misoginia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La pillola rossa dell’alt-right – 3 https://www.carmillaonline.com/2023/07/23/la-pillola-rossa-dellalt-right-3/ Sun, 23 Jul 2023 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77812 di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto [...]]]> di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto consumatore passivo della televisione, del cinema e della letteratura – ciò che preoccupa maggiormente è la convergenza tra l’identità gamer e l’estrema destra»1.

Diversi studi evidenziano la parziale sovrapponibilità tra il target di riferimento dell’alt-right e quello dell’industria videoludica; se Kristin Bezio2, ad esempio, coglie la contiguità demografica tra i potenziali partecipanti alle discussioni promosse dall’alt-right e i gamer, Anita Sarkeesian3 individua diverse affinità in termini di immaginario, bersagli e strategie tra alcune campagne sorte all’interno dell’universo videoludico e i movimenti politici della destra radicale statunitense.

Il caso forse più eclatante di come una campagna d’odio esplosa nelle piattaforme degli appassionati di videogame fortemente intrisa di immaginario conservatore, reazionario, che desidera ripristinare un passato idealizzato in cui l’universo videoludico era appannaggio esclusivo di uomini bianchi eterosessuali, è sicuramente quello del cosiddetto GamerGate.

Tutto è iniziato nell’agosto del 2014 quando, a partire da  un’invettiva contro una sviluppatrice di videogiochi pubblicata dall’ex fidanzato su un blog, una nicchia di giovani gamer maschi e bianchi ha lanciato una delirante campagna votata a denunciare la “corruzione” del mondo dei videogiochi in buona parte, a loro dire, determinata dalla presenza di alcune donne intenzionate a stravolgerlo. Si è trattato di uno dei primi casi in cui una discussione priva di rilevanza pubblica, porta avanti da un gruppo di individui, grazie al web, è sfociata in una campagna reazionaria di proporzioni spropositate rispetto alla causa scatenate, palesando quanto rancore misogino e chiusura identitaria covassero in corpo tanti giovani gamer.

Michael Salter4 invita a guardare quanto si manifesta all’interno degli ambienti videoludici come a una spia delle trasformazioni sociali in atto. «Non a caso, è nel contesto videoludico che l’aggressione rappresenta una modalità standard di partecipazione pubblica sulle piattaforme tecnologiche». Gli abusi e le molestie che contraddistinguono gli ambienti dei gamer risultato «in stretta relazione alle dinamiche più reazionarie dell’identità maschile e alla sottesa ideologia della tecnologia digitale»5. In particolare, Salter ricostruisce l’evoluzione del concetto di gender in ambito informatico mettendo in luce i suoi legami con la “mascolinità geek” fondata sul concetto di padronanza tecnologica.

Nell’ambito di Gamergate, l’impulso maschile a difendere determinate tecnologie – videogiochi e internet in primis – dall’assedio (reale o percepito) da parte di donne e utenti più diversificati, ha evidenziato la fragilità della mascolinità geek e la sua dipendenza da forme inique di egemonia tecnica. Non è un caso che particolari piattaforme – come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter – si siano rivelate terreno fertile per le campagne misogine di Gamergate6.

L’analisi di Salter mostra come «la lotta delle donne e di altri soggetti marginalizzati per accedere in modo più equo alla cultura e al contesto lavorativo dell’high tech» sia «complicata dalla mascolinizzazione della tecnologia, che privilegia l’egemonia di genere»7.

Nella cultura occidentale l’equiparazione della mascolinità alla tecnologia ha attribuito il primato maschile sull’accesso ai mezzi tecnici e la «progressiva mascolinizzazione delle industrie e delle culture informatiche ha incentivato intensi investimenti affettivi e identificazioni psicologiche da parte di uomini e ragazzi, generando permutazioni tecnologiche della soggettività maschile, che ha assunto nuove forme. Una delle più recenti è stata definita mascolinità geek8. Con tale espressione si indica «una soggettività di genere che prevede la rivendicazione – da parte di adulti e adolescenti di sesso maschile – della padronanza tecnologica come fattore essenziale dell’identità maschile»9.

La mitologia della rivoluzione informatica celebra gli ideali dell’individualismo, della competitività e dell’aggressività, elementi normativi nella mascolinità geek fin dall’avvento delle reti.[…] L’afflusso di utenti femminili e più diversificati sulle piattaforme di social media, nei videogiochi e in altri campi dell’elettronica di consumo ha messo in discussione l’equivalenza tra la tecnologia maschile e l’identità maschile geek. Il fenomeno è stato accompagnato da un’escalation di abusi e molestie che hanno avuto origine nelle sottoculture dominate dai geek, ma che oggi sono diventate parte del mainstream. […] Gamergate illustra in modo paradigmatico la congruenza sociotecnica tra la mascolinità geek e una comunicazione che prevede la sistematica oppressione dell’altro. Questa esplosione senza precedenti di molestie online che ha avuto origine all’interno delle sottoculture videoludiche si è diffusa in modo virale grazie a piattaforme come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter. […] Tale campagna di abusi è diventata endemica perché la sua razionalità di fondo era evidente nella progettazione, governance e strategia comunicativa di numerose piattaforme online. Non si tratta di una mera coincidenza: l’architettura e l’amministrazione di queste piattaforme condividono l’ideologia della cultura geek e delle industrie correlate. Ergo, l’abuso online prodotto e promosso da questa campagna d’odio non è un’anomalia: la tecnologia è sempre simbolicamente e strategicamente implicata nelle affermazioni dell’aggressione maschile10.

Su GamerGate si sono fatti le ossa, conquistando la popolarità, personaggi poi divenuti di spicco nell’ambito dell’alt-right come Milo Yiannopoulos e Phil Mason.

Il nucleo narrativo di Gamergate secondo il quale i simboli della tecno-mascolinità, come i videogiochi e internet, sono stati attaccati frontalmente in una “guerra culturale” condotta da femministe e progressiste, si è fuso con altri movimenti reazionari dell’identità maschile, assumendo forme inaspettatamente virulente. 4chan e le forme associate di mascolinità geek hanno svolto un ruolo chiave nel promuovere e sostenere la campagna elettorale del presidente americano Donald Trump attraverso strategie che hanno offuscato il confine tra politica mainstream, misoginia organizzata e supremazia bianca11.

Se l’intrecciarsi di disuguaglianza di genere, alienazione capitalistica e tendenza maschile a riversare sulle donne le proprie frustrazioni non è di certo una novità, di nuovo c’è, secondo Salter, l’uso che ne ha fatto l’alt-right per mobilitare l’aggressività maschile.

Lo stesso Trump ha beneficiato dei meccanismi retorici e di mobilitazione che si sono sviluppati in rete nella sua campagna contro i politici di professione pretendendo di dare voce al rancore contro l’establishment di “un intero popolo” alle prese con gli effetti della globalizzazione. Trump è certamente espressione di un populismo che, riprendendo la definizione proposta da Jan-Werner Müller, può essere visto come

una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. […] Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico12.

Il web offre ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale che, per quanto contraddittorio possa sembrare, bene si amalgama al mito della cultura online della “protesta senza leader”.

I leader carismatici contemporanei prescindono dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità delle formazioni politiche tradizionali, rafforzando al contempo i rapporti con i loro potenziali seguaci con «promesse che si sa già non potranno essere mantenute, solo per rassicurare un bacino elettorale sicuro di niente, ma solo di essere stato trascurato da tutte le altre forze politiche. Ad esso ci si rivolge cercando di creare processi identificativi inesistenti, facendo credere di essere parte della massa»13 anche miliardari abituati al lusso più sfrenato che hanno cosrtruito il loro impero economico in buona parte prorprio attraverso ciò che dicono di voler combattere.

Indubbiamente questa particolare forma di cyberpopulismo, derivata dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità, ha potuto dilagare anche perché si è rivelata «capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo»14.

La fortuna di molti movimenti d’opinione etichettati come populismi, secondo Alessandro Dal Lago, è in buona parte dovuta al diffondersi di un tipo di comunicazione online in cui prevalgono i soggetti digitali sugli esseri umani reali.

Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali15.

L’editorialista del “Chicago Tribune” Clarence Page ha messo in relazione il successo della serie televisiva The People Vs. O.J. Simpson. American Crime Story (2016)16 e la campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca, sostenendo che per entrambi i casi si può parlare di dispute tra “narrative” di intrattenimento17.

La “narrativa”, sostiene Page, ha un ruolo determinante nella vittoria elettorale e il consenso può essere ottenuto ricorrendo a strategie da reality show date in pasto a un pubblico avido di essere intrattenuto: occorre dire qualcosa di scandaloso per poi, mentre tutti ne stanno ancora discutendo, rilanciare con una nuova affermazione scioccante. Ai seguaci spetta il compito di costruire sui social una comunità di sostengo impenetrabile da ogni altra informazione discordante. Quando serve riconquistare il centro della scena si ricomincia da capo rimettendo in moto il meccanismo.

Trump si è rivelato sicuramente abile nell’adottare per le sue campagne meccanismi propri dei reality show, di buona parte dell’entertainment della tv generalista contemporanea e dello stesso universo online, in questo, non poi così diverso dagli odiati media verticistici tradizionali di cui si pretende tanto diverso.

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene il sociologo Dal Lago, è la tangenzialità: il più delle volte gli interlocutori evitano di entrare nel merito di ciò che commentano, preferendo limitarsi a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale: molti dibattiti online si rivelano contenitori di interventi del tutto privi di argomentazioni.

Negli Stati Uniti, a tutto ciò si deve aggiungere un sempre più esibito orgoglio del “non sapere le cose”, soprattutto in ambito politico. L’ignoranza, al pari di una narrazione semplicemente altra, poco importa quanto improbabile possa essere, diviene una sorta di trincea entro cui rifugiarsi per evitare il difficile confronto con quanto viene derubricato come narrazione dominate, dunque da rigettare aprioristicamente.

Tutto ciò, sostiene Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss University Press 2023), si colloca ben oltre la tradizionale avversione americana per gli intellettuali. Ciò che si sta palesando negli Stati Uniti da qualche tempo non è soltanto un’incredibile disponibilità a credere a qualsiasi cosa non sia percepita come versione manistream, ma anche un’orgogliosa e arrogante opposizione attiva ad approfondire le questioni su cui si interviene pur di non abbandonare la comfort zone delle proprie improvvisate convinzioni. Non si tratta di «non fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative», quanto piuttosto di «una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione»18.

La propensione a cercare informazioni che avvalorino e rafforzino ciò in cui già si crede e a rigettare aprioristicamente quanto possa contraddirlo non nasce certo con internet ma è indubbio quanto questo si presti al meccanismo del “bias di conferma”. Se le leggende popolari e altre superstizioni sono tipici esempi di bias di conferma e di argomentazioni non falsificabili, i casi più estremi, sostiene Nichols, sono ravvisabili nelle teorie complottistiche. «I teorici del complotto manipolano tutte le prove tangibili per adeguarle alla loro spiegazione, ma, quel che è peggio, usano anche l’assenza di prove come conferma ancora più definitiva. […] Fatti, assenza di fatti, fatti contraddittori: tutto è una prova. Nulla può mettere in crisi la convinzione su cui si basa la teoria»19.

Il successo del genere conspiracy thriller, continua Nichols, deriva anche dal suo eroicizzare l’individuo che trova la forza e il coraggio di combattere contro una grande cospirazione capace di soffocare qualsiasi altro comune mortale. «La cultura americana, in particolare, è attratta dall’idea del dilettante di talento (in contrasto, per esempio, con gli esperti e le élite) che può sfidare interi governi – o organizzazioni addirittura più grandi – e vincere»20. Le teorie del complotto, che oggi sembrano sembrano derivare soprattutto dal disorientamento economico e sociale provocato dalla globalizzazione, risultano particolarmente attrattive per coloro che hanno difficoltà a dare un significato alla complessità e non sono in grado o non intendono compiere lo sforzo necessario per approfondire spiegazioni meno suggestive21. L’alternative right è prosperata online anche grazie a tutto ciò.

Se nel successo di Trump numerosi commentatori hanno visto una sorta di reazione della “gente qualunque” sentitasi abbandonata dallo snobismo liberal, in realtà, secondo Angela Nagle, a darsi è stato piuttosto il passaggio

da una certa forma di elitismo sottoculturale a un improvviso amore per il proletariato, addirittura per il disinteressato sostengo dei meno fortunati, come se la destra sostenesse da sempre argomenti come quelli di Thomas Franck e non, come in effetti era sempre accaduto, tesi favorevoli alla diseguaglianza o altri argomenti misantropici o economicamente elitari a sostegno della gerarchia naturale22.

