Miseria della filosofia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il razzismo, la democrazia e il male assoluto https://www.carmillaonline.com/2020/09/16/il-razzismo-la-democrazia-e-il-male-assoluto/ Wed, 16 Sep 2020 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62585 di Sandro Moiso

James Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019, pp. 180, 20,00 euro

E’ un tema spinoso, un argomento scottante e soprattutto un terreno minato quello in cui si avventura James Q. Whitman, docente di Diritto comparato presso la Yale Law School, nell’analizzare i rapporti tra le leggi razziali e razziste americane (riferibili come “leggi Jim Crow”) e l’insegnamento che ne trassero e l’uso che ne fecero i legislatori nazisti che diedero vita alle leggi di [...]]]> di Sandro Moiso

James Q. Whitman, Il modello americano di Hitler. Gli Stati Uniti, la Germania nazista e le leggi razziali, LEG edizioni, Gorizia 2019, pp. 180, 20,00 euro

E’ un tema spinoso, un argomento scottante e soprattutto un terreno minato quello in cui si avventura James Q. Whitman, docente di Diritto comparato presso la Yale Law School, nell’analizzare i rapporti tra le leggi razziali e razziste americane (riferibili come “leggi Jim Crow”) e l’insegnamento che ne trassero e l’uso che ne fecero i legislatori nazisti che diedero vita alle leggi di Norimberga nel 1935.
Molti studiosi, storici del diritto e non, avevano già in precedenza rilevato il collegamento tra i due regimi giuridici, ma, quasi tutti, hanno cercato poi di sminuirne il valore o, almeno, di separare e distanziare nettamente le due realtà, tendendo a negare che le Leggi Jim Crow possano davvero avere avuto importanza nella costituzione del modello nazista.

Invece, fin dalla Prefazione, Whitman afferma che:

Si dice spesso che il razzismo americano sia incompatibile con i valori della democrazia americana – e in particolare che lo schiavismo su base razziale abbia rappresentato una macchia sulla Fondazione, una contraddizione con le promesse della nuova repubblica. Ma […] democrazia e razzismo andavano a braccetto agli albori della storia americana […] E’ dura convincere le persone ad accettare di essere tutte uguali. Una delle strategie migliori per ottenere questo risultato, come sappiamo, è di farle unire contro un comune nemico razziale -convincendo bianchi poveri e bianchi ricchi, ad esempio, a unirsi nel disprezzo per i neri. John C. Calhoun, un personaggio oggetto di una lusinghiera biografia nazista nel 1935, descrisse i punti chiave di questa strategia nel 1821. Lo schiavismo su base razziale, diceva, era necessario in quanto si trattava della “migliore garanzia di eguaglianza fra i bianchi. Esso produce fra loro un livello di parità […]”.
Anche la politica nazista era una politica che promuoveva una forma di egualitarismo nello stile di Calhoun – egualitarismo per quelle persone che i nazisti consideravano membri del Volk, a spese di quelli che non lo erano. Quando esaminavano la mostruosa legislazione razziale americana all’inizio degli anni ’30, i giuristi nazisti stavano esaminando un qualcosa le cui fondamenta politiche non erano poi così diverse dalle loro. Entrambi i paesi erano culle di un egualitarismo fatto di risentimento razziale.1

Nelle pagine successive l’autore ci ricorda poi che, il 5 giugno 1934, i più importanti giuristi della Germania nazista si erano riuniti per progettare quelle che sarebbero poi diventate le Leggi di Norimberga, vero impianto legislativo su cui si sarebbe fondato, fino alla sua caduta, il regime.
In queste l’esclusione dai diritti dei cittadini non ariani, la loro emarginazione e successiva proibizione dei matrimoni misti, si sarebbe accompagnato ad una vera e propria definizione e creazione del “vero” cittadino nazista e della sua bandiera.

