mito americano – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 True West https://www.carmillaonline.com/2024/01/31/true-west/ Wed, 31 Jan 2024 21:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80887 di Sandro Moiso

Daniele Pasquini, Selvaggio Ovest, Enne Enne Editore, Milano 2024, pp. 360, 18 euro

E l’America non è più l’America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Americana – Elio Vittorini)

Il romanzo di Daniele Pasquini fotografa, si fa per dire, il momento in cui l’affermazione di Elio Vittorini citata in epigrafe iniziò a diventare realtà, già sul finire del XIX secolo. In Europa e in Italia. Il tempo in cui il cosiddetto mito americano inizio a concretizzarsi al di qua dell’Oceano Atlantico proprio grazie alle iniziali trionfanti esibizioni del Wild West Show ovvero il circo [...]]]> di Sandro Moiso

Daniele Pasquini, Selvaggio Ovest, Enne Enne Editore, Milano 2024, pp. 360, 18 euro

E l’America non è più l’America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra. (Americana – Elio Vittorini)

Il romanzo di Daniele Pasquini fotografa, si fa per dire, il momento in cui l’affermazione di Elio Vittorini citata in epigrafe iniziò a diventare realtà, già sul finire del XIX secolo. In Europa e in Italia. Il tempo in cui il cosiddetto mito americano inizio a concretizzarsi al di qua dell’Oceano Atlantico proprio grazie alle iniziali trionfanti esibizioni del Wild West Show ovvero il circo messo in piedi da William Fredrick Cody, in arte Buffalo Bill.

Una gigantesca macchina dello spettacolo che metteva in scena la “conquista” dell’Ovest selvaggio americano e le imprese “eroiche” dello scout dai lunghi capelli attraverso l’impiego di più di mille tra uomini e animali e con un incasso annuale di circa un milione di dollari, di cui un 10% costituiva, secondo l’”eroe del West”, l’utile garantito. Un gigantesco affare destinato a modificare l’immaginario europeo, dopo aver esaltato quello degli americani che non avevano mai vissuto quelle esperienze.

E che, a ben guardare, non aveva vissuto in “forma eroica” nemmeno il protagonista che, però, poteva vantare di aver abbattuto 4286 bisonti nel corso di diciassette mesi trascorsi, in qualità di scout dell’esercito e cacciatore per i costruttori delle ferrovie destinate ad unire il continente americano da un oceano all’altro, e di ave “preso” lo scalpo di Mano Gialla, un capo guerriero Sioux da lui ucciso in battaglia.

Imprese che avevano contribuito grandemente alla sconfitta delle ultime tribù di nativi ribelli, più ad opera della fame che del coraggio e del valore dei cavalieri in blu, i quali proprio a Little Big Horn, nelle Black Hills, avevano subito una delle più dure sconfitte militari ad opera delle tribù Lakota, Cheyenne e Arapaho riunite da Toro Seduto e guidate da Cavallo Pazzo.

In una battaglia, avvenuta il 26 giugno 19876, durante la quale, in soli venticinque minuti di combattimento, un distaccamento di diverse centinaia di soldati, comandati dal colonnello George Armstrong Custer fu completamente distrutto insieme allo stesso comandante. Un’onta che sia nello spettacolo, dove veniva riprodotta prima la battaglia e poi lo scontro avvenuto successivamente tra William Cody e Mano Gialla, che nella miserabile realtà delle stragi di nativi americani lo scalpo tolto ad un altro capo Sioux avrebbe dovuto lavare via.

Occorre partire da questa lunga digressione storica per entrare nelle maglie di un romanzo avvincente e realistico allo stesso tempo. Una storia in cui il vero West sembra appartenere più alle terre della Maremma in cui si svolge e ai suoi butteri che non alla narrazione fattane da allora in tante dime novel e, successivamente dall’industria del cinema nata sulle coste del Pacifico, dalle parti di Los Angeles.

Una Maremma in cui, realmente, si incrociarono i cowboy e gli indiani, sotto tutela, di Buffalo Bill e i butteri che lavoravano suule grandi proprietà terriere delle famiglie nobili di un regno d’Italia formatosi da pochi anni e in cui il brigantaggio costituiva già un enorme problema. Per lo Stato, ma anche per la popolazione comune e i ceti sociali più poveri che, oltre ad essere tormentati e decimati dalla presenza della malaria, dovevano fare i conti sia con le vessazioni dei rappresentanti della legge in divisa che con quelle di chi faceva finta di ergersi a loro protettore.

