mobilità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Confini e superamenti. Turismo o rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2019/08/14/confini-e-superamenti-turismo-o-rivoluzione/ Wed, 14 Aug 2019 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54084 di Gioacchino Toni

Rodolphe Christin, Turismo di massa e usura del mondo, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 134, € 14,00

«Con l’industrializzazione del quotidiano anche i nostri sogni sono stati industrializzati». «Il turismo è la soluzione proposta dal capitalismo liberista per canalizzare la spinta sovversiva intrinseca alla volontà di trasformare la propria condizione». «La nostra smania di partire per le vacanze è l’indice della nostra insoddisfazione. Testimonia la nostra rassegnazione a vivere il noioso, l’insulso il carente, l’invivibile. Turismo o rivoluzione: bisogna scegliere» Rodolphe Christin

L’antropologo iraniano Shahram Khosravi nota che se da un [...]]]> di Gioacchino Toni

Rodolphe Christin, Turismo di massa e usura del mondo, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 134, € 14,00

«Con l’industrializzazione del quotidiano anche i nostri sogni sono stati industrializzati». «Il turismo è la soluzione proposta dal capitalismo liberista per canalizzare la spinta sovversiva intrinseca alla volontà di trasformare la propria condizione». «La nostra smania di partire per le vacanze è l’indice della nostra insoddisfazione. Testimonia la nostra rassegnazione a vivere il noioso, l’insulso il carente, l’invivibile. Turismo o rivoluzione: bisogna scegliere» Rodolphe Christin

L’antropologo iraniano Shahram Khosravi nota che se da un lato l’attuale “sistema delle frontiere” sembra voler imporre l’immobilità agli esseri umani più poveri, dall’altro non manca di imporre agli stessi un’estenuante mobilità che li costringe a vagare tra paesi, legislazioni, istituzioni, burocrazie, campi di accoglienza e di espulsione ecc. Khosravi spiega perfettamente come attorno alla mobilità umana si sviluppi una lotta incessante tra chi tenta di ridurla a strumento di controllo sociale e chi cerca di sottrarsi a quest’ultimo.

La rigida distinzione gerarchica introdotta dall’attuale “regime delle frontiere” prevede una netta differenziazione tra viaggiatori “non qualificati” (migranti, profughi, persone prive di documenti) e viaggiatori “qualificati” (turisti, espatriati, avventurieri). Se Io sono confine (Elèuthera, 2019) di Shahram Khosravi [su Carmilla] si occupa del primo tipo di viaggiatori, Turismo di massa e usura del mondo (Elèuthera, 2019) del sociologo Rodolphe Christin affronta il secondo con l’intento di analizzare l’usura del mondo «mettendo in evidenza le contraddizioni tra l’apparente libertà di movimento e lo sviluppo dell’industria turistica».

Secondo il sociologo viviamo una contemporaneità “dromomaniaca”, in balia dell’automatismo deambulatorio. Se per i personaggi pubblici la mobilità è una condizione di visibilità, più in generale è spesso vista come mezzo per conseguire la felicità e se nel turismo è possibile vedere «la punta di diamante dell’ideologia edonistica associata al muoversi nello spazio», per certi versi il mondo virtuale è lo spazio limite in cui la mobilità giunge ad annullarlo nell’istante. L’ubiquità è la forma massima di ipermobilità.

Nonostante solitamente alla mobilità venga associata l’idea di libertà, lo spostamento può divenire un obbligo. «Subita o in apparenza accettata, la mobilità è la condizione degli individui che si mettono a disposizione, che si sottomettono al capitalismo fluido e flessibile. Per chi è disposto ad adattarsi alle opportunità offerte dal Grande Mercato, il prezzo da pagare è lo sradicamento, o quanto meno la sua versione estetico-turistica, lo spaesamento».