Fu una riunione importante, e uno stenografo presente produsse una trascrizione letterale, un documento che la diligentissima burocrazia nazista conservò a testimonianza di quello che era un momento cruciale nella creazione del nuovo regime razziale […] Nel corso dei minuti iniziali, il Ministro della Giustizia Gürtner presentò un promemoria sulle leggi americane sulla razza, una nota redatta con grande accuratezza dai funzionari del ministero proprio in vista di quell’incontro; e durante la discussione i partecipanti tornarono più volte ai modelli americani di legislazione nazista. E’ assolutamente sbalorditivo scoprire che tra i presenti, i nazisti più radicali fossero i più appassionati sostenitori della lezione che l’approccio americano offriva alla Germania. Questa trascrizione, inoltre, non è l’unica testimonianza dell’attenzione dei nazisti alle leggi razziali americane. Fra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 molti nazisti, fra i quali persino lo stesso Hitler, mostrarono grande interesse per la legislazione razzista degli Stati Uniti. Nel Mein Kampf Hitler lodava l’America come niente di meno che “l’unico stato” che fosse riuscito a progredire in direzione di quell’ordine razzista che le Leggi di Norimberga miravano a realizzare […] Per dirla con le parole di due storici del Sud, negli anni ’30 la Germania nazista e il Sud degli Stati Uniti si guardavano “come allo specchio”: si trattava di due regimi apertamente razzisti e di straordinaria crudeltà. Nei primi anni ’30 gli ebrei tedeschi erano braccati, picchiati e talvolta assassinati sia da bande organizzate che dallo Stato stesso. Negli stessi anni, i neri del Sud americano erano a loro volta braccati, picchiati e talvolta assassinati.2

Certo nella vulgata comune la vicinanza tra i due sistemi è una realtà negata e difficile da digerire.

Quali che siano state le analogie fra i regimi razzisti degli anni ’30, per quanto disgustosa possa essere la storia del razzismo americano, siamo abituati a pensare al nazismo come a un orrore senza precedenti. I crimini nazisti rappresentano l’abominio, l’orribile sprofondare verso quello che viene spesso definito “male radicale”.3

Eppure, eppure… la realtà è, secondo l’autore, che l’interesse dei nazisti per l’esempio americano di leggi razziali «fu duraturo, significativo e in certi casi persino entusiasta. Sicuramente volevano imparare dall’America».
Prova ne sia che appena dopo la proclamazione della Legge sulla cittadinanza del Reich, di quella sulla protezione del sangue e dell’onore tedesco e di quella sulla bandiera del Reich, quarantacinque avvocati nazisti salparono per New York sotto gli auspici dell’Associazione nazionalsocialista tedesco dei giuristi. Il viaggio fu una ricompensa per gli avvocati, che avevano codificato la filosofia legale basata sulla razza del Reich.

Lo scopo dichiarato della visita era quello di ottenere “uno speciale spaccato del funzionamento della vita legale ed economica americana attraverso studi e conferenze”. I precedenti americani ebbero così modo di informare altri cruciali testi nazisti, tra cui il Manuale socialista nazionale per la legge e la legislazione. Un saggio fondamentale in quel volume, le raccomandazioni di Herbert Kier per la legislazione razziale, dedicava un quarto delle sue pagine alla legislazione degli Stati Uniti, che andava oltre la segregazione includendo le regole che governano gli indiani d’America, i criteri di cittadinanza per filippini e portoricani e gli afroamericani, i regolamenti sull’immigrazione e divieti contro l’incrocio di razze in circa 30 stati. Nessun altro paese, nemmeno il Sudafrica, possedeva un insieme così sviluppato di leggi pertinenti.

Non si confonda quindi il lettore nel pensare agli Stati Uniti degli anni Trenta, quelli dell’età di Roosvelt e del New Deal e poi avversari del nazismo e dell’espansionismo nipponico dopo l’attacco di Pearl Harbor, come al regno della democrazia e del diritto. Il Partito Democratico aveva una buona parte delle sue radici e del suo elettorato proprio in quel Sud in cui le leggi segregazioniste erano particolarmente diffuse mentre, nello stesso periodo, anche i bianchi poveri e i piccoli contadini sfuggiti alle tempeste di polvere dell’Oklahoma avrebbero dovuto fare i conti con una nuova forma di segregazione di classe nei campi che “accoglievano” i migranti interni in California. In attesa di essere impiegati come manodopera e braccianti a bassissimo costo nelle grandi imprese agricole del Golden State.

