistenza, ma che non risultano da nessuna certificazione scritta.
È un particolare, questo, non secondario, visto che quattro fra i morti di Modena (Ghazi Hadidi, Ouarrad Abdellah, Artur Iuzu , oltre a Salvatore Cuono Piscitelli) hanno reso l’anima durante il tragitto o dopo l’arrivo ad altro carcere.
Fra l’altro, non solo non c’è nessuna documentazione su questo “dettaglio”, ma nemmeno su quale fosse, durante la rivolta, la catena di comando. Non si sa per esempio chi ha deciso i trasferimenti, escludendo la direttrice del Sant’Anna che l’otto marzo era sparita di scena.
Sul mancato soccorso ci sarebbe qualcosa da dire anche sui detenuti morti all’interno delle mura del Sant’Anna, come per esempio su Hafedh Chouchane, del cui ritrovamento  esanime vi sono tre versioni ufficiali differenti, e che, stando agli atti, è stato visitato da un medico che ne ha constatato il decesso dopo ben 50 minuti dal momento in cui altri detenuti lo avevano consegnato alla penitenziaria.
Forse, 50 minuti prima, era ancora vivo.

Ultimo mistero, è quello della cassaforte che conteneva il metadone. Fonti carcerarie e sindacali avevano raccontato inizialmente che era stata forzata dai detenuti con una fresa prelevata nel magazzino degli attrezzi.
In realtà è perfettamente integra. È stata aperta con la chiave secondo una dinamica ignota e nemmeno particolarmente indagata.

Insomma, motivi per non insabbiare l’inchiesta ve ne sarebbero in abbondanza, se sulla bilancia della “giustizia” non si soppesassero da un lato le vite di detenuti, proletari e migranti, dall’altro l’impunità dello Stato e dei suoi apparati.

Con la coscienza che la verità storica non la scrivono i tribunali, schierarsi contro lo sfregio dell’archiviazione è un atto di rispetto dovuto a quei morti, torturati, umiliati.
Lunedì prossimo, a Modena, ne abbiamo l’occasione.

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CI SONO MORTI CHE PER LO STATO PESANO COME PIUME

Da poco più di un anno dalla strage del carcere di Sant’Anna il tribunale di Modena sarà chiamato a decidere sulla interruzione delle indagini inerenti le cause di morte di ben otto sulle nove vittime di quella terribile giornata.
L’archiviazione è stata richiesta alla procura, proprio nel marzo appena trascorso, nonostante numerose incongruenze tra gli elementi di interrogazione.

Quando vuole, la Giustizia italiana si rivela alquanto celere nonché senza vergogna nel permettersi di dichiarare che ad essa, nonché agli addetti penitenziari che la rappresentano, “non si può addebitare alcuna responsabilità …
Come già per i continui casi di suicidio nelle carceri, ora persino rispetto ad una strage di tale portata, l’unica cosa che possono, evidentemente, gli organi di Giustizia statale, è l’arroganrsi di svincolarsi dalla realtà del proprio coinvolgimento sulle sorti di chi reprime.
Pare valga più la conservazione di una pena inflitta che la sopravvivenza di un detenuto.

LUNEDì 7 GIUGNO ALLE H. 11, PRESIDIO CONTRO L’ARCHIVIAZIONE
in Corso Canalgrande presso il Tribunale di Modena

Comitato di Verità e Giustizia per i Morti del Sant’Anna

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  1. L’udienza non riguarda l’indagine sulla morte di Salvatore Piscitelli, avvenuta dopo il trasferimento nel carcere di Marino del Tronto, il cui fascicolo compete alla Procura di Ascoli. 

  2. Testimonianza rilasciata a Bernardo Iovene  Report. 

  3. Idem. 

  4. Lettera inviata all’AGI – Agenzia Giornalistica Italiana. 

  5. Lettera Inviata ad OLGa- è Ora di Liberarsi dalle Galere. 

  6. Testimonianze rilasciate a Bernardo Iovene, Report. 

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Maxiprocessi, zamponi e tortellini https://www.carmillaonline.com/2020/09/04/maxiprocessi-zamponi-e-tortellini/ Fri, 04 Sep 2020 21:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62618 di Giovanni Iozzoli

Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del segmento modenese più povero e precario –, accusati di aver lottato per difendere la propria condizione.

I processi riguarderanno due vertenze importanti, quella consumatasi ai cancelli dell’azienda Alcar Uno di Castelnuovo Rangone, e quella relativa alla rinomata Italpizza di Modena – vertenze assurte agli onori della cronaca nazionale, in tempi diversi e per ragioni diverse. La Alcar Uno, storico marchio della lavorazione carni suine, è stata anche il teatro, oltre che di una dura battaglia sindacale, del gaglioffo tentativo di incastrare Aldo Milani, incappato nel 2017 in una provocazione dagli esiti fallimentari; mentre la vertenza Italpizza, ha investito un’eccellenza dell’export italiano, vezzeggiata e iper-protetta dalla politica locale .

Gli inquisiti-operai sono sostanzialmente accusati di aver picchettato i cancelli di aziende in cui hanno speso anni e anni della loro vita – ivi producendo valore e profitti. Nell’impostazione della Procura, lo sciopero è l’arma del reato. La busta paga e la dignità, il movente. La scena del delitto: la precarietà, i cambi appalto, le finte cooperative, l’abuso di contratti penalizzanti – le storie tristemente comuni, ormai di massa, dell’Emilia di oggi.

C’è maxiprocesso e maxiprocesso. A Modena, sul banco degli imputati non troveremo il ghigno torbido di Luciano Liggio: bensì le facce spaurite, scocciate e vagamente perplesse di Maria, Hamed, Salvatore, Johnny, Fariba e chissà quanti altri, increduli circa la loro collocazione sul banco degli accusati. Ognuno di loro dovrà rispondere dei consueti reati di piazza – resistenzaoltraggiolesioni – aggravati dal sovraccarico penale dei decreti Salvini.

Per ognuno di questi imputati sono state raccolte e depositate dettagliatissime notizie di reato: tutto quello che nel corso dei picchetti, dei canonici “tafferugli” o dei normali presidi, nel corso di mesi, hanno fatto, non fatto, e persino quello che hanno detto, parola per parola; tutto riportato (con esiti qua e là di involontario umorismo), nero su bianco nell’avviso di conclusione delle indagini. Quasi duecento persone, sommando i due processi. Uno sforzo di trascrizione enorme che avrà tenuto impegnato un esercito di funzionari per chissà quanto tempo. Ce li immaginiamo a sbobinare e visionare ore e ore di filmati e discutere circa l’attribuzione dei reati: “Tizio ha detto ‛sbirro di merda’, Caio ha dato una spinta al sovrintendente…“.

Sarebbe bello quantificare i costi di queste delicate operazioni di intelligence giudiziaria. Confrontarli con tutta la retorica imperante sulla sicurezza. Chiamare la Corte dei Conti a farli, due conti, per capire dove e come si decide di investire le risorse del sistema giustizia, sempre cronicamente deficitario: chi ha deciso che le “priorità dell’azione penale” in questi territori dovessero riguardare scioperi e presidi? Negli atti si citano gli immancabili referti medici prodotti dalla polizia – in massima parte i classici “tre giorni” (che non si danno neanche per un unghia incarnita). Un certificato di 30 giorni lascia a bocca aperta: qualche farcitrice di pizza karateka deve essere esplosa in una rabbia incontrollata, in mezzo al fumo perenne dei centinaia di lacrimogeni che erano la vera costante di quei presidi in località S. Donnino.

C’è l’Italia, in quelle carte della Procura di Modena. L’Italia che non compare mai nei tiggi, l’Italia profonda, della provincia estrema, dove sembra che non accade mai niente e invece sta succedendo tutto. Tante volte la lettura delle carte giudiziarie ha raccontato questo paese, meglio di giornalisti e scrittori; basti ricordare proprio gli atti del processo Milani, in cui poche intercettazioni fulminanti, finite sui giornali, spiegavano senza equivoci che tipo di rapporto intercorre tra i vertici delle aziende e quelli di certe questure italiane. Raccontare in modo spietato e dolente il presente di un paese mai così livido, cupo, diviso: siamo sicuri che i maxiprocessi di Modena assolveranno egregiamente a questa funzione.

Tra cent’anni, gli storici del futuro rileggeranno questi “avvisi di fine indagine” e cercheranno di capire quale pericolo criminale incombesse nella terra dei motori e del lambrusco, per organizzare processi così maniacalmente persecutori; si chiederanno chi fossero queste centinaia di imputati, perché meritassero tante attenzioni, quale pericolo sociale incarnassero, a quale scandalo avessero dato corpo, per meritare un simile sforzo delle legittime autorità. Sì, quale scandalo? Vallo a raccontare ai posteri. La colpa di quei reprobi è stata quella di aver dato visibilità alla condizione operaia oggi; l’aver reso pubblico quello che tutti – ispettorati, sindacati complici, amministratori, magistrati, economisti – sapevano e fingevano di ignorare. Con la loro iniziativa, hanno rivelato che nei primi vent’anni del Ventunesimo secolo, il miracolo del manifatturiero emiliano – arrambante ed esportatore – ha prodotto dipendenti precari, poveri, ricattati, nell’illusione che la “competitività” si potesse fare ormai solo giocando sulla condizione e i costi della forza lavoro.