La mobilità, sostiene Rodolphe Christin, favorisce l’espansione capitalismo: grazie ad essa i prodotti conquistano nuovi consumatori, le aziende si delocalizzano riducendo i costi, si fluidifica il transito della manodopera ecc. «Una tale fluidità sociale è connaturata all’economia di mercato e la migrazione ne è un ingrediente di base». La libertà di andare e venire può trasformarsi in un obbligo imposto dal sistema economico. «La conseguenza dell’ipermobilità è lo sradicamento, necessario all’intercambiabilità degli esseri e alla standardizzazione dei luoghi, che dunque riguarda sia gli oggetti che i soggetti»

Se il turista nasce come sperimentatore esistenziale, ora si è trasformato in un “consumatore geografico” e la mobilità turistica risulta essere al servizio del “consumo del mondo”. La libertà concessa dal tempo libero è presto degenerata in «nuove forme di controllo sociale finalizzate a canalizzare le energie destinate alle vacanze». Il tempo libero, continua l’autore, «diventa ben presto la preda preferita delle normative messe in campo da una razionalizzazione ideologica tesa a inculcare un certo modello di salute pubblica, che peraltro va in continuità con il pretesto terapeutico del turismo delle origini, le cui destinazioni erano speso terme o sanatori».

Da indubbio avanzamento sociale, le ferie retribuite sono presto divenute dal punto di vista legislativo un «adeguamento al modus operandi del capitalismo che ne favorì l’accettazione da parte delle classi lavoratrici. Ma ancor di più il rapporto tra salariato e ferie destinate allo svago gettò le basi per lo stile di vita tipico della società consumista». Come accaduto con il tempo lavorativo, «anche il tempo delle vacanze è stato progressivamente conquistato dall’ingiunzione mobilitaria, che non poteva certo lasciarsi sfuggire una simile opportunità per assicurarsi una circolazione sempre maggiore di beni, servizi e persone».

Il senso di libertà del turista risiede nel godere per alcune settimane all’anno dell’illusione di vivere di rendita. Libero di impiegare tempo come crede e di farsi servire dagli altri che invece stanno lavorando, il turista si sente un rentier. «Se il turista sogna di emanciparsi dal lavoro, di fatto lo fa solo nello spazio temporale dedicato alle vacanze». «Industria della ‘falsa partenza’, il turismo prospera grazie al male di vivere. Al quale si torna sempre, inesorabilmente».

Walter Benjamin individuava tre condizioni affinché potesse esservi la figura del flaneur: la città, la folla e il capitalismo. Rodolphe Christian ritiene che il turista presupponga: il lavoro salariato con ferie retribuite, la capacità logistica di organizzare una mobilità su larga scala e il capitalismo.

Il luogo consacrato ai consumatori in transito per eccellenza è il centro commerciale, ove il consumatore-flaneur vaga nel suo anonimato sentendosi libero di fare acquisti senza interferenze. La galleria commerciale accoglie un pubblico che tenta di placare la sua noia frequentando un luogo pensato per l’individuo indolente. «La figura del consumatore-flaneur, furtivo e prodigo al tempo stesso, è complementare a quella del produttore di beni o servizi, remunerato per quello che fa, un rapporto che configura il primo come il cliente attuale o potenziale del secondo. Questa stessa partizione è presente nel turista e struttura la relazione commerciale che intrattiene con il mondo. Anzi il turismo è l’esempio perfetto di questa ambivalenza dell’uomo contemporaneo, diviso tra il desiderio di avere, qui e ora, la possibilità di godersela senza alcun ostacolo e l’obbligo di pagare un prezzo per tutto questo, ovvero l’obbligo di lavorare per guadagnare il denaro necessario per i suoi acquisti, che farà durante il tempo libero. Alla pari dell’ozio anche il bighellonare consapevole […] ha in sé un potenziale di dissidenza comportamentale. Ma la società del consumo e l’ideologia economicista sono riuscite a canalizzare la forza a proprio vantaggio, riducendola al fugace piacere di passeggiare guardando le vetrine. Il prevalente orientamento mercantile impedisce a quel potenziale di trasformarsi in autentica forza sovversiva, convertendolo in turismo, cioè una realtà organizzata attorno al consumo».

«Affinare il sogno turistico, fornendogli una gamma di risposte adatte a ogni esigenza, rende accettabile la vita di tutti i giorni: sempre a condizione di averne i mezzi, l’offerta è quella di trascorrere qualche settimana in un luogo in cui si è temporaneamente sgravati dall’obbligo di lavorare e dalla monotonia del tran tran quotidiano». Il fatto di viaggiare in compagnia di “strumenti ausiliari” come smartphone, computer ecc., sostiene il sociologo, sottolinea quanto si tenda a voler tutto sommato restare gli stessi indipendentemente da dove ci si viene a trovare. L’ipermobilità contemporanea sembra funzionale a contenere gli individui all’interno dello spazio sociologico predefinito. Tale tipo di mobilità sembra essere un modo per mantenere l’essere umano all’interno in un mondo di beni e servizi presentato come il solo auspicabile o possibile.