Ben da prima che la retorica della “gente qualunque” diventasse onnipresente sui siti di destra, personaggi dell’alt-right come Milo Yiannopoulos si facevano fotografare con t-shirt recanti la scritta “Stop Beeing Poor”, riprendendo una maglietta sfoggiata da Paris Hilton. Dopo il successo trumpiano lo stesso Yiannopoulos ha tenuto diverse conferenze sulla “nuova classe operaia bianca”.

A fronte di questo improvviso interesse per la classe operaia bianca, occorre sottolineare come nell’ambito dell’estrema destra statunitense vi fosse la tendenza a rigettare l’idea dei conservatori che voleva la massa come loro “naturale” alleato ritenendo piuttosto ormai irrecuperabile la società massificata e indottrinata dal “multiculturalismo femminista di sinistra”. Nell’universo dell’alt-right sul web prevale da tempo una sottocultura snobistica verso le masse e la cultura di massa; la destra radicale online si vuole ristretta avanguardia altra rispetto alla massa nei cui confronti guarda con diffidenza quando non con ostilità.

Sono state proprio le idee incredibilmente vacue e fraudolente della trasgressione controculturale a creare il vuoto in cui oggi può confluire qualsiasi cosa purché ostenti sdegno dei gusti e dei valori manistream. È proprio questo che ha permesso che una cultura oggi evidente in tutto il suo orrore venisse romanticamente interpretata dai progressisti come una forza di opposizione all’egemonia culturale. La verità che tutto ciò ha svelato, secondo [Angela Nagle], è che sia la cultura vicina alla destra di 4chan, sia quella politicamente ipercorretta dell’accademia, hanno subito il fascino controculturale dello sdegno per tutto ciò che è di massa23.

Angela Nagle sottolinea anche come i Cultural Studies della Scuola di Birmingham abbiano guardato con occhi eccessivamente acritici alle sottoculture esaltandole per la loro carica radicale, trasgressiva e antiegemonista. Tale benevolenza deriverebbe, secondo la studiosa Sarah Thornton24, dal desiderio di trovare nelle sottoculture una sponda utile a contrastare le ideologie dominanti e perché tanto l’oggetto di studio (le sottoculture) che chi le affrontava (studiosi) erano accomunati da una sostanziale ostilità nei confronti della società di massa.

Il limite di approcci come quello di Dick Hebdige25, secondo Thornton, consiste nella tendenza a guardare alle sottoculture come a realtà nude e pure, mentre, a suo avviso, queste si intrecciano inevitabilmente con l’ambito mainstream e ciò risulterà sempre più evidente a partire dagli ultimi decenni del vecchio millennio quando il sistema si è dimostrato perfettamente in grado di riassorbire anche le spinte culturali più provocatorie rendendole profittevoli26:

rispetto alla scena inglese indagata da Hebdige le cose sono cambiate e parecchio, tanto da rendere oggi problematico anche solo ricorrere al termine sottocultura nelle modalità con cui vi si ricorreva qualche decennio fa. Ad essere mutata è anche la capacità della macchina del business di mercificare e di riassorbire fenomeni nati più o meno con intenzioni sottrattive, se non antagoniste, rispetto al sistema stesso. […] Da qualche tempo lo stesso ricorso alla provocazione è divenuto una strategia utilizzata con una certa frequenza dalla cultura e della moda manistream. […] Nella contemporaneità sembra ormai che normalità e devianza, da questo punto di vista, siano due strade, nemmeno così diverse, che conducono all’omologazione della mercificazione. Indipendentemente da quale sia il percorso seguito, le identità faticosamente costruite necessitano comunque di conferme, di una patente ottenuta attraverso una pubblica accettazione e qua fanno capolino i social network, ove i like o altri indicatori di apprezzamento rappresentano l’unità di misura del successo davanti al pubblico27.

Nelle sottoculture geek, sostiene Angela Nagle, l’idea di preservare il proprio ambito da contaminazioni che potrebbero “normalizzarlo” è molto presente. In tali ambienti generano forte disprezzo, ad esempio, le giovani ritenute un po’ superficiali con gusti mainstream che tentano di inserirsi nelle sottoculture alt-right utilizzando scorrettamente gli indicatori di appartenenza al gruppo dimostrano così di non aver compreso lo status elitario dei suoi appartenenti e per questo sono trattate con ostilità.

Come molte sottoculture, anche quelle della galassia alt-right, quasi sempre dominate da nerd maschi e bianchi, guardano con ostilità a tutto ciò che non appartiene alla loro cerchia. Chi, ad esempio, non trova esaltante il ritorno al separatismo razziale o l’idea di porre fine all’emancipazione femminile viene frequentemente accusato in internet, soprattutto se donna, di essere “normie” e “basic bitch”. «Siamo al punto che l’idea di essere figo/controculturale/trasgressivo può mettere un fascista in posizione di superiorità morale rispetto a persone normali», scrive Nagle; occorre dunque «riconsiderare il valore di queste idee di controcultura ormai stantie e logore»28.

Angela Nagle, oltre all’indubbio merito di ricostruire i conflitti culturali online degli ultimi decenni che hanno contribuito a formare l’immaginario di tanti giovani statunitensi che nel frattempo si sono fatti adulti, mostra anche come ribellione, provocazione e logiche controculturali che prendono di mira il sempre più logoro establishment non siano affatto esclusiva di una sinistra che, quando non si palesa essa stessa come establishment, ha saputo esprimere

un progressismo puramente identitario e autoreferenziale, cresciuto a sua volta nelle sottoculture web e arrivato poi nei campus universitari […]. Tutto d’un tratto sembrano lontanissimi i giorni dell’utopia, della rivoluzione digitale senza leader di Internet, quando i progressisti si rallegravano che “il disgusto” fosse “diventato un network” e fosse esploso nella vita reale29.

Quel disgusto fattosi network online non ha fatto che rigurgitare dapprima sullo schermo, poi fuori da esso, i peggiori istinti di esseri umani alienati e incapaci di mettere radicalmente in discussione un modello economico, di vita e di relazioni sociali che rappresenta la causa principale delle loro sofferenze.

Di certo la via di uscita non la si otterrà inseguendo le promesse reticolari-partecipative di un web sempre più indirizzato al controllo comportamentale e predittivo, capace di estrarre profitto anche dalle pretese antisitemiche sullo schermo più radicali, né rincorrendo le logiche della “pillola rossa” rivelatrice di verità il più delle volte coincidenti con semplicistici ribaltamenti di quanto passa il manistream, credendo davvero che le culture dei due ambiti siano nettamente differenziabili.

Le tecnologie della connettività online che stanno facendo la fortuna dell’alterntive right si stanno rivelando inadeguate allo sviluppo di esperienze realmente trasformative della realtà in senso libertario e solidaristico.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, […] non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento30.

In astinenza da piazze e socialità novecentesche, occorrerà  negare sostegno a un establishment impresentabile, non tanto perché “corrotto” ma innanzitutto in quanto espressione di un sistema di per sé indifendibile, e al contempo evitare di farsi prendere dalla frenetica ricerca di facili quanto improbabili scorciatoie ottenute attraverso semplicistici “ribaltamenti” di quanto è mainstream, di guardare a indigeribili alleanze, di indirizzarsi verso logiche complottistiche e parole d’ordine improponibili pensando davvero di poter controllare il mostro anziché farsi dominare da questo.

La pillola rossa dell’alt-right – serie completa


Bibliografia

  • Bezio Kristin, Ctrl-Alt-Del: GamerGate as a precursor to the rise of the altright, in “Leadership”, 2018, vol. 14, n. 5.
  • Bittanti Matteo (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023.
  • Brooke Heather, The Revolution Will Be Digitised. Dispatches from the Information War, Windmill Books, London, 2011.
  • Calzeroni Pablo, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019.
  • Camaiti Hostert Anna, Cicchino Enzo Antonio, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020.
  • Ciabatti Fabio, Dopo Trump, il rilancio dell’idea comunista per superare lo sgomento, in “Carmilla”, 12 maggio 2018.
  • Crary Jonathan, Terra bruciata. Oltre l’era del digitale verso un mondo postcapitalista, Meltemi, Milano, 2023.
  • Dal Lago Alessandro, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, 2017.
  • Hawley George, The Demography of the Alt-Right, in “Institute for Family Studies”, 9 agosto 2018.
  • Hebdige Dick, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano, 2017.
  • Lewis Rebecca, Alternative Influence: Broadcasting the Reactionary Right on YouTube, in “Data & Society”, 18 settembre 2018.
  • Mason Paul, Why It’s Kicking Off Everywhere. The New Global Revolutions, Verso Books, London, 2011.
  • Moiso Sandro, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), in “Carmilla”, 21 febbraio 2017.
  • Moller Hans Georg, D’Ambrosio Paul J., Il tuo profilo e te. L’identità dopo l’autenticità, Mimesis, Milano-Udine, 2022.
    Müller Jan-Werner, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017.
  • Munn Luke, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Bittanti Matteo (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023.
  • Nagle Angela, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018.
  • Nichols Tom, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2023
  • Sadin Éric, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, Luiss University Press, Roma, 2022.
  • Salter Michael, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, in Bittanti Matteo (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020.
  • Salvia Mattia, Interregno. Iconografie del XXI secolo, Nero, Roma, 2022.
  • Sarkeesian Anita, Anita Sarkeesian Looks Back at GamerGate, in “Polygon”, 23 dicembre 2019.
  • Thornton Sarah, Club Cultures. Music, Media and Subcultural Capital, Polity Press, Cambridge, 1995.
  • Toni Gioacchino, Estetiche inquiete. Quando lo street style diventa mainstream, in “Carmilla”, 5 giugno 2022.
  • Toni Gioacchino, Il nuovo disordine mondiale / 11: dispositivi digitali di secessione individuale generalizzata, in “Carmilla”, 3 aprile 2022.
  • Toni Gioacchino, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, in “Il Pickwick”, 18 ottobre 2017.
  • Toni Gioacchino, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone, Roma, 2022.
  • Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, in “Internazionale”, Prima parte 15 ottobre 2018 e Seconda parte 29 ottobre 2018.

  1. Matteo Bittanti, Introduzione: Make Videogames Great Again, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 14. 

  2. Kristin Bezio, Ctrl-Alt-Del: GamerGate as a precursor to the rise of the altright, in “Leadership”, 2018, vol. 14, n. 5. 

  3. Anita Sarkeesian, Anita Sarkeesian Looks Back at GamerGate, in “Polygon”, 23 dicembre 2019 

  4. Michael Salter, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  5. Ivi 142 

  6. Ivi, p. 143. 

  7. Ivi, p. 169. 

  8. Ivi, p. 146. 

  9. Ivi p. 147. 

  10. Ivi, pp. 149-151. 

  11. Ivi, p. 161. 

  12. Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017. 

  13. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 56-57 [su Carmilla]

  14. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, 2017, p. 22 [su Carmilla]

  15. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, op. cit., pp. 73-74. 

  16. The People v. O.J. Simpson: American Crime Story (2016) – prima stagione della serie televisiva American Crime Story prodotta da FX Netwoks – riprende il libro di successo The Run of His Life: The People v. O.J. Simpson (1997) di Jeffrey Toobin. 

  17. Cfr. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto, op. cit. 

  18. Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2023, p. 13. 

  19. Ivi, p. 69. 

  20. Ivi, p. 71. 

  21. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018 

  22. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018,, pp. 143-144. 

  23. Ivi, p. 149. 

  24. Sarah Thornton, Club Cultures. Music, Media and Subcultural Capital, Polity Press, Cambridge, 1995. 

  25. DickHebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano, 2017. Sul volume si veda: Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, in “Il Pickwick”, 18 ottobre 2017. 

  26. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Quando lo street style diventa mainstream, in “Carmilla”, 5 giugno 2022. 

  27. Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, op. cit. 

  28. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, op. cit., p. 152. 

  29. Ivi, p. 168. 

  30. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 126-127 [su Carmilla]

]]>
La pillola rossa dell’alt-right – 2 https://www.carmillaonline.com/2023/07/14/la-pillola-rossa-dellalt-right-2/ Fri, 14 Jul 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77740 di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva [...]]]> di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva per ciò che è accettabile; dal momento in cui il discorso viene riconosciuto come consueto e condivisibile, l’utente viene accompagnato in modo “naturale” verso lo stadio successivo ove incontrerà immagini più forti e discorsi più radicali.