Lo scandalo è aver scoperchiato un pentolone di cui nessuno voleva sentire l’odore; perché gli insaccati sono saporiti ma guai a guardarci troppo dentro: agli ingredienti come ai rapporti di lavoro. E così è la società emiliana – un grande cotechino ripieno, succulento e rigonfio: ma vai a mettere il naso, dentro quelle statistiche, vai a scomporle e trasformare i numeri in vite umane, in braccia, storie, intelligenze mortificate, abbrutite dal lavoro e dai bassi salari. Una cartografia dell’Italia reale, un paese dei balocchi in cui le guardie tengono il sacco ai ladri e chi denuncia le illegalità, novello Pinocchio, rischia di finire in galera.

Si perché la cosa buffa è che con i loro scioperi, soprattutto dentro tante aziende dell’agroalimentare modenese, questi lavoratori lanciavano delle denunce assai precise e dettagliate: attenzione, istituzioni, il problema non è solo la nostra condizione di sfiga e sfruttamento; perché lo Stato italiano sta perdendo da anni fior di milioni in elusione fiscale e contributiva, con i soliti giri marci di cooperative e appalti interni. Tanto per capirci, il patron della Alcar Uno, il vecchio signor Levoni, è finito nei guai, accusato di una maxievasione da 80 milioni – con sequestro monstre di fabbricati, terreni ed auto d’epoca; ed è stato pure rinviato a giudizio per corruzione – insieme a un giudice tributarista accusato di fargli da gentile consulente. Eppure quelli che hanno denunciato per anni queste nefandezze, finiranno a processo prima di lui. Bello no?

200 operai alla sbarra. Sembra una vecchia storia della Spagna franchista. Ma questo numero riguarda solo i due procedimenti principali citati all’inizio. Ci sono poi gli 11 relativi agli scioperi Emilceramica, i 22 della Bellentani, i 60 della GLS, i 40 della GM e molti molti altri (dati gentilmente forniti dai Si Cobas modenesi che ormai stanno perdendo il conto). Il processo Aemilia, quello contro la ‘ndrangheta, per capirci, ha contato solo 240 imputati. La strage del carcere di Sant’Anna, ci scommettiamo, non ne vedrà manco uno.

Quanto costa ai contribuenti italiani questo music-hall antioperaio, con tutte le sue ritualità? Quanto costa continuare a mantenere presidi polizieschi a difesa delle aziende, oltre che in termini di credibilità democratica di un sistema? Tra l’altro, trovando sempre solide sponde nelle Questure, i padroni, negli anni, si fanno sempre più arroganti; talune vertenze che qualche anno fa si sarebbero chiuse con qualche ora di sciopero e un po’ di normali trattative, si trasformano in una sfida all’Ok Corral; se la forza pubblica è gentilmente messa a disposizione gratuitamente dalla Repubblica, perché farsi ricattare da questi cenciosi proletari, spesso stranieri, che osano contestare il genio imprenditoriale italiano? Più polizia c’è ai cancelli, più si allungano e si complicano le vertenze, è scientifico.

Nelle accuse contro i manifestanti, il vero elemento disturbante è il blocco dei cancelli. È quello che proprio non va giù ai padroni: il fluire delle merci in entrata e in uscita – più sacro del Gange – non va interrotto per nessuna ragione. Non si scherza con i fatturati: la merce è tutto, la vita umana poco, la Costituzione niente, i contratti meno di niente.

Un normale sciopero con astensione del lavoro si può ancora tollerare – tanto ormai la folla dei precari ipericattati (stagisti, appalti, contratti variamente a termine, somministrati), garantisce una base di “fidelizzati obtorto collo”, che non può permettersi di scioperare. Gli strumenti di ricatto sulla condizione attuale della classe operaia – in certi settori più simile al Diciannovesimo secolo che al Ventesimo appena trascorso – sono tanti e facilmente esigibili dalle imprese. I blocchi no. Quelli non se li possono proprio permettere. Sono sommamente diseducativi. Se diventassero pratica di massa, l’Italia andrebbe sottosopra entro qualche settimana: vogliamo più soldi o blocchiamo tutto; più diritti; più sicurezza; più assunzioni; più ospedali, più scuole pubbliche… Bel casino, sarebbe. Sono i blocchi delle merci e dei cancelli a trasformare l’irritazione padronale in vendetta istituzionale.

Dopo le paginate della stampa sui 67 inquisiti della lotta Italpizza, persino la CGIL è dovuta intervenire per dire che – Cobas o non Cobas –, i lavoratori non scioperano mai per diletto, è l’oggettiva asprezza della condizione attuale a imporre il conflitto. La confederazione si è sentita chiamata in causa perché qua e là, i blocchi ai cancelli – soprattutto di multinazionali che vogliono abbandonare il territorio smontando e traslocando gli impianti – è costretta a farli pure lei, e qualche denuncia ha cominciato a beccarsela. Oggi tocca agli scapestrati sindacati di base: ma domani? Le vecchie garanzie concertative sono saltate, il “grande sindacato di Di Vittorio” non incute né timori né rispetto, nel fronte datoriale.

Non è un caso che queste degenerazioni si consumino proprio a Modena. Questa città è l’ultimo baluardo spelacchiato di quello che fu il “modello emiliano”: è la città che ancora elegge il sindaco piddi al primo turno, quella dove le grandi cooperative e i gruppi privati concertano una minuziosa copertura di tutti gli spazi di mercato; privati ai quali è stato generosamente concesso per vent’anni di avere mano libera nella scomposizione e ricomposizione delle filiere produttive, all’insegna del “precarizza e competi”.

Degli elementi virtuosi o avanzati di quel modello, sotto i colpi della crisi, non è rimasto in piedi quasi più niente – welfare inclusivo, eccellenze sanitarie, cittadinanza attiva; l’unico fattore di continuità è l’idea dell’espulsione del conflitto e dei corpi sociali autonomi, giudicati sempre eccedenti ed estranei rispetto alla bontà del modello – quarant’anni fa come oggi. Abbiamo conservato il peggio. E bene ha fatto chi ha coniato l’espressione “sistema Modena”, per definire questa rete progettuale di connivenze tra imprese e istituzioni. La parola “sistema” evoca una realtà anonima, funzionale, indefettibile nelle sue leggi e nei suoi meccanismi – non per niente questo termine, a Napoli ha sostituito l’arcaica espressione “camorra”.

Adesso però c’è da giocarsi una scommessa, in quelle aule di tribunale. Sul banco degli imputati, Maria, Salvatore, Hamed, Frank, Fatima ecc. dovranno rovesciare la loro condizione di imputati e trasformarsi in accusatori. E lo potranno fare solo se intorno a loro si costituirà un fronte di sostegno largo, plurale e consapevole. È necessario che il processo antioperaio si trasformi in un processo di massa contro il moderno sfruttamento in salsa emiliana, i suoi complici politici, i suoi consulenti, i suoi reggicoda, i suoi cani da guardia. Una “costituzione di parte civile” contro chi negli anni della crisi – persino dentro la pandemia – ha continuato ad arricchirsi e a pretendere indulgenza fiscale e protezione ai propri abusi.

Se Modena è stata il laboratorio avanzato della repressione, dovrà diventare il contro-laboratorio della solidarietà militante e della intelligenza collettiva: usare la macchinazione giudiziaria, contro le retoriche d’impresa e le ideologie securitarie, che sono i gemelli degeneri di questa epoca. Bisogna fargli passare la voglia di istruirli, i processi contro il lavoro.

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Sull’epidemia delle emergenze /fase 2: prima venne il carcere… https://www.carmillaonline.com/2020/03/10/sullepidemia-delle-emergenze-2-prima-venne-il-carcere/ Tue, 10 Mar 2020 22:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58567 di Sandro Moiso e Jack Orlando

L’avevamo anticipato una settimana fa: di fronte ad un’epidemia di una certa e inaspettata gravità questo stato non avrebbe saputo rispondere che con la militarizzazione e la repressione. I dodici morti1 e gli innumerevoli feriti tra i detenuti rivoltosi del carcere di Modena e di Rieti e in tutte le altre case di reclusione che sono esplose tra domenica e lunedì, ne sono la palese [...]]]> di Sandro Moiso e Jack Orlando

L’avevamo anticipato una settimana fa: di fronte ad un’epidemia di una certa e inaspettata gravità questo stato non avrebbe saputo rispondere che con la militarizzazione e la repressione.
I dodici morti1 e gli innumerevoli feriti tra i detenuti rivoltosi del carcere di Modena e di Rieti e in tutte le altre case di reclusione che sono esplose tra domenica e lunedì, ne sono la palese conferma.

Mentre i media asserviti cercano di avvallare l’ipotesi, sia a Modena che a Rieti, che i detenuti siano morti tutti, o quasi, per overdose, è un governo paralizzato a tutti i livelli quello che finge di saper traghettare i cittadini verso una lontana e, per ora, invisibile riva di salvezza. Un governo che sa mostrare, ma solo in alcuni casi, il pugno di ferro, mentre, in realtà, i suoi rappresentanti centrali, regionali e locali non fanno altro che aggravare il probabile naufragio e, memori della gloria del comandante Schettino, cercano di accaparrarsi le lance di salvataggio dichiarandosi in quarantena per aver acquisito il virus Covid-19 o invocando misure “cilene” più che “cinesi”.

Ed è in conclusione di un lunedì che conta blocchi stradali, evasioni di massa, sparatorie in strada e scontri per riprendere possesso delle carceri in mano ai rivoltosi, che Giuseppe Conte appare per parlare alla Nazione. Da tiepido uomo d’ufficio prova goffamente a vestire i panni del minuteman mentre dichiara con aria grave che d’ora in avanti tutta l’Italia sarà zona rossa. Le misure stringenti che già hanno investito il nord ora dilagheranno fino all’estremo sud.