Lavoro coatto nella sua forma schiavista (o quasi) che dagli afro-americani si era esteso al proletariato bianco, non troppo dissimile da quello che sarebbe diventato poi d’uso comune per i prigionieri di guerra e gli internati dei campi di concentramento che, nel corso del secondo macello imperialista, avrebbe caratterizzato economie e società di gran parte dei paesi belligeranti. Non soltanto in Germania.

Come afferma Whitman, l’intento della sua ricerca «è quello di raccontare una storia trascurata: la storia di come i nazisti, al momento della redazione delle Leggi di Norimberga, andarono a scavare nella legislazione americana in cerca di ispirazione. Ma è anche quello di interrogarci su cosa questo ci dica della Germania nazista, della storia moderna del razzismo, e soprattutto dell’America».

Molto spesso ricerche come quella del Whitman sono state tacciate, a torto o a ragione, di costituire una sorta di reductio ad Hitlerum, ovvero una tattica tendente a screditare qualcuno o qualcosa comparandolo ad Adolf Hitler o al nazismo tout court. Per alcuni interpreti tale tattica potrebbe poi avere, in alcuni casi, anche la funzione di ridurre le responsabilità politiche e morali del nazismo dimostrando che anche altri avrebbero operato in passato nello stesso modo.

Peccato però che anche tale interpretazione potrebbe servire a mascherare le responsabilità dei disastri militari, politici, economici e sociali (oltre che morali) tipici del modo di produzione attualmente dominante, la cui distruttività non è merito soltanto di singoli individui (Hitler o Trump, solo per citarne due fin troppo facili da indicare) o partiti, ma soprattutto delle insopprimibili regole di divisione di classe e di appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta che ne costituiscono le fondamenta, fin dal suo primo apparire nel XVI secolo.

A ben guardare, poi, è proprio l’America di oggi, quella che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni attraverso i canali televisivi e tutti gli altri media, a confermarci la ferocia del razzismo sotteso dalla libertà americana. Una pur rapida disamina dei recenti atti di violenza poliziesca nei confronti della popolazione afro-americana ci conferma infatti ancora che gli Stati Uniti, dalla loro originaria fondazione fino all’uccisione di George Floyd e a quelle successive verificatesi a Kenosha, Los Angeles e Washington, hanno fondato la loro struttura sociale su una rigida divisione etnica basata su quella che è stata definita “linea del colore” e, anche all’interno delle etnie escluse, su una ferrea divisione classista tra chi ha e chi non ha.

Lo stesso estensore della Dichiarazione di indipendenza, Thomas Jefferson, poteva infatti lanciare l’idea di una indefinita ricerca di uguaglianza e felicità cui sarebbe stato destinato il popolo americano, pur mantenendo nelle sua piantagioni 250 schiavi, dimostrando così nei fatti (nonostante la sua successiva promessa di contribuire a liberare tutti gli schiavi mai veramente andata in porto) come segregazione razziale e sfruttamento o sterminio delle altre etnie ad opera dell’uomo bianco non fossero che l’altra faccia della medaglia del progressismo liberale. Cosa che già anche Marx aveva notato, nel 1847 in Miseria della filosofia, affermando che la schiavitù del Sud degli Stati Uniti poco o nulla aveva a che fare con quella antica, mentre invece costituiva un moderno sistema di sfruttamento, peraltro indispensabile allo sviluppo del capitalismo manifatturiero inglese ed europeo4.

