Minority Report – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 21 Jan 2025 21:20:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guerrevisioni. Corpi, droni e kamikaze nelle guerre contemporanee https://www.carmillaonline.com/2018/09/23/guerrevisioni-corpi-droni-e-kamikaze-nelle-guerre-contemporanee/ Sat, 22 Sep 2018 22:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48021 di Gioacchino Toni

«il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo [come testimonia il riemergere] di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca» (Barbara Grespi)

«l’operatore del drone è un’immagine specchio di quella del suicide bomber» (Hugh Gusterson)

«i kamikaze sono gli uomini della morte certa, i piloti di droni sono gli uomini della morte impossibile» (Grégoire Chamayou)

In questo scritto verranno presi in esame i saggi di Barbara Grespi e Maurizio Guerri relativi [...]]]> di Gioacchino Toni

«il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo [come testimonia il riemergere] di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca» (Barbara Grespi)

«l’operatore del drone è un’immagine specchio di quella del suicide bomber» (Hugh Gusterson)

«i kamikaze sono gli uomini della morte certa, i piloti di droni sono gli uomini della morte impossibile» (Grégoire Chamayou)

In questo scritto verranno presi in esame i saggi di Barbara Grespi e Maurizio Guerri relativi rispettivamente al controllo del corpo nei conflitti contemporanei e al confronto tra il ricorso ai droni occidentale e ai kamikaze da parte mediorientale nelle guerre recenti, pubblicati sul volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla].

Barbara Grespi, nel saggio “Il controllo dei corpi nel quadro dei conflitti contemporanei”, si sofferma sulla rilevanza etica, ideologica e culturale del rapporto tra corpo e guerre e sul suo trattamento iconico nella contemporaneità. La studiosa mette in luce come nei conflitti contemporanei sembrano confrontarsi una politica occidentale tendente alla rimozione del corpo e una politica mediorientale votata invece alla sua esposizione. Se da un lato i bombardamenti occidentali effettuati con i droni determinano una «fantasmatizzazione del pilota, che attacca da un altrove radicale» e una «cancellazione del corpo del nemico bombardato, ridotto a puro disturbo visivo a malapena registrato dalle riprese a bassa definizione» (p. 343), dall’altro il nemico mediorientale sembra fare del corpo del combattente il centro delle proprie tattiche di guerra soprattutto attraverso il corpo-bomba del kamikaze e la decapitazione di alcuni prigionieri da parte dell’Isis. A tal proposito, la documentazione filmata e diffusa in internet «costituisce non soltanto la cruda esibizione del corpo del nemico ucciso, ma anche l’autorappresentazione di un Sé radicalmente altro, che alla “civile” soppressione dell’avversario, senza contatto fisico e di conseguenza senza una netta auto-percezione della propria responsabilità, contrappone la presa in carico dell’atavico gesto del boia. Con questa politica, il terrorismo sfida costantemente l’Occidente nella sua evidente difficoltà di gestire il corpo dell’Altro, di percepirlo, comprenderlo e accettarlo; la riemersione di una cultura pseudoscientifica del controllo dei corpi, che affonda le proprie radici nella criminologia tardo-ottocentesca, è forse la più interessante spia di questa impasse, nonché del grande bisogno, soprattutto statunitense, di circoscrivere la differenza culturale all’interno del proprio sistema di pensiero» (p. 344).

Grespi pone l’accento su come la minaccia di subire un attacco da parte dei kamikaze determini in Occidente l’ossessione del riconoscimento preventivo mentre, inversamente, per gli attentatori suicidi il problema diviene quello di non farsi individuare. Di fronte al rischio di attentati l’obiettivo dei servizi di sicurezza occidentali è pertanto quello di riconoscere preventivamente e a tal proposito nel 2007 il Dipartimento di Sicurezza Interna degli Stati Uniti ha dato il via al “Project Hostile Intent” al fine di formare agenti per migliorare le loro «capacità di interpretare i corpi, rilevando tutti quegli elementi comportamentali, gestuali e vocali che rendono un viaggiatore sospetto e meritevole di ulteriori, più aggressive indagini antiterroristiche» (p. 345). Alle tecniche di osservazione sul campo si sono aggiunti sofisticati sussidi tecnologici denominati “Future Attribute Screening Technology” con lo scopo di monitorare la temperatura basale, il movimento oculare e il battito cardiaco. I dati raccolti da tali tecnologie vengono poi trasmessi agli agenti della “Transportation Security Administration”, sottosezione dei “Behaviour Detection Officers”: «a loro spetta l’incarico di osservare i passeggeri, inquadrandone il comportamento e producendo un calcolo del “coefficiente di pericolosità” di ogni individuo, ovvero della probabilità che egli nutra intenzioni criminose» (p. 346). Tale coefficiente si basa sostanzialmente sul riconoscimento delle emozioni secondo un modello proposto dallo psicologo statunitense Paul Ekman, l’ideatore del “Facial Action Coding System”, consistente in una misurazione obiettiva dei micromovimenti facciali che dovrebbe poi essere convertita in un codice informatico destinato alla produzione di “tecnologie sensibili alle emozioni”. Al momento il supporto informatico si limita alla rilevazione delle espressioni involontarie del volto, mentre è all’abilità umana degli agenti che spetta il compito di interpretare tali espressioni riconoscendo i segni di stress corrispondenti alla paura di essere scoperti, i sintomi della menzogna ecc.

Nei tentativi di prevenire i crimini e di riconoscere i segni del volto che rivelano affermazioni menzognere è facile intravedere rispettivamente le ossessioni che abitano Minority Report – il film di Steven Spielberg, liberamente tratto dall’omonimo racconto di Philip K. Dick, è uscito nel 2002 in pieno “clima 11 settembre” –, e quelle caratterizzanti la popolare serie televisiva Lie to Me (Fox 2009-2011), che non a caso vanta la supervisione scientifica dello stesso Ekman. Per certi versi la serie tv sembra rispondere alle critiche mosse all’applicazione del metodo dello psicologo statunitense negli aeroporti, con un opera di divulgazione del suo metodo di lettura del volto – in cui si mescolano semiotica, fisiognomica, neurologia e scienza naturale delle passioni –, ricorrendo ad un’operazione di mitizzazione e certificazione attuata attraverso la fiction e un testimonial-divo (Tim Roth).

