Mirafiori – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Io sono la Comune https://www.carmillaonline.com/2018/06/13/io-sono-la-comune/ Wed, 13 Jun 2018 19:30:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45951 di Sandro Moiso

Marco Rovelli, Il tempo delle ciliegie, elèuthera 2018, pp. 125, € 14,00

In questi tempi di vacche magre e magrissime per un’autentica riflessione politica e, al contrario, di gran spolvero per i vuoti dibattiti mediatico-ideologici su un governo mal nato, si rivela assolutamente liberatorio e necessario il testo di Marco Rovelli sull’esperienza rivoluzionaria di Louise Michel, una delle più ferventi animatrici della Comune parigina del 1871, pubblicato de elèuthera. Testo in cui l’autore, particolarmente attratto dalle vicende e dalle vite di donne misuratesi con l’esperienza rivoluzionaria, mette la sua esperienza di scrittore e intellettuale militante al [...]]]> di Sandro Moiso

Marco Rovelli, Il tempo delle ciliegie, elèuthera 2018, pp. 125, € 14,00

In questi tempi di vacche magre e magrissime per un’autentica riflessione politica e, al contrario, di gran spolvero per i vuoti dibattiti mediatico-ideologici su un governo mal nato, si rivela assolutamente liberatorio e necessario il testo di Marco Rovelli sull’esperienza rivoluzionaria di Louise Michel, una delle più ferventi animatrici della Comune parigina del 1871, pubblicato de elèuthera. Testo in cui l’autore, particolarmente attratto dalle vicende e dalle vite di donne misuratesi con l’esperienza rivoluzionaria, mette la sua esperienza di scrittore e intellettuale militante al servizio di una causa straordinaria.

Straordinaria sia per l’esemplarità della vita e delle lotte dell’anarchica francese, sia per l’esperimento, oggi sottostimato e ricordato quasi sempre in maniera un po’ troppo superficiale e retorica, che , almeno per l’Europa occidentale, rese chiaro ai lavoratori, ai proletari e ai rivoluzionari in lotta contro l’esistente, l’impossibilità della collaborazione in senso nazionale tra classi sociali, quali la borghesia e il proletariato, i cui interessi politici, economici e storici erano (e rimangono) radicalmente divergenti.

Un tema sul quale, in tempi di generici appelli anti-fascisti, anti-berlusconiani e troppo spesso sostanzialmente perbenistici di una sinistra che si rivela cazzara anche quando non è di stretta osservanza renziana, si tende a glissare poiché destinato a portare alla ribalta problemi concreti quali quello dell’azione realmente antagonista e rivoluzionaria contro l’attuale modo di produzione e dell’uso della violenza e della sua organizzazione da parte dei movimenti di resistenza contro le condizioni di vita e di lavoro condizionate dal capitalismo, non solo finanziario.

Un tema che si riflette in ogni lotta attuale: dal Rojava alla Val di Susa, dalla ZAD di Notre Dame des Landes al Salento. Lotte ed esperienze i cui protagonisti non potranno mai dichiarare altro ancora che: Noi siamo la Comune! Così come l’avrebbero potuto urlare gli studenti del Maggio parigino, gli operai di Mirafiori delle grandi lotte a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, gli operai di Berlino Est nel 1953 e i rivoluzionari ungheresi del 1956 insieme a tutti coloro che sono insorti, insorgono e ancora insorgeranno contro lo stato di cose presente e che, finché esisteranno i confini giuridici della proprietà privata dei mezzi di produzione e dello Stato, non avranno mai governi amici.
Come i protagonisti delle vicende narrate nelle pagine, vivaci e attente alla ricostruzione storica, che riportiamo qui di seguito.

“Io sono la Comune. La moltitudine interminata dei senza nome. Il fuoco che sprigiona un tempo nuovo. La festa di ciò che diviene. La felicità di ciascuno e di tutti, di tutti e di ciascuno, l’una condizione dell’altra. Io sono la Comune, il tempo che rinasce e divampa, il tempo che si riproduce per scissione, a due a due come le ciliegie, in una catena infinita e senza centro. Io sono la Comune, e dunque non sono Io, ma la disseminazione dei corpi e delle anime confuse in un grappolo di suoni senza fine, che si eleva al cielo estendendone il limite, perché nostra è la forza, nostro è il coraggio, nostra è la gioia. Io sono la Comune, che non può morire, e danza.

Fu quando Thomas e Lecomte vennero per riprendersi i nostri cannoni che insorgemmo. Era il 18 marzo. Il giorno prima Thiers aveva dato l’ultimatum. I prussiani sono andati via, dunque ridateci i cannoni e obbedite all’ordine costituito. Ma chi credeva ormai ai generali a cui ci si chiedeva di sottometterci? A Parigi non ci credeva più nessuno. E comunque sì, Thiers aveva ragione quando diceva che c’erano dei malintenzionati che col pretesto dei prussiani volevano prendere il controllo della città. Si trattava di cambiare davvero, stavolta salvare la Francia era tutt’uno con il cambiarla. Bisognava farla finita con quella vecchia Francia borghese, che ci aveva esposto alla rovina e che adesso, esaurito l’Impero, pretendeva di riciclarsi in Repubblica.