Anche se è pur sempre indubitabile che se gli Stati Uniti sono entrati negli anni ’30 come l’ordine razziale più consolidato del globo, i percorsi di Norimberga e le leggi Jim Crow si sono svolti in modo molto diverso, uno culminante nel genocidio di massa, l’altro, dopo molte lotte, in conquiste dei diritti civili. Ma, come ha rilevato Ira Kratznelson, politologo e storico americano specializzato nell’analisi dello stato liberale e delle disuguaglianze negli Stati Uniti presso la Columbia University, in una recensione del libro di Whitman: «nessuna di queste conquiste, nemmeno la presidenza di un afroamericano, ha rimosso le questioni di razza e cittadinanza dall’agenda politica. I dibattiti attuali su entrambi i punti ci ricordano chiaramente che i risultati positivi non sono garantiti. Le stesse regole del gioco democratico – elezioni, open media e rappresentanza politica – creano possibilità persistenti di demagogia razziale, paura ed esclusione». Per cui occorre ricordare che se Donald Trump, da un lato, minaccia l’uso della forza e delle armi per riportare l’ordine nelle città in rivolta, dall’altro il candidato “democratico” Joe Biden, nel discorso tenuto proprio alla Grace Lutheran Church di Kenosha il 3 settembre, non ha mancato di ribadire che: “Non conta quanto sei arrabbiato, se fai razzie o appicchi il fuoco, devi poi risponderne. Punto. Non puo’ essere tollerato, su tutta la linea”.

Il male, quello vero che ci attanaglia in ogni luogo e in ogni momento, ha il volto di un modo di produzione giunto alla sua fase terminale e che sopravvive grazie al mantenimento delle sue strutture più arcaiche e odiose, destinate a reprimere e dividere subdolamente la massa di coloro che dovrebbero affossarlo per sempre. Di queste strutture, ed eterne exit strategy per il capitalismo, certamente il razzismo, negli Stati Uniti di Trump e dei suoi predecessori oppure qui nell’Italietta di Salvini, Minniti, Meloni, Di Maio e Conte, costituisce ancora uno degli aspetti più insopportabili e verminosi.

N.B.
In memoria di Michael Reinoehl, “100% Antifa” come era solito definirsi, ucciso dagli agenti federali giovedì 3 settembre a Lacey, Stato di Washington, per essersi attivamente opposto alla manifestazione suprematista di Portland la settimana precedente.


  1. J.Q. Whitman, Il modello americano di Hitler, pp.11-12  

  2. J.Q. Whitman, op. cit. pp.15-16  

  3. Ivi, pag. 16  

  4. Per una più approfondita disamina dell’evoluzione del pensiero e dell’analisi di Marx sullo schiavismo si veda: J. Bellamy Foster, H. Holleman e B. Clark, Marx e la schiavitù, Monthly Review, qui  

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Marx ai tempi di Marx https://www.carmillaonline.com/2020/06/23/marx-ai-tempi-di-marx/ Tue, 23 Jun 2020 21:55:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60897 di Nico Maccentelli

Gennaro Imbriano , Marx e il conflitto, DeriveApprodi 2020, Collana Input 144 pp., 9,00 euro

Il pregio di questo breve saggio di Gennaro Imbriano sul pensiero di Marx è duplice: da una parte quello di essere un ottimo approccio per i neofiti ai temi centrali propri del marxismo… senza passare dal pessimo marxismo (1), ossia da quelle interpretazioni spesso dogmatiche e dottrinarie che hanno avuto il demerito di sclerotizzare Marx stesso ad opera dei più diversi diversi filoni politici. Imbriano ci presenta un pensiero depurato da quella [...]]]> di Nico Maccentelli

Gennaro Imbriano , Marx e il conflitto, DeriveApprodi 2020, Collana Input 144 pp., 9,00 euro

Il pregio di questo breve saggio di Gennaro Imbriano sul pensiero di Marx è duplice: da una parte quello di essere un ottimo approccio per i neofiti ai temi centrali propri del marxismo… senza passare dal pessimo marxismo (1), ossia da quelle interpretazioni spesso dogmatiche e dottrinarie che hanno avuto il demerito di sclerotizzare Marx stesso ad opera dei più diversi diversi filoni politici. Imbriano ci presenta un pensiero depurato da quella pletora di “eterne verità” estrapolate dai classici, dalle conclusioni politiche postume, che hanno il solo scopo di legittimare determinati eventi politici e scelte dei partiti e delle organizzazioni marxiste nel corso di oltre 150 anni di storia del movimento comunista.