In realtà gli agenti addetti al riconoscimento dei potenziali terroristi più che all’analisi accurata del volto fanno riferimento agli aspetti gestuali degli individui: sintomi fisici, formule emotive, sottocodici simbolici, marcature somatiche (!) ecc. Risulta comunque difficile pensare che a una frontiera tutti questi aspetti del fenomeno gestuale possano essere valutati congiuntamente e in tempi stretti ai fini dell’individuazione di un possibile terrorista; «è evidente che fra la rilevazione di un eccessivo stress sospetto e l’interpretazione univoca di formule emotive, soprattutto fra una cultura e l’altra, il passo è lungo» (p. 350).

Sull’onda del convincimento che il corpo non mente mai e che sia pertanto possibile individuare un potenziale terrorista dalla sua gestualità, si sono diffuse sul mercato editoriale americano deliranti pubblicazioni di psicologia spicciola come Body Language of Terrorists (2015), testo scritto da «un’esperta di comunicazione e body language – consulente forense, trainer di personaggi pubblici e attori, nonché autrice di bestseller internazionali, quali Te lo leggo nel pensiero o Come eliminare i rompiballe e vivere felici – e un ex agente dell’Fbi» (p. 352). Tale libro presenta una catalogazione empirica della gestualità del terrorista che, seppur priva di qualsiasi base scientifica, merita di essere considerata per la sua sintomaticità socio-culturale. «Infatti, la spiccata finalità pratica del volume – che si offre al comune cittadino come un manuale salvavita che può aiutarlo a presagire la minaccia terroristica, e come un promemoria dei suoi doveri civili – produce un pensiero totalmente governato dall’ansia dell’Alterità e capace di proiettare un’ombra oscura sulle attuali scienze e pratiche di controllo dei corpi» (pp. 351-352). Nel libro viene prospettata una delirante classificazione del terrorista in alcune varianti identitarie derivate dalla diversa combinazione delle sue principali emozioni: ansia, paura, arroganza, rabbia. Si propongono così classificazioni che tendono ad applicare, non di rado invertendone il significato, caratteristiche ritenute proprie alla cultura occidentale a culture diverse. Ad esempio, quando nel corpo dell’Altro vengono individuati gesti che nella cultura occidentale denoterebbero orgoglio ed eroismo, si invita a leggervi un’intenzione aggressiva.

«Nel contemporaneo sistema di controllo dei corpi, [la] dimensione immaginaria del gesto – associata a un’idea di corpo come medium che elabora immagini e le trasmette con un proprio linguaggio e una propria forma di memoria – viene totalmente rimossa. Nei luoghi di transito, infatti, ci si sforza di omologare la rilevazione del gesto alle altre misurazioni corporee effettuate. La stessa osservazione in video degli stili di comportamento, al di là del fatto che risponde alla filosofia bellica occidentale dell’operare a distanza, viene sperimentata come tecnica di oggettivazione attraverso la tecnologia: registrato da una videocamera, il gesto diventa più facilmente prova, assomiglia di più alle rilevazioni dei molti sensori che completano l’attività di sorveglianza degli agenti, e che proprio perché non contengono variabili “umane” sono considerati attendibili, “gender, culture and age-neutral”» (pp. 355-356).

I dati puramente fisiologici rilevati dai sensori (movimenti oculari, battito cardiaco ecc.) attribuiscono una misura matematica ai gesti denotanti ansia rilevati dagli agenti. Ci si basa pertanto, sottolinea Grespi, «su un’idea di corpo antica, che riesuma la fiducia nella sua trasparenza, nella sua capacità di riflettere all’esterno il proprio interno, manifestando in superficie i segni di ciò che nel profondo lo muove. Body Language of Terrorism traduce questo implicito in un assioma ricorrente: “the body doesn’t lie”, presentato come distillato di esperienza, ma in realtà frutto di un ben noto modello di pensiero, quello attraverso cui la fisiognomica si congiunge alla criminologia ottocentesca» (p. 356).

L’immaginario distopico di un film come Gattaca – La porta dell’universo (1997) di Andrew Niccol, ha ipotizzando un futuro votato alla crescente indexicalità, precisione e infedeltà iconica del dato identificativo. Nel film si prospetta una società futura che ricorre all’identificazione attraverso l’impronta delle dita su un sensore in grado di forare la pelle e analizzare il sangue controllando il Dna. Per superare i controlli che danno accesso a un’agenzia riservata a una élite genetica, il protagonista del film ricorre a campioni di sangue altrui facendo attenzione a rimuovere al contempo le proprie tracce biologiche senza preoccuparsi eccessivamente del diverso aspetto del volto, visto che per accertare l’identità in quella società non si presta più tanta attenzione all’immagine. Se lo scenario distopico prospettato dal film è in linea con lo sviluppo del sistema di identificazione indexicale affermatosi a fine Ottocento, la “guerra al terrore”, sostiene Guerri, sembra invece «far ritorno all’iconicità e all’affanno numerico. In particolare la mano che lascia tracce aniconiche ridiventa la mano che gesticola, che produce forme riconoscibili o che contiene indici metrici» (p. 360).

L’analisi della gestualità introdotta nella lotta al terrorismo mediorientale sembra prescindere totalmente dalle differenze culturali che in alcuni casi danno significati diversi ai medesimi gesti e, soprattutto, non tiene conto di come, a maggior ragione in una dimensione globalizzata come l’attuale, il significato da attribuire ai gesti muti costantemente attraverso processi di appropriazione e riappropriazione simbolica, così come non si cura del fatto che le violenze del controllo alterano, e non in maniera univoca, le modalità con gli individui reagiscono. Insomma, negli aeroporti americani si è in balia dell’arbitrio di guardie che, dopo un grottesco corso di formazione, si prodigano nell’arte dell’interpretazione del corpo dell’Altro applicando su di esso formule semplicistiche e stereotipate con pretese di scientificità.