«Dal canto suo il turismo è eterotopico: genera i propri luoghi, che adatta ai propri fini […] Per diventare turisticamente compatibile, una realtà deve prima estirpare i modi di vita tradizionali in cui affonda le proprie radici». Secondo l’autore, dopo essere state conquistate con fatica le vacanze sono divenute uno dei pilastri del sistema insieme alla televisione, agli antidepressivi, al calcio ecc. «La fugace felicità delle vacanze turistiche è una risposta al cupo fardello della vita quotidiana».

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Confini e superamenti. La mobilità umana come terreno di conflitto https://www.carmillaonline.com/2019/06/25/confini-e-superamenti-la-mobilita-umana-come-terreno-di-conflitto/ Tue, 25 Jun 2019 21:30:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53341 di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri [...]]]> di Gioacchino Toni

Shahram Khosravi, Io sono confine, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 240 , € 18,00

«Le frontiere sono un problema per i poveri. Perché i ricchi possono sempre accedere a un mercato legale per superarle» Shahram Khosravi

Convinto che le “pratiche di frontiera” siano “pratiche coloniali” di controllo delle popolazioni, basandosi sulle sue esperienze di viaggio e sui “racconti di confine” altrui, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi approfondisce non solo la natura dei confini ed il loro utilizzo  politico, ma anche le modalità ed i significati della loro violazione da parte di esseri umani.

Oltre a mettere in luce come la regolamentazione della mobilità segua logiche di selezione sociale improntate alla discriminazione di sesso, genere, razza e classe («Supera il confine soltanto chi è utile, chi è produttivo»), l’autore si sofferma su come i confini siano anche spazi di opposizione e di resistenza. Se le frontiere finiscono per produrre nuove soggettività (segnalando «che chi sta dall’altra parte è diverso, indesiderato, pericoloso, contaminante, persino non umano»), non di meno anche chi viola tali frontiere, sottolinea Khosravi, produce a sua volta nuove identità.

Io sono confine è uscito in lingua inglese nel 2010 con il titolo ‘Illegal’ traveller. An auto-ethnography of borders proprio con l’intenzione di palesare, attraverso l’uso del termine “traveller” (“viaggiatore”) al posto di “migrante” o “profugo”, la ferrea distinzione gerarchica introdotta dall’attuale «regime delle frontiere alla mobilità»: esistono viaggiatori “qualificati” (turisti, espatriati, avventurieri) e viaggiatori “non qualificati” (migranti, profughi, persone prive di documenti).

Attraverso il libro, l’autore non intende raccontare il calvario di un profugo, bensì parlare politicamente dei confini e di coloro che li violano. Una volta constatato come l’industria delle frontiere sia ormai diventata un business di proporzioni colossali, l’antropologo iraniano invita a cogliere in ogni confine tra Stati anche, almeno in certa misura, un confine di classe. «Non sorprende che i più insanguinati siano quelli tracciati tra il mondo ricco e quello povero. Il regime delle frontiere punta a tenere le persone “al loro posto” all’interno della gerarchia di classe. Le pratiche di confine come modalità per tenere sotto controllo la mobilità dei lavoratori sono cruciali per preservare la sperequazione salariale tra cittadini e non-cittadini, tra il Nord globale e il Sud globale».

Se da un lato le frontiere impongono l’immobilità, dall’altro, sostiene Khosravi, «esiste un secondo meccanismo di controllo della società che opera attraverso una costante mobilità forzata. Le persone sono infatti costrette a un andirivieni infinito non solo tra paesi, legislazioni e istituzioni, ma anche tra campi di accoglienza e campi di espulsione, tra richieste d’asilo e ricorsi contro le deportazioni, tra riconoscimenti provvisori e ritorno alla clandestinità, tra un periodo d’attesa e l’altro. È una circolarità perpetua in cui si vive in uno stato di “non arrivo”, di radicale precarietà o, per usare l’espressione di Fanon, di “ritardo”».