Dall’altra Marx e il conflitto è una sintesi organica dell’impianto teorico marxiano nel suo divenire, dai Manoscritti economici e filosofici del 1844 fino al Das Kapital. Costituisce una cassetta degli attrezzi per chi intenda riprendere in modo proficuo, ossia rivoluzionario e anticapitalista, l’antagonismo di classe nell’epoca storica odierna, quando il comunismo sembra finito nel binario morto della storia o sopito dentro il mare magnum di un pensiero unico che ha espunto da ogni contesto la sua narrazione attraverso le solite vulgate a cui siamo fin troppo abituati, imponendole nell’intera koinè come un mantra, riducendo il comunismo come esperienza (che poi è il socialismo) a crimine o la sua possibilità di giustizia sociale a utopia.

Eppure le rivolte popolari che stanno attraversando il mondo, che esprimono quanto la miseria e l’alienazione del capitalismo sulle masse stia arrivando a punti di insopportabilità e sofferenza, rendono il comunismo un processo storico-sociale immanente, sempre possibile. Ecco perché il ritorno ai fondamentali originari, la possibilità di ripartire da Marx in modo agevole come offre questo pamphlet, significa riprendere le questioni fondamentali che pertengono chi vuole cambiare il mondo e non solo interpretarlo: quel materialismo storico e dialettico che consente di effettuare quelle espansioni di ragionamento che si basano sull’analisi concreta della situazione concreta e non sui procedimenti speculativi rovesciati per adattare la realtà al pensiero.

Ecco perché proverò in questa recensione ad avviare un paio di spunti espansivi che ci fanno capire come l’impianto teorico marxiano sia ancora attuale e si configuri come un apparato di categorie filosofiche ed economico-sociali che rappresenta una vera e propria guida per la comprensione della realtà con lo scopo di cambiarla e non di interpretarla a nostro uso e consumo per adattarla in modo consolatorio, catastrofista, o liquidazionista all’esistente.

Karl Marx

E infatti, il primo punto che troviamo nel lavoro critico di Imbriano su Marx è la questione che Marx affronta contro i giovani hegheliani di sinistra, principalmente Bruno Bauer: un materialismo puramente astratto, élitario, completamente scollegato con la materialità dei rapporti sociali.
È il Marx dell’operaio, del lavoratore salariato a conquistare la scena storica della rivoluzione sociale, poiché al centro della sua visione c’è la “società civile”, la potenza sociale della sua riproduzione e la materialità dei rapporti sociali. Non dunque un’autonomia del politico avulsa dalle condizioni sociali e materiali in cui vive l’essere umano, un’aporia che quindi separa lo Stato e la politica da queste condizioni sociali, ossia più in specifico dai rapporti di produzione, dalla loro relazione contraddittoria con le forze produttive della società.

La “vicenda teorica” in progress di Marx scardina queste concezioni metafisiche e idealistiche della sinistra dell’epoca, che partono da Bauer e Feuerbach per arrivare a Proudhon per mettere al centro di ogni categoria di pensiero per l’azione la centralità del sociale, individuando tre elementi fondamentali che fanno giustizia di ogni velleità politica e religiosa: la centralità della produzione, la divisione sociale del lavoro e la lotta di classe.

In Marx, il concetto di “società civile” è il prodotto storico di questo sistema di relazioni. Non esiste una politica che governa la “natura umana”, perché la natura umana si incarna in un rapporto sociale ed è il rapporto sociale (di produzione e riproduzione), la sua potenza a determinare la politica, non viceversa. La politica quindi non può essere concepita al di fuori dei rapporti di classe. Si capirà che all’epoca una simile impostazione filosofico-politica era indigesta persino per quell’intellettualità che scambiava il proprio filantropismo per lotta progressista contro i regimi reazionari del tempo.