Maurizio Guerri, nel saggio “Il drone e il kamikaze. Due immagini della guerra contemporanea”, analizza il drone occidentale e il suicida mediorientale come figure caratterizzanti i conflitti del nuovo millennio. «Il suicida compie la propria missione di morte e distruzione contro civili o militari – senza alcun obiettivo specifico se non quello di suscitare terrore – annientando se stesso mentre compie il proprio attacco con una violenza pari a quella che infligge ai propri nemici. Nella maggior parte dei casi i nemici sono obiettivi fortuiti e astratti, mentre concreto è il loro ferimento o la loro morte […] L’altra immagine è quella del drone, una macchina volante dotata di occhi elettronici per muoversi e per lanciare ordigni il cui volo è gestito da un uomo a distanza di sicurezza dalle operazioni; l’aeromobile opera sul cielo del territorio nemico con l’obiettivo di eliminare i propri targets una volta che essi siano stati localizzati attraverso diversi sistemi che si concretizzano in un’immagine sullo schermo» (p. 365).

Se l’immagine del gesto dell’attentatore suicida genera orrore tra gli occidentali, la conduzione della guerra attraverso i droni è percepita dagli stessi, almeno a livello diffuso, come una pratica decisamente più umana rispetto all’azione del kamikaze e alle pratiche di guerra tradizionali: il ricorso ai droni consente infatti di preservare vite sul fronte amico. Ben diversa è la percezione sul fronte opposto, tra le popolazioni civili mediorientali spesso colpite da quelli che vengono ipocritamente definiti dalla retorica occidentale “effetti collaterali” della guerra a distanza.

Nell’opinione pubblica occidentale si è fatta strada una logica che schematizza così lo scontro in atto: «da un lato la radice [della violenza mediorientale] sarebbe da ricondurre all’adesione dei terroristi a versioni “radicali” dell’Islam, dall’altra parte i paesi occidentali con tutta la loro eredità in termini di libertà, laicità, illuminismo conducono le loro guerre in modo violento, per lo più all’interno delle convenzioni del diritto internazionale e in nome della democrazia» (p. 366). Insomma, si sarebbe di fronte ad uno “scontro di civiltà” tra il sistema democratico capitalista, con il suo modo “civile” di condurre la guerra, e il mondo islamico-terrorista, con le sue modalità barbare e crudeli di partecipazione al conflitto. Secondo Guerri, in realtà, non si è affatto in presenza di uno “scontro di civiltà”, quanto piuttosto a due diversi modi condurre la guerra, probabilmente si tratta di «due pieghe dello stesso tipo di conduzione del conflitto […] all’interno del pianeta globalizzato che è dominato e unificato da un sistema economico capitalistico» (p. 367). Il drone e il kamikaze non rappresenterebbero tanto i simboli di due differenti civiltà che si scontrano, quanto piuttosto «due figure in cui si condensano due modi del conflitto all’interno dello stesso sistema economico che mettono in discussione l’idea stessa di guerra così come è stata condotta dalle origini fino alla fine della Guerra fredda» (p. 367).

Al fine di ricostruire un passaggio della genealogia delle figure del kamikaze e del drone, lo studioso riprende alcune riflessioni degli anni Trenta di Ernst Jünger (Sul dolore, 1934) e di Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) in cui queste due tipologie sono state prese in considerazione.

Nel suo scritto Jünger prende spunto dalla notizia di un siluro messo a punto dalla marina militare giapponese guidato da un essere umano che alloggia su di esso all’interno di una piccola cabina: un pilota al contempo “arto tecnico” e “vera intelligenza del proiettile”. Una “costruzione organica” in cui l’essere umano rappresenta se stesso e utilizza il suo corpo come parte integrante «del sistema tecnico-lavorativo di cui anche la guerra è divenuta parte» (p. 369). Jünger osserva anche che la civiltà occidentale dall’Ottocento in avanti è dominata «dall’impulso a rimuovere il rapporto diretto del soggetto con la vita, come perdita di esperienza, come volontà di “rimuovere il dolore e di separarlo dalla vita”. I diversi settori della scienza e della tecnica possono essere concepiti nel loro complesso come dominati da una tendenza a stabilire la rimozione del dolore e a impiantare una condizione di “comfort” in ogni ambito della vita» (p. 369).

Con la riduzione della vita a mera funzione del sistema economico-lavorativo, l’esistenza dell’essere umano si inserirebbe «all’interno del sistema del lavoro, fino a diventare – come nell’esempio citato del proiettile umano – un “arto” dello strumento o la sua “intelligenza”» (p. 371). Secondo Jünger l’uomo proiettile rappresenta «una figura in cui si esprime il massimo sacrificio dell’uomo contemporaneo nel porsi al servizio del sistema tecnolavorativo» (p. 371). Guerri sottolinea come in Jünger l’uomo proiettile venga visto come figura pienamente in linea con la logica novecentesca che impone all’individuo di sacrificarsi al sistema tecnolo-lavorativo. «La figura di colui che sacrifica la propria vita in una operazione bellica appartiene alla fenomenologia della conduzione dello scontro violento nell’epoca del dispiegamento del lavoro su scala planetaria e in esso possiamo leggere il tipo di rapporto che il sistema del lavoro istituisce con il singolo» (pp. 372-373).

Se da un lato nel proiettile umano Jünger individua «il massimo assorbimento possibile dell’uomo nel sistema della tecnica», dall’altro, però, nella figura di chi è pronto ad un sacrificio tanto estremo individua anche una possibile nuova forma di libertà e ciò risulta meglio comprensibile prendendo in considerazione le sue riflessioni a proposito di un romanzo di Joseph Conrad – probabilmente Agente segreto (1907) –, ove individua nell’anarchico russo di cui si narra la figura dialettica e complementare a quella dell’uomo proiettile giapponese. Il rivoluzionario del romanzo di Conrad, nel portare al seguito una bomba al fine di tenersi pronto a farsi esplodere nel caso di arresto, porta per certi versi agli estremi l’idea di libertà individuale. «Le immagini dell’uomo-proiettile e dell’anarchico russo sono figure sovrapponibili e allo stesso tempo in tensione dialettica. Da un lato l’uomo-proiettile si caratterizza per un sacrificio definitivo al sistema della tecnica e del lavoro, che si traduce in un totale assorbimento al suo interno, fino all’essere sacrificabile per scopi militari; dall’altro l’anarchico russo sembra invece il rovesciamento dell’uomo-proiettile: nella misura in cui l’oggettivazione conduce a una estraneazione da sé, a una capacità del soggetto di guardare alla propria esistenza corporea come a un “avamposto” in grado di condurre alla conquista di qualcosa di più alto, l’anarchico russo appare come una figura allegorica della rivolta e della libertà nella tecnica» (p. 374).