Di fronte al tentativo neo-coloniale di presentare i “muri-frontiera” come naturali, senza tempo (negando così il loro essere soggetti al cambiamento storico), risulta indispensabile storicizzare ogni confine al fine di «denaturalizzare e politicizzare ciò che l’odierno regime delle frontiere ha naturalizzato e spoliticizzato».

Il meccanismo della frontiera, ricorda l’autore, non si esaurisce una volta che questa è oltrepassata; gli “indesiderati” continuano ad essere respinti anche dopo aver varcato il confine e a distanza di tempo.

«Il sistema dello Stato-nazione si fonda sul nesso funzionale tra un luogo determinato (territorio) e un ordine determinato (lo Stato), un nesso mediato da regole automatiche per la registrazione della vita, individuale o nazionale. Nel sistema dello Stato-nazione, la zoé, o nuda vita biologica, viene immediatamente tramutata in bios, la vita politica o cittadinanza. La naturalizzazione del collegamento tra vita/nascita e nazione è lampante nel linguaggio. I termini “nativo” e “nazione” hanno la stessa radice latina di “nascere”».

I confini «sono giunti a costituire un ordine naturale in molte dimensioni dell’esistenza umana. Non si tratta più dei semplici limiti di uno Stato». Essi giungono a plasmare l’immaginario, la percezione del mondo, il senso di comunanza e di identità. Tanto che la la condizione di profugo finisce per essere presentata «come la conseguenza di un modo di essere “innaturale”» e chi trasgredisce ai limiti posti dai confini spezza «il legame tra “natività” e nazionalità, mettendo in crisi il sistema dello Stato-nazione». Ecco allora che i migranti privi di documenti e i clandestini che violano i confini vengono percepiti e narrati come «contaminati e contaminanti proprio in quanto non classificabili».

Il discorso e la normativa politico-giuridica, continua l’autore, insieme all’essere umano politicizzato (il cittadino), costruiscono anche «un sotto-prodotto, un “residuo” politicamente non identificabile, un “essere non più umano”. Rimbalzati tra Stati sovrani, umiliati, presentati come corpi contaminati e contaminanti, i richiedenti asilo apolidi e i migranti irregolari sono esclusi e diventano gli scarti dell’umanità, condannati a vivere esistenze sprecate».

Zygmunt Bauman1 ha messo in luce come i moderni Stati-nazione si siano arrogati il diritto di distinguere tra vite produttive (considerate legittime) e vite da scartare (considerate illegittime). Tali “vite di scarto” rappresentano quell’homo sacer del presente di cui parla Giorgio Agamben2 e proprio in quanto tale, il migrante irregolare viene sottoposto tanto alla violenza dello Stato quanto a quella dei privati cittadini.

Il grande merito del libro di Shahram Khosravi è quello di non limitare il ragionamento al sistema di controllo della mobilità degli individui, ma di mettere in evidenza come la questione della mobilità degli esseri umani sia un terreno di conflitto.

 

 


  1. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, 2018 

  2. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 2005 

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Brasile: cartografie delle disuguaglianze https://www.carmillaonline.com/2013/11/28/brasile-cartografie-delle-disuguaglianze/ Wed, 27 Nov 2013 23:01:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10987 di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia [...]]]> di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia di migliaia di persone, scese per le strade a manifestare. Già, ma a manifestare per cosa? Occorre fare un passo indietro e osservare da una certa distanza gli eventi che hanno portato alle proteste di giugno, per non commettere l’errore di ridurre il tutto a un fuoco di paglia. Se è vero che le dimensioni, le pratiche e la radicalità di questo movimento sono fuori dall’ordinario per il Brasile, questo però va visto in prospettiva rispetto agli eventi che lo hanno anticipato. Qui vogliamo cercare di fornire un quadro sul contesto economico e sociale, sulla geografia urbana dei territori, sugli spazi dove si intersecano gli interessi di stato e capitale e quelli delle classi popolari.

I prodromi di una rivolta

I primi fuochi della protesta nascono a seguito dell’aumento del prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici in diverse città brasiliane, prima fra tutti São Paulo, operati ad inizio giugno 2013. Per molte persone, soprattutto lavoratori e studenti, un aumento di pochi centesimi fa la differenza tra l’accedere o meno al servizio e colpisce quindi in maniera diretta il diritto alla mobilità.