[…] Le truppe del generale stavano arrivando; avevano occupato la riva destra della Senna e alcuni distaccamenti salivano la collina. Suonarono le campane, i tamburi chiamarono a raccolta: Louise, con un fucile nascosto sotto il cappotto, corse giù dalla collina, gridando «tradimento!». Al comitato di vigilanza si stava già formando una colonna , sotto il comando di Ferré.[…] La folla sciamava verso l’alto, le donne si imposero, erano loro a precedere gli uomini, c’erano anche tanti bambini. I soldati no si aspettavano di vederle arrivare con quella irruenza, con quella decisione, fu una sorpresa, e non reagirono. «Giù le armi!» gridavano le donne. «Siamo donne e bambini!», Louise era in prima fila a gridare ai soldati di non sparare, e intanto faceva mostra di proteggere le donne che si erano gettate a corpo morto sui cannoni. «Sono nostri!».
Il generale Lecomte, allora, ordinò ai suoi soldati di sparare sulla folla che avanzava. Ma i suoi soldati avevano deciso che non erano più suoi. Nessuno sparò.[…] I soldati non più suoi gli si avvicinarono, lo presero in custodia: «Venga con noi generale, adesso tocca a lei obbedirci!».[…] Erano le undici del mattino del 18 marzo 1871. Eravamo raggianti. Louise abbracciava tutti. Il popolo aveva manifestato, e aveva vinto. Era appena l’inizio.
Nel pomeriggio, dopo la decisione del Comitato centrale della Guardia nazionale, occupammo municipi, caserme, palazzi di governo, e cominciammo a costruire barricate. La bella tradizione di Parigi ribelle riprendeva, finalmente, nonostante i boulevard di Haussmann. Thiers e i suoi ministri scapparono come topi, rifugiandosi a Versailles, il luogo degli autocrati e della capitolazione.
Alla sera Lecomte venne fucilato, insieme all’altro generale, Thomas, di cui tutti ricordavano il massacro che aveva compiuto nel giugno del ‘48”.1


  1. pp. 40-43  

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E’ successo un sessantotto! https://www.carmillaonline.com/2018/03/22/successo-un-sessantotto/ Thu, 22 Mar 2018 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44351 di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate [...]]]> di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate all’attuale cinquantenario di un movimento che in realtà iniziò ben prima e da ben altri lidi. Così come ha già ben sottolineato Valerio Evangelisti nei giorni scorsi proprio su Carmilla.

Per questo motivo l’attuale quarta edizione del testo di Guido Viale “Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione”, uscito per la prima volta nel 1978 per le edizioni Mazzotta, potrebbe rivelarsi utile e necessaria, considerato anche il fatto che alla stessa sono state aggiunte una nuova introduzione dell’autore, 64 pagine a colori che riproducono volantini, manifesti, opuscoli e libri dell’epoca oltre al fondamentale manifesto della rivolta studentesca “Contro l’università”, scritto da Viale e pubblicato nel febbraio di quello steso anno sulle pagine del n° 33 dei Quaderni Piacentini. Mentre per gli amanti della grafica e della memoria compare anche la ristampa (estraibile) del manifesto diffuso dal Soccorso Rosso, negli anni successivi, a difesa di Pietro Valpreda e di denuncia delle trame terroristiche di Stato, disegnato da Guido Crepax.

Guido Viale (classe 1943) vive attualmente a Milano e, dopo gli anni di militanza di cui parla nella sua nuova introduzione al testo, ha lavorato come insegnante, traduttore, giornalista, ricercatore e consulente sui temi della gestione dei rifiuti, dell’ambiente, della mobilità urbana e dei migranti.
Come afferma egli stesso nell’introduzione, quello ora ripubblicato dalle Edizioni Interno 4:

“ E’ un lavoro con cui avevo cercato di “fare il punto” sul significato e la portata di quelle lotte ormai trascorse, proprio mentre prendevo congedo da dieci anni di militanza intensa e ininterrotta prima nel movimento degli studenti, poi nell’assemblea operai studenti di Mirafiori e infine nel gruppo Lotta continua. In questo libro cercavo di enucleare i contenuti ancor vivi di ciò che quei dieci anni di militanza ci avevano insegnato: erano stati una specie di “università della strada” da cui chi non vi aveva partecipato non avrebbe mai più potuto attingere gli insegnamenti che noi ne avevamo ricavato. “1

L’intento fin dalla prima edizione era infatti quello di muoversi in direzione contraria rispetto alle due strade intraprese, già a solo dieci anni di distanza, dalle commemorazioni di quell’anno e che sono sostanzialmente quelle che sembrano ancora animare gli intenti del farlocco cinquantennale di cui già si è parlato più sopra.

Da un lato si poneva , e si pone tutt’ora, il carattere formidabile di quegli anni, tutto a teso a rendere mitico l’evento collocandolo in uno spazio altro; rendendolo così non più raggiungibile né, tanto meno, utilizzabile nel contesto politico, sociale e conflittuale venutosi a determinare nei decenni successivi sia come metro di paragone sia come modello, per quanto criticabile e discutibile, di riferimento.

Dall’altro si sottolineava la deriva “terroristica” di quel movimento, finendo con l’appiattire tutte le lotte del decennio seguito al ’68 sulle scelte operate successivamente dalle numerose formazioni politico-militari che avrebbero dato vita alla lotta armata in Italia. Esperienza che, è sempre bene ricordarlo, avrebbe costituito la forma più incandescente del conflitto sociale nell’Europa occidentale e visto arruolato nelle sue file un numero incredibilmente elevato di operai, donne e giovani.

L’attuale cinquantenario, che per giunta incrocia il quarantennale del rapimento Moro messo in atto dalle Brigate rosse nel 1978, sembra rimarcare ancora con forza questo secondo aspetto con affermazioni che lasciano di stucco, soprattutto per la loro superficialità e per l’intrinseco e deviante negazionismo storico sulle responsabilità dello Stato, e dei suoi apparati militari e polizieschi oltre che partitici, nel perseguimento di un’autentica strategia del terrore a partire dall’autunno del 1969 e dalla strage di piazza Fontana in poi.

Basti citare, come esempio di ciò, la recente affermazione dell’attuale premier in stato di animazione sospesa che il 16 marzo di quest’anno ha affermato come l’azione delle Brigate rosse di quarant’anni fa abbia costituito “il più grave attacco alla Repubblica”.2 Un’affermazione che da sé basterebbe mostrare la falsità dell’antifascismo ostentato, per soli fini di convenienza elettorale, dalle forze di governo e della “sinistra” istituzionale prima della recente chiamata alla urne.