A chiosa di questa analisi critica del Marx in dissidio con l’hegelismo di sinistra e il proudhonismo, Imbriano rileva un aspetto importante:

“Questi elementi non ci segnalano soltanto la differenza marxiana rispetto al pensiero «critico» del suo tempo, ma anche la sua alterità rispetto alle forme più o meno mutate nelle quali quel pensiero si reincarna oggi. Se l’opposizione al dominio del capitale diventa mera politica della cittadinanza (inconsapevole della centralità della sfera sociale), lotta redistributiva (affascinata dall’idea che il momento dello scambio sia costituente e che produttive siano le sue figure sociali di riferimento), battaglia culturale per l’affermazione delle idee che si atteggia in superiore distacco dalla massa (presunta) inconsapevole, pratica del dialogo tra interessi inconciliabili (che elimina l’organizzazione del conflitto dal suo orizzonte), esso si pone definitivamente al di fuori del riferimento marxiano, e dunque si rende incapace di diventare vera alternativa.” (1)

Una prima espansione analitica parte dunque dalla critica della concezione metafisica che vuole la politica come soggetto che meccanicisticamente plasma il mondo.
 Infatti, in questa considerazione ci sta l’eterna aporia dentro la sinistra tra una politica (oggi “dirittoumanitarista”) che si svincola dal nucleo centrale della sfera sociale: il lavoro, ossia il rapporto capitale/lavoro, la lotta tra classi sociali che ha la sua base politica proprio nella sfera della produzione e riproduzione materiale della società e dei rapporti sociali che determina, e una politica rivoluzionaria, radicale (nel senso che va alla radice elle contraddizioni materiali e sociali) che è consapevole del fatto che non di storture sociali si tratta quando parliamo di neoliberismo, patriarcato, militarismo, razzismo, ma le modalità con le quali il capitalismo stesso si riproduce, ciò che gli consente di esistere ed affermarsi nel pianeta. Sono le espressioni sociali e politiche del dominio capitalista nell’epoca attuale, operate dagli organismi politici e dagli apparati statuali delle classi dominanti. Se si pensa che la politica abbia una sua vita propria, sganciata dai rapporti sociali, si finisce per ridurla a uno strumento innocuo e ininfluente.

Questo è uno dei motivi per i quali oggi abbiamo una sinistra che si è adeguata al pensiero unico neoliberale scavandosi tutt’al più delle nicchie “umanitarie” che sono del tutto inoffensive per il dominio capitalista, armi spuntate contro le sue politiche discriminatorie e prevaricatrici che rimandano sempre e comunque alla guerra dall’alto verso il basso che le forze capitaliste portano avanti per mantenere il rapporto capitale/lavoro soddisfacente per la realizzazione di plusvalore. Migranti, condizione femminile, precariato, differenze etniche, sono tutte condizioni sociali e di classe determinate da questa guerra non dichiarata e costante sul corpo sociale del proletariato.
 E se andiamo a vedere la tara “genetica” di questa sinistra imbelle dobbiamo risalire a Proudhon, a Bauer, a concezioni metafisiche della politica che storicamente si ripresentano.

Uno snodo fondamentale è stata la trontiana “autonomia del politico”, che per quanto possa aver influito nella sinistra italiana, ha fatto più danni di quello che potremmo supporre, se guardiamo a una sinistra-partito leggero da salotto, che governa a colpi di decreti, che ben prima della Bolognina si è distaccata da espressione politica delle classi popolari a partir dal proletariato. Che è arrivata a sostenere la fine delle classi sociali e l’obsolescenza di categorie sociali come “proletariato” e la fine della spinta propulsiva al “socialismo”, assumendo in pieno l’orizzonte metafisico di un capitalismo eternizzato, dove esistono solo individui e gruppi sociali orientati a lottare davanti a un ascensore sociale inesistente. Che ha assunto il solo punto di vista dei capitalisti (le aziende) spacciandolo per interesse nazionale.

Altra aspetto critico riguarda Proudhon:

“Marx definisce «conservatore», il cui limite consiste nel fatto di spacciare una sostanziale accettazione dello status quo, che si esprime in un’acritica esaltazione del libero commercio tra liberi individui, per egualitarismo rivoluzionario.” (2)

“Marx scopre che esiste una divisione sociale del lavoro sulla base della quale una parte della società può esercitare la teoria perché è dispensata dalla fatica materiale. L’intellettualismo (il disprezzo per la massa e per la prassi) è la conseguente assunzione che il sapere (e più in generale i processi dell’autocoscienza) siano la chiave fondamentale per agire le trasformazioni: nessuna idea più retriva, agli occhi di Marx, e intrisa di presupposti classisti. Ugualmente errata è la visione di quanti assumono la centralità del politico. Si tratta, per Marx, di un errore strategico, che conduce inevitabilmente il pensiero critico (o presunto tale) nei vicoli ciechi della riedizione in forme nuove del politicismo”. (3)