Queste proteste erano state precedute da mobilitazioni analoghe per la diminuzione del costo dei mezzi pubblici nel settembre dell’anno prima a Natal, città da quasi un milione di abitanti nel nordest del paese, nel marzo seguente a Porto Alegre e in maggio a Goiânia.

Per comprendere la viralità e l’estensione di queste proteste, ciò che le lega assieme nel tempo e nello spazio, occorre osservare e analizzare quei fili invisibili che intersecano assieme mobilità e sviluppo urbano: fili che nel contesto brasiliano disegnano la mappa delle disuguaglianze sociali e della divisione di classe.

La questione della mobilità nelle grandi megalopoli brasiliane costituisce un indicatore importante rispetto ai processi di ristrutturazione urbana che si articola sulla direttrice di una triplice esclusione: economica, spaziale e sociale. È evidente, infatti, come la dimensione del trasporto pubblico coinvolga e informi il quadro complessivo della definizione di spazio urbano metropolitano.

Città globali: Rio de Janeiro.

Per iniziare a cogliere questo aspetto è sufficiente fare un esempio concreto e ripercorrere la storia dello sviluppo urbano degli ultimi anni di una delle megalopoli più importanti del Brasile: Rio de Janeiro. La città carioca in tutto il Brasile è seconda solo a São Paulo sia in quanto a popolosità sia per il prodotto interno lordo. A livello economico, il settore manifatturiero ha svolto, almeno fino agli anni ‘80, un ruolo di primo piano e accanto a questo l’estrazione e la raffinazione di petrolio e gas, oltre a costituire una delle principali fonti di approvvigionamento energetico del Brasile, ha attirato diverse multinazionali petrolifere. Essendo stata capitale del Brasile per circa due secoli, la città ha sempre avuto una capacità attrattiva per i capitali nazionali e internazionali e questo ha favorito l’emergere di un polo finanziario, dei servizi e delle telecomunicazioni che negli ultimi decenni è divenuto estremamente rilevante.

A questo sviluppo economico, a questa produzione di ricchezza, è corrisposto l’aumento delle disuguaglianze sociali, con una polarizzazione sempre più marcata tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati. Un tipo di sviluppo che, come teorizza Saskia Sassen, ha coinvolto tutte le città globali attraverso la mondializzazione del mercato del lavoro e la finanziarizzazione delle economie, portando alla costituzione di nicchie economiche del terziario avanzato ad altissimo profitto e di vaste aree del settore dei servizi a bassa qualifica e con una mobilità sociale pressoché assente. Un quadro ben rappresentato anche dal punto di vista spaziale: nelle città globali – quindi anche a Rio – il quartiere della Borsa e della finanza è rigidamente diviso da quello dei servizi o dai quartieri-dormitorio.

A Rio de Janeiro questa divisione territoriale è particolarmente evidente: la zona del centro, quella più antica e nucleo originario della città, è caratterizzata oggi dai grandi palazzi della Borsa, delle banche, delle multinazionali e degli uffici dei colossi delle telecomunicazioni; la zona sud è quella delle residenze dei più ricchi, delle località di villeggiatura per turisti e delle attrazioni per i ceti più abbienti, oltre che sede di una delle più costose università private del Brasile: la Pontificia Università Cattolica; la zona nord è quella dove risiede parte del ceto medio ma soprattutto quella con il più alto numero di favelas, immense baraccopoli spesso senza elettricità, gas e acqua potabile dove vive circa un quinto della popolazione di tutta la città, quella che non può permettersi gli affitti troppo alti o che non può acquistare un immobile: le classi popolari – in questa zona si trova anche la sede dell’università pubblica di Rio de Janeiro; la zona ovest è quella dove è possibile osservare lo stridente contrasto tra quartieri ricchi e quartieri poveri, tra slums e zone residenziali ultramoderne: la parte nord per estensione accoglie diverse baraccopoli mentre la parte sud vede quartieri abitati da classi abbienti ma che non possono permettersi la zona sud.