Ma a ben guardare, nonostante l’avanzare incessante del virus, a preoccupare veramente tutto l’arco parlamentare, mai così unito come in questi giorni, è un altro tipo di contagio: è l’epidemia della conflittualità sociale che fa scendere gocce di sudore freddo lungo le schiene dei padroni. Allora è bene muoversi decisi e serrare tutto prima che una scintilla schizzi oltre le mura di cemento delle patrie galere e incendi tutto il circostante.

Non serve un genio a vedere che i provvedimenti presi non scongiurano affatto il pericolo della diffusione del virus e continuano, anzi, a moltiplicarne gli effetti. Fino ad ora nessuna chiusura delle fabbriche (qui) e dei luoghi di lavoro, nessuna autentica fermata della circolazione di persone e merci (la scomposta fuga verso il Sud scattata sabato sera subito dopo la diffusione della bozza dei provvedimenti governativi ne è l’esempio emblematico), nessuna autentica strategia per combattere la malattia all’interno delle strutture sanitarie ormai al collasso. Con l’eccellenza lombarda già arrivata a dover selezionare i pazienti a cui somministrare le terapie (qui).

Tutti coloro che dovrebbero svolgere il ruolo di governanti incrociano le dita, corrono scomposti ora facendo gli affidabili, ora cercando di scaricare su ignoti ladri di bozze la frantumazione di una catena di comando che si è fermata ormai alla semplice raccomandazione dell’assunzione di responsabilità da parte dei cittadini. Messaggi che, per avere effetto ed essere ascoltati e messi in pratica, dovrebbero essere accompagnati da rassicurazioni di ben altro tenore, sia sul piano sanitario che sociale.

Invece no: il governo cerca di garantire prima di tutto la stabilità economica senza sforare troppo i parametri europei sul debito pubblico, mentre l’opposizione, i governatori e gli amministratori locali, i rappresentanti delle associazioni degli imprenditori e delle aziende chiedono, sì, di sforarlo ma per garantire la continuità delle aziende stesse e del “necessario” ritorno di profitti.

Nei giorni scorsi avevamo già segnalato l’ineffabile Boccia, presidente di Confindustria, che ha dichiarato che per uscire dall’emergenza economica occorrerà rilanciare le grandi opere inutili, a partire dal TAV; senza nemmeno prendere in considerazione il fatto che anche la costruzione di nuovi ospedali o l’ampliamento di quelli già esistenti potrebbero costituire un investimento più utile, non solo dal punto di vista delle aziende, ma soprattutto da quello della salute dei cittadini.

Come hanno tenuto a sottolineare già domenica 8 marzo, in occasione della festa (virtuale) della donna, le donne NoTav esponendo i cartelli in cui si affermava che un solo metro di TAV potrebbe servire a finanziare cento giorni di terapia intensiva (con tutti i servizi annessi). Ma si sa, in una società fondata sul diritto alla rapina del prodotto del lavoro sociale e sull’accumulazione privata della ricchezza socialmente prodotta non è l’utilità effettiva a contare, ma gli utili delle imprese, degli azionisti e dei gruppi finanziari.

Ma, d’altronde, può un paese come l’Italia, legato a doppio filo al mercato europeo e globale fermarsi e dirottare ogni sua energia verso la risoluzione di una sua emergenza? Crediamo di no. E l’incontrollata frana che ha travolto le borse mondiali subito dopo l’annuncio di una zona rossa (molto tiepida tra l’altro) in nord Italia ci conferma che questo modo di produzione, in fondo, non è così invincibile. Deve correre senza mai fermarsi e nel suo movimento caotico e forsennato si rende inafferrabile. Ma basta un sassolino. Una pietra d’inciampo e il mostro cade giù. Il 9 e il 10 marzo la rivolta dei carcerati ce lo ha mostrato bene.

Così, in queste drammatiche ore, mentre i nostri fratelli detenuti pagano in prima persona il coraggio della rivolta, anche noi e, più in generale, tutti gli esclusi e gli oppressi di questa società avviata al suo drammatico tramonto, dobbiamo riprendere in mano le armi della teoria, dell’analisi e dell’organizzazione.
Comprendere davvero che così come il coronavirus ucciderà più per i tagli effettuati negli anni alla sanità che per la sua virulenza, così nelle carceri, là dove davvero vivono gli “ultimi” di questa società e lo Stato non indossa maschere, la rivolta non esplode solo per il timore del contagio, ma per condizioni di vita (già più volte denunciate e stigmatizzate in Europa) estremamente e ingiustificatamente disagiate, così come scrive dall’interno del carcere un militante No Tav:

l’ansia e l’angoscia per il dilagare dell’infezione stanno crescendo anche tra le mura del carcere, tra i detenuti e il personale ivi impiegato. Scenari di blocco dei colloqui con i familiari, sospensione di permessi e uscite per i semiliberi sono già divenuti realtà in alcuni penitenziari del territorio nazionale e stanno divenendo probabili per gli altri visto il precipitare degli eventi giorno dopo giorno.
Appare chiaro che allo stato attuale, con una popolazione carceraria abbondantemente superiore alla capienza prevista (siamo più di 60.000 in carcere in circa 50mila posti disponibili), non ci sarebbe la possibilità di affrontare con misure di sicurezza adeguate l’eventualità non remota di un contagio tra i detenuti. Non oso pensare con quali conseguenze si ripercuoterebbe su individui già deboli e fragili, nonché ristretti, la diffusione di questa nuova infezione.
Di fronte alla impreparazione e approssimazione delle autorità statali nell’affrontare questa cosiddetta emergenza sanitaria, non pare sensato concentrare ulteriormente i carcerati bloccando anche le uscite di chi gode di benefici o di regimi di custodia attenuata. Inoltre, così facendo si infierisce ulteriormente su persone e sulle loro famiglie che già vivono da anni una condizione di privazione, sacrificio e umiliazione2.

La paura del virus non è che una miccia, l’esplosivo è questa vita di merda che si trangugia e respira quotidianamente. Come dicevano i francesi: fine del mondo, fine del mese, stessa battaglia.

La risposta durissima data alle rivolte esplose in oltre 30 carceri italiane (era almeno dagli anni Settanta che non si assisteva ad un così rapido propagarsi delle rivolte carcerarie) avviene proprio in grazia delle leggi approvate in questi giorni e assume anche il volto del ministro Bonafede, ineguagliabile giustizialista pentastellato. In grazia dello stato di assedio in cui lo Stato può di fatto agire con una discrezionalità fuori dal comune. Il tutto giustificato dal diffondersi del virus, ma in realtà già finalizzato a fronteggiare le conseguenze sociali ed
economiche di una crisi che assomiglia sempre più a una guerra.

Un autentico governo di unità nazionale sembra già essere nato nei fatti, senza distinzione tra Destra e Sinistra. Mentre il rifiuto del Governo e degli imprenditori di chiudere anche i settori produttivi non potrà fare altro che alimentare la rivolta contro una promessa di sicurezza che si rivela di giorno in giorno sempre meno convincente ed efficace. Come gli operai di Pomigliano scesi spontaneamente in sciopero (qui) sembrano già annunciare.

Un governo autoritario che attende di mettere nelle mani di un uomo forte la gestione dell’emergenza. Uomo forte che non dovrà nemmeno minacciare di fare del parlamento un bivacco di manipoli, visto che la maggioranza degli eletti dai cittadini sono già in fuga e l’emiciclo appare sempre più deserto (qui e qui ), come in un film di George Romero. A dimostrare, anche simbolicamente, la perdita di qualsiasi funzione reale dello stesso, a meno che non sia quella di passare la mano, un tempo ai vertici europei e adesso probabilmente all’uomo forte o al “commissario straordinario” che verrà.

Troppo si è dormito anche a sinistra e nei luoghi di aggregazione dell’antagonismo: il discorso sulla catastrofe capitalistica (guerra, crisi economica e ambientale, epidemie) è stato superficialmente accantonato. O meglio affrontato, di volta in volta, separatamente.
Troppo rischioso, troppo responsabilizzante affrontarlo altrimenti nella sua totalità, attraverso la sua irriducibile negazione.

Eppure, eppure…oggi occorrerà, anche se in ritardo, tornare a farci i conti.
Questa epidemia intaccherà a fondo il sistema economico e la vita sociale di questo paese.
Una volta finita l’emergenza, i padroni di ogni risma torneranno a battere cassa.
Per chi ricorda il default della Grecia di dieci anni fa, qualcosa di simile si affaccia all’orizzonte. Ma lo scenario è oggi più instabile, la crisi più profonda, l’autoritarismo più esplicito. Sono i primi bagliori che illuminano il clima da guerra civile che già si sta annunciando, quelli che si intravedono alla fine di questi giorni3.
E non ci si potrà appellare alla magnanimità della democrazia.
Occorre preparare adesso i piani per lo scontro di classe che viene.
Ecco un valido motivo per tornare a fare i conti con questa catastrofe.

Perché quello che per primi stanno sperimentando sulla loro pelle i carcerati in rivolta sarà esattamente ciò che attenderà tutti coloro che a breve, ancora nel corso dell’epidemia o subito dopo il suo placarsi, si mobiliteranno, non per scelta ma per necessità, per le condizioni di lavoro e i licenziamenti, per le mancate cure sanitarie o per il costo dei medicinali e dei prodotti di prima necessità. Per ogni schizzo di questa vita informe che urla vendetta.

