Miriam Leone – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Diabolik – Ginko all’attacco!”: il corpo invisibile e sovversivo https://www.carmillaonline.com/2022/12/11/diabolik-ginko-allattacco-il-corpo-invisibile-e-sovversivo/ Sun, 11 Dec 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75146 di Paolo Lago

Diabolik – Ginko all’attacco! (2022) dei Manetti Bros, secondo capitolo della trilogia dedicata dai registi al personaggio di Diabolik, inizia con un’incursione del ‘sovvertitore’ protagonista nella sala del museo nazionale di Ghenf per rubare la preziosissima corona di Armen. Dopo aver messo fuori uso i sistemi di sicurezza della stanza blindata, Diabolik riesce a penetrare all’interno di essa per impadronirsi del gioiello. Il museo del film, che nella realtà è il santuario mariano di Trieste, appare come un geometrico blocco di cemento che si erge al di sopra della città, [...]]]> di Paolo Lago

Diabolik – Ginko all’attacco! (2022) dei Manetti Bros, secondo capitolo della trilogia dedicata dai registi al personaggio di Diabolik, inizia con un’incursione del ‘sovvertitore’ protagonista nella sala del museo nazionale di Ghenf per rubare la preziosissima corona di Armen. Dopo aver messo fuori uso i sistemi di sicurezza della stanza blindata, Diabolik riesce a penetrare all’interno di essa per impadronirsi del gioiello. Il museo del film, che nella realtà è il santuario mariano di Trieste, appare come un geometrico blocco di cemento che si erge al di sopra della città, emblema di un potere granitico ed opprimente. Ma Diabolik riesce a penetrare all’interno del suo “sancta sanctorum” (trattandosi, nella realtà, di un santuario, l’espressione può risultare appropriata). Una volta che il sistema d’allarme si è messo in funzione, i guardiani, accorsi, si trovano paradossalmente chiusi al di fuori della stanza in cui è custodita la corona. Padrone dello spazio più intimo e segreto del potere, laddove esso custodisce i suoi tesori più preziosi, è adesso Diabolik. In un rovesciamento di situazioni, i guardiani sono chiusi fuori e dovranno usare la dinamite per sfondare la stanza nella quale si trova il misterioso ladro. Ma quest’ultimo appartiene inesorabilmente al ‘fuori’ e, non appena le guardie riescono a penetrare nella stanza, Diabolik sta già volteggiando col suo deltaplano sulla città notturna, lontano dalle rigide geometrie del palazzo che, nelle inquadrature notturne dei Manetti Bros finisce per assomigliare quasi ai palazzi della Los Angeles del futuro di Blade Runner (1982) di Ridley Scott.

Al potere rigido e granitico, simboleggiato dal geometrico edificio, Diabolik (ben interpretato da Giacomo Gianniotti, che subentra a Luca Marinelli) oppone il proprio corpo leggero ed etereo, nero ed oscuro, divenuto quasi invisibile nella notte. Rispetto al precedente film dei due registi, adesso, è il corpo del fuorilegge ad assumere peculiari valenze sovversive e non lo spazio (cfr. quanto ho scritto in Diabolik, un’estetica dello spazio sovversiva, su “Carmilla”). In questo secondo capitolo della progettata trilogia, ispirato all’albo n. 16 dell’aprile 1964, sceneggiato da Angela e Luciana Giussani e disegnato da Enzo Facciolo, l’ispettore Ginko (sempre un bravissimo Valerio Mastandrea che, come il personaggio dei fumetti, fuma la pipa e si sposta in Citroën DS), grazie ad un trucco, riesce a violare gli spazi segreti di Diabolik sottoponendo alle dinamiche del controllo tutti gli oggetti in essi presenti. Così, la stessa auto del fuorilegge, la famosa Jaguar, che in precedenza era sempre stata il mezzo imprendibile e misterioso delle sue fughe, finisce, intrappolata e bloccata, sotto lo sguardo dell’ispettore e degli agenti (così come anche tutti i suoi strumenti e i suoi trucchi) mentre la refurtiva accumulata in anni di rapine viene sottoposta ad un’opera di controllo e di catalogazione. Il misterioso tunnel mimetizzato nella montagna e i suoi cunicoli serpentini sono adesso solcati dalle strutture poliziesche del potere che prendono possesso di tutti quei luoghi che prima erano stati il cuore pulsante della sovversione. Ginko e i suoi uomini riescono a penetrare perfino nel luogo dove il fuorilegge costruisce le sue maschere, una vecchia fabbrica abbandonata alla periferia di Clerville. Quest’ultima è uno spazio del ‘fuori’ che lambisce i rigidi spazi cittadini, incapsulati nella geometricità dello stesso ordine borghese che domina anche le fattezze del museo di Ghenf nelle sequenze iniziali. La misteriosa fucina delle mascherature di Diabolik non si trova in lontane periferie ma si materializza appena girato l’angolo di una razionale e ordinata strada cittadina. È al di là dell’ordine ma lo lambisce continuamente, lo sfiora, gli vive accanto di nascosto.