Sia il testo che le due interviste all’autore, che lo accompagnano in appendice, esprimono invece

“un modo di contrapporre a quelle opposte visioni il nucleo essenziale di un possibile recupero dello spirito del ’68 in un contesto storico e sociale completamente cambiato<. In tutti i sensi, un’altra epoca”.3

Ciò che costituì invece, secondo Guido Viale, l’essenza del ’68, fu una sorta di globalizzazione delle lotte a livello internazionale e dal “basso” che ebbe inizio a partire, sempre nel giudizio dell’autore, da un carattere unificante a livello mondiale:

“la lotta contro tutte le gerarchie, dentro tutte le istituzioni che le consolidano e le legittimano: famiglia, Università, scuola, fabbrica, pubblica amministrazione, ospedali (compresi, importantissimi allora, quelli psichiatrici), tribunali, carcere, forze armate, quartieri e strutture urbanistiche”4

La riflessione ebbe inizio a partire da quelli che sarebbero poi stati i due poli trainanti dello scontro su scala globale: la fabbrica e la scuola. Qui in Italia fin dai primi mesi, ma forse già anche prima, di quell’anno venivano al pettina alcuni nodi fondamentali di quel boom economico di cui tanto si parlava ma che aveva al suo centro una forte migrazione interna, salari e tempi di lavoro vergognosi e una riforma della scuola media che dal 1963 sembrava aver aperto le porte dell’ascensore per l’emancipazione sociale anche per le classi meno abbienti. Sembrava, appunto, poiché fin dalle prime occupazioni di palazzi universitari e scuole la riflessione degli studenti in rivolta poteva:

“constatare come scuola e istruzione non offrissero né garantissero più alcun riscatto, alcune vera emancipazione, alcune prospettiva di una vita più libera e soddisfacente; facendo così crollare sotto di sé tutte le altre gerarchie: dalla fabbrica alla pubblica amministrazione e a tutto ciò cui i saperi impartiti all’Università avrebbero dovuto fornire una legittimazione.”5

Ma anche se Viale fu tra i protagonisti dell’occupazione di Palazzo Campana a Torino, che dal 27 novembre 1967 avrebbe contribuito ad infiammare gli altri atenei italiani e anticipato il maggio francese, sono la fabbrica e la trasformazione dei rapporti sociali, politici, lavorativi e di potere tra operai ed operai, tra lavoratori e sindacati, tra militanti politici e partiti e tra dipendenti ed aziende a costituire il “core” dl libro e sostanzialmente degli avvenimenti del decennio che seguì al ’68.

Nelle inchieste che i giovani universitari e gli studenti iniziavano a far circolare tra i lavoratori delle aziende torinesi ciò che risaltava maggiormente era l’odio per il lavoro. Si parlava di «lavoro forzato; fa schifo; abbondante e poco retribuito; siamo carcerati come un innocente in carcere; [la Fiat] un campo di concentramento per anime bisognose; che il lavoro nobilita l’uomo, ma la Fiat lo fa schiavo; se penso al mio lavoro non lavoro più» e così via6

E’ l’inizio dell’autonomia operaia destinata a travolgere organizzazione del lavoro, rapporti sindacali, partiti istituzionali e gerarchie aziendali. Viale cita dai verbali di assemblee operaie di Mirafiori, all’epoca pubblicati dalla Monthly Review nel 1969):

“Io credo – è la relazione introduttiva di un operaio di Mirafiori –che al di là dell’importanza oggettiva che le lotte autonome hanno nei confronti della produzione, che sono riuscite a bloccare, il vero successo di queste lotte sta nel fatto che oggi gli operai della Fiat sono molto aperti a confrontare le loro idee, a discutere; nel fatto che qui oggi si possa discutere di tutti i problemi che ci riguardano […] Questi sono i nostri passi avanti decisivi; l’aver portato la lotta all’interno della fabbrica. Ognuno di noi sa che la fabbrica è il posto dove tutti i giorni siamo uniti, ma solo per produrre ed essere sfruttati. I ritmi di lavoro, le condizioni generali di lavoro, i ricatti della polizia padronale ci impediscono spesso addirittura di parlarci […] Ma se per il padrone la fabbrica deve funzionare così, per gli operai diventa, al contrario, il luogo dove costruiscono la loro unità non per produrre ma per lottare, per discutere insieme , per organizzarsi. La Fiat, che non è solo la più grande fabbrica italiana , ma anche il più schifoso campo di concentramento, in questi giorni è trasformata dalle fermate, dai cortei, dalle assemblee, dalla forza degli operai che hanno mandato al diavolo la divisione e la paura […] Siamo noi ora a decidere non solo della forma della lotta, ma anche dei suoi obiettivi, del modo di guidarla, di organizzarla, di estenderla. E questa è la cosa che fa paura ai sindacati e ai padroni […] La produttività è un problema dei padroni; il salario è un problema degli operai […] Nessun operaio si illude più. Il sindacalista vantava la Fiom gloriosa del ’48, ma oggi siamo nel ’69. Sono passati ventuno anni, l’operaio è maggiorenne e non ha più bisogno dei sindacati”.7

Il discorso potrebbe continuare a lungo e il testo fornisce elementi ed argomenti in abbondanza, ma prima di chiudere questa breve sintesi occorre ricordare un altro importante elemento di crescita politica e culturale che il ’68 portò con sé e che continua ancora ai nostri giorni a cozzare con le interpretazioni dei fatti di quegli anni e, ancora di oggi come abbiamo potuto vedere prima: la nascita della controinformazione.

L’autore sottolinea così il ruolo che essa ha avuto fin dagli esordi, promossa e sviluppata dalle organizzazioni di quella che sarebbe poi stata definita sinistra rivoluzionaria:

“proprio partire dalla denuncia della matrice statuale e fascista e delle finalità eversive della strage di Piazza Fontana e dell’assassinio di Pino Pinelli. A distanza di anni, quella denuncia inizialmente isolata e snobbata si è dimostrata esatta, sia storicamente che fattualmente; ma ritengo anche che abbia avuto un ruolo decisivo nello sventare il disegno sotteso alla strategia della tensione. Se per molti anni […] gli istituti basilari della democrazia parlamentare sono stati in qualche modo salvaguardati è grazie all’impegno straordinario in questo campo dei militanti «rivoluzionari» di allora; e non certo per merito della magistratura e meno che mai delle cosiddette forze dell’ordine; né grazie all’atteggiamento compiacente, quando non complie, della maggior parte delle forze politiche che sedevano – e siedono ancor oggi, mutate le vesti – in Parlamento”.8