Non fa sconti ai banditi dell’epoca il giovane scrittore fiorentino (classe 1988) che lavora come addetto stampa nel settore editoriale, ma che ha esordito nella narrativa con Io volevo Ringo Starr nel 2009 (Intermezzi editore) e ha proseguito con altri racconti, pubblicati in antologie e riviste, oltre che con un altro romanzo pubblicato nel 2022 da SEM: Un naufragio.

Ma non fa sconti nemmeno alle nostrane “giacche blu” dell’epoca ovvero i carabinieri che avrebbero dovuto proteggere le popolazioni, ma che pensavano soprattutto, nelle parole dell’autore, a “parasi il culo” nei confronti dei superiori. A qualsiasi livello gerarchico.
Una storia, sicuramente, antieroica ma con il profumo dell’avventura, soprattutto quest’ultima legata alla crescita di uno di giovani protagonisti delle vicende, Donato, figlio di un buttero burbero, taciturno e dedito al duro lavoro della doma dei cavalli, della cura del bestiame lasciato crescere nei terreni in parte paludosi posti a sud e a nord-est dei monti dell’Uccellina.

Un paesaggio aspro, spesso inospitale per l’uomo, ma ancora selvaggio in cui le storie di violenza, stupri, sparatorie, compravendita del corpo delle giovani donne o dei cavalli e delle bufale si intrecciano con quelle di finti e canaglieschi “eroi” privi di pietà per chiunque sia, come nel caso del brigante Occhionero, oppure con quelle di carabinieri giovani e impauriti che si pensano eroi, ma destinati soltanto a sparire senza lasciare memoria di sé, se non per qualche irrimediabile errore o atto di codardia.

Storie che si intrecciano con quelle di un gruppo di indiani, tra i quali spicca quella di Alce Nero, aggregati al circo americano e che, per un attimo, immaginano, in quelle lande per loro troppo strette, limitate e abitate, di ritrovare un po’ della gloria irrimediabilmente perduta. E storie di donne, giovani e meno, che come sempre sono destinate a portare il peso della famiglia, del lavoro necessario intorno a quello dei butteri, delle violenze e delle perdite più irreparabili.

Storie che, per forza di cose, sono narrate e ricordate da uomini che sono « tutti bugiardi, solo che di alcuni diciamo che hanno fantasia, e vengono chiamati artisti, o poeti, altri invece son chiamati imbroglioni, e son guardati con disprezzo, come se avessero violato qualche patto solenne con la realtà. Solo che contratti non esistono, perché alla verità in fondo hanno rinunciato tutti, sin da principio »1.

Riflessione che continua ancora in un’altra pagina: « Occhionero aveva capito che la verità è meno interessante di quello che vorremmo, e che fuggire dalla realtà è l’unico modo per rendere accettabile una storia. L’immaginazione rende più tollerabile la vita, chi vuol sapere che cosa c’è sotto resta sempre deluso »2.

Verità e finzione sono anche alla base della storia del West portata in giro per il mondo dal circo di Buffalo Bill, che in altra parte d’Italia avrebbe affascinato anche un futuro scrittore di avventure come Emilio Salgari3. Verità e finzione che non per nulla si incrociano anche attraverso le parole di personaggi di contorno, ma non secondari, come Mark Twain, Ned Buntline oppure i giornalisti delle cronache italiane del circo. Tra questi un tal Sigaretta, cui Pasquini affida un ulteriore ragionamento sulle conseguenze della diffusione del mito della felicità per tutti che il mito americano portava già con sé all’epoca, intravedendone il futuro fallimento

« Il problema è che tutti crederanno di poter essere brillanti e ammirati e amati come dèi. Ma capite da voi che questo espone la gente a delusioni a cui non è pronta. Quella che chiamano felicità in realtà è il successo, il potere. Tutti vorranno più soldi, abiti, cose con cui distinguersi, o cose con cui essere uguali a quelli che gli paiono felici. La ricerca della felicità, come dicono questi americani, genera un sacco di invidie, manie, pazzie. Quell’americano Cody […] ha vissuto mille avventure, tante da non riuscire a crederci. E continua a girare il mondo, a cercare di macinare soldi. Non è una cosa da pazzi? […] Finirà in massacro questo rivendicare il diritto alla gioia, alla risata. La chiamano felicità, ma è un altro modo per dire supremazia, ricchezza, possesso. Non può funzionare, è evidente»4.