Naturalmente, gli individui affiliati anche in modo informale all’alt-right sono relazionali nel senso che sono connessi a vaste infrastrutture sociali e comunità online. Ma non appartengono a un’organizzazione e nemmeno a una cellula. Infatti, questi giovani, spesso disoccupati, si ritirano intenzionalmente dalla società, abbracciando il loro nuovo isolamento sociale anziché rifuggerlo […] Le recenti violenze perpetrate dall’alt-right sono difficili da prevedere e prevenire. Il razzismo e la xenofobia degli aggressori sono stati alimentati, coltivati e incoraggiati negli ambienti più disparati della rete […] Istigando soggetti alienati attraverso una retorica basata sull’odio e l’antagonismo, l’esito non può che essere distruttivo. Le condizioni che alimentano e incentivano l’indignazione, che incitano alla violenza, che perpetuano gli stereotipi razzisti, prima o poi spingeranno un soggetto particolarmente impressionabile e psicologicamente debole a comportamenti estremi1.

Gli individui che esprimono idee vicine all’alt-right sono il più delle volte persone comuni – spesso giovani bianchi disoccupati che si isolano intenzionalmente dal resto della società – che, un passo alla volta, meme dopo meme, video dopo video, hanno maturato convinzioni che considerano corrette e lapalissiane. Pur non facendo parte di gruppi “emarginati” o “assediati”, i discorsi di molti uomini bianchi che si sono avvicinati all’alt-right sono infarciti di retorica di persecuzione e vittimismo. Stando a un recente rapporto, circa undici milioni di statunitensi si dicono persuasi che nel loro paese i bianchi siano le “vittime” ed esprimono la profonda convinzione dell’importanza della “solidarietà bianca”2. «In breve, ci sono undici milioni di americani potenzialmente ricettivi ai messaggi dell’alt-right. Considerato nel più ampio contesto della popolazione, il simpatizzante dell’alt-right è un normale radicale e un estremista mainstream»3.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto su cui può far presa la retorica dell’alt-right è un individuo disilluso e cinico che, anche quando socialmente inserito, non trova felicità nella sua quotidianità e nel sistema politico che la governa. Un individuo alla ricerca di una sua dimensione all’interno di una comunità strutturatasi nell’universo online su una specifica questione che spesso diventa la sua unica questione esistenziale, una figura che, secondo Matteo Bittanti 4, non è molto diversa da quella di tanti gamer appassionati di giochi “sparatutto in prima persona” che magari, in diversi casi, sono usciti dagli schermi per partecipare all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Oltre che poter contare su una rete di supporter influenti e su un’immensa disponibilità economica, senza le quali, è bene sottolinearlo, nessuna escalation si sarebbe potuta dare, Trump ha saputo sfruttare la cultura dell’altrnative right permettendole di contaminare l’establishment. Nell’analizzare il successo del tycoon statunitense, Alain Badiou5 ha argomentato come a suo avviso le posizioni politico-culturali di questo outsider rappresentino una sorta di “esteriorità interna” al sistema, un’esteriorità dispensatrice di false promesse portate avanti con un linguaggio roboante, violento, demagogico, irrazionale e semplicistico che non ha esitato a recuperare vecchi immaginari nazionalisti, razzisti, bigotti e sessisti, pur presentandoli, talvolta, in maniera nuova.

Come diversi analisti, anche Badiou ritiene che il successo di Trump sia stato costruito sfruttando quel senso di profonda frustrazione derivata dall’incapcità di proiettarsi nel futuro patito da larghi strati della popolazione privi, come sintetizza efficacemente Fabio Ciabatti, di «un insieme sufficientemente forte e articolato di principi condivisi in grado di fungere da mediazione tra il soggetto individuale e il progetto collettivo dell’emancipazione, di costituire un’unione strategica globale di tutte le forme di resistenza e di azione politica»6.

La “pillola rossa” offerta dall’alt-right e la “pillola blu” dispensata dall’establishment, al di là del diverso colore, conterrebbero, in definitiva, il medesimo principio attivo volto a preservare le fondamenta basilari di un sistema che non ammette alternative a sé stesso.

Sandro Moiso individua nella retorica del “duro lavoro”, onnipresente nel discorso dell’alt-right trumpiana, uno degli elementi cardine del suo successo tra la working class statunitense.

Perché è proprio nel concetto di lavoro inteso come partecipazione alla creazione della ricchezza della Nazione che si nasconde la grande fascinazione esercitata dal fascismo su una parte significativa della classe operaia. Nazionalismo, razzismo, esclusione e prevaricazione di genere, bellicismo non sono altro che i corollari, a livello ideologico, di un concetto che è penetrato in profondità nella mentalità di coloro che collegavano e collegano ancora il benessere proprio alla fatica e allo sfruttamento produttivo. […] Il barbecue famigliare e buy american cui il nuovo presidente invita i suoi elettori è fatto di cibo spazzatura e di illusioni di grandezza, di violenza e odio nei confronti degli immigrati e di qualsiasi nemico. Esterno o interno che sia7.

Tutto ciò, sostiene Moiso, era già presente, per quanto in maniera meno esplicitata, in quell’establishment di cui l’universo alt-right trumpiano si dichiara nemico. Rispetto alla tranquillizzante “pillola blu” proposta dall’establishment liberal-democratico o conservatore, ciò che la “pillola rossa” alt-right trumpiana ha esplicitato è «l’intima connessione tra interesse privato e nazionale che è il fondamento dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta. Da cui deriva l’intrinseca e inscindibile connessione che corre tra le politiche liberali e il loro rovescio apparente: il fascismo»8.

Se al fine di “smascherare” qualche personaggio o istituzione dell’establishment nel corso del tempo hanno fatto ricorso a forme di “hacktivismo moralizzatore” tanto militanti di sinistra che di destra, questi ultimi hanno saputo garantirsi una certa egemonia all’interno della chan culture. Spetta a 4chan il ruolo di apripista in tale ambito. Per dare un’idea del bacino su cui ha potuto contare la cultura di destra fattasi egemone su 4chan, basti pensare che la sezione del forum Something Awful intitolata The Anime Death Tentacle Rape Whorehouse, inaugurata nel 2003, luogo di ritrovo di tanti appassionati di anime giapponesi, ha  raggiunto circa 750 milioni di visualizzazioni mensili nel 2011.

Attraverso una prolifica produzione di meme e troll la comunità di 4chan ha dato voce a una cultura profondamente misogina di appassionati di videogame di guerra e di film come Fight Club (1999) di David Fincher e The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski, per quanto letti da una prospettiva probabilmente altra rispetto a quella degli autori. L’anonimato consentito dal sito ha certamente incoraggiato i partecipanti a esprimersi senza freni in un’escalation sempre più sguaiata in cui l’ironia e la parodia hanno finito per intersecarsi con le provocazioni, le minacce e gli insulti della destra radicale. «La troll culture di 4chan brulicava di razzismo, misoginia, deumanizzazione, pornografia disturbante e nichilismo anni prima di diventare una forza centrale dietro l’estetica e lo humor della alt-right»9.

Ad accomunare tanti frequentatori di 4chan e gli estremisti della destra più radicale è stata la comune insofferenza nei confronti del politcally correct, del femminismo, del multiculturalismo e, soprattutto, il timore che tali tendenze potessero “infettare” il loro mondo online privo di regole e dominato dall’anonimato. Il livello degli insulti e delle minacce online ha spesso preso come bersaglio le donne accusate, in definitiva, di aver condotto al declino del “maschio occidentale”. Nella preoccupazione per la mascolinità bianca e occidentale che emerge in molta web culture anonima e priva di leader, secondo Nagle, si potrebbero cogliere  la avvisaglie di un malessere occidentale che va ben al di là dello specifico.

All’espansione di politiche identitarie liberal ha fatto da contraltare il proliferare di reazioni sempre più sguaiate e incattivite portate avanti, in internet, attraverso raffiche di meme e troll virulenti fino alle minacce dirette con tanto di  pubblicazione di informazioni riservate, indirizzi compresi, dei soggetti presi di mira, soprattutto da parte dei gamer antifemministi, dunque allargando, di fatto, la sfera d’azione al di fuori degli schermi.

Secondo Nagle a diffondere la misoginia – come del resto il razzismo, la transfobia ecc. – presente in internet nelle pieghe del corpo sociale, più che le frange radicali dell’alt-right sarebbe stata la sua componente maggioritaria, la cosiddetta alt-light, grazie a personaggi come Milo Yiannopoulos, molto popolare su Twitter e su diversi blog, Mike Cernovich, autore di una celebre guida all’essertività maschile, e una schiera di produttori di meme (Pepe the Frog ecc.) mossi, più che da una visione politica precisa, dalla propensione al politicamente scorretto fine a sé stesso.

Sebbene si tenda ad associare la cultura della trasgressione alla sua manifestazione negli anni Sessanta del secolo scorso nell’ambito di quella rivoluzione sessuale che ha nei fatti minato alle fondamenta la famiglia tradizionale, di per sé, sostiene Angela Nagle, la trasgressione si è storicamente mostrata «ideologicamente flessibile, politicamente intercambiabile e moralmente neutr[a]» tanto da poter «caratterizzare la misoginia tanto quanto la liberazione sessuale»10.

Figure di spicco delle battaglie culturali condotte dalla destra trumpiana come Milo Yiannopoulos e Allum Bokhari nel tratteggiare il pantheon intellettuale dell’alternative right citano personalità quali: Oswald Spengler (Il tramonto dell’Occidente, 1918); H.L. Mencken, avverso al New Deal e promotore di una critica nietzschiana alla religione e alla democrazia rappresentativa; Julius Evola, soprattutto per la sua esaltazione dei valori tradizionali maschilisti; Samuel Francis, paleoconservatore avverso al neoconservatorismo capitalista. Anche la Nouvelle Droite francese rientra nell’eterogeneo pacchetto di influencer a cui guarda l’alt-right statunitense.

Durante gli anni della presidenza Obama, sostiene Nagle, i millenial liberal dotati di buon livello culturale non hanno approfittato dello spazio offerto dai nuovi media dopo il declino dei quotidiani e delle televisioni generaliste, tradizionali luoghi di dibattito politico. Si sono limitati a riempire le piattaforme di contenuti melensi, pieni di sentimenti edulcorati ritenendoli sia attrattivi che utili a costruire identità politica.

Affetto da miopia o da sprezzante disinteresse e snobismo, l’universo liberal non ha saputo/voluto vedere come nel frattempo l’alt-right stesse costruendo un impero mediatico online alternativo e stratificato capace di intercettare «adolescenti che creavano meme ironici e pubblicavano online contenuti contrari all’etichetta comportamentale di Internet formavano un esercito di riserva di produttori di contenuti, composti perlopiù di immagini in stile manga e anime spesso utilizzati in un contesto di umorismo nero»11.

Un esercito facilmente convocabile da parte di celebrità della destra alternativa online come Milo Yiannopoulos, Andrew Breitbart, Cathy Young, Mike Cernovich, Alex Jones, Richard Spencer, ecc. Un mileu di personalità decisamente eterogeneo per quanto accomunato dal livore nei confronti della politica e del giornalismo tradizionali che, dopo l’elezione di Trump, evento che ha ulteriormente rafforzato la loro notorietà mediatica, in molti casi ha dato luogo, come prevedibile, ad esasperate lotte intestine.

La metafora della “pillola rossa” ha permesso tanto ai misogini quanto ai razzisti di raccontare come si sono “risvegliati” «dall’ingannevole prigione mentale del pensiero liberal»12. L’alt-right ha un ruolo di primo piano nella cosiddetta  “maschiosfera”, ambito egemonizzato dalla misoginia di individui in preda a forme di risentimento nei confronti delle donne, come nel caso di quanti si dichiarano soggetti al “celibato involontario” o denunciano le preferenze delle donne per i “maschi alfa” su quelli “beta”. «Sotto i vessilli del “movimento degli uomini” negli Stati Uniti si sono riuniti gruppi di diverso orientamento, da quelli cristiani come i Promise Keepers al movimento mitopoietico del poeta Robet Bly, impegnato nella ricerca dell’autenticità maschilista persa in una società moderna femminilizzata e atomizzata»13.

Tra le figure più note della galassia in cui misoginia e razzismo si mescolano vi è sicuramente James C. Weidmann (“Roissy in DC”) autore di proclami in cui miscela psicologia evoluzionista, antifemminismo e difesa della razza bianca dicendosi convinto che il “declino della civiltà bianca” derivi dall’immigrazione, dalla mescolanza razziale e dalla scarsa attività procreativa delle donne bianche “fuorviate dal femminismo”. Secondo Weidmann, tale declino potrebbe essere invertito attraverso la “restaurazione del patriarcato” e la “deportazione di chi non è bianco”.