Se i luoghi della sovversione di Diabolik, adesso, vengono occupati e presidiati dal potere, al fuorilegge non rimane perciò che cercare un altro spazio sovversivo nel suo stesso corpo. È quest’ultimo a trasformarsi nell’estremo rifugio resistente da opporre a un potere che lo sta braccando. Non è un caso, infatti, che sulla copertina dell’albo n. 16 al quale si ispira questo nuovo film dei Manetti Bros compaia in primo piano il corpo di Diabolik che cerca di liberarsi dalle catene con le quali è legato, mentre dietro di lui vediamo Eva Kant che sembra quasi guardargli le spalle. Quando le “eterotopie” sovversive del fuorilegge vengono scoperte e catalogate, geometrizzate, imprigionate nelle canalizzazioni controllate dal potere poliziesco, è allora il corpo che si trasforma in luogo, che si trasforma in spazio perché esso, come osserva Michel Foucault, è “il piccolo frammento di spazio col quale letteralmente faccio corpo”1. E se, apparentemente, il corpo, trasformatosi in luogo, potrebbe sembrare il contrario di un’utopia, esso, invece, è in tutto e per tutto “un corpo utopico”: “No, veramente non c’è bisogno né di magia né di fiaba, non c’è bisogno né di un’anima né di una morte perché io sia insieme opaco e trasparente, visibile, invisibile, vita e cosa: per essere utopia basta essere un corpo”2. Ed ecco che all’interno della finzione favolistica e fumettistica creata dai registi, il corpo di Diabolik diventa visibile e invisibile, contemporaneamente luogo e non luogo, utopia che si oppone al grigiore stanziale degli apparati di potere.

Privato dei suoi luoghi sovversivi, Diabolik percorre nella fuga spazi aperti nei boschi e sul ciglio di torrenti impetuosi, fra rocce e pietre: allora, il suo corpo utopico (l’utopia di chi mai vuole arrendersi al potere) sembra fondersi quasi con la natura ostile che lo circonda. Mentre lui ed Eva Kant (sempre interpretata dalla brava Miriam Leone) si muovono agili nelle impervie spazialità del ‘fuori’, l’ispettore Ginko e i suoi agenti sono irrigiditi e impediti. La stessa Eva Kant, per sfuggire alla cattura, si getta nel fiume impetuoso riuscendo quasi a fondersi invisibilmente con lo spazio naturale. I due fuorilegge, infatti, appartengono alla dimensione del ‘fuori’ opponendosi, in tal modo, alle strutture del potere che sopravvivono solamente nel ‘dentro’. Ginko e i suoi uomini – per utilizzare dei termini di Deleuze e Guattari – scovando e occupando i covi di Diabolik, hanno “riterritorializzato” gli spazi sovversivi. Come osserva David Lapoujade, infatti, i due studiosi, in Mille Piani, descrivono un processo secondo il quale “gli Stati imperiali si sedentarizzano su una Terra. Deterritorializzano i territori primitivi per formare l’unità di una terra”3. L’apparato di potere, come gli stati imperiali, si impadronisce del territorio nomadico trasformandolo in spazio sottoposto al controllo. Quest’ultimo, per utilizzare un’espressione dello stesso Lapoujade applicato alla società contemporanea, diviene “un mondo senza fuori4.