Come si vede, dunque, un’ottima ed incisiva lettura per iniziare seriamente le celebrazioni del cinquantennio senza sommergere la memoria nel ridicolo, nello spettacolo e nella retorica. Anzi…


  1. Viale, il 68, pag. 7  

  2. Si veda repubblica.it del 16 marzo 2018  

  3. Viale, op.cit. pag. 8  

  4. Viale pag. 9  

  5. Viale, pag. 9  

  6. Viale, pag. 198  

  7. Viale, pp. 202 – 205  

  8. pag. 10  

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Una selvaggia e incontenibile voglia di libertà https://www.carmillaonline.com/2017/04/27/selvaggia-incontenibile-voglia-liberta/ Wed, 26 Apr 2017 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37879 di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere [...]]]> di Sandro Moiso

unafame Silvio Borione – Giaka, Una fame instancabile. Partigiani a Torino, Red Star Press 2017, pp. 204, € 14,00

Nonostante la straordinaria lezione di Gianni Bosio e Danilo Montaldi e l’opera di Cesare Bermani, si può dire che la storia orale non ha mai avuto molto successo nella storiografia italiana. Né in quella passata né in quella presente, compresa quella che dovrebbe bazzicare gli ambienti antagonisti. Sarà forse per questo motivo che diversi ricercatori attenti all’evolversi dei movimenti sociali, nel corso degli ultimi anni, hanno preferito rivolgersi agli strumenti dell’antropologia.

Negare la storia orale significa, sostanzialmente, togliere la parola agli ultimi e negare, troppo spesso e nei fatti, il diritto alle classi oppresse di ricostruire la loro storia oppure la Storia tout court.
Negare la lingua con cui gli oppressi si esprimono, negare la visione dal basso della storia grande e piccola per consegnare la ricostruzione del passato agli specialisti e agli accademici significa, ancora, lasciare che siano i vincitori, oppure i promotori di accordi fortemente marcati dalla rinuncia alla difesa degli interessi della maggioranza della società a definire ex-post quale sia e quale debba essere l’unica verità storica accettabile.

Che questo conduca poi all’apprezzamento di specialisti farlocchi, come sta avvenendo in questo quarantesimo anniversario del Movimento del ’77, oppure alla ritrattazione e revisione continua della memoria storica, come avviene in occasione di ogni 25 aprile, non costituisce altro che un corollario del precedente assunto. Poiché, semplificando al massimo, è soltanto la memoria dal basso che può vegliare sulla Memoria. Naturalmente, facendo sì che anche gli ultimi e più autentici testimoni degli eventi, delle rivolte e delle lotte giungano al termine del loro percorso biologico senza avere potuto lasciare una propria testimonianza diretta, anche quella apparentemente più condivisa potrà in seguito essere manipolata dagli storici e dagli ideologi irreggimentati nei diversi tipi di Presente.

Se vogliamo, lo stesso destino è stato riservato alle memorie dirette di coloro che hanno cercato, e magari cercano tutt’ora di testimoniare, lo svolgersi degli eventi e le cause delle scelte degli attori coinvolti. Tipico ne sia, per tutti, il ritardo con cui un testo di rilevanza assoluta, rispetto al dramma dei campi di lavoro, prigionia e sterminio tedeschi, come “Se questo è un uomo” di Primo Levi sia stato accolto con un ritardo incredibile nella cultura, nella vita politica e dalla “grande” editoria italiana. Ma di Levi si tornerà a parlare in chiusura di questa recensione.

E’ rimasta così la via della memoria romanzata oppure della storia romanzata che, anche là dove si è espressa come nuova epica italiana, ha continuato e continua a promuovere una sottomissione della memoria di classe alle esigenze della Storiografia ovvero della Politica. Ci si arrende infatti, anche involontariamente, al fatto che, non potendo ormai contrastare il peso dei documenti ufficiali scritti (anche le interpretazioni dei partiti e dei loro leader e rappresentanti fanno parte di questi, soprattutto qui in Italia e negli ambienti delle sinistre, tradizionali e non), occorra adottare espedienti destinati a ricostruire il passato attraverso varie e differenti forme di complotto oppure per mezzo di colpi di scena attraverso i quali, troppo spesso, la testimonianza autentica rischia di affogare tra le esigenze dell’intreccio.1

Il testo di Silvio Borione, classe 1930 e testimone giovanissimo della lotta antifascista torinese, e di Giaka, militante del CSOA Gabrio di Torino e autore del romanzo Le orme del lupo (pubblicato da Agenzia X nel 2014),2 sfugge a queste trappole e ci dona una lettura appassionante e, per gran parte, autentica di eventi che, nonostante gli sforzi messi continuamente in campo per rimuoverli o ridimensionarli, occorre ancora conoscere e approfondire di più.

Sicuramente la narrazione e le memorie del vecchio Biund hanno costituito per Giaka, così come per i giovani compagni che continuano a frequentarlo su quelle colline su cui si è ritirato da tempo, un autentico motore di ricerca e sviluppo, sia per la ricostruzione della Resistenza operaia torinese, con tutti i suoi eroismi e i suoi errori, sia per la comprensione di una realtà storico-politica molto più complessa e violenta di quella trasmessa dalla vulgata dominante.

Non nascondo di aver letto il libro in un sol giorno, 170 pagine dall’alba al tramonto, e di aver tratto dalle sue pagine momenti di commozione, di rabbia e di riflessione.
Proprio per questo vorrei qui sottolineare i principali punti di forza del testo e lasciare alla fine i suoi pochi punti discutibili e sicuramente non dovuti ai due co-autori .