Il sito Vox Day, oltre a vedere nel femminismo una minaccia per la civiltà occidentale, palesa la sua contrarietà al concetto di “stupro nel matrimonio” ritenendolo “un attacco all’istituto del matrimonio, al concetto di legge oggettiva e, di fatto, al fondamento stesso della civiltà umana”. Il movimento separatista di uomini eterosessuali Men Going Their Own Way (MGTOW) rifiuta “relazioni romantiche” con donne per protestare contro la cultura che le invita alla realizzazione personale e all’indipendenza. Tra i personaggi più in vista a cui si rifà il movimento vi è lo scrittore maschilista e suprematista bianco Francis Roger Devlin, nemico della “morale elastica” e della “confusione dei ruoli”.

Secondo Nagle molti giovani statunitensi sono attratti dalla galassia dell’estrema destra per il suo denunciare la rivoluzione sessuale come causa delle unioni matrimoniali sempre meno durature e per il suo aver posto fine ai vincoli del matrimonio non appena scemato il rapporto d’amore sgravando i coniugi dal tradizionale obbligo di sacrificarsi per la famiglia. Il prolungarsi indefinito dello stato di irresponsabilità adolescenziale avrebbe dunque condotto a una gerarchia sessuale in cui le donne, rotti i vincoli di monogamia, si concederebbero quasi esclusivamente ai maschi al vertice della piramide sociale condannando tanti altri al celibato involontario.

L’ostilità viscerale degli uomini nei confronti delle donne presente sul web sembra spesso mossa da un senso di rivalsa nei loro confronti. «Sono proprio i giovani uomini con difficoltà relazionali con l’altro sesso e che hanno sperimentato il rifiuto a riempire spazi come Incel, la sezione di Reddit dedicata al celibato involontario, nella quale cercano consigli o soltanto la possibilità di esprimere la propria frustrazione»14. La rabbia che cova tra i livelli inferiori della “gerarchia sessuale”, ossia i maschi che si sentono scarsaemnte desiderati dalle donne, è tale da esplodere, in taluni casi, in maniera estrema.

Alla maschiosfera appartengono anche i Proud Boys, fondati da Gavin McInnes, che si rifanno alla dottrina “No Wanks” e che indicano tra i loro principi guida: «governo minimo, massima fedeltà, opposizione alla correttezza politica, diritto a detenere armi, guerra alle droghe, confini chiusi, opposizione alla masturbazione, culto dell’imprenditorialità e culto delle casalinghe»15. McInnes ha più volte affermato di aver derivato alcune linee di condotta dalla scena hardcore statunitense degli anni Ottanta; non a caso le stesse produzioni grafiche dei Proud Boys riprendono la pratica do-it-yourself degli ambienti punk-hardcore.

L’eterogeneo universo dell’alternative right statunitense si contraddistingue anche per la presenza di una serie di teorie del complotto proliferate e cresciute online poi, in taluni casi, uscite dagli schermi fino a raggiungere il manistream16.

I teorici del complotto lavorano sullo stupore, sulla fascinazione, sui punti di vista inconsueti. Nel fare questo, intercettano e soddisfano bisogni autentici: nelle nostre vite abbiamo bisogno di sorpresa, meraviglia, nuove angolature da cui guardare il mondo e sentirci diversi. I teorici del complotto forniscono tutto ciò e fanno sentire speciali i loro seguaci. Non a caso usano la metafora della “pillola rossa” tratta dal film Matrix: prendere la pillola rossa significa scoprire la verità sul complotto e vedere finalmente la griglia nascosta della realtà»17.

[continua]


La pillola rossa dell’alt-right completo: Parte 1 – Parte 2  – Parte 3


  1. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 158-159. 

  2. Cfr. George Hawley, The Demography of the Alt-Right, in “Institute for Family Studies”, 9 agosto 2018. 

  3. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, op. cit., p. 161. 

  4. Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023 [su Carmila] 

  5. Alain Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, Milano, 2018. 

  6. Fabio Ciabatti, Dopo Trump, il rilancio dell’idea comunista per superare lo sgomento, in “Carmilla”, 12 maggio 2018. 

  7. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), in “Carmilla”, 21 febbraio 2017. 

  8. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), op. cit. 

  9. Ivi, p. 149. 

  10. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 53. 

  11. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 66. 

  12. Ivi, p. 126. 

  13. Ivi, p. 125. 

  14. Ivi, p. 139. 

  15. Ivi, p. 135. 

  16. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018. 

  17. Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, op. cit. 

]]>
La pillola rossa dell’alt-right – 1 https://www.carmillaonline.com/2023/07/10/la-pillola-rossa-dellalt-right-1/ Mon, 10 Jul 2023 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77734 di Gioacchino Toni

You take the blue pill, the story ends, you wake up in your bed and believe whatever you want to believe. You take the red pill, you stay in wonderland, and I show you how deep the rabbit hole goes (The Matrix, 1999)

L’assenza di un modello verticistico promessa da internet e l’insofferenza nei confronti dell’establishment e delle ipocrisie di certo politically correct non si sono rivelate, di per sé, prerogativa della sinistra libertaria. Tanti cyberutopisti di sinistra hanno dovuto ricredersi: la forma (reticolare-partecipativa) offerta dal web non si è rivelata garanzia di contenuto (libertario). Nemmeno la logica [...]]]> di Gioacchino Toni

You take the blue pill, the story ends, you wake up in your bed and believe whatever you want to believe. You take the red pill, you stay in wonderland, and I show you how deep the rabbit hole goes (The Matrix, 1999)

L’assenza di un modello verticistico promessa da internet e l’insofferenza nei confronti dell’establishment e delle ipocrisie di certo politically correct non si sono rivelate, di per sé, prerogativa della sinistra libertaria. Tanti cyberutopisti di sinistra hanno dovuto ricredersi: la forma (reticolare-partecipativa) offerta dal web non si è rivelata garanzia di contenuto (libertario). Nemmeno la logica della “pillola rossa” della “rivelazione” (nientemeno) in alternativa all’anestetica e  tranquillizzante “pillola blu” dispensata dall’establishment si è rivelata metafora esclusiva di una sinistra che, piuttosto, in astinenza da piazze novecentesche, deve saper evitare di farsi trascinare da tale logica in un vortice di lacrimogeni complottismi maleodoranti a rischio di riflessi rossobrunastri.

Sebbene sia ormai passato molto tempo da quando, sugli sgoccioli del vecchio millennio, ha fatto la sua uscita nelle sale, The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski si rivela ancora un prodotto culturale influente soltanto che, come afferma Mattia Salvia, «è come se il senso del film originale fosse stato ribaltato»; quella che alla sua uscita poteva essere colta come «l’epica lotta di un individuo per uscire dalla gabbia omologante della società dei consumi risulta inattuale»1.

Se in chiusura di Novecento lo spirito di Matrix sembrava prolungare la critica all’omologazione, al consumismo e allo sfruttamento proposta da They Live (1988) di John Carpenter, oggi il film di Lana e Lilly Wachowski solletica l’immaginario di chi, in balia di un frustrante senso di impotenza, nell’incapacità di decifrare la realtà che lo circonda e privo di una prospettiva futura a cui guardare, è pronto a dare credito a qualsiasi visione altra rispetto a quella a cui si sente costretto, ma da cui, nei fatti, continua a non sottrarsi evitando di mettere davvero in discussione la logica profonda che struttura la realtà che lo opprime. È indubbiamente più semplice prospettare visioni semplicemente, e spesso apparentemente, altre della realtà e individuare carpi espiatori su cui poter scaricare la frustrazione accumulata che non prospettare un mondo altro per cui valga la pena abbandonare la realtà attuale.

«La stessa metafora della pillola blu/pillola rossa», scrive Salvia, «è sopravvissuta solo al prezzo di cambiare completamente di segno»2; la metafora della pillola è entrata far parte dell’immaginario dell’alternative right, la tana del Bianconiglio sembra ormai rinviare direttamente al processo di radicalizzazione che conduce dentro QAnon e Morpheus, anziché presentarsi in impermeabile di pelle e occhiali scuri come la sua epidermide, ha il viso dipinto con colori patriottici e indossa un costume da sciamano.

Possiamo dire che il senso di Matrix ha cambiato di segno allo stesso modo in cui la globalizzazione ha finito per trasformarsi in un processo di ridefinizione dei rapporti d forza globali: la “matrice” indica ancora la realtà nascosta dietro l’alienazione dell’esperienza di vita occidentale, ma adesso quella realtà non è più percepita come spaventosa, bensì denunciata come insufficiente. Uscire dalla matrice non vuol dire più rifiutare di far parte di un mondo che si regge su terribili fondamenta, bensì rifiutare di far parte di un mondo le cui terribili fondamenta vanno così poco a fondo. Oggi Neo non esce dalla simulazione perché vuole la verità: ne esce perché la simulazione non lo soddisfa. Non combatte più per la futura sconfitta delle macchine da parte dl genere umano, ma per ritornare a una passato migliore – reale o simulato, poco importa»3.

Il web ha indubbiamente favorito idee e movimenti marginali, permettendone e incentivandone la crescita, e fino a quando la cultura da essi veicolata è stata – o sembrata – in linea con l’immaginario di sinistra, molti militanti e analisti con tali simpatie politiche hanno guardato all’universo online come a una miracolosa scorciatoia utile a superare l’immobilismo cresciuto insieme al mantra della “fine della storia”.

Il fatto che la reticolarità dell’infosfera potesse esprimere qualsiasi tipo di ideologia, compresa quella che ha poi preso il nome di alternative right, da molti è stato compreso quando questa, un passo alla volta, si è insinuata persino tra le pieghe dell’odiato establishment contribuendo a riplasmarlo.

La battaglia culturale che, negli Stati Uniti, si dispiega in internet da ormai qualche decennio viene a darsi in un contesto in cui, sin dalla metà degli anni Novanta, secondo Jonathan Crary4, vengono neutralizzate le energie ribelli dei giovani – negando loro spazi e tempi di autonomia e autoriconoscimento collettivo, dunque la possibilità di costruirsi una memoria e di avere esperienze reali – trasformati in target su cui costruire conformismo tecnologico e consumistico inducendoli ad abitudini e comportamenti prevedibili e duraturi. Online «vediamo quello che succede come viene visto. E in questo mondo di vita virtuale, anche noi appariamo sugli schermi ancora più di prima. Dobbiamo salire sul nostro piccolo palco virtuale e presentare la nostra immagine, i nostri profili»5.

Impugnane uno smartphone per condividere sulle piattaforme social il proprio desiderio di libertà tradisce l’impossibilità di liberarsi da quei graziosi walled garden digitali di cui si continua, nei fatti, a essere prigionieri nel timore non solo di essere altrimenti esclusi dall’accesso alle informazioni, cosa che equivale di questi tempi alla morte sociale, ma anche dalla possibilità di trasmetterne a propria volta in un contesto però profondamente viziato. Un cortocircuito da cui è indubbiamente difficile difendersi6.

Sin dagli ultimi decenni del Novecento, come sottolinea Éric Sadin, si è andato progressivamente ad affermare il primato sistematico di sé sull’ordine comune in ossequio al progetto politico dell’individualismo liberale richiedente «una ricerca sfrenata della singolarizzazione di sé all’unico scopo di differenziarsi»7. La pretesa di indipendenza e sovranità che serpeggiava in individui delusi e traditi dalle promesse a cui avevano a lungo desiderato credere è stata amplificata dall’avvento di internet le cui lusinghe di partecipazione e autonomia hanno celato, di fatto, l’introduzione di sistemi valutativi e di procedimenti disciplinari sempre più sofisticati sugli individui attraverso la cessione alle grandi corporation del web di dati comportamentali e predittivi.

In molti, la sensazione di essere stati a lungo ingannati, l’aver assistito allo sgretolarsi di quel patto sociale che si voleva votato al solidarismo, l’incrementarsi dello scarto tra edulcorata “narrazione ufficiale” ed amara realtà delle cose, hanno generato l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di “doppia realtà” parallela e incomunicante. Alla narrazione manistream si sono andate a contrapporre narrazioni di soggettività costruite soprattutto su particolarismi che trovano nei social i canali privilegiati in cui incanalare il rancore accumulato spesso accontentandosi di ricorrere a visioni semplicemente altre rispetto a quella ufficiale esponendosi così, non di rado, a complottismi di ogni risma8.