Un mito nato sulla menzogna, in cui il massacro dei popoli nativi e della fauna selvatica è stato spacciato per gloria e avanzata della civiltà e in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, qualunque sia il colore della sua pelle, per concorrenza e affermazione individuale, non può infatti portare altro con sé. Insieme alla miseria, alla morte o all’inutile vendetta che si riversano nelle e dalle ultime, tesissime pagine del libro.

Un romanzo avvincente e interessante allo stesso tempo che se avesse visto eliminare, prima di andare in stampa, qualche lungaggine narrativa, dovuta a descrizioni fin troppo dettagliate dei paesaggi e dell’ambiente e a qualche storia collaterale come quella del seguace di David Lazzaretti, oppure il sovrappiù di toscanismi, che talvolta rischiano di far ricadere l’opera nella nota di colore di carattere localistico, avrebbe potuto raggiungere, scusate se vi par poco, la secchezza e l’essenzialità di Cormac McCarthy.


  1. D. Pasquini, Selvaggio Ovest, Enne Enne Editore, Milano 2024, p. 75.  

  2. D. Pasquini, op. cit., p. 130.  

  3. cfr. E. Salgari, Arriva Buffalo Bill!, Antologia di articoli comparsi sul quotidiano “l’Arena” di Verona nei giorni 15, 16 e 17 aprie 1890, Pierluigi Perosini editore, Verona 1993.  

  4. D. Pasquini, op. cit., pp. 293-294.  

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Alè, alè, anduma a balè ch’a je l’America an via dij Plissè https://www.carmillaonline.com/2022/06/09/ale-ale-anduma-a-bale-cha-je-lamerica-an-via-dij-plisse/ Thu, 09 Jun 2022 20:46:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72404 di Giorgio Bona

Il 21 aprile 1906 fece la sua comparsa in Piemonte William Frederick Cody (1846-1917), che nella sua epopea leggendaria era conosciuto come Buffalo Bill.

Cacciatore, uccisore di indiani, scout dell’esercito, corriere del Pony Express, guida turistica di nobili europei in cerca di avventure, eroe nelle guerre indiane e infine impresario teatrale, professione dove la sua fama superò l’oceano e arrivò in Europa esportando il mito del vecchio West che aveva grandi estimatori e appassionati.

Un bluff, un altro mito della frontiera, emissario di quella politica imperialista [...]]]> di Giorgio Bona

Il 21 aprile 1906 fece la sua comparsa in Piemonte William Frederick Cody (1846-1917), che nella sua epopea leggendaria era conosciuto come Buffalo Bill.

Cacciatore, uccisore di indiani, scout dell’esercito, corriere del Pony Express, guida turistica di nobili europei in cerca di avventure, eroe nelle guerre indiane e infine impresario teatrale, professione dove la sua fama superò l’oceano e arrivò in Europa esportando il mito del vecchio West che aveva grandi estimatori e appassionati.

Un bluff, un altro mito della frontiera, emissario di quella politica imperialista che il Grande Paese esercitava oltre i suoi confini, mettendo in mostra un sistema, quello della grande colonizzazione, in nome del progresso.

Ecco ciò che dice la biografia sul mito William Frederick Cody alias Buffalo Bill. All’età di otto anni si trasferì con la famiglia nel Kansas e il padre fu vittima di un pesante clima persecutorio a causa delle sue posizioni antischiaviste. Infatti fu ucciso da un colpo di coltello ad opera di uno sconosciuto dopo aver pronunciato un discorso contro lo schiavismo. Un buon viatico per cominciare a costruire una leggenda sul personaggio, tra l’altro insignito della medaglia d’oro al Congresso, facendo leva su uno dei sentimenti patriottici più alti.

La lista che gli storiografi misero in piedi per narrare le sue imprese era molto lunga, ma la sua vera intuizione, quella che servì a esportare in Europa il modello americano attraverso la leggenda della frontiera, fu il Wild West Show, uno spettacolo circense. La leggenda qui ebbe un seguito con il mondo reale fatto di pubblico e di partecipazione, attraverso una rappresentazione in grande stile. Il Wild West Show fece la sua  prima comparsa a Roma nel 1890, prima tournee nel nostro paese ripetuta in seguito dopo il successo avuto, appunto nel 1905.

Cominciamo dalle prime comparse in Piemonte, Alessandria e poi Torino, città attraversate da intense trasformazioni sociali dove si visse l’eccitazione del momento.

Quotidiani, riviste, manifesti sui muri a riempire ogni angolo dei quartieri, mentre arrivava questo improvvisato burattinaio con al seguito una struttura da far spavento: 800 persone e 500 cavalli.