Questa non è una previsione tra le tante, è esattamente la realtà dei fatti che ci attendono. Il capitalismo non ha affatto l’intenzione di salvarci, ma soltanto di salvare se stesso. Sulla nostra pelle.
Prepariamoci.


  1. Arrivati ormai a tredici con la notizia giunta oggi del quarto detenuto morto nel carcere di Rieti  

  2. Luca Abbà, qui  

  3. Mentre tanti compagni continuano ad inseguire ogni singola emergenza nell’illusione che il tutto non sia collegato e ogni problema sia invece risolvibile di volta in volta, un esponente di uno dei principali quotidiani di regime afferma oggi:

    “E’ il vuoto della città, delle sue strade e delle piazze -lo spazio della civiltà europea- contrapposto inevitabilmente al pieno delle carceri sovraffollate, come se la disumanità ci presentasse il conto delle nostre contraddizioni, occultate dentro la normalità del quotidiano, rivelate dallo scoppio dell’emergenza.
    La radicalità della sfida tra il virus e la scienza metterà presto in luce altre contraddizioni. L’egoismo feroce che ha cambiato la nostra società, la coltivazione delle paure, la rabbia di classe contro la disperazione oggi sembrano risucchiate in un orizzonte di paura più grande, in una diversa scala di priorità dell’opinione pubblica, ma torneranno a divampare al primo errore, al prossimo grado di allarme, incendiando un tessuto sociale sfibrato e infragilito.”

    (Ezio Mauro, Il nemico e il vuoto, la Repubblica 11 marzo 2020)  

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Gli ultimi figli d’Europa https://www.carmillaonline.com/2018/03/29/gli-ultimi-figli-deuropa/ Wed, 28 Mar 2018 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44491 di Sandro Moiso

Giovanni Iozzoli, Di notte nella provincia occidentale, Edizioni ARTESTAMPA, Modena 2018, pp. 272, € 17,00

E’ un vero peccato che oggi non ci siano più registi del calibro di Mario Monicelli, Pietro Germi o Dino Risi, in grado di prendere in mano un romanzo come questo e trasformarlo in uno dei grandi classici della commedia all’italiana e che, dietro al sorriso e all’umanità della narrazione, avrebbero saputo rivelare l’amarezza delle vite dei protagonisti e i drammi dall’esito incerto di una società in via di smantellamento.

Una vicenda che procede per cerchi concentrici: dal dramma individuale a quello [...]]]> di Sandro Moiso

Giovanni Iozzoli, Di notte nella provincia occidentale, Edizioni ARTESTAMPA, Modena 2018, pp. 272, € 17,00

E’ un vero peccato che oggi non ci siano più registi del calibro di Mario Monicelli, Pietro Germi o Dino Risi, in grado di prendere in mano un romanzo come questo e trasformarlo in uno dei grandi classici della commedia all’italiana e che, dietro al sorriso e all’umanità della narrazione, avrebbero saputo rivelare l’amarezza delle vite dei protagonisti e i drammi dall’esito incerto di una società in via di smantellamento.

Una vicenda che procede per cerchi concentrici: dal dramma individuale a quello famigliare a quello sociale, locale e internazionale; da quello dei sogni racchiusi in attività lavorative in attesa di essere definitivamente soppresse a quelli legati ad attività in proprio destinate a morire ancor prima di nascere; da quello delle speranze giovanili infrante ancor prima di essere espresse a quello delle speranze degli adulti riposte un tempo nel sindacato, nel partito o semplicemente in una vita onestamente vissuta e sudata.

Si piange e si ride, proprio come negli esempi migliori della commedia all’italiana, assistendo alle vicende di Pasquale Altiero, di sua moglie Lucia, del figlio Gabriele, del kebabbaro Mustafà, di suo figlio Karim e degli innumerevoli altri personaggi che popolano le pagine del romanzo di Iozzoli. Personaggi che vanno dal tossico senza speranza destinato a morire all’alba sulle rive del fiume Secchia ai pensionati appassionati delle canzoni di Toni Santagata e dallo stesso Santagata a Abu Bakr Al Baghdadi. Tutti hanno storie da raccontare, tutti sperano in questo modo di dare un senso alle loro vite e di lasciare traccia di sé in un mondo che già non si ricorda più di loro mentre sono ancora in vita.

Tutti tranne i due giovani adolescenti, allo stesso tempo ideali e concreti, rappresentanti di quegli ultimi figli d’Europa che, da Modena a Molenbeek, dalla Siria a Bruxelles a Bologna o a qualsiasi altra città europea, non hanno nulla da ricordare e ben poco in cui sperare, così implacabilmente diretti come sono verso un futuro oscuro e incerto che rischia di trasformarsi, in qualsiasi momento, in un irresistibile vortice in grado di farli sprofondare sia nel buio dello Stato islamico e dei suoi profeti che nel buco nero rappresentato dal consumo di eroina e di crack.

Giovanni Iozzoli, giunto al suo quarto romanzo, è stato tra i fondatori dell’esperienza di Officina 99 a Napoli, da ventiquattro anni vive e lavora a Modena, della cui provincia è diventato allo stesso tempo il cantore e il cronista, e con il suo terzo romanzo, La vita e la morte di Perzechella (edito sempre da ARTESTAMPA), ha vinto nel 2016 il primo premio alla trentatreesima edizione del concorso Città di Cava de’ Tirreni.

Il suo attuale romanzo piomba dritto come una bomba su quelle province dove un tempo regnava il PCI, la terra delle coop rosse e degli imprenditori che erano usciti dalla classe operaia e dove oggi, da Brescello a tanti altri comuni grandi e piccoli, lo scettro è passato ad altri partiti, ad altre promesse che pure affondano le loro radici in quella distorsione di un immaginario collettivo e politico iniziata già dai contemporanei di Peppone e Don Camillo.

Il sogno dell’integrazione formale tra classe operaia e impresa, tra lavoro e capitale ben temperato, tra immigrati e residenti (che spesso hanno dimenticato le loro origini di immigrati), tra partito e società è fallito e non è rimasto nulla con cui sostituirlo se non rancore, desideri insulsi, mutui sempre più difficili da pagare oppure un nichilismo individualistico che non comprende neppure di essere tale.

Viaggia con leggerezza e amarezza lo scrittore tra i flutti di una mareggiata che viene da lontano e che non finirà presto e, quasi unico negli ultimi anni, sa raccontarci una storia italiana e globale, generazionale e sociale senza cadere nel dramma ad ogni costo o nella narrazione intimistica di una vicenda meramente individuale.

Non viaggia in superficie l’autore, ma si tuffa nel mondo di oggi senza farci annegare e senza soffocare i suoi personaggi in un mare di banalità o di retorica, giocando sapientemente con gli artifici della narrazione e rivelandoceli poco a poco con ironia e intelligenza. Riuscendo a far sì che, ancora una volta, sia la letteratura a fornirci la chiave interpretativa più utile per provare a comprendere il mondo che ci circonda. Feroce, comico, drammatico, complesso o in qualunque altro modo lo si voglia definire.

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Pastorale emiliana https://www.carmillaonline.com/2017/11/09/41628/ Thu, 09 Nov 2017 22:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41628 di Giovanni Iozzoli

Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del nord Europa 200 camion di suini macellati ogni giorno – la materia prima che, lavorata in loco, rifornirà tutti i grandi marchi nazionali ed esteri.

Il monoteismo del prosciutto regna sovrano, in questi luoghi; tra i miasmi degli stabilimenti aleggia un vago sentore calvinista – impresa e denaro come manifestazioni della benevolenza divina. Un maialino bronzeo troneggia nella piazza centrale di Castelnuovo Rangone – omaggio a se stessa, di una comunità sobria, laboriosa e danarosa, che vede il suino come metafora della vita.

Quello che è successo, negli ultimi vent’anni in questo comparto, è la nota accelerazione globale di mercati, merci e processi produttivi, che si è abbattuta drasticamente su un distretto che un tempo si sentiva vincente per qualità e specializzazione: concorrenza sempre più feroce, prezzi al ribasso, qualità a picco e pressione sempre più distruttiva sul lavoro vivo. Appalti, sub appalti, spezzettamenti, la filiera che si slabbra e si allunga come un verme. Migliaia di lavoratori, principalmente stranieri, collocati nei gironi via via più degradanti del lavoro in appalto, tra cooperative spurie, terziarizzazioni, consorzi fittizi creati dalle stesse imprese appaltatrici – ovviamente nei segmenti produttivi dove regnano fatica, nocività, rischio per la salute. Insaccati, polpettoni, prodotti precotti e surgelati di ogni ordine e grado: tutto passa dalle mani di queste migliaia di pseudofacchiniquasialimentaristi, dalla salute spesso compromessa – abbondano problemi muscolo scheletrici, polmoniti, ferite da taglio, perché qui le lavorazioni più essenziali si fanno ancora di gomito e coltello.

Ma quella del distretto carni non è la solita minestra avvelenata del panorama italiano – cooperative che non sono cooperative, facchini che non sono facchini, contratti che non sono contratti. Non è solo una storia di appalti fasulli, elusione fiscale e capannoni della logistica persi nelle nebbie brumose della campagna padana. No, qui si sta parlando di un palcoscenico rinomato, dove va in scena ogni giorno la farsa dell’eccellenza agroalimentare italiana: un concentrato di bugie, affarismo, arroganza e retorica tricolore – straprovinciale e global, allo stesso tempo.