È a tale stato d’animo, a tale malessere esistenziale, oltre che materiale, che sono sembrate venire in soccorso tante salvifiche “pillole rosse” capaci, come per incanto, di smascherare lo storytelling dell’establishment rivelando “tutto ciò che era stato sempre nascosto” a un’opinione pubblica “tradita” in messianica attesa di “verità alternative”. È in tale desiderio di “visioni rivelatrici”, una volta passati di moda gli occhiali di They Live di Carpenter, che ha prosperato l’alternative right costruendo un nuovo regime dell’opinione edificato su asserzioni grossolane o infondate e mirabolanti teorie complottiste capaci di proporsi come risposte altre, rispetto a quelle ufficiali, sufficientemente plausibili a spiegare accadimenti inattesi e spiazzanti.

Nella retorica dell’alt-right, sostiene Luke Munn (Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti, a cura di, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, 2023 [su Carmilla]), “scegliere la pillola rossa” indica la volontà di guardare la realtà con “occhi nuovi” prendendo coscienza dell’ingannevolezza della narrazione dominante, sostituendo a essa contronarrazioni complottiste imperniate sul disprezzo nei confronti di tutti coloro che promuovono «opinioni socialmente progressiste e liberali, tra cui il femminismo, i diritti civili, i diritti dei gay e dei soggetti transgender e il multiculturalismo»9.

Agli individui in balia di umiliazioni quotidiane e del senso di impotenza, i social network hanno offerto narrazioni compensatorie  capaci di fornire illusorie magnificazioni (manistream) delle esistenze a esseri umani frustrati e/o la possibilità (alt-right) di scaricare l’ira accumulata prendendosela, spesso protetti dall’anonimato, con qualcuno o qualcosa.

È questa “l’era dell’individuo tiranno”: l’avvento di una condizione di civilizzazionale inedita, che vede l’abolizione progressiva di qualsiasi base comune e la comparsa di una moltitudine di individui sparsi, convinti di rappresentare l’unica fonte normativa di riferimento e di occupare una posizione preponderante che gli spetta di diritto. È come se in una ventina d’anni, l’intreccio tra la presunta orizzontalizzazione delle reti e l’esplosione delle logiche liberali, sostenitrici della “responsabilizzazione” individuale, fosse approdato a un’atomizzazione dei soggetti, incapaci di instaurare legami costruttivi e duraturi e intenzionati a far prevalere rivendicazioni basate principalmente sulle loro biografie e sulle loro condizioni10.

Negli Stati Uniti, tanto la cultura mainstream (e non certo da oggi), quanto quella dell’alt-right si dimostrano imperniate attorno a un analogo individualismo antisociale; solo che nel secondo caso questo assume forme anticonformiste e trasgressive per mascherare come ribellione la sostanziale non messa in discussione di un modello giunto al capolinea sommerso dalle sue tante contraddizioni.

Secondo Pablo Calzeroni, lʼelaborazione simbolica della realtà contemporanea è

progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione11.

Nel malessere che si agita online è possibile vedere un indicatore dell’eccesso di fiducia riposta nella portata libertaria del web. «Un malessere che ogni giorno si manifesta in modo sconcertante: ludopatie, bullismo on line, misoginia, xenofobia, radicalizzazione religiosa, polarizzazione delle opinioni, violenza». Dietro alla propagandistica lettura patinata del presente, offerta dalla tranquillizzante “pillola blu” manistream, si celano «sfruttamento, disgregazione sociale, precarietà esistenziale, solitudine, perdita di punti di riferimento, frustrazione. In termini più brutali: il vuoto interno ed esterno al soggetto»12.

Se è pur verso che non è possibile addebitare al processo di digitalizzazione la colpa di tutti i mali, è innegabile il ruolo che ha avuto, e ha, nell’esplicitare e amplificare la fragilità e l’isolamento degli individui contemporanei.

La sofferenza che permea la nostra società e si insinua in modo evidente nelle esperienze mediatiche [è] innanzitutto legata a una mutazione antropologica del soggetto, la quale a sua volta è stata determinata, negli ultimi decenni, da una riconfigurazione del sociale a tutto tondo: non solo del nostro rapporto con le macchine, ma anche delle relazioni interpersonali, del mondo del lavoro, dei nostri sistemi di governo. La questione essenziale non è la tecnica in sé ma l’intreccio tra lo sviluppo tecnico e i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il passaggio dalla società industriale avanzata della seconda metà del Novecento all’attuale società dellʼinformatizzazione. Cambiamenti che hanno determinato un progressivo impoverimento della nostra vita relazionale13.

Analizzando l’ascesa dell’alt-right, Luke Munn ha evidenziato come la sua diffusione online si sia fondata su un processo di ricalibrazione del sistema di credenze attuato attraverso una «lenta, ma sistematica colonizzazione del sé, una progressiva infiltrazione che agisce sulla razionalità e sull’emotività»14.

Nell’analizzare le testimonianze di giovani statunitensi che si sono radicalizzati online, Munn individua alcune costanti nelle modalità con cui ciò è avvenuto. In molti racconti emerge, ad esempio, come l’algoritmo del motore di ricerca di Google, dopo aver elaborato le tracce delle ricerche più personali, si sia prodigato nel suggerire nella barra laterale di YouTube link rimandanti a video in cui vengono denigrate le opinioni socialmente progressiste e che invitano ad approfondire le tesi esposte in specifiche piattaforme. «Si comincia con l’umorismo di Steven Crowder, si passa a sostenitori dei diritti dei bianchi più espliciti come Lauren Southern, si procede con figure apertamente suprematiste come Jared Taylor per culminare con il verbo neonazista. Il processo è scalare, incrementale: non prevede stacchi bruschi»15.

L’escalation avviene lentamente, senza salti evidenti, in modo da rendere il tutto “naturale”. Rebecca Lewis16 ha descritto dettagliatamente il funzionamento di questo Alternative Influence Network, vera e propria ragnatela che compare su YouTube attravero narrazioni retoriche, celebrità di internet, studiosi, comici, influencer, opinionisti accomunati da un feroce disprezzo per tutto ciò che ritengono progressista. Gli utenti vengono dunque rimpallati tra una sessantina di influencer politici distribuiti su un’ottantina di diversi canali che man mano alzano il livello di radicalità così da rendere meglio accettabili le proposte politiche via via sempre più estreme.

Nulla è lasciato al caso. In base a una disamina di centinaia di segnali, agli utenti vengono presentati contenuti dal design attraente, che si innestano sui loro interessi, obiettivi e convinzioni dichiarate (attraverso specifiche scelte di consumo) o implicite (dedotte/ipotizzate dall’algoritmo). I motori di raccomandazione non sono entità statiche, che non operano in base a un presunto “io autentico”, stabile e riconoscibile. Sono, piuttosto, fenomeni dinamici, organici e aggiornati in tempo reale. Il profilo di un utente incorpora la sua cronologia di consumo, ma anche le sue esperienze di fruizione più recenti. […] Il consumo culturale non è mai neutrale e il consumo di video non è un processo astratto. La fruizione dei video, specie se ripetuta e prolungata, finisce per modellare la sfera cognitiva del soggetto, generando nuovi desideri, nuovi interessi e nuove concezioni della realtà. In questo senso, YouTube non è solo una piattaforma bensì un percorso, un iter, un condotto, un imbuto […]. Lentamente, progressivamente, il sistema di credenze di un utente viene ricalibrato. Si tratta cioè di un processo mediale metodico accompagnato da un cambiamento psicologico incrementale17.

Pur senza scivolare nel determinismo tecnologico, occorre prendere atto, sostiene Munn, di quanto siano metodiche ed efficaci le strategie messe in atto all’universo dell’alt-right. La logica di funzionamento delle maggiori piattaforme incentivano tale strategia in quanto garantisce importanti guadagni. Pur non essendo collegate tra loro in modo chiaro e intelligibile, le diverse questioni discusse dall’alt-right offrono agli utenti molteplici soglie d’ingresso e opportunità di immedesimazione. La retorica di fondo è ideologicamente coesa. «L’algoritmo suggerisce contenuti familiari, ma al tempo stesso propongono un barlume di novità. Quest’ultima, tuttavia, non può essere estrema, per non destabilizzare il fruitore. Per quanto il percorso non sia identico per ogni utente – può biforcarsi e divergere – in tutti i casi lo spinge sempre più in profondità [verso] un’unica direzione»18.

L’ingresso nell’alt-right, sostiene Munn, è pertanto il punto di arrivo di un graduale processo di radicalizzazione solitamente costruito attraverso una fase di normalizzazione (in cui l’umorismo e l’ironia giocano un ruolo fondamentale nel normalizzare anche le affermazioni più riprovevoli), dunque una di acclimatazione (sfruttando la ripetizione incessante per produrre familiarità, assuefazione e desensibilizzazione), infine una fase di disumanizzazione dell’alterità nemica, da intendersi come «un processo che pian piano logora, annienta e cancella l’altro, fino a trasformarlo in una non-persona, un personaggio di un videogioco, come uno zombie o un demone, da abbattere senza rimorsi»19.

Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream (Luiss, 2018), ha ricostruito puntualmente i conflitti culturali online che negli ultimi decenni – dapprima in contesti di nicchia, poi in ambiti decisamente più allargati di vita pubblica e politica –, hanno contribuito a costruire l’immaginario di una generazione di statunitensi appassionati di videogiochi, di anime giapponesi e dell’irriverenza al politically correct persino di serie come South Park (dal 1997 – in corso) di Matt Stone e Trey Parker, trasformatisi frequentemente in cyber-molestatori produttori di meme dal cinico umorismo nero, spesso contraddistinti da becere battute antifemministe o razziste che, in un’apoteosi di sguaiata trasgressione fine a sé stessa, hanno così trovato modo di sfogare i loro giovanili impulsi ribellistici e antisistemici.

Le battaglie culturali condotte in internet negli ultimi decenni, spesso condotte al riparo dell’anonimato, sostiene Nagle, hanno mostrato l’emergere di un’inedita sensibilità anti-establishment che ha trovato espressione in quella cultura fai-da-te fatta di meme e user-generated content, in una reticolarità partecipativa scardinante i vecchi modelli gerarchici su cui riponevano grandi aspettative tanti cyberutopisti libertari.

Sulle ceneri dei moralisti difensori dell’etichetta e della consapevolezza culturale, ad avere la meglio è però stata la galassia dell’alternative right, abile nel portare avanti il suo immaginario a suon di sberleffi “anti-politici” e “infrangi-tabù” tanto nei confronti dell’establishment che dell’attivismo liberal online focalizzato quasi esclusivamente sul gender-bender.

Se da una parte gli ambienti liberal online e dei campus, sostiene Nagle, hanno generato una tendenza a “problematizzare” ogni cosa, individuando ovunque tracce di misoginia e suprematismo bianco, dall’altra la galassia della destra online ha alzato il livello degli insulti e delle minacce ricorrendo frequentemente a forme di dileggio compiaciutamente volgari. «Un’intera generazione ha vissuto come formativi questi primi, oscuri approcci alla politica, che hanno così avuto un significativo impatto sulla sensibilità di massa e persino sul linguaggio». Numerosi esponenti di primo piano dell’alt-right hanno costruito la loro carriera «denunciando le assurdità delle politiche identitarie online»20 e la tendenza degli ambienti liberal a individuare ovunque forme di misoginia, razzismo, transfobia, discriminazione nei confronti dei disabili, body shaming ecc.

In apertura degli anni Dieci del nuovo millennio, sull’onda di una serie di manifestazioni di piazza, utopisti tecnologici, come i giornalisti Heather Brooke21 e Paul Mason22, si sono cullati nel sogno che i social network potessero garantire forme di “rivoluzione senza leader”. L’entusiasmo è stato di breve durata; presto si sarebbero palesati movimenti apparentemente “senza leader”, diffusi attraverso i social in maniera tutt’altro che spontanea, capaci di dare luogo a risvolti di estrema destra.

Negli Stati Uniti è attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio che, con la conquista della Casa Bianca da parte di un outsider incarnante la sempre più diffusa ostilità nei confronti dei media e dei partiti tradizionali, si è palesata la fine del dominio esclusivo dei vecchi media sulla politica ufficiale. Alla conquista del potere da parte di Donald Trump molti si sono tardivamente accorti del ruolo assunto dalla galassia dell’alternative right, nella cui orbita sono comparsi personaggi come Milo Yiannopoulos e spazi online come 4chan, oltre a svariati siti neonazisti, suprematisti, anti-egualitari, segregazionisti e nazionalisti bianchi ove si sono messi in luce individui come Richard Spencer.