All’estremo sacrificio al sistema tecnico-lavorativo del pilota giapponese si contrappone il sacrificio per la libertà dell’esistenza dell’individuo dell’anarchico russo. «Il kamikaze con il suo sacrificio costituisce l’inserimento totale del singolo al sistema lavorativo declinato sul piano bellico, l’anarchico russo è colui che si sacrifica in nome della irriducibilità della propria singolarità al piano tecnolavorativo planetario […] Nella forma del kamikaze o dell’anarchico Jünger afferma che la dimensione del sacrificio massimo dell’individuo sia essenziale per comprendere la relazione dell’uomo contemporaneo con il sistema planetario in cui è situato» (p. 375).

Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica notoriamente Benjamin sostiene che tutte le tecniche umane, compresa l’arte della guerra, «sono dominate da una tensione dialettica i cui poli sono individuabili nel “sacrificio” (“prima tecnica”, aura, cultualità) e nel “gioco” (“seconda tecnica”, riproducibilità, esponibilità). L’attività su cui si fonda la “prima tecnica” è il sacrificio umano sia in senso religioso […], sia in senso tecnico- artistico […], o su un piano bellico come virtù del sacrificio eroico in battaglia. Al polo opposto di questa tensione dialettica, Benjamin pone la “seconda tecnica”, quell’elemento che in ogni attività tecnico-artistica non ha nulla a che fare con il lavoro, anzi la emancipa da esso» (pp. 376-377). Il filosofo tedesco, dopo aver letto negli anni Trenta di esperimenti inglesi volti a realizzare aerei comandati a distanza da utilizzare come obiettivi durante le esercitazioni, pensa all’immagine degli aerei teleguidabili in grado di fare a meno dell’equipaggio come ad un’allegoria di un’esperienza ludica (seconda tecnica) contrapposta al sacrificio produttivo-lavorativo (prima tecnica). Sostenendo che le due tecniche, seppure in misura variabile, sono ravvisabili in ogni attività umana, è nei “nuovi media” dell’epoca che Benjamin individua la possibilità di ampliare la sfera d’azione della seconda: così come «gli aerei teleguidabili alludono alla possibilità di movimento e di osservazione libera dal sacrificio del lavoro alla scoperta di un “inconscio spaziale”, così la fotografia e il cinema alludono a un ambito estetico in cui il sacrificio e il lavoro abbiano ceduto spazio al gioco, intraprendendo un viaggio nell’“inconscio ottico”» (p. 378). Nel filosofo lo sguardo fotocinematografico diventa così «allegoria di un mondo che l’uomo ha la possibilità di costruire in base alla propria capacità estetico-immaginativa, libera per la prima volta dal riferimento passivo a un essere o a un ordine di valori che preesiste rispetto all’attività dell’uomo stesso». (p. 382). Chiaramente, è bene ricordarlo, in Benjamin affinché si possa dispiegare la dimensione emancipativa della seconda tecnica occorre passare attraverso un processo rivoluzionario che metta fine alla schiavitù del lavoro.

L’uomo-proiettile a cui fa riferimento Jünger e l’immagine dell’aereo senza pilota di cui parla Benjamin, secondo Guerri, indicano ancora oggi «i limiti dello spazio al contempo estetico e politico in cui ci muoviamo» (p. 388). Drone e kamikaze sembrano allora davvero immagini speculari del modo di condurre la guerra ai nostri giorni. «Il drone è l’arma massimamente “auratica” in quanto colui che conduce l’attacco è assente dal luogo in cui l’attacco stesso è condotto. […] Viceversa il kamikaze è la concretizzazione dell’identità tra corpo e arma, l’inclusione dell’arma nel corpo che esclude la salvezza di colui che conduce un attacco» (p. 388). Sviluppando i ragionamenti di Jünger e di Benjamin, le figure del drone e del kamikaze che conosciamo ai giorni nostri appaiono come le due facce della medesima logica del sacrificio interna ai conflitti che si danno in un mondo dominato dal capitalismo. «Il kamikaze si sacrifica attingendo a una disciplina che viene posta al servizio della tecnica distruttiva delle armi contemporanee, finendo per dissolversi con l’ordigno che porta con sé. Nel caso del drone, invece, siamo in presenza del sacrificio che è tutto spostato sugli obiettivi nemici attraverso la messa a distanza tecnica dello Uav [Unmanned aerial vehicle]. L’etica dell’autosacrificio e quella dell’autopreservazione appaiono così come le modalità attraverso cui si dispiega una violenza bellica che si svolge da un lato con gli attentati suicidi, dall’altro con gli attentati fantasma» (p. 389).


Serie Guerrevisioni

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In un distopico XXIII secolo, quando la Puglia sarà una megalopoli infernale https://www.carmillaonline.com/2017/02/26/36752/ Sat, 25 Feb 2017 23:18:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36752 di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione. APULEIA. Duemila chilometri quadrati [...]]]> di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione.
APULEIA.
Duemila chilometri quadrati incluse le piattaforme su ben due mari e alcune isole coperte da tensostrutture che le fanno apparire dei circhi galleggianti.
La città è saldata alla crosta terrestre e artigliata al cielo. Lo spazio aereo è solcato da elicotteri, dirigibili, elicomobili e aerei a reazione destinati verso stazioni orbitanti e colonie del sistema solare e dello spazio interstellare (p. 19).