Infatti Marx, spiega Imbriano, si è molto soffermato sulle illusioni proudhoniane (Miseria della filosofia), come se il libero scambio tra produttori senza considerare il nucleo essenziale del rapporto sociale di produzione, la produzione di plusvalore attraverso il pluslavoro, non sia il vero nodo economico da cui discende la connotazione sociale dei rapporti tra classi, come se questo incessante processo di produzione e riproduzione sociale, non sia rapporto sociale esso stesso, non sia la base dei rapporti sociali di classe. La riflessione critica dunque viene portata a un socialismo “su misura” per i piccoli produttori, che tutt’oggi produce ricadute riformistiche del tutto interne al solco politico e di governance economica neoliberale.

Pierre Joseph Proudhon

Un’espansione analitica che è possibile sviluppare può benissimo richiamare i cosiddetti “ceti medi” di togliattiana memoria. Non intendo sostenere che esistono agganci teorici diretti tra l’impianto analitico proudhoniano e quello del PCI sulla “democrazia” progressiva e l’alleanza con i ceti medi nel secondo dopoguerra. Tuttavia questa impostazione riformista è stata la base strategica dell’approdo filo-capitalista di un partito che nei suoi feudi come l’Emilia “rossa” ha trasformato la partecipazione operaia, il cooperativismo e il sostegno alle piccole e medie imprese in un grande laboratorio economico pro-capitalista a cavallo degli anni ’70 – ’80, con il decentramento produttivo e la scomposizione di classe. Un laboratorio che prosegue anche oggi con il terzo settore che va a sostituire il pubblico e persino le cooperative nella gestione dei servizi sociali e socio-sanitari. (4)

Che medesime a quelle di Proudhon siano le illusioni proprie di una piccola borghesia espresse in un apparato di partito sull’emancipazione sociale “armoniosa”, senza conflitto, estese a un universalismo autoreferenziale, mi pare piuttosto evidente. A questo pantano ideologico idealista ha condotto la lunga marcia del PCI dentro le istituzioni e nella società capitalista italiana dal secondo dopoguerra. A cui faceva da contraltare un totalitarismo repressivo contro i movimenti.

Questa espansione analitica è importante per superare l’analisi superficiale di certa ortodossia marxiana, il “berlinguerismo pentito”, di chi riduce tutta la questione dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria da parte del più grande partito comunista dell’Occidente alla dichiarazione di Berlinguer sulla fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre e al riconoscimento dell’ombrello NATO. Senza ovviamente analizzare da un punto di vista di classe, ossia del ruolo di una tale forza politica nei rapporti sociali e di produzione, ciò che il PCI era diventato negli anni ‘70 nello svilimento di una lunga strategia politica che, almeno inizialmente, poteva avere una sua coerenza rivoluzionaria, pur discutibile. Questione che i neocomunisti o quelli di “stretta osservanza” si sono da sempre ben guardati dall’affrontare (cosa rifondi allora?), come se la Bolognina fosse solo un fatto politico.

In generale, anche oggi, l’ombra di Proudhon emerge di fatto nelle velleità riformistiche di una sinistra che s’intestardisce nel far rientrare pratiche economiche “virtuose”, surrogati di un associazionismo che nulla hanno che vedere con le cooperative e le casse operaie dei primi del ‘900, l’autoimprenditorialità che ha coinvolto anche esperienze autogestionali,  un mutualismo fine a se stesso, dentro gli schemi della riproduzione sociale e della catena del valore del neoliberismo selvaggio, accettandone logiche e dinamiche. Riconoscendo, così, di fatto, l’impossibilità di una rivoluzione sociale.