Nonostante la varietà delle tematiche discusse all’interno di tale galassia – dal calo demografico al declino della civiltà occidentale, dalla decadenza culturale al processo di islamizzazione ecc. –, l’elemento accomunante è l’ambizione a creare un’alternativa all’establishment conservatore di destra, definito sprezzantemente con il neologismo cuckservative per la «passività cristiana e per aver offerto, metaforicamente, le loro “donne”, cioè la loro nazione e la loro razza agli invasori stranieri non di razza bianca»23. Il successo otteneuto soprattutto sui più giovani da parte della cultura veicolata da tale galassia è dovuto in buona parte al ricorso insistito alle immagini e all’umorismo irriverente e trasgressivo dei meme di 4chan, poi 8chan, e al ricorso a strategie da hacker.

[continua]

 


  1. Mattia Salvia, Interregno. Iconografie del XXI secolo, Nero, Roma, 2022, p. 234. 

  2. Ibidem

  3. Ivi, p. 235. 

  4. Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era del digitale verso un mondo postcapitalista, Meltemi, Milano, 2023 [su Carmilla]

  5. Hans Georg Moller, Paul J. D’Ambrosio, Il tuo profilo e te. L’identità dopo l’autenticità, Mimesis, Milano-Udine, 2022, p. 221 [su Carmilla]

  6. Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone, Roma, 2022, p. 31. 

  7. Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, Luiss University Press, Roma, 2022, p. 17 [su Carmilla]

  8. Gioacchino Toni, Il nuovo disordine mondiale / 11: dispositivi digitali di secessione individuale generalizzata, in “Carmilla”, 3 aprile 2022. 

  9. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, p. 138, nota 15. 

  10. Éric Sadin, Io tiranno, op. cit., pp. 26-27. 

  11. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, p. 124 [su Carmilla]

  12. Ivi, pp. 10-11. 

  13. Ivi, p. 11. 

  14. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, op. cit., p. 137. 

  15. Ivi, p. 141. 

  16. Rebecca Lewis, Alternative Influence: Broadcasting the Reactionary Right on YouTube, in “Data & Society”, 18 settembre 2018. 

  17. Ivi, pp. 143-144. 

  18. Ivi, p. 146. 

  19. Ivi, p. 154. 

  20. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 17. 

  21. Heather Brooke, The Revolution Will Be Digitised. Dispatches from the Information War, Windmill Books, London, 2011. 

  22. Paul Mason, Why It’s Kicking Off Everywhere. The New Global Revolutions, Verso Books, London, 2011. 

  23. Angela Nagle, Contro la vostra realtà, op. cit., p. 22 

]]>
Comunarde. Storie di donne sulle barricate https://www.carmillaonline.com/2021/05/18/comunarde-storie-di-donne-sulle-barricate/ Tue, 18 May 2021 20:30:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66371 di Gioacchino Toni

Federica Castelli, Comunarde. Storie di donne sulle barricate, Armillaria, 2021, pp. 160, € 12.00

«Mi interessa dare voce alle esperienze e alle pratiche radicali agite dalle donne che hanno dato vita alla Comune di Parigi del 1871: le loro parole, i vissuti, la loro incredibile passione politica. Il mutamento totale di immaginario politico che hanno innescato, a volte assieme e a volte in contrasto con i propri compagni. Nel farlo, voglio cercare di mantenere lo sguardo fisso sui loro corpi, sulle esperienze materiali, le pratiche collettive, focalizzandomi sul rapporto tra [...]]]> di Gioacchino Toni

Federica Castelli, Comunarde. Storie di donne sulle barricate, Armillaria, 2021, pp. 160, € 12.00

«Mi interessa dare voce alle esperienze e alle pratiche radicali agite dalle donne che hanno dato vita alla Comune di Parigi del 1871: le loro parole, i vissuti, la loro incredibile passione politica. Il mutamento totale di immaginario politico che hanno innescato, a volte assieme e a volte in contrasto con i propri compagni. Nel farlo, voglio cercare di mantenere lo sguardo fisso sui loro corpi, sulle esperienze materiali, le pratiche collettive, focalizzandomi sul rapporto tra corpi, politica e spazio urbano e sulle differenti modalità del conflitto agite da uomini e donne. Questa visione – incarnata, sessuata e attenta alle dinamiche di genere – dà l’occasione per guardare a un’esperienza, solo apparentemente lontana nel tempo, a partire da una prospettiva inedita e feconda» (pp. 11-12).

È con queste motivazioni che Federica Castelli percorre le strade parigine di fine Ottocento trasformate dall’esperienza della Comune in quella che Lefebvre ebbe a definire come, prima di ogni altra cosa, «una grandiosa festa», un’esperienza collettiva in cui una città intera si è fatta organismo vivente.

Rispetto all’esperienza del 1848 ed alla centralità assegnata al «cittadino in quanto lavoratore» ripresa, almeno formalmente, da numerose repubbliche democratiche successive, nell’esperienza della Comune, sostiene l’autrice, la centralità del lavoro come elemento politico e di cittadinanza viene abbandonata nella convinzione che la soggettività politica derivi dall’azione comune e non dal lavoro. «Durante la Comune viene rifiutata la distinzione moraleggiante tra lavoratore e ozioso, “colui che non produce ed è un parassita della società”. L’ozio è anzi innalzato a valore antiborghese. L’emancipazione passerà per altro, non per il lavoro. Allo stesso tempo, si avvia un ripensamento del lavoro fuori dalle distinzioni borghesi, in primo luogo quella tra arte e lavoro produttivo»1.

La Comune pone al centro dell’agire politico la dimensione relazionale, estetica, corporea, così come il piacere del vivere e immaginare assieme. Intende la politica come insieme di pratiche di autodeterminazione, tra autonomia e autorganizzazione della vita sociale quotidiana. Cerca l’emancipazione politica collettiva, l’abbandono dell’idea del governo come attività per specialisti, […]; mira alla costruzione collettiva di nuovi immaginari, nuove relazioni tra i soggetti e nuove modalità di azione politica; cerca la bellezza nella vita quotidiana, la creazione di nuovi spazi e temporalità, una cultura diversa e condivisa, per la creazione di una società più giusta non in virtù di decreti, leggi o norme calate dall’alto, ma attraverso un cambiamento completo del quotidiano, una rivoluzione del modo di considerare i tempi e gli spazi quotidiani, il linguaggio e le identità2.

L’autrice affronta l’universo comunardo ponendosi alcuni interrogativi. Se l’esperienza della Comune ha saputo rovesciare l’immaginario borghese prospettando una società nuova, si può dire altrettanto a proposito dei rapporti di genere? Perché in tante rivoluzioni la libertà e la giustizia hanno finito per valere soltanto per alcuni soggetti riconosciuti come detentori della cittadinanza? Perché al termine di una lotta condotta collettivamente le donne vengono emarginate dalla scena pubblica? Perché quella femminile tende spesso ad essere vista come una partecipazione non direttamente politica ma di mero supporto all’azione maschile?

Nonostante siano numerosi gli studi riguardanti la Comune parigina, ancora pochi sono quelli dedicati alle comunarde e ai rapporti di genere di questa esperienza. Molte comunarde, sostiene Castelli, consapevoli «che i diritti da soli sono parziali e provvisori, sempre a rischio, e che forniscono una libertà formale che deve accompagnarsi a reali cambiamenti della società e delle relazioni di genere3, non hanno lottato per diritti politici e ciò le ha rese quasi invisibili agli occhi di molte femministe liberali.

Un tratto peculiare dell’azione politica di molte di queste donne è il non perdersi in ideali astratti di uguaglianza e giustizia, ma calare le loro lotte e aspirazioni nel concreto, nel reale, nella sua pluralità, nelle differenze e nelle diseguaglianze che lo contraddistinguono. In base allo stesso approccio, non aspirano all’acquisizione di semplici diritti politici ma si concentrano sui problemi sociali ed economici che incidono sulle vite materiali delle donne, lavorando sui processi e sulle relazioni concrete più che sul piano istituzionale. Inoltre, le comunarde sanno che una società giusta dovrà basarsi (anche) sull’emancipazione delle donne, e che è opportuno articolare e tenere conto delle profonde connessioni tra capitalismo e patriarcato come fattori di dominio e oppressione4.

Evitando di sovrapporre le istanze dei femminismi contemporanei alle lotte delle comunarde, «se per femminismo si intende il rifiuto delle diseguaglianze tra uomini e donne e il desiderio di lavorare su queste relazioni sovvertendone i presupposti»5, allora, sostiene l’autrice, queste donne possono essere dette femministe. Lungi dal focalizzarsi su alcune donne “eccezionali” oscuranti tutte le altre, l’autrice preferisce «parlare delle donne comunarde, delle loro relazioni, dei loro vissuti e dei loro corpi anche quando restano senza nome»6.

Queste comunarde si sono dovute confrontare con più di un nemico, ed uno di questi è sicuramente l’immaginario ottocentesco con cui si sono trovate a fare i conti, un immaginario che, come sempre è avvenuto del resto, non si colloca soltanto dall’altra parte della barricata. Nell’immaginario borghese del periodo l’idea dominante di cosa sia una donna oscilla tra poli contraddittori: «da una parte la donna idealizzata, che nutre e cura; la donna pura, casta, moralmente superiore. Dall’altra, l’essere demoniaco, pericoloso, bestiale, irrazionale e primitivo, che la società patriarcale deve contenere e civilizzare»7. Per la società ottocentesca spetta all’uomo controllare questa natura femminile.

Nell’immaginario borghese di fine Ottocento, le donne delle élites sono caratterizzate da una certa ‘assenza di emozioni’ che deriva dal controllo esercitato socialmente sui loro ‘ardori’, mentre le donne della classe operaia sono sessualmente sempre disponibili, voraci, perché nessuno vigila sulla loro natura erotica e carnale. In un connubio di sessismo e classismo, le donne della classe operaia sono da considerarsi donne ‘perdute’. La donna è natura ed emozione. Va controllata. […] Questa visione porterà gli stessi comunardi a forti contraddizioni, nella cui analisi occorre tenere conto della grande influenza tra loro delle teorie sociali elaborate da Proudhon, di cui è nota la netta chiusura nei confronti della questione politica delle donne8.

Le comunarde agiscono una rottura totale nei confronti di tale immaginario mettendo in discussione le gerarchie e le ideologie di genere dominanti rendendo «la lotta comune un’occasione per attraversare i confini di classe e genere che limitano i loro comportamenti pubblici e privati […] Per la prima volta denunciano che la diseguaglianza e l’antagonismo tra i sessi costituiscono le basi del potere»9. Se il mondo cambia col suo immaginario, allora occorre agire sulle relazioni, sull’educazione dei bambini e delle bambine a una società altra, più giusta ed equa in cui le differenze non siano fonte di gerarchia.

Soprattutto tra le comunarde di provenienza proletaria è percepito chiaramente il nesso tra sfruttamento economico, lavorativo e subordinazione all’interno dell’ambito famigliare, dunque è diffuso un sentimento antiborghese ed uno spiccato anticlericalismo. Buona parte delle donne di estrazione operaia, sostiene Castelli, «desiderava partecipare alla lotta condivisa per amore della Comune, per sostenerla attivamente e non solo per supportare i mariti o i fratelli lavorando come infermiere o come cuoche cantiniere nei battaglioni maschili. Per queste donne, e per alcuni uomini, la difesa militare della Comune era qualcosa di universale, oltre i ruoli di genere»10.

se nei giorni della semaine sanglante donne e uomini combattono fianco a fianco sulle barricate, se i versagliesi non fecero distinzioni di sesso nel trucidare o arrestare comunarde e comunardi, è anche vero che, fino a poco prima del pericolo, la questione della partecipazione attiva delle donne alla lotta e alla difesa armata era stata un nodo problematico e controverso11.