D’altra parte, il corpo di Diabolik è invisibile e sovversivo anche in virtù della sua abilissima capacità di mascherarsi, di assumere le più disparate identità. In questo secondo episodio della trilogia, il personaggio sembra prediligere il mascheramento da poliziotto che egli riesce ad attuare nonostante sia stato ‘occupato’ dalla stessa polizia il luogo segreto nel quale costruiva le sue maschere. La dimensione ‘fumettistica’ dell’irreale (e iperreale, si potrebbe aggiungere, nel suo ricalcare filologicamente l’Italia degli anni Settanta) mondo di Clerville crea un vero “paese di fiaba” “in cui si è visibili quando si vuole, invisibili quando lo si desidera”5. È assumendo le sembianze di un poliziotto che Diabolik riuscirà a sabotare il piano apparentemente perfetto dell’ispettore Ginko (ma sulla trama non vorremmo davvero rivelare di più). Il fuorilegge è perciò invisibile mentre è visibile il tutore di quella stessa legge, colui che ne è dentro quanto Diabolik ne è fuori. Come scrive Andrew Culp, uno studioso che rilegge ‘in nero’ il pensiero di Deleuze, citando una frase da Cinema 2. L’immagine tempo, “usciremo dalla logica produttivista dell’accumulazione solo quando si sarà giunti «infine alla scomparsa del corpo visibile».”6. Il “corpo visibile” del fuorilegge è scomparso; visibile è invece il corpo ‘fiabesco’ del tutore della legge, un simulacro che agisce contro quella stessa legge. Perché, in definitiva, sotto la mascheratura c’è sempre il corpo sovversivo di Diabolik che trama contro il potere per mandarlo in tilt, per sottrarre le sue ricchezze accumulate da una logica produttivista, basata su un lavoro incessante, e trasferirle nel suo covo, in uno spazio notturno dove quelle stesse ricchezze servono per soddisfare la logica dell’ozio e del piacere fine a sé stesso.

Il corpo invisibile di Diabolik era entrato in azione anche in precedenza, nella prima parte del film quando, sempre con una mascheratura da poliziotto, aveva attaccato l’elegante teatro, spazio dello spettacolo borghese per eccellenza. In esso, ad assistere al “Balletto smeraldo”, era riunita tutta la ‘società bene’, gli esponenti del potere, mummificati ed estasiati di fronte all’esposizione delle ricchezze accumulate da quello stesso potere che grava sulla ‘fiabesca’ Clerville come sulle grigie strutture dell’Italia degli anni Settanta (nonché di quella di oggi). Diabolik, invisibile e sovversivo, appare diretto verso il ‘fuori’, al di là della dimensione spettacolare, poliziesca, catalogante, geometrica ed inquadrata degli apparati di potere di una società basata sull’accumulo di merci. Al di là e contro qualsiasi inganno che quel potere può ordire contro di lui. Sfugge a controlli e catture, a trappole e inganni, perché il suo corpo possiede già in sé prima quelle stesse trappole e quegli stessi inganni; perché è un corpo invisibile e sovversivo.


  1. M. Foucault, Il corpo utopico, in Id., Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2011, p. 31. 

  2. Ivi, p. 38. 

  3. D. Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 224. 

  4. Ivi, p. 259 

  5. M. Foucault, Il corpo utopico, cit., p. 33. 

  6. A. Culp, Dark Deleuze, a cura di F. Di Maio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 83. 

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“Diabolik”, un’estetica dello spazio sovversiva https://www.carmillaonline.com/2021/12/27/diabolik-unestetica-dello-spazio-sovversiva/ Mon, 27 Dec 2021 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69800 di Paolo Lago

Nelle prime sequenze di Diabolik (2021), dei Manetti Bros., vediamo la Jaguar nera del protagonista che, dopo una rapina a una banca, percorre a tutta velocità una galleria pedonale sotto un palazzo del centro per poi immettersi sulla strada principale ed essere subito inseguita dalle auto della polizia. La strada è circondata da entrambi i lati da palazzoni grigi e cubici, che sembrano delle enormi scatole e tutto l’inseguimento avviene in questo rigido percorso obbligato, come se si trattasse dello spazio di un tunnel. Del resto, anche la precedente versione [...]]]> di Paolo Lago