Il primo elemento di forza è quello di spogliare la lotta antifascista condotta dal basso dal prevalere di quegli elementi morali ed ideologici che, pur avendo probabilmente contraddistinto le scelte degli intellettuali e dei militanti dei vari partiti antifascisti, predominano nella ricostruzione della lotta partigiana. Che invece fu condotta a partire spesso dalle esigenze quotidiane (la fame così spesso ricordata e centrale nello sviluppo delle vicende narrate e sottolineata benissimo dal titolo stesso), di classe (la lotta per il mantenimento dei miglioramenti salariali, promessi e mai realizzati dal regime e dagli imprenditori, che costituì il motore decisivo per gli scioperi della primavera del 1943) e da quello spirito delinquenziale e di ribellione giovanile che manifestava quella selvaggia ed incontenibile voglia di libertà citata nel testo3 e nel titolo di questa recensione.

Il secondo è costituito dal rivelare fino in fondo la brutalità dell’azione repressiva dello Stato. Sia nella sua versione repubblichina, fascista e nazista, sia in quella dell’interregno trascorso tra la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) e l’Armistizio firmato dal Re e dal maresciallo Badoglio (8 settembre 1943). “Intorno al fuoco la sera si parlava solo più della caduta del fascismo e degli scioperi, le voci si rincorrevano ed era difficile fare un bilancio.La Spezia, Sesto Fiorentino, Firenze: morti e feriti. Milano, Torino: ancora morti e feriti. Bari: 23 morti e 60 feriti. Al carcere San Vittore di Milano sulla folla che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici l’esercito di Badoglio sparava con i carri armati, uccideva, feriva e fucilava quattro manifestanti sul posto; al carcere Regina Coeli di Roma sedava una rivolta con un massacro e lo stesso faceva a Reggio Emilia, in un elenco che non sembrava finire mai. L’intero paese si stava sollevando e il governo Badoglio aveva deciso di affogare le proteste nel sangue, con il tempo e grazie alla stampa clandestina le notizie si facevano chiare e ai primi di settembre la realtà era sulla bocca di tutti: il nuovo governo, nel giro di cinque giorni, aveva ucciso 93 operai, ne aveva feriti 536 e arrestati 22764

Il terzo è dato dal descrivere una realtà organizzativa che, nei quartieri operai di una Torino impoverita, bombardata e passata dai seicentomila abitanti di prima della guerra ai duecentomila dell’ultimo anno, nasce. ancora prima che dalle direttive organizzative di partito, da un senso di solidarietà e di appartenenza in cui la comunità operaia accoglie anche chi operaio e lavoratore non è e, magari, non è neanche piemontese, ma è solamente, come tutti, vittima di un regime politico ed economico capace soltanto di sfruttare e reprimere un’umanità intesa quasi solo come forza lavoro. Fatto sottolineato particolarmente nelle pagine dedicate ai maltrattamenti e alle condizioni di lavoro all’interno del carcere giovanile Ferrante Aporti, in cui le condizioni non erano poi così distanti da quelle dei lager.

Un’umanità in cui le discriminazioni di genere non esistono e in cui le donne sono sempre in prima fila nelle lotte e nel soccorso ai combattenti o alle vittime della repressione. Spesso contro le stesse direttive del PCI.5

silvio-borione-con il padre Il quarto è quello di essere capace di descrivere e ricordare un’epoca di lotte e scelte in cui l’interazione tra le differenti generazioni, di cui il rapporto tra Silvio e il padre Eugenio6 è altamente sintomatico e rappresentativo, non solo era motivo di presa di coscienza e di crescita politica, ma anche di reciproco rispetto. All’interno della quale le piole, le caratteristiche vinerie torinesi (prima dell’avvento dei wine bar e dei locali da aperitivi, rimasero un elemento centrale di scambio e di incontro fino agli anni settanta.

Poi c’è la descrizione di Torino, città operaia per eccellenza, con i suoi borghi e le sua barriere (San Paolo, Nizza, Milano, Barca e tutti gli altri) così inseparabili dalla storia delle sue lotte e della sua netta formazione antagonista nei confronti delle classi al potere. Una città che con la sua fabbrica diffusa e la presenza enorme di lavoratori dell’industria ha creato condizioni di resistenza, riflessione e crescita politica assolutamente impensabili in altre città italiane nel corso dei primi settant’anni del Novecento.

Lotte che partono dalle fabbriche e dai quartieri operai che i partiti e i movimenti organizzati dovevano sapere interpretare prima ancora che dirigere e che avrebbero formato una classe di intellettuali, poco appariscenti ma decisi, che vanno da Antonio Gramsci, con le sue prime riflessioni sulla città-fabbrica, a Bianca Guidetti Serra e Franco Antonicelli. Tutti diversi tra loro, ma egualmente e strenuamente impegnati in prima linea nella lotta contro il fascismo.

La forza delle memorie di Silvio sta, infine, anche nella sua capacità di ricordare la partecipazione alla Resistenza anche delle formazioni spesso eluse dalla storiografia piccista; ad esempio quella filo-bordighista, o presunta tale, di Stella Rossa, che aveva spinto con le sue audaci azioni per un’insurrezione prettamente proletaria della città già nel febbraio del ’45, oppure quelle anarchiche. O nel sottolineare l’amarezza con cui gli operai e i militanti che avevano difeso a rischio delle loro vite e con scarsi mezzi e ancor meno armi gli stabilimenti FIAT di Mirafiori dai tentativi di saccheggio tedeschi, videro sfilare migliaia di sappisti ben armati in piazza Vittorio nelle giornate successive alla Liberazione (avvenuta a Torino con un giorno di ritardo rispetto ad altre città italiane).

Oppure nel ricordare ancora che la vendetta non è un gioco e che la violenza non si può mai usare a cuor leggero e senza provare un senso di nausea per il sangue versato, anche dal nemico più odiato. Così come capita a Silvio nell’assistere all’eliminazione dei collaboratori e degli ultimi, invasati sostenitori del regime che giravano per la città cercando di colpire alle spalle chiunque capitasse loro a tiro. Un triste, orrendo rituale di sangue in cui la sete di vendetta non poteva bastare a sopportarne le conseguenze fisiche e psicologiche.