Negli ultimi decenni Rio de Janeiro ha avuto un intenso sviluppo economico, dovuto sia a rinnovate attività estrattive di petrolio e gas, sia ad un mercato finanziario aggressivo e in espansione. L’aumento di alcuni indicatori della ricchezza economica media, danno una visione assolutamente distorta delle reali condizioni materiali: a fronte di un aumento dei profitti e del reddito per i ceti più abbienti, è aumentato il numero delle persone sotto la soglia di povertà. La risposta delle istituzioni non si è fatta attendere e, per tenere sotto controllo il malessere sociale, nel 2008 sono state introdotte le Unidade de Polícia Pacificadora, un’unità speciale di polizia con l’obiettivo ufficiale di pacificare militarmente i quartieri controllati dai trafficanti di droga: in realtà una velleitaria risposta securitaria che vuole ridurre la complessa problematica della disuguaglianza sociale a un problema di ordine pubblico.

Mega eventi

All’interno di questo scenario, possiamo considerare il mega-evento come un dispositivo che viene messo in campo in quanto rete complessa di rapporti di potere che vengono risoggettivati (o desoggettivizzati) secondo un nuovo discorso e nuove retoriche. Per dispositivo intendiamo – nell’articolazione che ne dà Giorgio Agamben nel suo Che cos’è un dispositivo? – quella complessa rete di relazioni di potere che, in forma discorsiva o non-discorsiva, produce o destruttura la soggettività dei viventi; è cioè «un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve; tanto del detto che del non-detto» e si manifesta come «un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati». Parliamo di dispositivo – come elemento disciplinare – perché il mega-evento va a incidere e a ridefinire in maniera conflittuale processi economici, politici, sociali e nondimeno spaziali. Se prendiamo il mega-evento come oggetto di analisi, possiamo riuscire a scorgere, attraverso le sue implicazioni, l’articolazione delle retoriche del potere.

Il grande evento da cui partire sono i Giochi Panamericani del 2007, che vengono ospitati interamente a Rio de Janeiro. In questa occasione, vengono avviati fin dagli anni precedenti diversi progetti di ristrutturazione urbana che riguardano sia la costruzione di nuovi complessi sportivi, stadi, arene, villaggi degli atleti, eccetera, sia interventi di “riqualificazione” di alcuni quartieri e la creazione di nuove infrastrutture. Secondo l’Observatório das Metrópoles, che si occupa da molti anni dell’impatto dei mega-eventi sui tessuti urbani, entrambe le tipologie di progetti hanno portato a processi di gentrification* e sradicamento delle comunità di quartiere in cui venivano messi in atto, a speculazioni nel mercato immobiliare e all’aumento generalizzato del costo della vita. Quello che preme sottolineare è come il discorso politico e la retorica sviluppista, messi in campo dalle istituzioni pubbliche dello stato di Rio de Janeiro (la macroregione di cui la città fa parte) e dall’imprenditoria privata convergano anche sul piano economico con investimenti e speculazioni sia del pubblico che del privato.

Il fatto che mette ancor più in evidenza la natura disciplinare di questa macchina astratta è il tentativo di ricomprendere all’interno dello stesso discorso istituzionale le critiche o i discorsi-altri al mega-evento con la nomina di una commissione speciale (CO-Rio) che monitorasse l’evolversi dei lavori: a questa commissione non ha peraltro partecipato nessun gruppo che si occupa della questione. Tra gli interventi urbani effettuati in questo periodo, il più esemplificativo risulta essere la costruzione dello Stadio Olimpico Engenhão, dal nome del quartiere che lo ospita: Engenho de Dentro, abitato prevalentemente da classe operaia e in misura minore da piccola borghesia. Lo stadio, che è finito per costare circa sei volte di più il prezzo preventivato ad inizio lavori, è stato edificato senza alcuna comunicazione con i residenti, molti dei quali anzi si sono trovati con la casa espropriata e poi demolita (chi la possedeva e non era in affitto).

Se possiamo considerare i Giochi Panamericani del 2007 come la forma ancora embrionale del dispositivo del mega-evento, con la maggior parte delle implicazioni ancora in nuce e non pienamente manifeste, negli anni successivi il tessuto metropolitano diventa sempre più terreno di scontro e disciplinamento. In vista della Confederation Cup del 2013 e del Campionato del Mondo di Calcio, di cui Rio ospiterà diverse partite, e soprattutto delle Olimpiadi di Rio del 2016, si estendono ulteriormente gli interventi securitari e urbanistici con tutto ciò che implicano in termini economici, sociali, spaziali.