L’autrice si sofferma sulla molteplicità delle posizioni in ambito femminile a partire da alcuni nomi noti di attiviste. «Il femminismo di Paule Mink (1839-1901) è centrato sulla libertà individuale, focalizzato sulla differenza femminile contro l’idea di eguaglianza tra i sessi, neutralizzante e omologante. Coniuga questa impostazione con un anarchismo non collettivista, un’idea decentrata di autorità, una visione in cui libertà e uguaglianza, sia per gli uomini che per le donne, siano ben bilanciati»12. André Léo (1824-1900) «si muove su piani decisamente diversi. La sua posizione parte dal collettivismo socialista e femminista legato alla lotta per i diritti, che la porta a immaginare la nuova società come fondata sulle libertà individuali e raggiunta tramite l’uguaglianza. […] Per la giornalista e scrittrice, le donne devono avere diritti ed essere libere non in quanto donne ma in quanto esseri umani»13. Elisabeth Dmitrieff (1851-1918) «ha una visione marxista e associazionista, che punta alla nascita di una federazione politicizzata di cooperative di produttori-proprietari per liberare le donne e gli uomini lavoratori dalle oppressioni di genere e di classe»14. Louise Michel (1830-1905) «è profondamente anarchica, si dedica soprattutto a lavorare per il cambiamento passando attraverso il piano simbolico della parola, dei discorsi che infervorano i clubs e delle azioni eclatanti, simboliche che restano negli immaginari collettivi»15. «Victorine B. (Victorine Brocher, 1839-1921) cancellerà sé stessa e il proprio essere donna in nome dell’idea di Repubblica […] Si fa anonima per farsi interprete di tutte le donne che, identificate come pétroleuses, sono state condannate alla violenza, allo stigma, all’esilio»16.

Ad essere tratteggiate sono anche le diverse organizzazioni femminili attive nell’esperienza comunarda come l’Union des femmes pour la défense de Paris et les soins aux blessés fondata da Elisabeth Dmitrieff e Nathalie Lemel, associazione rivoluzionaria composta soprattutto da donne lavoratrici, unica organizzazione femminile a ricevere aiuto e riconoscimento dal governo della Comune a differenza dei clubs femminili a cui non viene nemmeno concesso spazio sulla stampa comunarda. Tra le tante realtà sorte all’epoca, la studiosa si sofferma sui comitati di quartiere come il Comité des femmes de la rue d’Arras e il Comité de vigilance de Montmartre, che intrattiene pessimi rapporti l’Union, che a sua volta struttura comitati di quartiere, accusata di voler monopolizzare l’azione delle donne.

Nel volume viene dedicato spazio anche alle rappresentazioni dell’azione delle donne durante la Comune di Parigi; se la letteratura ad essa favorevole, sia all’epoca che successivamente, ha sostanzialmente ignorato le donne o ne ha discusso sbrigativamente e superficialmente, gli oppositori hanno tendenzialmente presentato queste donne come selvagge, malvagie, contro natura.

Come era accaduto alle donne della Rivoluzione francese anche le comunarde si videro improvvisamente circondare da numerose produzioni iconografiche, racconti e leggende sul loro conto. […] Tali rappresentazioni avevano un tratto ricorrente: il rimando al loro sesso e al loro corpo come, in fin dei conti, elemento di derubricazione. Sia le cronache favorevoli che quelle avverse all’esperienza comunarda sono accomunate da questo processo, che lascia scomparire di fatto la specificità dell’azione delle donne nascondendola dietro ad altri fattori (tradizionalmente ritenuti non politici) e riconducendo ancora una volta l’esercizio della cittadinanza femminile alla natura riproduttiva e sessuale delle donne, togliendo valore (e realtà) al loro contributo alla lotta collettiva.17.

Il corpo delle donne risulta centrale nella produzione dell’identità nazionale ottocentesca. Il celebre dipinto La libertà che guida il popolo (1830) di Delacroix è uno egli esempi più noti in cui il corpo femminile veicola contenuti come «l’identità nazionale, la fedeltà alla Patria, la difesa della Nazione, la cittadinanza, la rappresentanza politica»18; tutto l’Ottocento è disseminato di un’iconografia del corpo femminile di volta in volta esaltato o presentato come abietto, sessualmente vorace e demoniaco.

Quando il corpo delle donne di cui si parla non è quello della Madre Patria, ma di donne in carne e ossa, la questione cambia […] soprattutto se si parla di donne della fazione avversaria. In questo caso non solo la donna in rivolta è una strega, come durante la Rivoluzione francese, ma è anche lascivia, lussuria, desiderio sfrenato. […] Per i detrattori della Comune le sue partecipanti erano incarnazione del disordine e dell’assenza di ogni regola, di devianza e orrore. In un gesto molto poco dispendioso nell’immaginario del patriarcato ottocentesco, per questi uomini le donne comunarde diventano il simbolo dell’insurrezione stessa e dei suoi mali. Per questi uomini, l’azione reale delle donne durante la Comune rimane totalmente invisibile. Le pratiche, le alleanze, le rivendicazioni, le elaborazioni teoriche non esistono. Esistono solo gli eccessi di rabbia, la violenza per le strade, l’orrore del loro agire ‘illogico’ e ‘bestiale’. […] Il comportamento bestiale, irrazionale e violento delle donne durante la Comune viene attribuito a un difetto morale legato all’attivismo militante. Da una parte, le donne della classe operaia hanno una ‘naturale’ mancanza di moralità, legata alle condizioni ‘depravate’ in cui socialmente vivono. Dall’altra, le donne di classe borghese che hanno abbracciato l’idea comunarda hanno abbandonato il loro giusto posto, e la moralità, per lasciarsi trascinare nella depravazione. In queste rappresentazioni è molto marcata l’associazione tra classe e sessualità. […] Dunque, se da una parte il conflitto di classe sposta lo stereotipo della donna proletaria dalla cruda e selvaggia sessualità verso l’immagine della donna pericolosamente violenta e ripugnante, allo stesso tempo la donna borghese in rivolta, libera dai vincoli sociali, diventa una donna che seduce e irretisce e, soprattutto, una ‘femmina’ sessualmente disponibile. Potremmo quasi dire che è come se avesse perso la protezione della proprietà privata borghese. Fuori dal controllo dell’autorità maschile, queste ‘femmine’ cadono vittime di influenze nefaste, vengono sviate con facilità, portando devastazione e scompiglio nell’ordine basato su precise gerarchie di genere e di classe. La loro presenza nello spazio pubblico rappresenta un affronto alla centralità della domesticità (e della proprietà) e della separazione tra classi e generi19.

Oltre le narrazioni che vogliono le comunarde come donne senza freni, sguaiate, sanguinarie e bestiali si diffonde anche l’immagine delle pétroleuses, donne descritte come streghe ingannatrici accusate di distruggere col loro fare incendiario gli stessi ideali comunardi.

Fu così che le donne che chiedevano di difendere Parigi con gli uomini divennero il simbolo della violenza – e della malvagità – della Comune. Questa rappresentazione non pesava tanto sulle eroine delle barricate, che erano un’eccezione rispetto al proprio sesso e quindi quasi sante e martiri. Furono le donne ‘comuni’ come le cantiniere a farne le spese. In base a questa accusa, le donne di Parigi colte sole in strada venivano arrestate: bastava a volte che avessero un paniere con sé. Il mito delle petroliere contribuì a creare un clima di violenza contro tutte le donne che si aggiravano per la città20.

L’immaginario misogino ottocentesco abita però entrambi i lati delle barricate: da entrambe le parti si ritrovano le medesime retoriche e gli stessi pregiudizi nei confronti delle donne, che siano versagliesi o le proprie compagne. L’immaginario dell’epoca è permeato da una comune incapacità di vedere nelle donne soggetti politici. Da entrambi i lati si ha la tendenza a celebrare donne ideali che ben poco hanno a che fare con le donne reali. Anzi, sostiene Castelli, l’edificazione delle prime si presta a ratificare ruoli e gerarchie.

I compagni comunardi vacillano, indecisi, tra l’esaltazione e la derubricazione, tra l’orgoglio e il timore. I commentatori celebrano le singole, i poeti le idealizzano. I borghesi negano loro l’umanità, dipingendole come un’orgia di belve. I versagliesi le uccidono, le condannano, le deportano. Sante, puttane, furiose, sanguinarie, bestie, streghe, virago. Eppure, nonostante questa fittissima cortina innalzata su di loro dallo sguardo maschile, le comunarde oggi possono dirci e insegnarci davvero moltissimo21.

Castelli dedica la conclusione del volume ad una riflessione circa l’essere comunarde oggi proprio a partire da come tra le barricate parigine di fine Ottocento le donne abbiano «messo in questione l’impostazione patriarcale dell’agire rivoluzionario, sia aprendo spazio per una nuova immagine della donna nelle rivoluzioni a seguire, sia mettendo in luce le contraddizioni della lotta condivisa»22. Una riflessione circa il cosa significhi essere comunarde oggi, sostiene l’autrice, non può che partire dalla consapevolezza di «come la lotta contro un nemico comune, contro lo stesso potere, non comporti automaticamente la liberazione dei sessi, ma anzi rischi di riprodurla all’infinito, all’interno dei gruppi, dei movimenti, dei partiti e delle case che si condividono con i propri compagni di lotta»23. Le storie delle donne che si sono battute per la Comune parigina mostrano la trasversalità del patriarcato e come «gli uomini, ma in generale i soggetti egemoni, anche quelli più rivoluzionari, quelli mossi dai più puri ideali di giustizia, non siano sempre pronti ad abbandonare i privilegi che la società, anche quella che stanno tentando di abbattere per istituirne una nuova, attribuisce loro»24.


  1. p. 21. 

  2. p. 33. 

  3. pp. 13-14. 

  4. p. 75. 

  5. p. 39. 

  6. p. 43. 

  7. p. 57. 

  8. pp. 57-58. 

  9. p. 66. 

  10. p. 97 

  11. p. 94. 

  12. p. 80. 

  13. p. 81. 

  14. p. 83. 

  15. p. 85. 

  16. pp.86-87 

  17. pp. 102-103. 

  18. pp. 105-106. 

  19. pp. 109-112. 

  20. p. 123. 

  21. p. 131-132. 

  22. pp. 135-136. 

  23. p. 136. 

  24. p. 136-137. 

]]>
Estetiche del potere. La risposta femminile al mito del lusso donnesco nella prima modernità https://www.carmillaonline.com/2019/08/25/estetiche-del-potere-la-risposta-femminile-al-mito-del-lusso-donnesco-nella-prima-modernita/ Sat, 24 Aug 2019 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54129 di Gioacchino Toni

«Le donne, da Eva in poi, sono state rappresentate come seduttrici e causa primaria della perdita di razionalità, saggezza e peccato. A questo, vengono contrapposte le rassicuranti figure della Vergine Maria, la madre e la Madonna. L’Antisatira di Tarabotti, può essere considerata come la prima profonda e prolungata risposta alla tradizione della polemica sul lusso femminile (lusso donnesco), un manifesto politico perfettamente in linea con gli altri suoi scritti di denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne. Ma il testo fa anche più di questo: è una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria [...]]]> di Gioacchino Toni

«Le donne, da Eva in poi, sono state rappresentate come seduttrici e causa primaria della perdita di razionalità, saggezza e peccato. A questo, vengono contrapposte le rassicuranti figure della Vergine Maria, la madre e la Madonna. L’Antisatira di Tarabotti, può essere considerata come la prima profonda e prolungata risposta alla tradizione della polemica sul lusso femminile (lusso donnesco), un manifesto politico perfettamente in linea con gli altri suoi scritti di denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne. Ma il testo fa anche più di questo: è una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Eugenia Paulicelli

Il mito che nella prima modernità voleva Venezia come città ideale e culla di libertà a cui contribuirono personalità come Cesare Vecellio e Giacomo Franco con le loro pubblicazioni sugli abiti e sui costumi, è stato aspramente contestato da scrittrici veneziane del Cinque e Seicento come Modesta Pozza ed Arcangela Tarabotti (al secolo Elena Cassandra Tarabotti).

La prima, autrice de Il merito delle donne (dialogo tra sole donne pubblicato postumo nel 1600 con lo pseudonimo di Moderata Fonte), ricorre all’artificio retorico di aprire il volume tessendo le lodi alla città lagunare, per poi mostrare come la vita pubblica della Serenissima escluda di fatto le donne, prive di diritti e non considerate parte attiva della comunità cittadina. Alla figura di Arcangela Tarabotti, ancora più sferzante e puntuale nella critica alla società veneziana, la studiosa Eugenia Paulicelli – docente di Letteratura italiana, comparata e Women’s Studies alla City University di New York – dedica un interessante capitolo del suo volume Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità (Meltemi, 2019) [su Carmilla].

Costretta dal padre a perdere i voti in giovane età, Tarabotti è autrice di opere come La tirannia paterna, L’inferno monacale, Il paradiso monacale e Antisatira in cui la vita personale, pubblica e politica non sono mai separate dal contesto geopolitico. Si tratta di una produzione caratterizzate da una verve polemica e da una passione che non si ritrovano negli scritti di altre veneziane della prima modernità in cui la giovane monaca benedettina, forte di un’ottima conoscenza degli affari cittadini, della moda e delle consuetudini sociali maschili e femminili, sferra un attacco diretto al cuore dello stato veneziano decostruendone il mito di città della libertà prendendo di mira la struttura dispotica delle istituzioni della Serenissima. In generale, sostiene Paulicelli, le opere della Tarabotti sono caratterizzate da una critica sferzante e disincantata del patriarcato che sottende le istituzioni della società lagunare (famiglia, stato, istruzione ecc.).