In questo spazio che ammicca alla Los Angeles di Blade Runner, si muovono i protagonisti della storia, i detective privati Sisifo Re, il cui volto è coperto da una maschera da clown e che, come i precox di Minority Report di Philip K. Dick (nonché, cinematograficamente, di Steven Spielberg), possiede la facoltà di prevedere i delitti e Oscar Orano, detto Oh-Oh, il narratore intradiegetico di buona parte delle avventure. I due vengono ingaggiati dalla bellissima Selina Corbeves per indagare sull’omicidio del proprio marito, che ancora dovrà essere commesso. Intanto, dopo la deposizione e l’uccisione del dittatore, ad Apuleia si è scatenata una micidiale guerra civile fra le due fazioni capeggiate dai figli del tiranno caduto, che miete vittime e distruzione nelle strade.

La città è rappresentata come uno spazio abnorme che disintegra gli stessi concetti della metropoli postmoderna: la mescolanza più ostentata di stili architettonici – grattacieli, edifici-cattedrali, enormi pale eoliche, «condomini uno uguale all’altro, un vero incubo di cemento armato grigio» costruiti «a ridosso di vecchie caverne neolitiche» (p. 51), piattaforme spaziali, circhi galleggianti, fabbriche abbandonate, una vecchia torre saracena – è resa uniforme e annientata, nei suoi stessi nuclei basilari legati all’estetica postmoderna, dalla distruzione, dal sangue che scorre a fiumi nelle strade, dal vero e proprio inferno che regna dovunque. Si legga, ad esempio, questa descrizione della città:

Quaranta milioni di esseri viventi che strisciano sul catrame bagnato leccando l’asfalto e mormorando preghiere laiche. Vermi sclerotizzati che sbavano sul calcestruzzo finendo nei rotori dei seduttivi elicotteri. Territorio come lastre funebri, tumuli di marmo venato di acrimonia. Quartieri saldati uno all’altro da un’architettura schizofrenica e dalle mani dei profanatori della madre terra (p.15).

La distruzione e l’orrore livellano e annientano quell’estetismo postmoderno che, secondo Fredric Jameson, appartiene alla «logica culturale del tardo capitalismo». L’autore, infatti, ci presenta gli orrori e le devastazioni, dipinte come in un fumetto fantasy-horror, come una deriva dello stesso meccanismo neocapitalista. Le distruzioni, le uccisioni, gli orrori vengono perpetrati solo e soltanto in nome di un potere che, grazie all’orrore e alla morte, riesce costantemente ad autogenerarsi: «Il potere genera potere, non lo abbatte. I figli del tiranno avranno carne e terra in abbondanza. Le corporation più importanti non vedranno diminuire i loro traffici interni ed esterni alla terra. Le colonie hanno paura e un po’ di paura non guasta» (p. 65). I figli del deposto dittatore seminano morte e distruzione per nuovo potere e nuovi affari:

Nessuno. Nessuno fermerà nessuno. L’esercito combatterà il minimo indispensabile e le forze in campo si distruggeranno a vicenda. I figli del tiranno appariranno quando sul terreno non ci sarà che morte finale e desolazione. Si mette in conto la distruzione della più grande città terrestre per una svolta, per la nuova era. Il tiranno aveva puntato su Apuleia, i figli del tiranno vivranno lontano da qui, avranno femmine nordiche o nere, commerceranno con il punto di Lagrange L1 e L2 e con le basi lunari. Le corporation fonderanno altre colonie e lì prolifereranno gli affari. Il sangue degli infetti abitanti di Apuleia sarà un vessillo da sbandierare in faccia a futuri moti insurrezionali. Tutti muoiono se osano ribellarsi al potere (ibid.).

Se il potere, in sé, non potrà essere abbattuto e continuerà a mietere vittime anche sulle colonie interstellari, i singoli esponenti del potere possono essere eliminati e trovare la morte, grottescamente, in mezzo ai simboli della loro ricchezza. Così accade, ad esempio, al potente Egisto Crovo che viene ucciso nel suo ufficio e il cui sangue bagna «gli incartamenti dei suoi lucrosi affari» (p. 74), mentre «il tronco del suo corpo è appeso al lampadario fatto di migliaia di gocce Swarovski» (ibid.).

All’interno di questo mondo devastato da lotte per il potere, Sisifo Re e Oh-Oh si muovono in varie dimensioni: se Sisifo sfugge all’orrore – un po’ come il Billy di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut – viaggiando nel tempo grazie ad uno squinternato macchinario, Orano si catapulta in dimensioni parallele per mezzo di un trasmettitore tascabile i cui sensori sono innestati nella sua corteccia cerebrale. Nella dimensione parallela, non meno devastata dall’orrore di quella reale, Sisifo Re è un tenente di polizia, Orano un sergente, il suo assistente, mentre Selina Corbeves si trasforma addirittura nel capo della polizia. Nonostante queste ‘fughe’ nel tempo e nello spazio, l’orrore e la devastazione imperversano su Apuleia non meno delle bombe alleate sulla Dresda di Vonnegut. Sulla megalopoli e sui vari quartieri periferici – ribattezzati con neologismi, in alcuni casi legati a luoghi reali, come Brundisium o Otrantown – si è scatenata una vera e propria ridda di demoni, di zombie, di spettri, di «gnomi deformi» e «nani pazzi», di stregoni «dauniani», di «stigiani», creature infernali il cui nome rimanda al fiume dell’Ade, lo Stige, di divoratori di cadaveri. Fin dalle prime pagine del libro gli scenari di un orrore splatter si ripetono in attoniti sipari infernali. Ad esempio:

Bagliori, fuochi, insegne in innaturale esplosione, gruppi armati che si scontrano nella notte. La zona sudoccidentale in mano alle bande di fedeli al tiranno. Donne crocifisse agli angoli delle strade. Bambini incandescenti. Tutti che fuggono da tutto. Le case forzate, le porte sventrate. I primi piani dei palazzi, vuoti: abbandonati. Sangue a secchiate (p. 24).