Le uniche note non del tutto positive, riguardano il fatto che, forse, avrebbe dovuto essere maggiormente rispettata e riprodotta la lingua del narratore. Anche se qui e là il dialetto piemontese e la parlata torinese sono presenti con alcune frasi idiomatiche e modi di dire molto diffusi, la lingua del testimone, lasciato libero di esprimersi, avrebbe arricchito ancora di più il lavoro di ricostruzione della memoria di classe portato avanti dai due autori. Così come ha saputo fare benissimo Luca Baiada nel ricostruire le memorie della strage del padule del Fucecchio del 1944.7

Ma, in questo caso, credo che la scelta sia stata prettamente editoriale, così come quella di voler inserire nel testo discorsi e comunicati, oltre che informazioni, che se da un lato servono a storicizzarlo ed inquadrarlo nel periodo storico-politico in cui si svolgono i fatti, dall’altro rischiano di renderlo talvolta retorico ed eccessivamente dipendente dalla vulgata del Partito Comunista. Ma, queste ultime, sono osservazioni realmente marginali e vengono qui inserite proprio nella speranza che un editore attento come Red Star Press in futuro abbia più coraggio nel liberare la memoria di classe dai vincoli della riconoscibilità accademica o partitica.

Per Primo Levi e i partigiani ebrei caduti nella lotta di Liberazione
Nelle ultime pagine del testo, nella Postfazione, alcuni compagni e compagne del CSOA Gabrio ricordano le parole di Primo Levi quando sottolineava come la partecipazione alla lotta di Liberazione derivasse anche da “Un muto bisogno di decenza”. Ecco, a questo bisogno di decenza vorrei richiamare tutti coloro che, da Paolo Mieli al PD passando per quasi tutti i media nazionali e l’Associazione Amici di Isrele, in occasione del 25 aprile hanno sentito il bisogno di sbandierare per l’ennesima volta l’apporto della Brigata Ebraica alla lotta di liberazione italiana.
Dimenticano, i signori, alcune fondamentali verità che cercherò qui di riassumere brevemente.

Nell’anteporre, infatti, la “memoria” della Brigata Ebraica alle altre vicende della Resistenza italiana non solo si compie un’opera mistificatoria, superata per volontà di rimozione storica e superficialità soltanto dai militanti del PD sfilati con le bandiere e le magliette azzurre dell’Unione Europea in occasione del 25 aprile, ma si offende anche la memoria dei numerosissimi (circa 2000) ebrei “che parteciparono attivamente alla Resistenza (1000 inquadrati come partigiani e 1000 in veste di “patrioti”), con la massima concentrazione (circa 700) in Piemonte. La percentuale, pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana, è di gran lunga superiore a quella degli italiani nel loro complesso. Circa 100 ebrei caddero in combattimento o, arrestati, furono uccisi nella penisola o in deportazione; otto furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria (Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Eugenio Calò, Mario Jacchia, Rita Rosani, Sergio Forti, Ildebrando Vivanti, Sergio Kasman). Tra gli esponenti ebrei di maggior rilievo della Resistenza si annoverano: Enzo Sereni, Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto Terracini, Leo Valiani, Pino Levi Cavaglione, Liana Millu e Elio Toaff. Fra i caduti, vanno ricordati il bolognese Franco Cesana, il più giovane partigiano d’Italia, i torinesi Emanuele Artom e Ferruccio Valobra, i triestini Eugenio Curiel e Rita Rosani, il milanese Eugenio Colorni, il toscano Eugenio Calò, gli emiliani Mario Finzi e Mario Jacchia, e l’intellettuale Leone Ginzburg.8

Tutti parteciparono alla Resistenza oppure caddero combattendo nelle diverse formazioni partigiane, dalle Brigate Garibaldi a Giustizia e Libertà, escluse forse le formazioni cattoliche.
Anteporre ancora a questo semplice fatto l’”importanza” della Brigata Ebraica (costituita in Palestina il 20 settembre 1944 sotto il comando britannico e inviata a combattere sul fronte italiano e austriaco dopo lo sbarco degli Alleati) dimentica che questa operò sotto il comando di uno degli schieramenti imperialisti in campo e senza alcuna autonomia operativa o di scelta politica (a meno che non si parli di scelta politica a proposito dell’idea sionista, già esposta dal fondatore del movimento Theodor Herzl, di voler rappresentare la diga a difesa dei “valori” occidentali in Medio Oriente)

La Brigata venne inviata nel novembre 1944 sul fronte italiano. Sbarcata a Taranto, entrò in linea dal 3 marzo 1945 […] La Brigata combatté con le proprie insegne a fianco di unità italiane e polacche. Prese parte ai combattimenti di Alfonsine (19 e 20 marzo 1945), poi venne trasferita più a sud di fronte a Cuffiano (sulle prime pendici dell’Appennino). Il 27 marzo combatté al fianco del Gruppo di Combattimento “Friuli” contro la IV Divisione Paracadutisti del Reich. Il 9 e 10 aprile 1945 partecipò alla Battaglia dei tre fiumi assieme alle forze alleate, con le quali fu protagonista dello sfondamento della Linea Gotica. Nel corso del ciclo operativo in Italia tra il 3 marzo ed il 25 aprile 1945 la Brigata Ebraica ebbe 30 morti e 70 feriti 9

Il peso del suo contributo fu pari, ma inferiore per numero di caduti e feriti, a quello di tutti gli altri contingenti militari presenti sul suolo italiano in chiave anti-tedesca durante la cosiddetta campagna d’Italia ovvero senegalesi, marocchini, francesi, polacchi, inglesi, americani e via dicendo e non è possibile oggi elevarla al di sopra né degli altri militari caduti né ancor meno al di sopra degli ebrei e dei partigiani caduti nel corso della Resistenza armata al fascismo e all’imperialismo tedesco. Tutti anti-fascisti, comunisti, socialisti e azionisti ancor prima che ebrei.

Guidetti Serra Levi Cortina40 Lo spirito che animò quei combattenti lo riassunse bene Primo Levi10 nella sua Prefazione del 1972 a “Se questo è un uomo”, dedicata ai giovani: “E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro. No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono quasi in ogni paese, carceri. Istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in alcuni altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo”.

Spirito che appartiene a Silvio Borione sicuramente, ma non a coloro che della Brigata Ebraica, del sionismo imperialista e della vergognosa occupazione dei territori palestinesi hanno fatto la loro bandiera.