Nelle prime sequenze di Diabolik (2021), dei Manetti Bros., vediamo la Jaguar nera del protagonista che, dopo una rapina a una banca, percorre a tutta velocità una galleria pedonale sotto un palazzo del centro per poi immettersi sulla strada principale ed essere subito inseguita dalle auto della polizia. La strada è circondata da entrambi i lati da palazzoni grigi e cubici, che sembrano delle enormi scatole e tutto l’inseguimento avviene in questo rigido percorso obbligato, come se si trattasse dello spazio di un tunnel. Del resto, anche la precedente versione cinematografica tratta dal fumetto di Angela e Luciana Giussani, diretta da Mario Bava (1968), iniziava con l’inquadratura di due palazzoni cubici che rappresentavano una banca. L’estetica e la rappresentazione dello spazio, nel film dei Manetti Bros., appare sapientemente giocata su un contrasto ed un’alternanza di spazi stretti, angusti e ‘tunnellizzati’ e di spazi caratterizzati invece da ariosità ed aperture. Se l’eroe, già nelle tavole dei fumetti delle sorelle Giussani, si muoveva in luoghi angusti, stretti e cunicolari, il film sembra giocare su questa opposizione in modo nuovo ed inedito.

Lo sfondo dell’immaginaria città di Clerville si trasforma nella greve rappresentazione iconica e monumentale dell’oppressione di un potere rigido e geometrico. L’auto di Diabolik, nelle prime sequenze, percorre uno spazio cunicolare e ‘tunnellizzato’, serrato da case grigie e tetre che sembrano quasi appartenere ad una distopica società del futuro gravata da una pervasiva e crudele dittatura. Possono venire in mente certe sequenze de I cannibali (1970) di Liliana Cavani, in cui vediamo le strade di una grigia Milano del futuro ricoperte di cadaveri, silenziose e allucinate. La Clerville di Diabolik è ricostruita fra Bologna e Milano (nella fattispecie, le immagini dell’inseguimento iniziale sono state girate a Bologna, fra gruppi di palazzoni anni Cinquanta e Sessanta1) e, soprattutto nei momenti in cui assistiamo agli inseguimenti notturni, appare come una città abbandonata, segnata quasi da una catastrofe post-apocalittica. E allora si potrebbe pensare anche agli sfondi urbani romani ‘svuotati’ e catatonici (soprattutto un raggelato Eur) che incorniciano gli spostamenti dell’unico sopravvissuto a una terribile epidemia che ha trasformato tutti gli altri esseri umani in vampiri, in L’ultimo uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona.

L’estetica dello spazio che sta alla base del film dei Manetti Bros. inquadra i palazzi degli anni Cinquanta e Sessanta (secondo una didascalia che compare all’inizio del film ci troviamo a Clerville, alla fine degli anni Sessanta) come se fossero dei vuoti monumenti alla solitudine e alla desolazione, come in certi momenti di L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni. Se in quest’ultimo film i palazzoni del boom economico italiano rappresentavano l’emblema di un potere che, in nome dell’edilizia selvaggia, cominciava a devastare gli spazi verdi delle città, nel film dei Manetti Bros. i palazzi e l’architettura rappresentano i monumentali fasti di un grigio e oscuro potere, incarnato dal viceministro Giorgio Caron, ricattatore e corrotto. D’altra parte, bisogna anche notare che gli sfondi della Clerville anni Sessanta (che allude chiaramente a spazi urbani italiani dell’epoca) sono stati ricostruiti in modo pressoché perfetto, così da essere paradossalmente quasi più ‘credibili’ di quelli del precedente Diabolik, girato proprio negli anni Sessanta.