Lo spettacolo suscitò talmente tanto interesse che proprio nel capoluogo piemontese i torinesi intonarono una canzone che recitava così: Alè, alè, anduma a balè ch’a je l’America an via dij Plissè.

 

Forse, mi viene da dire, la sua vita di frontiera è stata vissuta ed esaltata per garantire al personaggio un futuro come attore. Non era certamente il suo mestiere, perché pare non avesse attitudine e capacità.

Mise in scena spettacoli ignobili che avevano poco a che fare con un mondo di vinti, forse uno dei popoli più resistenti della storia: gli indiani d’America. Spettacoli che raccontavano le guerre indiane, naturalmente in una trasposizione artistica altamente infedele di fatti reali, a cui spesso i protagonisti avevano partecipato realmente.

Impressionante che per un certo periodo abbia lavorato in questo show uno straordinario personaggio come Tatanka Iyotake meglio conosciuto come Toro Seduto (c. 1831-1890), storico capo della nazione Dakota (Sioux).

Anche Emilio Salgari che aveva esplorato con i suoi libri e la sua fervida fantasia il mondo del vecchio West non risparmiò elogi su questa figura, definendolo un eroe e sostenendo, parole sue, che nessun uomo si era guadagnato tanta fama quanto quell’intrepido avventuriero, che incarnava l’antico tipo del vero scorridore e cacciatore di prateria e forse a nessuno più di lui erano toccate tante vicende straordinarie.

Emilio Salgari aveva raccontato con fervida immaginazione anche l’epopea del vecchio West in romanzi di grande avventura come La scotennatrice (1909), storia di una guerriera Dakota che sognava la morte di tutti gli uomini bianchi. In questa direzione anche Salgari non fece un racconto che guardava agli indiani d’America come il popolo oppresso, bensì come il selvaggio lontano dalla strada della civiltà.

Un documentario dal titolo Capitan Salgari diretto da Marco Serrecchia, un dvd allegato al libro Una tigre in redazione a cura di Silvino Gonzato (Marsilio, 1994) presenta alcuni articoli del Salgari giornalista e tra questi la recensione che l’autore offrì del circo di Buffalo Bill.

E di Buffalo Bill non può mancare Arriva Buffalo Bill, perché ci fu un incontro tra lo scrittore e il circense avvenuto a Verona, durante la prima comparsa del circo in Italia nel 1890 e sembra che proprio da questo incontro partisse un’avventura fantastica che coinvolse lo scrittore a scrivere del vecchio West.

Francesco De Gregori lo evoca in una delle sue canzoni più celebri, Bufalo Bill (1976), dove immagina un personaggio di giovane e orgoglioso eroe del West, che ormai invecchiato e stanco, in un pomeriggio triste sul bordo di una strada a contemplare l’America, firma un contratto capestro e diventa saltimbanco di un circo.

Ma è interessante vedere il rovescio della medaglia, che ci racconta un’altra parentesi di vita del personaggio che non contempla la rappresentazione di un mito. Alcune voci dicono che durante la guerra di secessione Cody fosse una spia dell’Unione in territorio confederato. Nel 1872 fu eletto alla Camera dei Rappresentanti, ma la sua elezione venne impugnata e si dimise senza nemmeno aver prestato giuramento. La sua ambizione non aveva limiti, e da quel momento iniziò ugualmente a farsi chiamare onorevole. Investì molti suoi guadagni in imprese fallimentari dove dilapidò una fortuna: l’avventura del circo fu la rinascita da una vita di fallimenti e per sopperire a un disastro economico in cui era precipitato.

Fu Robert Altman nel suo film Buffalo Bill e gli indiani (1976) a fornire un piccolo saggio di storia che servì a contraddire ogni verità ufficiale e svelare quello che fino ad allora nessuno aveva avuto il coraggio di raccontare. Ridicolizzato il mito di Buffalo Bill, evocato dalla bugiarda esasperazione storica scritta dai vincitori, questo diventava un passaggio quasi obbligato per affrontare sotto un’altra ottica e una nuova visione il tema del mito americano: nel  film di Altman il leggendario cacciatore di bisonti esce davvero malissimo in uno scontro con Toro Seduto che dovrebbe diventare il personaggio di punta dello spettacolo e che invece gli dà una grande lezione di spiritualità e soprattutto di libertà nella prigionia. Come era nella realtà, uno spaccone che si era vantato di aver ucciso un numero considerevole di indiani, Buffalo Bill vorrebbe demolire la dignità del capo indiano che invece ne esce a testa alta.