Diversi sono, nel testo, i diretti riferimenti all’Inferno. Per esempio, in uno dei suoi viaggi nella dimensione parallela, Oh-Oh compie una vera e propria catabasi, una discesa all’inferno, nel «regno dei morti del Corvisea» (p. 67), mentre durante la loro fuga finale, i due protagonisti si ritrovano in un «tetro girone dantesco» (p. 213). Una vera e propria ‘cattedrale’ infernale è l’istituto di psichiatria e bioantropologia, divenuto un gigantesco obitorio dove regnano incontrastati il professor Guglielmo Federico Zoro, «l’ultimo dei lombrosiani sulla terra» (p. 29) e il suo assistente, il gobbo Roald Amundsen (che ha lo stesso nome dell’esploratore norvegese del Polo Sud). Dal professor Zoro, Sisifo e Oh-Oh si recano per avere consigli riguardo alle loro indagini.

Il pastiche e la mescolanza sembrano essere i punti di forza del romanzo di Argentina; oltre alla già citata mescolanza architettonica ed estetica che investe anche le descrizioni degli interni degli edifici – come lo stesso istituto del professor Zoro o l’ex sanatorio di San Bartolomeo – la città di Apuleia è presentata come uno squinternato melting pot di razze e culture differenti, in un curioso ibrido fra antichità e modernità: «Polacchi, dervisci, ugonotti, lettoni, turcomanni, afrogiamaicani, ittiti, siberiani… li puoi trovare tutti se osservi bene e se conosci un po’ di etnologia» (p. 45). La stessa lingua è oggetto di ardite mescolanze: a neologismi e vocaboli inglesi si alternano riferimenti al mondo classico e citazioni dall’epica, come «Cantami o diva», o «arma virumque cano».

Questo stile rapido, incline al pastiche e all’ibridazione grottesco-carnevalesca, racchiude, nel profondo, un cuore triste e malinconico: Sisifo, non a caso, nel nome rimanda direttamente al personaggio della mitologia greca condannato da Zeus a trascinare sulla cima di un monte una pietra destinata in eterno a ricadere giù. Nel libro, infatti, vi sono diversi riferimenti al mito, al fatto che anche Sisifo Re sta continuamente trascinando una pietra, la pietra di un dolore personale che non lascia tregua. Sotto il trucco da clown si cela un personaggio martoriato, oppresso dalla stanchezza e dalla depressione, ferito di fuori e di dentro, nella seconda parte della storia ostinatamente deciso a trascinare con sé il cadavere di un bambino ucciso durante gli scontri di Apuleia. Sisifo con in braccio il piccolo cadavere diventa un po’ l’emblema del dolore degli uomini oppressi da un potere violento che infligge guerre e distruzioni in nome del denaro e delle ricchezze. Anche Oh-Oh è presentato come un derelitto alla deriva in quel mondo apocalittico, soprattutto nelle parti in cui vengono narrate le sue avventure nella dimensione parallela: allora appare perennemente tormentato e martoriato dalla ricerca della sua amata Dori, perduta e mai più ritrovata. I due si muovono come nuovi picari nell’inferno metropolitano di Apuleia – che potrebbe benissimo rappresentare una metafora della nostra attuale società distopicamente rivisitata – insieme a una massa di esseri umani che hanno letteralmente toccato il fondo dell’abiezione e del dolore. E, una volta toccato il fondo, forse, i nostri personaggi non possono fare altro che risalire: forse, in fondo al baratro dell’odio e del dolore brilla ancora qualche barlume di speranza.

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Rapporto di Congruenza https://www.carmillaonline.com/2012/11/02/rapporto-di-congruenza/ Fri, 02 Nov 2012 01:15:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4508 di Antonino Fazio

Minority-Report.jpg[Esiste una significativa incongruenza nel piranesiano intreccio del racconto ”Minority Report”? Il responso risultante da tre pareri successivi (il mio per ultimo) è negativo, ma ovviamente c’è anche un rapporto di minoranza. A.D.]

I paradossi legati ai viaggi nel tempo e, in generale, alle manipolazioni temporali, mostrano in modo chiaro come le regole logiche e le leggi della fisica siano strettamente intrecciate. Questo intreccio, concettualmente affascinante, è uno dei temi narrativi su cui gli autori di fantascienza si sono cimentati, con esiti quasi sempre apprezzabili. Il film di Steven Spielberg del 2002, Minority Report, basato sull’omonimo racconto lungo [...]]]> di Antonino Fazio

Minority-Report.jpg[Esiste una significativa incongruenza nel piranesiano intreccio del racconto ”Minority Report”? Il responso risultante da tre pareri successivi (il mio per ultimo) è negativo, ma ovviamente c’è anche un rapporto di minoranza. A.D.]