Il distretto carni rappresenta la vetrina delle scelleratezze italiane degli ultimi due decenni, un esempio della svalorizzazione del lavoro, della mortificazione operaia. E delle viltà, delle complicità, della subordinazione della politica e del sindacato, della retorica del primato dell’impresa come valore unanimemente condiviso. Perché questi territori, nell’immaginario, amano rappresentarsi come i luoghi dell’eccellenza alimentare, il richiamo ancestrale e fasullo alla terra, alla genuinità della tradizione, al mangiar sano, al mulino bianco e al vivere comunitario.

Tutta fuffa, tutto marketing. In questo comparto (come ovunque) la risorsa essenziale non è la genialità imprenditoriale o il retaggio di mestiere: il fattore chiave è il lavoro vivo, le braccia, l’intelligenza e la disperata disponibilità indotta dalla miseria. Si, la miseria, la vecchia, cara indispensabile miseria, altro che eccellenze: perché solo la miseria può indurre migliaia di nuovi schiavi a rinchiudersi in capannoni e celle frigorifere a rifilare, disossare, tagliare – ballando, a salario pieno, intorno alla soglia di povertà. La miseria è il miglior motivatore professionale, la leva perenne di ogni intrapresa economica. Industria 4.0? Da queste parti si preferiscono ingredienti antichi e tradizionali: sfruttamento, gerarchia, ricatto e sottomissione. Un tempo, per i locali, l’industria norcina fu davvero elemento di elevazione sociale: macelli, laboratori e fabbriche furono tra i templi del compromesso sociale emiliano. Oggi non c’è tempo per favole rassicuranti. Sei euro lorde all’ora, una settimana a casa l’altra lavorare 60 ore – anche 12 ore filate, fino a pisciarsi addosso o mangiare in piedi come i cavalli. E a ogni cambio appalto si sfoltiscono i ranghi dei sindacalizzati e dei riluttanti.

È una storia di pervicace illegalità, quella del distretto carni. Un morto ammazzato nel 2001 (fanno capolino anche i soliti servizi segreti), pestaggi, minacce, auto bruciate, criminali di ogni risma che attraversano la vita, e spesso i cancelli, di aziende prestigiose. Una pastorale emiliana (e segnatamente modenese) dove molti attori diversi continuano immutabilmente a cantare la loro parte – incassando milioni o sputando sangue -, comunque seguendo una partitura criminale efficace, per quanto tremendamente precaria. Il giorno che qualcuno si decidesse ad applicare (almeno un po’) le leggi della Repubblica, il mito dell’eccellenza agroalimentare italiana crollerebbe miseramente – e questo vale per tutta la cigolante catena nazionale, dai raccoglitori di pomodori del foggiano a questi strani facchini ghanesi, cinesi, filippini e albanesi, le cui mani callose (senza retorica) custodiscono il buon nome e la credibilità del marchio made in Italy che finisce sulle tavole di mezzo mondo. E allora, vediamoli, i protagonisti di questa moderna pastorale di provincia.

I PADRONI
Qualcuno è di nobile schiatta imprenditoriale, qualcuno è diventato un global player, qualcuno è un artigiano arricchito, qualcuno ha la mentalità truce del macellaio che sorveglia il negozio: tutti devono correre al ritmo spietato della concorrenza, che significa spremere lavoro e abbassare costi, pretese e qualità. Negli anni 90 hanno venduto tutti l’anima al diavolo, anche se oggi si ostinano a firmare protocolli etici. Aumentare i margini intensificando lo sfruttamento, è l’unica arma rimastagli. Sanno fidelizzare la gente, pagando in nero gli accoliti per scagliarli contro i lavoratori in appalto. Pagano anche giornalisti, pubblici funzionari, eserciti di consulenti, finanziano iniziative pubbliche, civiche, sportive, foraggiano sindaci costantemente distratti, rispetto alle brutture sociali che amministrano. Non sono mai stati soli, nella continua opera di evasione, elusione, violazione di norme e contratti. Queste pratiche non sono invenzione estemporanea di qualche imprenditore spregiudicato: mamma Confindustria veglia su tutti loro e non si è mai dissociata da nessuno dei suoi prosciuttai.

LE CENTRALI COOPERATIVE
Prendono le distanze dal sottobosco malavitoso, per tutelare il buon nome della “vera cooperazione”. Ma se il termine cooperativa è diventata una parolaccia è anche colpa loro, delle loro omissioni e complicità. Del resto i grandi gruppi cooperativi ufficiali hanno da tempo “marchionnizzato” le loro relazioni interne e i rapporti sindacali. Le cooperative spurie sono solo il bordo sfrangiato e impresentabile di un mondo geneticamente modificato, che comincia già dietro i banconi della Coop. Non è un caso che il Ministro del Lavoro nell’epoca del Jobs Act, venga da quella giungla.

LE COOPERATIVE SPURIE
Le mafie hanno scoperto questo mondo negli anni 90 e se ne sono innamorate. Costruire aziende cooperative, riciclare, vincere finti appalti, infilare al lavoro i picciotti in semilibertà. E finalmente entrare a testa alta, senza estorsioni, dentro i circuiti ufficiali del settore, insediarsi legittimamente in territori floridi, sottraendosi ai capricci mutevoli del ciclo dell’edilizia. Una volta i gruppi dirigenti di queste cooperative erano composti direttamente da pregiudicati casertani e calabresi. Oggi hanno imparato meglio a usare i prestanome, anche se magari le sedi legali sono gli studi di avvocati specializzati nel 416 bis. Naturalmente non tutte queste cooperative hanno origine e matrice criminale; nell’affare ci si è buttata tanta gente sveglia che da anni alimenta un tourbillon inafferrabile di sigle, consorzi, concordati, fallimenti, spesso riconducibili agli stessi capicordata e alle medesime aziende appaltatrici. Tecnicamente una “cooperativa spuria” è un’associazione a delinquere. Non dovrebbe occuparsene l’Ispettorato del Lavoro.

I SINDACALISTI
Ne sono passati tanti, dentro e davanti quei cancelli. Non si deve essere ingenerosi o qualunquisti, molti danno l’anima per organizzare e dare sbocco alla rabbia sorda della gente – se si va domattina, alle 5, ai cancelli della Castelfrigo o della Alcar, li si trova là davanti, col megafono e la bandiera. Ma tanti sono stati anche i vili, gli imboscati, gli impotenti che allargavano le braccia davanti a ogni abuso, quelli che limitavano la loro funzione alle denunce e agli esposti. Per non parlare di quelli che si sono prestati a fare da consulenti occulti nell’interesse delle aziende. Se avesse incontrato davanti a sé, il muro di un movimento sindacale serio e autorevole, tutta questa metastasi non si sarebbe mai estesa negli anni.

I QUESTORI
Hanno messo le forze di polizia al servizio delle aziende, a presidio della santa continuità produttiva, come se la Questura fosse l’Agenzia Pinkerton (che almeno non era pagata dai contribuenti). Se avessero “attenzionato” seriamente il comparto carni, oggi nelle carceri di Sant’Anna dovrebbe esistere un “padiglione cooperatori”. Particolarmente deplorevole il metro e la misura delle scelte di ordine pubblico: perché da queste parti, di solito, non si usano i manganelli contro I presidi sindacali; ma se a farli sono questi lavoratori un po’ scurotti (e si presume, meno tutelati), la celere si sente autorizzata a rompere ogni tabù – e anche qualche testa. Come se a questi proletari non si riconoscesse neanche il diritto minimo di sentirsi pienamente classe operaia.

I PM
Hanno lavorato con foga, nei mesi scorsi, per liberare le aziende dalla morsa dei sindacalisti molesti. L’inchiesta contro Aldo Milani, di quale dispiegamento di uomini e mezzi ha potuto giovarsi? Telecamere nascoste, microfoni, intelligence, agenti provocatori e trame raffinate. Chi ha mai visto un magistrato indagare con la stessa determinazione sul settore carni e le sue derive criminali? In occasione dell’arresto del leader del SI Cobas, la Procura ha ufficialmente esposto anche il suo teorema: lo sciopero e il picchetto, in una certa misura, possono essere inquadrati sotto il profilo criminale dell’estorsione. Bloccare un’azienda per spillare quattrini a un padrone, è un’azione delittuosa. Quando la politica muore, entrano in scena i corpi armati dello Stato (tale è la magistratura, non dimentichiamolo mai), che vanno a prendersi il loro spazio di supplenza e direzione politica, rilasciano proclami a reti unificate, scavalcano l’ectoplasma di amministratori e partiti, stabiliscono in proprio ciò che è lecito fare o non fare, nella Repubblica del Maiale.

I CONSULENTI
Ogni mafia ha bisogno dei suoi colletti bianchi. La mafia delle cooperative – e dei suoi committenti industriali – può contare su una pletora di avvocati, consulenti, commercialisti, facilitatori di ogni tipo. Parassiti ben pagati che studiano giorno e notte il modo per eludere leggi, fisco e contratti. Sono professionisti seri, sobri, abituati al basso profilo; magari vivono in questi stessi territori, dentro villette a schiera senza pretese. Fingono di ignorare quello che succede concretamente dietro le piramidi societarie e le trappole antioperaie che progettano. Probabilmente, per giustificare se stessi, nutrono anche una qualche confusa idea di progresso e di necessità dello stato di cose presenti. Una lumpen-borghesia delle professioni che spiega molto di questo paese, da Sud a Nord.