I palazzi del potere, come anche l’albergo di lusso nel quale alloggia Eva Kant, sono tante scatole nelle quali si riproduce l’oscuro e vuoto discorso del potere, dove gli stessi rappresentanti di quel potere  si muovono discutendo di futilità mondane, come nei film dell’ultimo Buñuel. Dopo l’inseguimento iniziale la scena si sposta proprio negli ambienti dell’alta borghesia e della nobiltà di Clerville, in una sontuosa località montana ricostruita a Courmayeur: gli interni sono quelli in cui si ripete inesausta la parola contemporaneamente lugubre e canzonatoria della classe sociale che detiene il potere. Nei discorsi che i principali esponenti di questa classe rivolgono a Eva Kant, appena arrivata col suo prezioso diamante rosa, la figura di Diabolik appare come un personaggio che si situa al di fuori della società, il pericoloso bandito e criminale sovvertitore dell’ordine costituito. Egli è un vero e proprio personaggio “del fuori”, che si situa al di là del potere che cataloga e che divide, che crea le griglie urbane della moralità e della legge. Il criminale mascherato, in quanto simbolo del lato oscuro della società, del lato che sta in ombra, sembra appartenere a quella «esperienza del fuori» messa in luce da Michel Foucault, quando il pensiero «diviene pensiero del limite, della soggettività spezzata, della trasgressione; con Klossowski, e l’esperienza del doppio, dell’esteriorità dei simulacri, della moltiplicazione teatrale e demente dell’io»2. Diabolik è l’alfiere della soggettività spezzata, facitore dell’esteriorità dei simulacri, creatore di inquietanti maschere di gomma che riproducono fedelmente i volti di quegli stessi personaggi del potere, a cominciare dal suo acerrimo nemico, l’ispettore Ginko. Diabolik giunge dal ‘fuori’ di quegli interni borghesi, dediti al potere e ai suoi fasti, trama e agisce nella notte e nell’oscurità, da un limite oscuro difficilmente raggiungibile se non si è trasgressori totali. Egli si muove in quello spazio ‘tunnellizzato’, inscatolato, segnato dalla greve materia architettonica del potere solamente per distruggerlo ed annientarlo. Non è un caso, infatti, che Diabolik riesca a sfuggire all’inseguimento iniziale di Ginko uscendo dallo spazio-tunnel fra i palazzi, imboccando una strada periferica piena di curve. Alla linea geometrica e rigida della strada cittadina, egli oppone la linea ondulata e serpentina della strada periferica aperta, dietro la quale si staglia un panorama notturno e nella quale, letteralmente, ‘sparisce’. Infatti, per rifarsi alle teorie sullo spazio di Bertrand Westphal, si può affermare che «la trasgressione interviene quando si disegna un’alternativa alla linea diritta del tempo, alle figure troppo geometriche dello spazio civilizzato»3.

Diabolik è abitatore del ‘fuori’ anche nel senso che appartiene alla terra, sbuca misteriosamente da cunicoli nel giardino dell’elegante villa che usa come copertura. Con la sua Jaguar nera si insinua in reconditi cunicoli scavati nella roccia, lungo un’anonima strada di periferia, per mezzo di marchingegni che mirano ad inceppare l’onnipresente, lugubre marchingegno del potere. Egli appartiene al sottosuolo, non allo spazio elegante e luminoso della villa che, col falso nome di Walter Dorian, abita insieme alla fidanzata. Il film gioca abilmente anche sul contrasto tra Diabolik mascherato e Diabolik senza maschera, come se l’uno fosse il doppio speculare dell’altro. Se il primo appare soprattutto di notte ed è legato ad ambienti cunicolari e ‘inscatolanti’, il secondo appartiene alla luce del giorno e ad ambienti aperti e luminosi. La figura di Walter Dorian, senza maschera, si staglia sulla grande vetrata della propria villa mentre parla con la fidanzata Elisabeth oppure quando, a Ghenf, prepara il suo piano insieme a Eva, avendo alle spalle una vetrata che si apre sulla libera spazialità del mare. Diabolik mascherato, invece, è l’abitatore della notte e del buio, dei suoi misteriosi rifugi o dei cunicoli sotterranei della città di Ghenf, del caveau blindato della banca la cui rappresentazione spaziale appare sullo schermo sotto forma di ricostruzione grafica.