Il primo di questi interventi che ci consegna la cifra del discorso pubblico istituzionale è la costituzione, come ricordato in precedenza, di un’unità speciale di polizia di prossimità col compito di pacificare alcuni quartieri più a ridosso dei luoghi in cui si terranno i mega-eventi. Quartieri limitrofi a quelli più ricchi dove la stessa condizione di povertà è elemento da nascondere, da rimuovere, da controllare.

Sul piano degli interventi urbani, la costruzione di infrastrutture, edifici e complessi sportivo/abitativi, oltre ad aver intaccato il tessuto urbano – in misura simile o maggiore a quella descritta prima per lo stadio Engenhão – ha provocato un boom del mercato immobiliare, con un aumento dei prezzi e della rendita che da un lato ha compresso il potere di acquisto degli affittuari e dall’altro ha prodotto una speculazione da parte dei proprietari di case. In molti quartieri è quindi intervenuto un processo di sradicamento duplice: il primo, dove la coazione è diretta e amministrata dall’istituzione pubblica nella sua forma di polizia; la seconda, in cui la coazione appare meno evidente ma ugualmente violenta e che è spinta dalle logiche di mercato che portano gli abitanti del quartiere originari a non avere i mezzi per vivere e sopravvivere.

Un’attenzione particolare meritano gli interventi volti a “migliorare” la mobilità urbana che di fatto si sono rivelati distruttivi per il tessuto urbano in cui sono stati implementati. È il caso di alcuni progetti di costruzione di infrastrutture per i trasporti che passano per diversi quartieri popolari e favelas per congiungere il villaggio olimpico con l’aeroporto e che di fatto implicano dubbi vantaggi per la popolazione locale e anzi rischiano di provocare lo sgombero di alcune migliaia di persone.

A Providência, una delle favela più vecchie di Rio, è in atto, all’interno del progetto Morar Carioca finanziato dal Programa de Aceleração do Crescimento (PAC), un processo di eradicamento di circa un terzo della popolazione per favorire la costruzione di alcune funivie. Lo stesso programma prevede la costruzione di case popolari e l’erogazione di prestiti a basso interesse per i meno abbienti. Anche qui la retorica sviluppista si sposa con pratiche coercitive e di disciplinamento che vedono delocalizzare di fatto le classi popolari per favorire la speculazione immobiliare e la rendita e parallelamente attuare politiche di segregazione – le case popolari si troverebbero a nord-ovest, all’estrema periferia di Rio e scarsamente servite dai mezzi pubblici.

Ecco allora che sotto il velo dello “sviluppo anche per i ceti più disagiati” in occasione dei mega-eventi possiamo scorgere le maglie avviluppanti di nuovi rapporti di potere e disciplinamento che si manifestano nelle varie forme che si sono descritte.

Insorgenze

Ecco allora che le proteste per il trasporto pubblico e la mobilità libera e gratuita acquistano un peso e una qualità differenti se le vediamo legate a quelle durante la Confederation Cup e la Giornata mondiale della gioventù cattolica, e se le inseriamo nel contesto dello trasformazione/trasfigurazione della metropoli attraverso il dispositivo governativo del mega-evento. La radicalità e inclusività con cui si è espresso il movimento in questi ultimi mesi in Brasile e in particolare a Rio, la pluralità di istanze assunte da esso e la capacità di sperimentare differenti pratiche organizzative ci suggeriscono che quanto portato avanti può essere la spinta per la nascita di ulteriori terreni di lotta. Un movimento che emerga con forza dal conflitto tra governo delle cose e dei corpi, che possa rinnovarsi continuamente e trovare nuove forme.

* Descrive un particolare processo metropolitano per cui viene “riqualificato” un quartiere considerato degradato per poi rivendere gli immobili ad un prezzo più alto. Ovviamente facendo in modo che gli abitanti precedenti sloggino. La discriminante è chiaramente la creazione del profitto derivante dalla riqualificazione più che il miglioramento delle condizioni sociali del quartiere.

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