L’ex cacciatore di bisonti, l’ex scout, il circense, era un calcolatore politico della peggior specie e sapeva benissimo che la tournée che aveva programmato in Italia poteva avere successo soltanto se riconosciuta da un’autorità come quella del Pontefice. Non è affatto trascurabile il contributo della chiesa nel Nuovo Mondo. Aveva una politica autonoma in nome dell’evangelizzazione che non andava sicuramente in favore dei nativi americani, anzi pendeva dalla parte dei conquistatori a volte in modo netto e radicale in nome di una sacrosanta civiltà, definendo selvaggi e senza Dio gli autoctoni che, tra l’altro, non mancavano certo di una ricchezza e un fondamento spirituale.

La prima richiesta di incontro con Leone XIII fu rifiutata perché la compagnia era molto numerosa, poi venne accolta a patto che partecipasse, con un invito alla Cappella Sistina, un numero ristretto di persone. Cody presenziò con alcuni nativi americani, tra cui Toro Seduto e Alce Nero, imponendo loro gli abiti naturali che indossarono con una dignità tale da intimorire anche il papa. La notizia fece il giro del mondo e l’Herald Tribune scrisse: tra affreschi immortali di Michelangelo e di Raffaello e in mezzo alla più antica aristocrazia romana apparve improvvisamente una banda di selvaggi con le facce dipinte, coperti di piume, armati di scuri e coltelli.

E intanto il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt elogiandone le gesta lo descriveva così: è stato uno di quegli uomini dai muscoli e dai nervi d’acciaio, il cui coraggio ha aperto il grande West all’insediamento della civiltà.

Lo spirito della nazione.

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Viaggio ai bordi della notte americana https://www.carmillaonline.com/2019/11/20/viaggio-sul-bordo-della-notte-americana/ Wed, 20 Nov 2019 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56041 di Sandro Moiso

Daria Addabbo (fotografie) – Gino Castaldo (testi), This Hard Land. Sulle strade di Springsteen, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 50,00 euro

Non ho nessuna difficoltà a confessare, fin da subito, che ritengo la musica di Bruce Springsteen da annoverare tra quanto di più ripetitivo e ridondante la musica americana abbia prodotto da molti anni a questa parte. Sia nella sua versione da stadio che nella sua dimensione acustica. Dalla metà degli anni Settanta quando, forse anche grazie al suo lancio da parte di John Hammond Sr. che aveva [...]]]> di Sandro Moiso

Daria Addabbo (fotografie) – Gino Castaldo (testi), This Hard Land. Sulle strade di Springsteen, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 50,00 euro

Non ho nessuna difficoltà a confessare, fin da subito, che ritengo la musica di Bruce Springsteen da annoverare tra quanto di più ripetitivo e ridondante la musica americana abbia prodotto da molti anni a questa parte. Sia nella sua versione da stadio che nella sua dimensione acustica.
Dalla metà degli anni Settanta quando, forse anche grazie al suo lancio da parte di John Hammond Sr. che aveva precedentemente scoperto Bob Dylan, il Boss aveva letteralmente travolto il mercato della musica rock con il suo album Born To Run, la sua musica non si è più sostanzialmente rinnovata; ripetendo un cliché fatto di rock’n’roll e soul delle periferie urbane, fusi in un blue collar sound fatto di muscoli e sudore che non ha più saputo andare oltre un’immagine pubblica da rockstar, suburbana ma pur sempre tale, che l’artista sembra non essere più riuscito a togliersi di dosso. Mentre la componente acustica della sua opera non solo non ha aggiunto nulla di nuovo ai suoni della musica folk americana, ma è talvolta riuscita a banalizzare, in una sorta di dance party casereccio, il suo più intimo patrimonio, così come è avvenuto per le “Pete Seeger’s Sessions” (sia in studio che live).

Ma, allora, dove sta la forza, che non intendo affatto rinnegare, delle sue canzoni?
Nei testi e, naturalmente, nelle storie narrate dagli stessi .
In quei testi che hanno fatto dire a Ennio Morricone, nell’introduzione ad una traduzione italiana delle canzoni di Springsteen, che proprio tra quelle sue parole cantate occorre cercare l’espressione più vera del “grande romanzo americano”1.
Quei testi che esplorano, come afferma Gino Castaldo2 nello scritto che accompagna le bellissime foto di Daria Addabbo nel libro di grande formato appena edito da Jaca Book, soprattutto la notte americana con i suoi sogni, i suoi demoni, i suoi incubi, le sue violenze e i suoi amori consumati in fretta, magari sui sedili di un’auto truccata per le scommesse e le corse selvagge sulle strade infuocate delle periferie.