I DIRETTI
Sono I lavoratori assunti dalle imprese, magari con contratti stabili a tempo indeterminato. Sono quelli che fanno più pena di tutti sul piano morale. Ormai si tratta di minoranze dentro aziende che realizzano i volumi produttivi solo grazie al personale delle finte cooperative. Stanno abbarbicati ai loro lavoretti, al loro minuscolo privilegio, guardando ai colleghi del piano di sotto, come mine vaganti che possono mettere in discussione tutto il baraccone. Sono spesso immigrati anche loro, meridionali piovuti qui nei tristi anni 80, con mutui pesanti e figli precari da mantenere. Entrano a testa bassa, la mattina, davanti ai cancelli presidiati dalle lotte. Sanno che quei loro quasi colleghi hanno ragioni da vendere. “Ma così va il mondo: e meno male che non tocca a me…”. La mancanza di dignità a cui questi padri di famiglia egoisti si sottopongono è la parte peggiore della storia.

GLI AUTOCTONI
Sono commercianti, impiegati, spesso anziani pensionati che nella vecchia industria norcina hanno lavorato duramente e guadagnato onorevolmente. Quando i cortei dei nuovi schiavi del prosciutto passano in centro, li guardano, dalle soglie dei bar e dei negozi e scuotono la testa; pensano che questi nuovi arrivati abbiano poca voglia di lavorare, accampino troppe pretese, reclamino troppi diritti. Intanto gli affittano a caro prezzo stamberghe umide in centro, o vecchie masserie in campagna – perché del facchino “non si butta via niente”, si deve spremerlo in fabbrica e fuori, con metodo e scrupolo.

I POLITICI
Pallide figure che cominciano ad affacciarsi ai cancelli degli stabilimenti in lotta, in vista delle prossime elezioni. Sanno di non contare più niente – dichiarazioni di intenti, tavoli, protocolli – , un vecchio mondo caduto in disuso. Esprimono la pochezza caotica dei tempi: un esponente può esprimere “preoccupazione per i licenziamenti” e un altro può tuonare contro le “illegalità dei picchetti”, magari stando nello stesso partito. I facchini ghanesi o filippini, li guardano con perplessa ironia.

LE ROTATORIE
Sono l’elemento più innocente della zona, non fanno male a nessuno, non possono neanche tanto peggiorare la tragica bruttezza dei luoghi. Chissà com’erano le campagne, qui, un po’ di decenni fa, si fa fatica anche a immaginarlo. Dopo aver infilato capannoni grigi dappertutto, negli anni scorsi, oggi prevale la passione per le rotatorie di ogni ordine e grado. Danno al forestiero l’idea di un moto perpetuo in cui non ci si muove mai davvero. Non servono a niente. Sono buone solo per farci dei blocchi stradali.

GLI SCHIAVI RIOTTOSI
E poi c’è finalmente la contropastorale, il coro stonato e furente di Ahmed, Tashi, Antonu, Chen, Salvatore, Frank e molti altri pirati del prosciutto che, coltello in mezzo ai denti, si stanno lanciando contro le vestigia scassate del modello emiliano. Si ribellano perché non hanno altra scelta. Sono le vittime sacrificali del futuro luminoso che ci attende, i neo-schiavi dell’economia servile 4.0. Perché non c’è sviluppo o rivoluzione produttiva senza un esercito di servi pronti a tutto (è per quello che i ricchi, di solito, sono genuini no border e sostenitori dell’Open Society). Ma questi ragazzotti hanno la testa dura, non sono venuti fin qui per immolarsi sull’altare del Made in Italy, se ne fottono del Gran Biscotto, dei sofficini e del polpettone italiano. Hanno già dato abbastanza. Nel centesimo anniversario dell’Ottobre, stanno imparando a volgere le loro baionette da disossatori verso i generali. In questo momento sono loro l’unica vera eccellenza che esprime il territorio.

 

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Il tempo del cambiamento. Modena negli anni Sessanta https://www.carmillaonline.com/2015/04/01/il-tempo-del-cambiamento-modena-negli-anni-sessanta-3/ Tue, 31 Mar 2015 22:01:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21611 di Gioacchino Toni

molinariAlberto Molinari, Il tempo del cambiamento. Movimenti sociali e culture politiche a Modena negli anni Sessanta, Editrice Socialmente, 2014, pp. 363, € 18,00

Il corposo saggio di Alberto Molinari analizza gli anni Sessanta modenesi ricostruendo i movimenti sociali e le culture politiche che hanno attraversato l’intero decennio. Ad essere passato in rassegna non è pertanto il solo biennio ’68/’69, ma un arco temporale più lungo che consente di seguire le trasformazioni che hanno coinvolto il mondo giovanile, studentesco ma non solo, il movimento operaio e quell’area del cattolicesimo progressista che ha avuto una certa rilevanza anche a [...]]]> di Gioacchino Toni

molinariAlberto Molinari, Il tempo del cambiamento. Movimenti sociali e culture politiche a Modena negli anni Sessanta, Editrice Socialmente, 2014, pp. 363, € 18,00

Il corposo saggio di Alberto Molinari analizza gli anni Sessanta modenesi ricostruendo i movimenti sociali e le culture politiche che hanno attraversato l’intero decennio. Ad essere passato in rassegna non è pertanto il solo biennio ’68/’69, ma un arco temporale più lungo che consente di seguire le trasformazioni che hanno coinvolto il mondo giovanile, studentesco ma non solo, il movimento operaio e quell’area del cattolicesimo progressista che ha avuto una certa rilevanza anche a livello regionale e nazionale. La ricerca, pur contestualizzando sempre gli eventi sullo sfondo del panorama nazionale, indaga un caso locale, una piccola città, periferica rispetto ai grandi centri ed alla ribalta nazionale, ma di un certo interesse sia per la rilevanza che per le peculiarità del sistema produttivo modenese, contraddistinto da una forte diffusione del lavoro a domicilio nel comparto tessile-abbigliamento e dalla notevole frammentazione in piccole o piccolissime unità produttive, veri e propri reparti fuori fabbrica, per quanto riguarda la produzione meccanica.

Tra i pregi di tale ricerca, oltre alla scelta di analizzare un ambito locale fino ad ora non indagato in maniera sistematica, sicuramente rientra la ricostruzione “del mondo prima”, cioè della cultura e delle consuetudini che strutturano la realtà locale, e non solo, di quel mondo messo in discussione ed, in parte, cambiato nel corso degli anni Sessanta. Ciò risulta particolarmente utile a comprendere l’urgenza e la determinazione delle lotte che attraversano l’intero decennio fino al biennio ’68/’69.

La prima parte del testo ricostruisce il mondo giovanile modenese nel corso degli anni Sessanta. Si parte dal fenomeno migratorio che ha visto tanti giovani abbandonare l’appennino e le zone rurali della provincia per approdare nei centri urbani ove maggiore è l’opportunità di lavoro e l’accesso al consumo. Tale ondata di nuova forza lavoro giovanile, scontratasi con una realtà ben diversa da quella immaginata, si rivela meno passiva del previsto, tanto che la forte adesione giovanile agli scioperi, sin dal finire degli anni Cinquanta, coglie alla sprovvista anche il sindacato. Come a livello nazionale, anche a Modena si palesa, inoltre, l’incapacità dei partiti di sinistra di comprendere il mondo giovanile, soprattutto nelle sue forme di ribellismo meno convenzionali che determinano fenomeni di politicizzazione al di fuori dei canali tradizionali.
Nel testo vengono riportate riflessioni di alcuni giovani studenti-lavoratori consapevoli di come l’abbandono scolastico sia in larga parte dovuto all’ostilità che l’ambiente esercita nei confronti degli studenti provenienti da famiglie più disagiate ed è ben presente la percezione, tra i figli degli operai, che la scuola è strutturata in modo da mantenerli in stato di inferiorità rispetto ai coetanei figli di professionisti; il sistema scolastico sembra finalizzato al mantenimento delle differenze sociali.
L’esplosione delle proteste studentesche modenesi si deve al rifiuto dell’autoritarismo della scuola-caserma ed alla richiesta di maggior democrazia. La ricerca ricostruisce anche la risposta repressiva da parte delle autorità scolastiche, degli apparati polizieschi e della stampa locale, che non manca di dar vita ad una vera e propria campagna di criminalizzazione nei confronti di tutto ciò che tra i giovani si muove. Vengono riportati stralci di documenti redatti dagli studenti sia liceali che degli istituti tecnico-professionali e viene passato in rassegna il mondo delle scuole secondarie ed universitario modenese, le battaglie volte alla conquista di nuove forme di protagonismo e di rinnovamento del mondo dell’istruzione, fino all’incontro col mondo operaio, inizialmente limitato a forme di reciproca solidarietà, poi caratterizzato da forme di confronto e scambio più dirette. Interessante anche la ricostruzione della cultura giovanile antifascista modenese costretta a confrontarsi con l’ingombrante presenza cittadina dell’estrema destra greca di “Focolare ellenico”, nutrito gruppo di studenti greci controllato direttamente dai servizi segreti dei colonnelli e dalla Cia.