I paradossi legati ai viaggi nel tempo e, in generale, alle manipolazioni temporali, mostrano in modo chiaro come le regole logiche e le leggi della fisica siano strettamente intrecciate. Questo intreccio, concettualmente affascinante, è uno dei temi narrativi su cui gli autori di fantascienza si sono cimentati, con esiti quasi sempre apprezzabili.
Il film di Steven Spielberg del 2002, Minority Report, basato sull’omonimo racconto lungo di Philip Dick, pubblicato nel 1956, sul numero di gennaio di “Fantastic Universe” (trad. it. Rapporto di minoranza, in “L’uomo variabile”, Fanucci, 1979) era stato per me un’occasione interessante per effettuare un’analisi delle modificazioni subite dalla storia originale nel passaggio al medium cinematografico.
Ne era venuto fuori un articolo dal titolo esplicito, ”Rapporto di minoranza. Un confronto tra Spielberg e Dick” (sul n. 39 di “Futuro Europa”, Perseo Libri, 2004) e nel confronto con il film di Spielberg la trama del racconto era stata analizzata in maniera dettagliata, per metterne in luce la complessità della struttura narrativa.
Com’è noto, in Minority Report, Dick non tratta dei viaggi nel tempo, ma dell’ipotesi che la conoscenza di eventi futuri offra la possibilità di modificarli. Tale idea è chiaramente basata sul presupposto che il futuro, anziché essere rigidamente prefissato, sia formato da linee di probabilità. In altre parole, si deve ammettere l’esistenza di mondi alternativi possibili.
Nella storia di Dick, si immagina che esistano dei mutanti mentalmente ritardati, detti precog, in grado di prevedere i crimini che verranno commessi in futuro. Dei veri e propri idiot savant insomma, le cui capacità vengono usate per impedire che i delitti abbiano luogo, per mezzo dell’arresto preventivo dei potenziali colpevoli.
A parte i dubbi di natura giuridica o etica che possono essere prodotti da una simile procedura, il punto cruciale è connesso alla natura probabilistica della precognizione. In effetti è insolito che fra i tre precog usati dall’Agenzia Pre-Crimine esista un completo accordo. D’altro canto, la convergenza di due previsioni su tre viene considerata analoga a una certezza. La previsione discordante, dal canto suo, è nota appunto come “rapporto di minoranza”.
A partire da queste premesse, il racconto comincia nel momento in cui il direttore dell’Agenzia, John Anderton, scopre di essere lui stesso un potenziale assassino, stando a uno dei rapporti di maggioranza prodotti dalle visioni dei precog. La trama è molto complessa, ed è difficile da riassumere in breve. Riducendola all’essenziale, dirò che Anderton fugge, convinto che sia in atto un complotto contro l’Agenzia. Non conosce affatto la sua ipotetica vittima, un certo Kaplan, e quindi non ha alcun motivo di ucciderlo.
Cercando di venire a capo della questione, scopre che il terzo rapporto, quello di minoranza, predice che lui, informato del futuro delitto, eviterà tuttavia di commetterlo. Il rapporto di minoranza sembra dunque prevalere su quello di maggioranza. In realtà, alla fine Anderton ucciderà davvero Kaplan, dopo aver scoperto che complottava contro l’Agenzia.
Nella ricostruzione di Anderton, le due previsioni che lo indicavano come assassino non erano in realtà identiche, ma si trattava di previsioni diverse. Ciascuna delle tre previsioni è a sé. La prima previsione non si realizza perché Anderton ne viene a conoscenza prima di sapere che Kaplan complotta contro l’Agenzia. La seconda previsione tiene conto di questo dato, mentre la terza prevede che Anderton, dopo aver saputo della seconda previsione, si rende conto che l’unico modo per salvare l’Agenzia è quello di uccidere Kaplan.
Non esiste dunque un rapporto di maggioranza, ma esistono tre diversi rapporti di minoranza, ciascuno dei quali annulla il precedente. Quello che si realizza è il terzo, dopo che Anderton li ha letti tutti e tre. La sequenza non è lineare, ma appare convincente, almeno a prima vista. Un esame più approfondito, tuttavia, sembra mettere in luce una seria contraddizione nella struttura logica del racconto.
Un articolo di Paolo Bertetti, ”Mondi di minoranza” (“Lexia”, settembre 1998, n. 15-16) chiarisce bene la difficoltà. Ne riporto un brano significativo, dove la dicitura “Wpr” indica un “mondo profetizzato” (World predicted) ovvero un “mondo possibile” dotato di un certo grado di probabilità:

C’è qui una macroscopica incongruità. Come abbiamo visto, infatti, affinché sia possibile il metodo della Precrimine basato sui rapporti di maggioranza, è necessario postulare che le profezie si riferiscano a possibili corsi di eventi senza tenere conto degli effetti della profezia stessa; in questo caso però l’unica possibile predizione sarebbe Wpr1. Infatti, profezie che tengano conto delle profezie stesse o ci sono sempre, o non ci sono mai. Se fosse vero il primo caso, si presenterebbero ogni volta dei Wpr2, se non dei Wpr3, ovvero degli stati di cose alterati in conseguenza della predizione, che vanificherebbero ogni possibile rapporto di maggioranza: se infatti, come abbiamo concluso, le predizioni indicano delle possibilità e descrivono i mondi futuri più possibili, esse dovrebbero in gran maggioranza delineare dei Wpr in cui i delitti non sono compiuti (dato che questo è quanto accade nella totalità dei casi, con l’unica eccezione descritta nel testo). Verrebbe quindi vanificato ogni metodo statistico: i Wpr in cui si compiono gli omicidi sarebbero sempre dei mondi di minoranza. Dick stesso si rende conto di questo problema, e suggerisce che questo è possibile perché l’omicida era il commissario, il quale era a conoscenza della profezia e quindi in grado di alterare il corso di eventi. Ma l’argomento non è sufficiente: in ogni caso il corso di eventi è alterato, e non si vede il motivo perché debba fare differenza se a modificarlo è il possibile assassino (che agisce in base alla conoscenza della profezia) o la Precrimine; in entrambi i casi la previsione dell’assassinio sarebbe vanificata.