Un mondo eminentemente notturno, quello a cui Springsteen ha dedicato forse il suo disco più significativo, Darkness on the Edge of Town (1978), fatto anche di lavoratori che si alzano prima dell’alba per raggiungere le fabbriche oppure altri infimi luoghi di lavoro, che Daria Addabbo3, con le fotografie che costituiscono il vero “cuore” del libro, ha saputo perfettamente catturare e riprodurre. Immergendo coloro che le osservano nell’anima più vera di quella marginalità urbana e provinciale di cui il rocker originario del New Jersey è stato il più autentico cantore.

Le fotografie della Addabbo, scattate principalmente nei luoghi in cui il cantautore americano è nato e si è formato (New Jersey, Atlantic City, Asbury Park, New York) oppure, ma in misura minore com’è giusto, lungo le strade che conducono all’Ovest (New Mexico, Arizona, Texas, Nevada) verso la California (mito di un’età dell’oro che non è davvero mai esistita e trasformata oggi in una La La Land in cui si aggirano decine di migliaia di senza tetto), sottolineano con grazia, distacco e, allo stesso tempo, sorpresa la profonda connessione che esiste tra quegli ambienti e il mondo cantato dal musicista cresciuto nelle grandi periferie proletarie e sottoproletarie dell’impero americano.

Periferie fatte di lavoro, locali dove si beve e si suona, di strade notturne illuminate dalle insegne al neon, di piccole bische o grandi case da gioco in cui i perdenti possono continuare a perdere i già pochi risparmi e gli infimi sogni che la vita e il lavoro, sempre più incerto, hanno loro riservato.
Ma anche di piccole sorprese come i cerbiatti fotografati di notte sul limitare di case di periferia, quasi a testimoniare quell’innocenza perduta e mai ritrovata che agita spesso i testi e i sogni del cantautore nato a Long Branch il 23 settembre del 1949.

Un autentico working class hero che ha sempre portato con sé il sogno di diventare un vero rock’n’roller, ma che ha dovuto accontentarsi di diventare una rockstar internazionale, come ha egli stesso affermato.
Una nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere, ma che non è stato che sembra accompagnare tante sue canzoni e che si riverbera nelle fotografie del libro. Mai ridondanti, mai a caccia del mito, ma soltanto della realtà profonda di una notte, quella americana, in cui tutti i miti hanno cessato di essere tali per diventare soltanto i frammenti di una realtà composita e dura che non trova la sua rappresentazione nella bandiera a stelle e strisce, ma soltanto nelle fiere di provincia, nella solitudine degli individui, nelle fabbriche avviate alla chiusura o nelle armi impugnate nell’inutile ricerca di una sicurezza sociale ed economica che, forse, per la maggior parte degli americani cantati da Springsteen non è mai esistita.

Una trama che è possibile leggere in quella che per me rimane la sua canzone più bella, Seeds, contenuta nel suo quintuplo album live del 1986, che nella ricerca ostinata e sfortunata di una nuova occasione di vita e lavoro sa concentrare tutta la poetica dell’autore americano. Spesso lontano dai grandi spazi, tipici del mito americano, recuperati soltanto per l’ultimo album Western Stars (2019).

Un’immagine dell’America e del suo mito ormai sbiadito di cui i testi di Castaldo e le belle fotografie della Addabbo costituiscono una perfetta e, talvolta, poetica sintesi.


  1. E. Morricone, Prefazione a L. Colombati, Come un killer sotto il sole, Sironi Editore 2011, p.8  

  2. Gino Castaldo è giornalista, critico musicale e inviato de La Repubblica dalla fondazione (1976). Per La Repubblica ha curato dal 1989 al 1995 il supplemento Musica!  

  3. Daria Addabbo è nata nel 1979 a Roma, dove attualmente vive e lavora. Dopo aver seguito gli studi alla Facoltà di Lettere, ha vissuto a Buenos Aires, in Argentina, dove ha studiato fotografia. Ha pubblicato su Espresso, Vanity Fair, Panorama, Internazionale, Marie-Claire, La Repubblica, Gioia, Grazia, Donna Moderna, GQ, Mind, National Geographic e diverse riviste internazionali. Ha esposto i suoi lavori in Italia, Brasile e Argentina  

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