  1. E’ infatti difficile, se non impossibile, trovare nelle recente letteratura italiana la rigorosità e la fedeltà nella ricostruzione sia degli eventi storico-politici e delle lotte che della mentalità di classe che li ha accompagnati espresse da Valerio Evangelisti nella sua trilogia Il sole dell’avvenire oppure da Wu Ming 1 nel suo Un viaggio che non promettiamo breve  

  2. Dal quale mi aspetto ancora, come ebbe a promettermi durante la manifestazione Una montagna di libri contro il TAV tenutasi a Bussoleno nel 2014, una narrazione adeguata delle vicende torinesi di quell’anno e del rapporto istituitosi a Torino tra i giovani delle periferie, che avevano animato sia le proteste locali dei forconi che l’assedio dei mercati generali in occasione dello sciopero dei facchini, e i centri sociali  

  3. pag. 20  

  4. pp. 73-74  

  5. Come ben ricordato in Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, prefazione di Anna Bravo, Bollati Boringhieri 2016  

  6. Ripresi insieme nel 1939 nella fotografia qui pubblicata 

  7. Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016  

  8. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Resistenza_ebraica  

  9. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Brigata_Ebraica  

  10. Nella fotografia qui accanto sono visibili Bianca Guidetti Serra, a sinistra, e Primo Levi, al centro, nel 1940  

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Senza chiedere permesso https://www.carmillaonline.com/2015/02/19/senza-chiedere-permesso/ Thu, 19 Feb 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20768 di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, [...]]]> di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, si occupa di produzione e post-produzione cinematografica (in pellicola e video) su un terreno di impegno militante in quel di Torino. Mentre Piero Perotti, oggi ufficialmente pensionato, è una delle memorie storiche della classe operaia piemontese e delle azioni sindacali e sociali, messe in atto per migliorarne le condizioni di lavoro e di esistenza e per contrastare le “bronzee leggi” del capitale, fin dagli anni sessanta.

Insieme e nel corso di diversi anni hanno raccolto una serie di materiali straordinari sulla lotta di classe a Mirafiori, fuori e dentro la fabbrica, tra il luglio del ’69 e l’autunno del 1980.
Molte immagini, collezionate all’interno del film, provengono dalla cinematografia militante di quegli anni, ma ciò che costituisce il cuore di questo documento audiovisivo è dato dalle immagini “rubate” dallo stesso Perotti alle manifestazioni operaie e ai cancelli dello stabilimento Fiat con la piccola cinepresa portatile che aveva deciso di procurarsi proprio a tale fine.

In un’età di tablet, smart-phone, telecamere portatili o miniaturizzate in qualsiasi cellulare e di selfie, ci si dimentica troppo facilmente quanto fosse difficile, qualche decennio addietro, documentare gli eventi. Anche quelli che, a differenza di quelli fin troppo documentati di oggi, erano destinati a cambiare il rapporto tra le classi a favore dei diseredati.

Tra il 1969 e gli anni settanta, la classe operaia di uno dei più grandi stabilimenti automobilistici del mondo cambiò le regole del gioco. Le immagini del film ce ne trasmettono tutta la potenza, la creatività, anche la violenza spesso sufficientemente espressa, quest’ultima, più in potenza che in atto. Fu, in quegli anni, la classe operaia torinese l’epicentro di uno scontro globale che fece tremare le fondamenta dell’edificio costruito sulla base dello sfruttamento di classe.

Per questo, più tardi nel 1980, avrebbe dovuto pagare un prezzo altissimo. Avrebbe dovuto essere spogliata della sua capacità di resistenza, organizzazione ed iniziativa, politica e sindacale, per essere restituita, nuda, alle sue condizioni iniziali di sottomissione e dipendenza dall’iniziativa avversaria.

Il film documenta benissimo, in maniera spesso commovente, soprattutto per chi ha vissuto quegli anni alle porte della FIAT, tutto ciò. La formazione di una coscienza, lo sviluppo delle lotte e della solidarietà di classe, la capacità di reagire uniti su richieste egualitarie ed unificanti e quella di reagire alle provocazioni messe in atto dall’azienda, dai crumiri, dai fascisti e dalla polizia. Una forza immensa era entrata nell’arena della Storia; sì, proprio quella con la S maiuscola.

Donne e uomini, immigrati meridionali e lavoratori piemontesi lottavano uniti, creavano uniti un nuovo modo di fare politica ed attività sindacale, marciavano uniti per le strade prima del quartiere, poi della città. Una città dormitorio che si risvegliava a se stessa, riscoprendo l’orgoglio della classe operaia del primo novecento, del Biennio Rosso, degli scioperi spontanei del ’43 e della lotta antifascista. La storia di quella Torino, operaia e socialista, che aveva contribuito alla formazione del pensiero di Gramsci e della nascita, insieme a Napoli, del Partito Comunista d’Italia.

Tutto questo, forse, molti di quegli operai l’avrebbero imparato dopo, eppure ripresero il cammino proprio là dove era stato interrotto dalle repressione antisindacale ed antioperaia, ancor prima che anticomunista, degli anni cinquanta. E che aveva visto un primo, selvaggio risveglio, fuori da qualsiasi direttiva partitica o sindacale, proprio nei fatti di Piazza Statuto del luglio 1962.

Molti di loro erano in fabbrica da anni, molti, forse i più, erano entrati alla Fiat in seguito alla recente emigrazione dal Sud o al rientro dalle fabbriche tedesche. Simili a una moderna creatura di un capitalismo novello dottor Frankenstein, avevano imparato ad odiare il proprio creatore e a combatterlo. Ovunque, dentro e fuori gli stabilimenti.

I cortei interni, le perquisizioni dei guardiani alle porte, i volantinaggi, i fuochi dei picchetti, gli studenti con i giornaletti dell’estrema sinistra, il blocco della produzione, gli scioperi spontanei: tutto è documentato con un ritmo serrato, accompagnato dalla narrazione personale e vivace di Pietro Perotti. Così che, ancora una volta, la memoria personale si mescola con la memoria di classe, rifondandola. Come quasi sempre accade.