La seconda parte del saggio passa in rassegna il mondo del lavoro locale ricostruendone le specificità che vedono una realtà contraddistinta da un’egemonia politica e culturale della sinistra con un sindacato che si pone come soggetto politico territoriale. A risultare particolarmente interessante è sia la ricostruzione del tessuto produttivo modenese, contraddistinto dalla diffusione della medio-piccola impresa, che, in linea col resto del paese, la disomogeneità, tra i lavoratori, del “peso contrattuale”; maggiore nelle componenti operaie più professionalizzate, caratterizzate dalla cultura del lavoro, decisamente debole tra gli operai comuni. Rispetto al quadro nazionale, o meglio, rispetto ad alcune zone del paese, nel modenese la tensione tra movimenti spontanei ed organizzazioni tradizionali del movimento operaio, nel corso degli anni ’60, non è particolarmente dirompente, tanto che, anche i momenti di contrasto più forti, risultano sostanzialmente assorbiti.
Diversi passaggi nel testo descrivono le condizioni di lavoro e di vita operaie, alcune di queste descrizioni potrebbero benissimo essere utilizzate per raccontare situazioni contemporanee, soprattutto per quanto riguarda il lavoro immigrato: “Sono giunti a Modena, alcuni di essi, in seguito a reclutamento che Valdevit o il suo ingegnere hanno fatto nei paesi del meridione o dalle isole. Sono andati nei paesi di emigrazione, promettendo lavoro, vitto e alloggio. Hanno poi, invece, dato agli operai alcuni cameroni in cui vivere in modo indecente, un lavoro massacrante e una paga bassissima. E, inoltre, la minaccia continua del licenziamento nel caso di una qualsiasi agitazione sindacale”. (p. 181 – citato da “L’Unità” del 23 novembre 1968).

La ricerca racconta di come, soprattutto nel comprensorio ceramico sassolese, le assunzioni risultino spesso pilotate attraverso la chiamata diretta. Non manca l’invio di reclutatori di mano d’opera nelle regioni più povere che fanno affluire migliaia di immigrati incuranti delle condizioni di vita a cui sarebbero stati costretti: centinaia di famiglie ridotte a vivere in scantinati, sottotetti e case dichiarate inabitabili, spesso senza poter contare sulla presenza di asili e scuole materne per la custodia dei bambini durante il lavoro.
Come altrove nel paese, anche nel modenese le realtà meno sindacalizzate dimostrano presto un’inattesa propensione alla lotta e soprattutto le nuove leve operaie, giovani ed immigrati meridionali, partecipano attivamente alle mobilitazioni. Il ciclo di lotte iniziato nel 1968 si è presto preoccupato della conquista di maggior democrazia all’interno dei luoghi di lavoro e del miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza tanto nelle aziende quanto nel lavoro a domicilio, ove si diffondono più facilmente patologie legate alle condizioni malsane e si assiste all’incremento, soprattutto tra le lavoratrici madri, di stati d’ansia e problematiche legate ai figli incustoditi. Esistono poi alcune peculiarità relative al settore ceramico, ove si riscontrano altissime percentuali di aborti e nascite premature, esempi evidenti di quanto il lavoro plasmi la vita ed il corpo soprattutto delle lavoratrici.

Nella terza parte del saggio, vengono ricostruiti gli anni Sessanta del cattolicesimo del dissenso modenese seguendo le esperienze di alcuni gruppi e riviste culturali come il circolo Vanoni, nato dalla sinistra democratico-cristiana locale, poi trasformatosi nell’Associazione di studi e di iniziativa culturale “Il Portico”, aprendosi a contributi di diversa provenienza culturale ed ideologica. La rivista “Note e rassegne” rappresenta sicuramente lo strumento principale di comunicazione e di dibattito del cattolicesimo del dissenso modenese.
L’esperienza locale si inserisce nell’ambito delle grandi trasformazioni che negli anni Sessanta attraversano il mondo cattolico sospeso tra istanze conservatrici e di rinnovamento, in un’epoca segnata dall’involuzione dell’esperienza del centrosinistra, dal Concilio Vaticano II e dal fenomeno dei cattolici di base, dai conflitti internazionali e dalle contraddizioni interne all’Est europeo. Nell’ambito di tale contesto si sviluppa una crescente volontà di mettere in discussione la struttura gerarchica della chiesa al fine di vivere un’esperienza di “chiesa partecipata” e, per certi versi, conseguentemente, si avverte la necessità di confrontarsi con il movimento operaio, con l’emarginazione ed il Terzo mondo.
Il dissenso cattolico modenese veicolato da “Note e rassegne” è contraddistinto dal rifiuto dell’integralismo tanto cattolico (la rottura con la Dc si consuma a causa della non accettazione del “dogma” dell’unità dei cattolici in politica), quanto comunista (al Pci viene contestato il dogmatismo antipluralista). L’esperienza modenese ha un ruolo tutt’altro che secondario nella ricerca di nuove forme di partecipazione politica rispetto a quelle partitiche tradizionali, prendendo attivamente parte all’esperienza dei cosiddetti “Gruppi spontanei”, realtà provenienti soprattutto dal mondo cattolico, ma anche dalla sinistra comunista in dissenso nei confronti dei partiti di sinistra. Con la fine degli anni Sessanta si spegne l’esperienza delle assemblee nazionali dei gruppi spontanei che confluiscono o nei gruppi “alla sinistra” del Pci (come Il Manifesto e Lotta Continua) o nel movimento maggiormente attento al versante religioso delle “Comunità di base”. “Note e rassegne” finisce col confluire nelle esperienze dalla “nuova sinistra”.

INTERVISTA

1) Relativamente agli anni Sessanta modenesi non mi risulta esistano altri studi sistematici, immagino che tra i primi problemi che hai dovuto affrontare ci sia stato quello delle fonti. Quali sono state le fonti privilegiate nella ricerca?

La ricerca è iniziata sette anni fa quando ho proposto all’Istituto storico di Modena di fare una prima ricognizione sulle fonti archivistiche relative ai movimenti degli anni Sessanta e Settanta nella realtà modenese. Nessuno aveva lavorato prima su questi temi, quindi non sapevamo se il materiale archivistico sarebbe stato sufficiente per avviare una ricerca. Ho iniziato a saggiare due archivi locali (quello dell’Istituto storico e del Centro Ferrari) e nello stesso tempo a raccogliere testimonianze orali su quegli anni.
Mi sono reso conto, e non me l’aspettavo, che il materiale documentario era ricchissimo.
Per quanto riguarda gli archivi locali, ho potuto studiare fonti diverse, per origine, organizzazione e finalità della conservazione.
Ci sono raccolte documentarie, “fondi personali”, che rientrano nella categoria degli “archivi dei movimenti”: carte di vario tipo (volantini, documenti, manifesti, fotografie, verbali di riunioni, programmi di iniziative ecc.) raccolte da persone che avevano vissuto quella stagione come protagonisti, come militanti di organizzazioni. Queste persone hanno donato la documentazione agli istituti modenesi per sottrarla alla dispersione con un approccio alla conservazione che si può definire “militante”, intesa cioè principalmente come difesa di una memoria, senza preoccupazioni di tipo archivistico, in senso scientifico. E’ un primo lavoro di raccolta che ha svolto una funzione fondamentale, perché ha salvato un patrimonio documentario senza nessun aiuto finanziario, istituzionale ecc., solo sulla base della passione. Queste carte sono state poi state riordinate una decina di anni fa, sono stati creati strumenti per facilitarne la consultazione, altri fondi personali più recenti sono in corso di riordino.
Altri fondi sono invece “istituzionali” come quelli del Pci e della Cgil.
Fondamentale è l’archivio del Pci che, nel caso modenese, è straordinario, dal punto di vista della quantità e della qualità dei documenti conservati dal secondo dopoguerra agli anni Settanta. Nell’archivio del Pci si trovano non solo le carte che documentano tutte le attività del partito, il dibattito interno ecc. Governando la città, avendo costruito una struttura capillare sul territorio e svolgendo di fatto un lavoro di controllo sociale, il Pci raccoglieva informazioni su tutto ciò che accadeva in città. Nell’archivio si trovano quindi raccolte molto dettagliate anche sui documenti prodotti dai movimenti che si muovevano fuori dal partito e alla sua sinistra, dal movimento studentesco a Potere operaio, il Manifesto ecc., in alcuni casi dei dossier tematici. Su questi aspetti sono molto interessanti anche i verbali della Commissione di controllo del Pci. Un discorso analogo vale per l’archivio della Cgil, ovviamente in particolare per il movimento operaio.
Nel corso della ricerca ho poi consultato altre fonti scritte, la stampa locale e nazionale e i documenti del Gabinetto della Prefettura di Modena conservati all’Archivio di Stato di Roma. I documenti della Prefettura sono evidentemente importantissimi perché ci possono offrire un quadro dell’interpretazione che lo Stato dava delle lotte, dei movimenti, di quello che avveniva, delle pratiche di controllo e repressione messe in atto ecc. Sono fonti che, come tutte le fonti, parlano anzitutto di chi le produce piuttosto che del fenomeno che osservano, più dei sorveglianti che dei sorvegliati…
Ma al di là di questo aspetto, sul piano delle informazioni nell’Archivio di Stato devo dire che non ho trovato molto di più di quanto avevo già visto nell’archivio del Pci. Si potrebbe dire che il Pci lavorava meglio della Prefettura….
Non sono riuscito invece a consultare l’Archivio di Stato di Modena (Questura e Prefettura) perché il riordino è terminato da poco, penso di utilizzarlo per la prosecuzione della ricerca verso gli anni Settanta, stiamo costruendo un “laboratorio” su questo tema…

2) L’analisi dei movimenti sociali e delle culture politiche modenesi proposta dal saggio è suddivisa in tre parti, pur inevitabilmente intrecciate tra loro: il mondo studentesco, il movimento operaio e l’area del cattolicesimo progressita. Nell’analizzare il mondo studentesco e l’esperienza dei cattolici del dissenso si può contare su una corposa produzione scritta (volantini, riviste, resoconti ecc.) stesa direttamente dai soggetti stessi analizzati, mentre la ricerca sulle mobilitazioni nel mondo del lavoro è basata, in buona parte, sui documenti ufficiali sindacali ed istituzionali. Manca, forse, una vera e propria “produzione scritta di base”. Il ricorso alle fonti orali è stato particolarmente d’aiuto al fine di ridare in maniera più diretta la parola alle componenti operaie artefici delle lotte?