La parte finale del saggio di Imbriano affronta la questione della conquista del potere da parte del proletariato e della transizione al comunismo, ripercorrendo i passaggi del pensiero di Marx a partire dalle esperienze rivoluzionarie del 1848, con le considerazioni sviluppate nel 1864 nel documento d’inaugurazione dell’Internazionale e poi ancora fino alla Comune di Parigi del 1871 e alla presa di posizione riguardo al Programma di Gotha nel 1875. Una questione molto attuale di fronte al dilagare di un riformismo fine a se stesso persino nel campo della sinistra radicale odierna. (5) E che si riaggancia alla prima questione, quella sociale.

In definitiva, per chi vuole utilizzare questo pregevole excursus sul pensiero di Marx lungo direttrici di analisi orientate al conflitto di classe e alla transizione al comunismo, qui può trovare una vera miniera di spunti espansivi. Ma soprattutto un approccio ben attinente al pensiero marxiano, una guida per l’azione da parte del comunista di Treviri, che non era certo un esegeta della filosofia astratta, ma un vero militante antagonista ante litteram.

 

§ § §

NOTE:
1. Non è certo mia intenzione svilire questioni politiche ed eventi così complessi riguardanti la storia e la politica del marxismo novecentesco, che meriterebbero ancora oggi delle analisi approfondite; del resto anch’io sono parte in causa appartenendo a un filone politico del comunismo italiano. Il mio scopo è piuttosto quello di operare un’estraniazione da queste questioni per tornare alle fonti primarie, ossia al pensiero marxiano depurato dalle sue interpretazioni successive. E  il percorso tracciato da Imbriano in quest’opera mi pare un’ottima traccia, uno spacchettamento coerente e ragionato delle questioni rilevanti per Marx. Poi se altri intendono trovare altri spunti in altre opere: ben venga; quello che importante è uscire dalle contese da bar a cui assisto sui social tra i seguaci dei vari “…ismi” (e poi c’è chi si chiede perché non si riesce a costruire l’unità dei comunisti.)…

2. Marx e il conflitto, pag. 78

3. Ibidem, pag. 70

4. Se per Sergio Bologna, il lavoratore della conoscenza nell’era del taylorismo-fordismo non è tanto il chimico che entra a lavorare alla BASF, quanto il tecnico che organizza la produzione, il personale organizzativo che avvia la grande stagione della scomposizione di classe emiliana, nella segmentazione dei cicli di produzione possiamo identificarlo in una serie di soggetti interni agli apparati di partito e a quelli amministrativi della PA, fino al sindacato. Con una base sociale e produttiva in quei ceti medi togliattiani che “si sono fatti da soli” e che permeano tutto il sociale gestito dal PCI di quegli anni ’70 e ’80: dalle case del popolo alle associazioni di categoria, dai sindacati alle istituzioni locali, alle cooperative. Una base che diviene reazionaria nella ricerca di integrazione alla catena del valore del grande capitale, alle incessanti riconversioni produttive che hanno fatto del modello emiliano-romagnolo quell’agile piroga nelle trasformazioni economico-sociali di fine secolo della ristrutturazione capitalistica, e insieme quel rigido controllo sulla forza lavoro frammentata. Un modello integrato ai mutamenti neoliberali del capitalismo (agli albori della reaganomic) e non un’alternativa economico-sociale: né di sistema, né di riforma. Lo scontro con l’autonomia di classe non poteva che essere inevitabile. (https://www.youtube.com/watch?v=t1lk6DtlKxY&t=224s)

5. “Se interpretiamo bene le parole di Marx e quelle di Engels, sembra che l’entusiastico fervore per l’azione dei comunardi che «spezzano» il potere venga ora ricondotto nell’alveo di una più complessa valutazione. Spezzare questo potere, instaurare la Comune, il Gemeinwesen, è certo l’obiettivo rivoluzionario: ma ciò non può essere fatto nell’immediato, pena la sua inconsistenza. Prima, è necessaria la transizione: occorre marciare su Versailles, prendere il potere politico, schiacciare i propri nemici, imporre la socializzazione dei mezzi di produzione e tenere in vita la dittatura proletaria fino a quando il tempo della transizione non sarà concluso.” Marx e il conflitto, pag. 130-131

 

 

 

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