Così come Modesta Pozza, anche Arcangela Tarabotti decise di aprire sia Tirannia Paterna (pubblicato postumo) che in Inferno monacale, con una presentazione di Venezia come baluardo di libertà, salvo «sostituire subito dopo quell’immagine con una visione opposta della città: come una prigione, la negazione della libertà, soprattutto per le donne. Per Tarabotti, Venezia diventa l’immagine stessa della misoginia, una città che gode di uno status e un prestigio internazionali, ma dove le donne rimangono cittadine di seconda classe e in cui lo spazio pubblico è loro negato».

I due libri circolarono per qualche tempo in maniera semi-clandestina a Venezia allo stato di manoscritti e nel caso de La tirannia paterna anche dopo la sua pubblicazione il testo continuò ad essere osteggiato tanto da venire bandito dalla Congregazione dell’Indice nel 1661, pochi anni dopo la sua pubblicazione postuma.

Tarabotti riuscì invece a pubblicare in vita Il Paradiso monacale (1643), l’Antisatira (1644), Lettere Famigliari (1650) e Che le donne siano della spetie degli huomini. Difesa delle donne (1651). A darle fama sarà soprattutto l’Antisatira, libro pubblicato anonimamente sotto la sigla D.A.T. in risposta alla Satira (1638 e 1644) scritta da Francesco Buoninsegni, in cui l’intellettuale senese prendeva di mira la moda femminile e con essa le donne. Nella sua replica Tarabotti, oltre a schierarsi per la libertà delle donne di seguire la moda, denunciò come questa toccasse parimenti gli uomini, tanto da insistere particolarmente nel descrivere la vanità maschile.

Nonostante la vita conventuale, la scrittrice riuscì a mantenere importanti contatti con la realtà culturale cittadina anche grazie al parlatoio, una sorta di spazio liminale tra l’isolamento del convento ed il mondo esterno, che «può anche essere visto come una forma di salotto, uno spazio intimo dove si discutevano gli affari pubblici, si scambiavano doni, si organizzavano matrimoni e così via». La studiosa Gabriella Zarri arriva a vedervi un’anticipazione della moda dei salotti francesi che si diffonderà negli stati italiani alla fine del Seicento.

La religiosa riuscì a stabilire legami con gli Incogniti, un gruppo di intellettuali libertini veneziani spesso presi di mira dall’Indice dei libri proibiti, incline ad uno stile di scrittura decisamente sperimentale per l’epoca. «Inutile dire che l’Accademia degli Incogniti era diretta da uomini […] L’Accademia era uno dei più importanti e riconoscibili “punti di ritrovo” per gli intellettuali italiani, sia dentro che fuori Venezia, così come per i letterati francesi».

«Quello che forse l’attraeva di più degli Incogniti», sostiene Paulicelli, «era il loro amore condiviso per la libertà. Deve esserle sembrato che, in questi ambienti, la lingua e le parole fossero libere da regole prestabilite. Nonostante le differenze tra la sua posizione femminista e la misoginia di molti dei letterati degli Incogniti, quello che condividevano era il desiderio di cambiamento e la passione per il potere rivoluzionario delle parole e del linguaggio».

Nelle sue pubblicazioni, Tarabotti si sofferma sull’accesso alla cultura delle donne, sul loro riconoscimento nella vita pubblica, sulla loro libertà e sul loro libero arbitrio. «In tutti i suoi scritti, Tarabotti fa ampio riferimento agli abiti, alla moda, all’apparire e al volto pubblico di uomini e donne, ma è in Tirannia paterna che questo filone del discorso di Tarabotti giunge a compimento. Ciò che collega i suoi scritti sulla moda e quelli sulla tirannia è la questione dell’inganno e di come vengono utilizzati in modo il linguaggio e i segni vengano utilizzati in modo e con scopi mendaci. L’arte di vestire e apparire per Tarabotti è simile all’atto della copertura e della stratificazione che è inerente alla rappresentazione e alla lingua, e dunque, per estensione, alla pratica della dissimulazione».

Nell’Antisatira la scrittrice si sofferma su quegli specifici elementi dell’abbigliamento distintivi della moda maschile nella prima metà del Seicento, denunciando la vanitosa passione degli uomini per le parrucche e i ricci, per i tessuti pregiati e per le vestiti, senza però essere per questo giudicati. «L’attacco di Tarabotti alla mascolinità fu in primo luogo, una risposta meticolosamente dettagliata e ben argomentata che con verve e intelligenza ha decostruito le finzioni della mascolinità come veniva rappresentata sulla scena sociale».

Nel libro la scrittrice si sofferma sull’usanza maschile di alterare, attraverso imbottiture, la forma del corpo, questione dibattuta nel corso del secolo da diversi scritti, come nel caso de La maschera scoperta (1671) di frate Arcangelo Aprosio, in cui viene sminuita la portata morale e simbolica delle trasformazioni del corpo maschile, mentre al contempo viene enfatizzata l’ingannevolezza insita nella medesima pratica da parte femminile. Nella lettura proposta dalla religiosa emerge una differente rappresentazione dell’abbigliamento maschile. «Nel falso ridimensionamento delle immagini di virilità, Tarabotti offre un quadro complesso della politica dello stile, genere e classe durante la sua epoca e offre interessanti argomenti sull’abilità delle donne e sul loro diritto e desiderio di controllare il proprio aspetto e la propria identità culturale».

Il dibattito sul lusso e sulla moda portato avanti nell’Antisatira deve essere collocato all’interno delle questioni della libertà e del libero arbitrio, e per Tarabotti «il diritto legittimo, la libertà e il piacere delle donne di abbellire i loro corpi e le loro apparenze, e il loro accesso a una vita intellettuale/pubblica sono la stessa cosa».

L’Antisatira può dunque essere vista come una risentita e piccata risposta femminile alla tradizionale lettura misogina del lusso donnesco. Il libro, oltre che riprendere la denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne presente negli altri testi della scrittrice, è anche «una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Si può dunque affermare, conclude Eugenia Paulicelli, che il suo testo risulta rivoluzionario per diversi motivi: «in primis perché difende il diritto della donna alla moda e al lusso, collegandolo al lavoro intellettuale, che può essere considerato parallelo alla cura del corpo. In altre parole, difende il diritto delle donne di essere libere e considera la cura di sé, del proprio corpo, della propria anima e del proprio cervello come atti che sono intrecciati e non separati dal controllo della vita, del comportamento delle donne e dell’economia del patriarcato. Affermando che le donne sono autrici della propria immagine e dei propri libri, Tarabotti può essere vista come una femminista radicale. Con riferimento alla chiesa, ha oltrepassato diversi confini difendendo il lusso invece di esaltare soltanto la castità e la modestia per le donne, e ha decostruito il mito secondo cui gli uomini non erano interessati all’apparire e all’eccesso».


Serie completa Estetiche del potere

]]>
L’ultimo respiro https://www.carmillaonline.com/2014/08/31/lultimo-respiro/ Sun, 31 Aug 2014 20:48:06 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17051 di Alessandra Daniele

Twelve“Andiamoci a incollare un’altra cassa da morto” diceva Totò negli ultimi anni quando s’accingeva a interpretare un altro film il cui unico pregio sarebbe stata la sua presenza. Doctor Who è morto, creativamente e culturalmente morto. A Peter Capaldi, arrivato troppo tardi, non è rimasto che l’ingrato compito di caricarsene la cassa sulle spalle, d’incollarsi il peso d’esserne l’unico pregio, tentando di rendere accettabile il Dottore che gli tocca interpretare, benché Moffat l’abbia fatto persino più stronzo del predecessore.

Segue spoiler

Eleven era una jena (ridens). Twelve [...]]]> di Alessandra Daniele

Twelve“Andiamoci a incollare un’altra cassa da morto” diceva Totò negli ultimi anni quando s’accingeva a interpretare un altro film il cui unico pregio sarebbe stata la sua presenza.
Doctor Who è morto, creativamente e culturalmente morto. A Peter Capaldi, arrivato troppo tardi, non è rimasto che l’ingrato compito di caricarsene la cassa sulle spalle, d’incollarsi il peso d’esserne l’unico pregio, tentando di rendere accettabile il Dottore che gli tocca interpretare, benché Moffat l’abbia fatto persino più stronzo del predecessore.

Segue spoiler

Eleven era una jena (ridens). Twelve è un arrogante aristocratico stizzoso e crudele, che non ha nessuna giustificazione narrativa per la sua stronzaggine, essendo stato svuotato di tutto il bagaglio emotivo che avrebbe potuto dare qualche senso a questa sua ulteriore involuzione.
È uno sprezzante privilegiato acido e menefreghista col quale risulta impossibile empatizzare.
Cosa della quale sembra persuaso persino lo stesso Moffat, se ha ritenuto necessario riesumare Eleven per convincere la povera Clara ad accettare Twelve, con un’imbarazzante, ricattatoria e patetica ”telefonata di raccomandazione”.
La millanteria moffattiana che la monocromatica stronzaggine renda il suo Dottore più simile ai lontani predecessori dell’era classica è non solo sostanzialmente falsa, ma soprattutto irrilevante: i personaggi sono creati per evolversi, non regredire.
E il Time Lord del passato a cui Twelve più somiglia è Rassilon.
Questa caratterizzazione del dodicesimo Dottore, che neanche il talento di Peter Capaldi riesce a salvare, è il difetto più grave di Deep Breath, premiere della nuova stagione, ma non certo l’unico.
Il plot è l’ennesimo fiacco auto-riciclaggio della fissa moffattiana per le statue assassine, anche stavolta nella versione robotica di The Girl in the Fireplace. Un’idea logora quanto l’ambientazione vittoriana, altra ormai insopportabile fissa della gestione Moffat.
“Don’t breath” non sarà il nuovo ”Don’t blink”.
La riduzione di Clara a carne da macello per le peggiori gag poi non lascia dubbi sul perché Jenna Louise Coleman stia cercando di lasciare la serie. Si perde il conto di quante volte Clara venga zittita, cazziata, insultata, presa a giornalate in faccia, e abbandonata per strada. Come un cane.
E mentre sopporta tutto questo, dopo essere nella scorsa stagione morta infinite volte per salvare il Dottore, viene anche ripetutamente accusata di non essergli ancora abbastanza devota. Benché le manchi solo di mettersi una scopa nel culo per ramazzare il Tardis.
I siparietti fra Vastra e Jenny poi sono la parodia misogina d’un matrimonio fra due donne.
Dieci anni dopo il bacio fra Jack e Nine nel Doctor Who di Russell T. Davies, e vent’anni dopo quello fra Jadzia Dax e l’ex moglie in Deep Space Nine, Moffat ha preferito mascherare l’unico bacio consentito fra Vastra e Jenny da respirazione artificiale.
La parte più imbarazzante di Deep Breath però è questo dialogo sulla capacità del Dottore di cambiare volto:

Clara – I did not flirt with him.
Vastra – He flirted with you.
Clara – How?
Vastra – He looked young. Who do you think that was for?

L’idea è che il Dottore si sia per decenni travestito da giovane per beccare figa.
Un maldestro tentativo di Moffat di far passare il suo Twelve come “il vero volto” del Dottore, declassando più di metà dei precedenti a semplici “maschere”, che contraddice la premessa fondamentale della serie, e quel che è peggio fa sembrare il Dottore uno di quei vecchi maniaci che si nascondono dietro un avatar da cartone animato per agganciare le ragazzine online.
Fare di peggio è quasi impossibile.
Moffat però ci proverà.
In 50 anni Doctor Who è stato tutto e il contrario di tutto, ha prodotto capolavori della fantascienza Tv e cagate atroci, a volte nella stessa stagione, a volte dello stesso autore.
Questa varietà è nella natura stessa del concept, come lo è la periodica necessità di rigenerarsi, rinascere cambiando non solo volto, ma anche e soprattutto corso, cioè sostituendo gli autori, le menti dietro quel volto.
Un rinnovamento adesso nello stesso tempo indispensabile, e impossibile, perché il successo commerciale ha reso Moffat pressoché intoccabile alla BBC.
La dodicesima potrebbe quindi essere davvero l’ora più oscura del Dottore. La sua autentica Darkest Hour.
Doctor Who è morto. Se non si rigenererà in tempo, lo resterà definitivamente.

]]>