Non nei testi accademici, non nelle tesi di Partito, non nelle logiche politiche e nelle strategie sindacali, ma nella voce narrante, ancor più che in qualsiasi forma scritta, noi ritroviamo la memoria e la Storia delle classi subalterne. Subalterne soprattutto sul piano della comunicazione. Soprattutto là dove la comunicazione è scritta, dove la sintassi è ancora un’arma del padrone e, ancor più, lo è lo strumento televisivo, o radiofonico come ai tempi del Duce.

Per questo il gesto di Pietro, comperare ed imparare ad usare una piccola cinepresa, diventa così grande ed importante. Non solo per noi che, ora, possiamo usufruire di quelle straordinarie immagini, ma anche per l’epoca. Un’altra barriera veniva abbattuta, appunto senza chiedere permesso, precedendo di poco la nascita delle radio libere. La lotta operaia, ancora una volta, inventava una nuova cultura e nuova comunicazione. Di cui Pietro si fece portatore anche negli anni successivi all’abbandono della fabbrica, attraverso i suoi manifesti e i suoi mascheroni che accompagnano ancora tante manifestazioni.

marx alle porteSuo era il grande ritratto di Marx che, appeso alle porte della palazzina di Mirafiori, avrebbe assistito, ammutolito e attonito, all’ultima battaglia degli operai della città-fabbrica. La più amara.
Quella in cui si consumarono, durante i 37 giorni dell’autunno del 1980, tutti i tradimenti sindacali e politici possibili. Quella con cui l’intera classe dirigente italiana , a partire dalla famiglia Agnelli fino al PCI di Berlinguer, aveva deciso di restaurare l’ordine e il comando sulla forza lavoro. Con un costo altissimo per tutta la classe operaia italiana.

E, sotto questo punto di vista, le immagini parlano e dicono più di ogni commento. Negli anni precedenti i lavoratori di Mirafiori avevano occupato il territorio. Erano diventati punto di riferimento per gli operai di tutto l’indotto Fiat e per quelli degli altri settori produttivi. Per gli studenti, gli operai, per i soldati inquadrati nei Proletari in divisa, per ogni settore della società. Avevano guardato fuori, al mondo e lo avevano fatto proprio.

Nei 37 giorni, tra il 10 settembre e il 16 ottobre 1980, gli operai che sono fuori dalle officine guardano verso l’interno della fabbrica. Un rovesciamento di prospettiva che prelude soltanto alla sconfitta. I grandi viali sono alle loro spalle e sono esclusi dalle officine. Guardano il balletto degli oratori, con capofila Berlinguer e i leader sindacali, che altro non fanno che illuderli e deviarli verso la resa. Che avverrà con una votazione truffa dopo la marcia dei quarantamila. Truffaldina anche quella, nei numeri e nei partecipanti.

I capi sono stati affluire da tutta Italia. In realtà non sono più di 10 – 12.000 (questa anche la prima cifra ufficiale della prefettura). Il corteo ha un carattere decisamente reazionario e antioperaio […] Nel pomeriggio,incontro Fiat -sindacati. Alle 22,30 la segreteria GGIL- CISL – UIL e la FLM vanno <<all’accertamento dell’ipotesi conclusiva>>. Tre ore di corteo di 12.000 capi sembrano valere di più per Lama, Carniti e Benvenuto, di 35 giorni di lotta di 100.000 operai e di milioni di lavoratori scesi in piazza al loro fianco in tutta Italia […] All’alba (giorno successivo) l’apparato del PCI è mobilitato ai cancelli per convincere i suoi militanti che bisogna accettarla1

La marcia dei 40.000, che nel 1980 segnò i destini della lotta dei 35 giorni alla Fiat si sarebbe potuta fermare, non farla neanche partire”. E’ quello che sostiene Pietro Perotti nel film. E probabilmente ha ragione, ma sarebbe occorso che gli operai della fabbrica più grande d’Italia tornassero a fare quello che avevano fatto nel decennio precedente, ogni volta che si era presentata l’occasione: occupare le strade e la città.

Ma in quel momento, una volta allontanati dalle officine, con gli arresti o i licenziamenti, tutti coloro che avevano guidato le lotte, i reparti non reagirono più allo stesso modo. La stanchezza e la sfiducia presero il posto del coraggio, della sfida e della lotta. Con una sapiente regia del sindacato e del Partito comunista. Soprattutto della federazione torinese del Partito che annoverava tristi figuri del calibro di Piero Fassino e di Giuliano Ferrara.

Le conseguenze si fanno sentire ancora adesso a Melfi, in quel che rimane degli stabilimenti torinesi, nel job act e nella spocchia di Marchionne e di Renzi. Quello fu un appuntamento storico e tutti i carnefici di adesso possono rallegrarsi ancora di quella sconfitta.
A noi rimangono la memoria di momenti gloriosi e di volti magnifici. Sconosciuti e conosciuti che, per chi ha avuto la fortuna di vivere quegli anni e quelle lotte, non possono non far spuntare lacrime di nostalgia, di tenerezza e di rabbia. Che ci accompagneranno sempre.

Il film, però, come si diceva all’inizio, per essere completato ha bisogno anche del vostro aiuto. Parzialmente finanziato dalla Fiom-CGIL, grazie alla disponibilità dimostrata all’epoca della sua ideazione da Giorgio Airaudo, ha oggi bisogno del soccorso di contributi in crowd funding.
Per questo gli autori vi chiedono di sottoscrivere la loro raccolta fondi inviando un bonifico all’Iban qua sotto, specificando nella causale:
SENZACHIEDEREPERMESSO, con il vostro nome e indirizzo mail
intestato a:
Cinefonie.
Banco Desio
IT28V0344001000000000490500

In ricordo di Rocco Papandrea, Raffaello Renzacci, dei militanti operai di Lotta Continua e di tutti gli altri 70.000 che fecero tremare il mondo per il solo fatto di esistere e lottare, coscienti e auto-organizzati.


  1. Con Marx alle porte. I 37 giorni alla FIAT, Nuove Edizioni Internazionali, Milano novembre 1980, pp. 41-42  

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