Ed è alla luce del sole, in uno di quegli interni sfarzosi del potere – il lussuosissimo albergo – che il personaggio subisce il fascino perverso della bellissima Eva Kant, che porta «un nome che è un omaggio al grande filosofo amato da Angela Giussani»4. Il film si ispira infatti, per la maggior parte, all’episodio L’arresto di Diabolik, in cui Eva Kant compare per la prima volta come una donna dal passato misterioso, vedova di un Lord Anthony Kant ucciso da una pantera. Come nel fumetto, anche nel film fra Diabolik e Eva Kant «si stabilisce una storia d’amore basata sulla simmetria totale e sulla condivisione piena di ogni esperienza»5. Essi si configurano come una coppia eroicizzata al negativo e «il loro combattere la legge proviene da una forza arcaica, brutale e animalesca, del tutto antisociale e distruttiva»6. Di fronte alla bellissima Eva, Diabolik non esita a togliersi la maschera del malcapitato cameriere del quale aveva assunto l’identità e che, nell’albergo, avrebbe dovuto servire esclusivamente la ricchissima donna. Nello spazio luminoso della stanza d’albergo il personaggio appare perciò senza maschera e, invece della sua tuta nera, indossa un completo bianco da cameriere.

Gli spazi del potere, nel film, sono quelli del denaro e della politica. Le banche e il ministero sono i luoghi che Diabolik cerca di sabotare per mezzo delle sue potenzialità arcaiche e distruttive, legate al campo semantico della notte. La banca è lo spazio eterotopico perfetto da sabotare, da distruggere, da mandare in tilt secondo precisi calcoli millimetrici. Tutti gli strumenti che la società, guidata da quell’oscuro potere, utilizza per catalogare, separare, discriminare le ricchezze delle classi sociali benestanti devono essere mandati in frantumi. La banca di Ghenf è il vuoto involucro di quel potere, lo spazio-scatola che deve essere scardinato e devastato. Nello stesso modo, devono essere sabotati gli spazi della politica: gli interni del ministero, austeri e monumentali, nascondono un ufficio in cui si accumulano le scartoffie burocratiche di un potere che si tiene in piedi solamente grazie all’inganno e alla corruzione. Ma c’è un altro spazio che deve cadere sotto la distruttiva e notturna vendetta di Diabolik, ed è quello della prigione, del carcere, di una spazialità imprigionante fra le cui oscure mura si eleva la lama del supplizio della ghigliottina. Per combattere le dinamiche imprigionanti del «sorvegliare e punire», il personaggio non utilizzerà la sua versatile abilità fisica ma una forma di catatonia che manderà in tilt la logica del potere. ‘Zombificato’ e quasi ‘mummificato’ in un macabro doppio, Diabolik riuscirà ad evadere dal carcere assestando un duro colpo a quel geometrico e corrotto potere. Le rigide geometrie della prigione e i suoi cunicoli, infatti, assomigliano troppo alla rigidità dei fastosi palazzi della politica e alla cubica perfezione del caveau della banca: prigione, ministero e banca, infatti, non rappresentano altro che le escrescenze materiche di un potere che grava sulla quotidianità dell’immaginaria Clerville ma anche su quella di molti altri luoghi reali.

Dopo spazi imprigionanti e cunicolari, la fine del film sembra offrire nuove aperture: nel simmetrico faccia a faccia fra Ginko e Diabolik (interpretati, rispettivamente, da due bravi Valerio Mastandrea e Luca Marinelli) con lo sfondo ‘aperto’ del golfo notturno e illuminato di Ghenf (ricostruita a Trieste) ma soprattutto nelle sequenze finali sulla barca che vede Diabolik e Eva (interpretata da Miriam Leone) in viaggio verso nuove avventure, avvolti dalla libera spazialità del mare. La luminosità del sole offre di nuovo un Diabolik senza maschera, emerso da un’infernale lotta con un potere meschino e corrotto. Al suo fianco, adesso, c’è Eva Kant e quello spostamento nomadico nella vastità del mare verso nuovi orizzonti probabilmente sta a indicare che la loro lotta trasgressiva e demonica non avrà mai fine.


  1. Cfr. E. Giampaoli, Attenti, c’è Diabolik in via Marconi, su “bologna.repubblica.it”, 8 ottobre 2019. 

  2. M. Foucault, Il pensiero del fuori, trad. it. SE, Milano, 1998, p. 20. 

  3. B. Westphal, Geocritica. Reale Finzione Spazio, trad. it. Armando, Roma, 2009, p. 65. 

  4. M. Fusillo, Eroi dell’amore. Storie di coppie, seduzioni e follie, Il Mulino, Bologna, 2021, p. 44. 

  5. Ibid. 

  6. Ivi, p. 48. 

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