Vorrei prima sottolineare un aspetto della questione fonti in generale, per questo tipo di ricerca. Il quadro che ti ho descritto mi sembra che smentisca un luogo comune, circolato per molto tempo in alcuni ambiti della storiografia, secondo il quale sarebbe impossibile fare una storia rigorosa dei movimenti tra il ’68 e gli anni Settanta. Si diceva, e qualcuno ancora lo sostiene, che mancano le fonti, perché i movimenti sono realtà informali, non strutturate ecc… Ora, questo è sicuramente vero, nel senso che non esiste una ‘memoria ufficiale’ dei movimenti, i movimenti di base, a differenza dei partiti o dei sindacati, non si pongono il problema di conservare la memoria del proprio agire, di ciò che producono. Ma se si scava negli archivi si possono trovare molti elementi che consentono di fare ricostruzioni puntuali. Ti faccio un esempio: nel fondo del Gabinetto della Prefettura in Archivio di Stato ci sono buste molto corpose che raccolgono la documentazione prodotta da Lotta continua, città per città… volendo si potrebbe fare una storia di Lotta continua basata non solo sulla memorialistica…. la stesso discorso vale per il movimento studentesco e per alcune realtà operaie di base ecc. Tra l’altro a Roma non pongono problemi per la consultazione, almeno sino ai primi anni Settanta.
Come ti dicevo, l’altro aspetto del mio lavoro sulle fonti è stato la raccolta di testimonianze. In realtà questo lavoro è ancora in corso, non sono riuscito a intervistare tutte le persone che sono disponibili a parlare della loro esperienza tra gli anni Sessanta e Settanta.
Rispetto alla tua domanda, hai ragione, la “produzione scritta di base” operaia nella realtà modenese non è ricca come quella del movimento studentesco o dei cattolici del “dissenso”. Tieni conto che a Modena nelle fabbriche non si sono formati gruppi operai autonomi, alternativi al sindacato, come a Marghera, a Torino, a Milano… C’è stata una dialettica, a volte anche aspra, tra base e vertici sindacali, ma in una città ‘rossa’ come Modena il sindacato ha condizionato notevolmente gli orientamenti delle lotte operaie.
Qualche esperienza significativa al di fuori del sindacato comunque c’è stata. Oltre all’intervento di Potere operaio, ad esempio nel ’69 a Modena nasce un comitato di studenti e operai che organizza in piazza Mazzini una ‘tenda’ permanente di sostegno alla lotta alla Fiat trattori di Modena, una lotta molto lunga che parte nell’estate del ‘69 e attraversa tutto l’autunno caldo, sino alla primavera del ’70. E’ la lotta simbolo del conflitto operaio a Modena in quegli anni, i volantini prodotti dalla ‘tenda’ insistono sull’importanza di intaccare il “mito Fiat”, esaltano le forme di lotta più radicali, il nuovo protagonismo e la combattività dei giovani operai, la presenza di istanze egualitarie e di partecipazione analoghe a quelle sostenute dal movimento studentesco.
Sia i volantini della tenda che quelli di Potere operaio rispecchiano da vicino i bisogni e le istanze della base operaia… in un suo scritto, conservato nel fondo a lui intitolato, Paolo Pompei, allora dirigente di Potop, dice che i volantini erano “dettati direttamente dagli operai”… questo era tipico di Potop, poi c’era anche un filtro, naturalmente…
Comunque, come dicevi, le interviste in questo caso sono fondamentali. Ad esempio ho raccolto la testimonianza di uno dei promotori della “tenda”, sono venuti fuori molti aspetti che ovviamente non emergevano dai volantini, chi erano gli operai che frequentavano la “tenda”, come veniva organizzato l’intervento in fabbrica… oppure il dibattito interno tra le diverse componenti del gruppo, l’intervento della Fiom che tenta di frenare l’iniziativa…. Un altro esempio è quello dei delegati, abbiamo iniziato a raccogliere testimonianze sulle prime esperienze dei Consigli di fabbrica…
Aggiungo che sui delegati e sulla soggettività operaia tra gli anni Settanta e Ottanta a Modena c’è una ricerca di Vittorio Rieser, pubblicata nel 1984 con il titolo Esperienza e cultura dei delegati: un’indagine nella realtà metalmeccanica modenese. E’ un’inchiesta importante, Rieser, insieme a Mauro Franchi, aveva intervistato delegati protagonisti del conflitto a Modena, penso che ripartiremo anche da lì per una parte del lavoro sugli anni Settanta che è in cantiere….
Comunque quello che emerge dalle interviste è la pluralità di voci di una stagione che non è riducibile a una semplice sintesi… detto altrimenti, il biennio ‘68/’69 andrebbe declinato al plurale, ci sono esperienze molto varie… da questo punto di vista l’analisi dei casi locali può contribuire ad arricchire il quadro interpretativo di quella stagione, spesso eccessivamente schiacciato sulle dinamiche a forte impatto anche simbolico delle grandi città.

3) Sul finire degli anni Sessanta gli imprenditori hanno dovuto pianificare un processo di ristrutturazione volto a contenere e, successivamente, a stroncare l’offensiva operaia. Tale processo di ristrutturazione tecnologica e di decentramento produttivo inizierà ad essere attuato sin dagli inizi del decennio successivo con quel processo di espulsione di manodopera dalle grandi fabbriche in favore di unità produttive più contenute e controllabili. Tale inedita atomizzazione produttiva, ed operaia, ha posto il mondo sindacale e politico di fronte alla necessità di interpretare il ruolo del piccolo imprenditore e delle unità artigianali. Il saggio ricostruisce, a tal proposito, il dibattito che si è sviluppato e che, per certi versi, è parte di quel processo di trasformazione subito dal mondo politico e sindacale di sinistra. Viste le caratteristiche del sistema produttivo modenese, ti chiedo se dalla tua analisi sono emerse “peculiarità modenesi” rispetto al dibattito nazionale in seno alla sinistra.

Intanto c’è una cosa interessante, e credo poco nota, che vale la pena di mettere in rilievo. I primi a fare un’analisi della “fabbrica diffusa”, del decentramento produttivo ecc. a Modena, con strumenti interpretativi e proposte di intervento originali, sono gli operaisti. Attraverso un lavoro di inchiesta, il gruppo modenese legato a “Potere operaio veneto-emiliano” pone il problema della specificità della struttura produttiva locale e della composizione della classe operaia. C’è un documento in particolare, che risale al 1966, non firmato ma penso opera di Pompei, nel quale, dati alla mano, si demistifica la strategia del Pci e del sindacato delle alleanze con le piccole imprese in funzione anti-monopolistica. Poco dopo questa lettura viene riproposta per la Fiat trattori, c’è l’analisi del “ciclo Fiat” con l’azienda che aveva integrato nel processo produttivo le “boite”. Da qui una proposta di intervento basata sull’idea di considerare i capannoni lungo la via Emilia come un’unica grande fabbrica, e quindi l’idea di unificare politicamente la lotta della classe operaia modenese. Su questo tipo di analisi il gruppo modenese si confrontava con Bianchini di Ferrara, una delle figure più importanti del potere operaio veneto-emiliano.
Poi c’è un convegno regionale del 1971 sulle piccole e medie aziende, si tiene a Bologna, promosso dai sindacati metalmeccanici, era stato preceduto da un’inchiesta sull’industria metalmeccanica emiliana realizzata in collaborazione con Sebastiano Brusco, che insegnava alla Facoltà di Economia e commercio di Modena e qui è interessante vedere come in sostanza vengono riprese le analisi che ti ho citato, si dice chiaramente che nel sistema produttivo emiliano si legano in un processo “a cascata” le grandi aziende alle medie, le medie alle piccole con un rapporto di subordinazione crescente. Le imprese artigiane e le piccole-medie industriali erano quindi veri e propri “reparti distaccati” delle grandi fabbriche che programmavano tempi, costi, qualità della produzione e approfittavano delle condizioni di sottosalario e di sfruttamento tipiche delle imprese di piccole dimensioni. Da queste analisi nel convegno scaturiva un ripensamento critico dei contenuti e delle forme dell’agire sindacale… Ma la Fiom modenese non ci sta, elabora un documento nel quale rifiuta la visione di una piccola impresa organicamente subalterna alla grande industria, e ribadisce la tradizionale politica di alleanze con i ceti medi produttivi che era considerata strategicamente fondamentale.
D’altronde non poche officine artigianali erano gestite da ex operai comunisti espulsi dalle fabbriche negli anni Cinquanta… il Pci aveva lavorato molto su questo, pensa alla creazione dei Villaggi artigiani… era una parte importante del suo blocco sociale e del tessuto economico locale. Lo stesso Brusco, ritornando molti anni dopo su questo passaggio, ricordava che le sue riflessioni avevano avuto una pessima accoglienza negli ambienti di sinistra. C’era un ritardo di analisi, le posizioni del gruppo dirigente del Pci non furono modificate…
Tutto questo sta “dietro” al celebrato “modello emiliano”, che certamente ha pagato in termini di consenso per il Pci in quegli anni, e ha definito il profilo economico della provincia… Poi occorrerebbe analizzare la questione tra gli anni Settanta e Ottanta, è in questo passaggio che si possono trovare altri elementi fondamentali per comprendere la peculiarità dello scenario modenese e emiliano…

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