Bertetti argomenta correttamente che le profezie dei precog non possono tener conto di se stesse, pena il loro annullamento. È infatti evidente che, se i precog tenessero conto dell’effetto delle loro predizioni, dovrebbero inevitabilmente concludere che esse non si realizzerebbero, a motivo dell’intervento dell’Agenzia Pre-Crimine. In tal caso, però, le previsioni non potrebbero essere fatte. Di conseguenza l’Agenzia non interverrebbe, e i delitti sarebbero compiuti. Pertanto, i precog dovrebbero, in definitiva, effettuare le predizioni.
Alla base dell’impossibilità di tener conto dell’effetto delle profezie c’è dunque una motivazione strettamente logica. Proprio da qui, tuttavia, nasce l’incongruità segnalata da Bertetti, perché il racconto ipotizza invece che le informazioni di cui Anderton entra in possesso (essendo allo stesso tempo l’assassino e il direttore dell’Agenzia Pre-Crimine) alterino in qualche modo il corso degli eventi.
Bertetti ne conclude che Dick nasconde abilmente dietro un “gioco di specchi” la sostanziale impossibilità logica del racconto stesso. Tuttavia, la mia impressione è che Dick, invece, ci butti fumo negli occhi non per occultare il buco logico, ma per creare la sensazione di un corto circuito che, a conti fatti, non esiste, e che viene evocato solo per motivi di efficacia narrativa.
In realtà, se proviamo ad analizzare gli effetti prodotti da ciascuna delle tre predizioni, emerge chiaramente che Anderton rinuncia a uccidere Kaplan non perché è venuto a conoscenza del futuro crimine, ma perché inizialmente non ritiene di avere alcun motivo per farlo. Di fatto, non sa neanche chi sia Kaplan. Non è l’informazione di cui è venuto in possesso a fermarlo, dunque, bensì una mancanza di conoscenza.
Quando poi viene a sapere della seconda profezia, quest’ultima non fa altro che confermare la sua precedente decisione di non uccidere Kaplan. Anche in questo caso, la predizione non altera però il corso degli eventi. Quanto alla terza previsione, non è il fatto di conoscerla a convincerlo della necessità di uccidere Kaplan, ma la consapevolezza che questo è l’unico modo di salvare l’Agenzia Pre-Crimine. Pertanto, nessuna delle tre previsioni comporta in realtà una modificazione degli eventi derivante dal fatto di essere conosciuta da Anderton. Esse risultano sostanzialmente ininfluenti. Lo svolgimento della trama è perciò auto-consistente, benché appaia non-lineare.
Un dubbio ulteriore potrebbe derivare semmai dal fatto che Anderton non è l’unico a conoscere, in tempi diversi, le tre profezie. Anche Kaplan, infatti, ne viene a conoscenza. Si potrebbe anzi pensare che il contenuto della prima predizione lo dissuada dal tentare di porre Anderton con le spalle al muro, perché questo è il motivo per cui Kaplan viene, alla fine, ucciso. In realtà, Kaplan ha semplicemente di fronte due diverse strategie, affrontare Anderton di petto o tentare di ingannarlo, e decide di attuare la seconda. Non c’è motivo di pensare che, se non fosse venuto a conoscenza della prima profezia (o anche delle altre due) avrebbe certamente scelto la prima alternativa.
Perciò, in definitiva, siamo autorizzati a concludere che le tre profezie non tengano conto di se stesse, né degli effetti da esse prodotte. La prima ipotizza una linea strategica di Kaplan, mentre la seconda ipotizza la scelta di una strategia diversa, che è poi quella effettivamente adottata. Quanto alla terza, si basa sull’ipotesi (poi realizzatasi) che Anderton scoprirà l’inganno di Kaplan. Anzi, il fatto che Kaplan non riesca a sfuggire alla morte, malgrado venga a sapere della terza previsione, dimostra la non influenza delle profezie sul corso degli eventi.
Più esattamente, la conoscenza delle predizioni fornite dai precog non annulla le predizioni stesse, ma piuttosto contribuisce alla loro realizzazione, il che però non produce contraddizioni. Come precisa Bertetti alla nota (7): “Semmai la conoscenza della profezia permette ad Anderton di sfuggire all’arresto e, alla fine, di uccidere Kaplan, ma questi fatti non creano paradossi logici.”
Rimane il fatto che è lo stesso Dick a cercare di convincerci che le cose vadano diversamente. Anderton prende la decisione di uccidere Kaplan non dopo aver scoperto il suo complotto, bensì dopo aver ascoltato i nastri registrati contenenti la terza previsione. Questa sequenza temporale ci dà l’impressione che sia la predizione a far precipitare gli eventi, ma in realtà Anderton, mentre ascolta i nastri, si rende semplicemente conto che uccidere Kaplan è l’unico modo di salvare l’Agenzia Pre-Crimine (infatti è ciò che dice a Witwer).
È ancora Dick, per bocca di Anderton, a ricostruire gli eventi in modo da farci credere che le tre predizioni formino una sequenza in cui ciascuna delle tre annulla la precedente, per cui la terza si realizza perché non è arrivato un altro rapporto che possa invalidarla. Qui si tratta di intendersi sul significato dei termini “annullare” o “invalidare”. Essi esprimono semplicemente il fatto che ciascuna profezia è più accurata della precedente, e quindi possiede un grado più alto di probabilità. Sarebbe invece un errore intendere l’annullamento delle prime due linee temporali nel senso che siano le informazioni fornite dalle tre predizioni a modificare gli eventi.
Chiaramente è proprio Dick a creare l’equivoco, per il modo in cui spiega gli avvenimenti. A mio avviso, il compiacimento con cui Anderton spiega le cose a Witwer esprime in realtà quello di Dick nei confronti del lettore. Non sono in grado di stabilire se Dick fosse consapevole dell’incongruenza presente nel suo modo di presentare le spiegazioni finali, ma sarei portato a pensare che la cosa non gli sia sfuggita. Perché allora ha scelto comunque questa soluzione narrativa?
A mio modo di vedere, le motivazioni possono essere due. La prima è che Dick si rendeva conto che il comune lettore di pulp non si sarebbe accorto di nulla. In effetti, solo un’analisi approfondita come quella di Bertetti poteva portare in luce l’incoerenza logica nascosta dietro il gioco di specchi. Ma questo non spiega ancora la scelta narrativa di Dick. La mia ipotesi è che Dick avesse concepito il racconto come un esempio di come la conoscenza del futuro possa modificare il futuro stesso. Se ciò è vero, è chiaro che non avrebbe rinunciato così facilmente a presentare il racconto come se ciascuna delle tre predizioni avesse l’effetto di modificare la relativa linea temporale, anche se in realtà si tratta di una sequenza di tre profezie staccate l’una dall’altra, come del resto precisa lo stesso Anderton, affermando che ciascuno dei tre rapporti “era a sé stante”.
A Dick sembra sfuggire che il racconto, come nota Bertetti, “si presenta come una variazione sul tema della realizzazione delle profezie”. Più esattamente, si tratta forse di auto-realizzazione. Anche senza il gioco di specchi, Minority Report rimane dunque un esempio di come la conoscenza del futuro possa alterare il futuro. È probabile, comunque, che Dick abbia semplicemente pensato che l’idea di una sequenza di predizioni che si neutralizzano l’una con l’altra potesse avere un maggiore impatto “drammaturgico”.
Confesso che, prima di aver letto l’articolo di Bertetti, la contraddizione mi era sfuggita. Tuttavia, andando a rileggere il mio testo, ho visto che mi ero già accorto di una discrepanza tra il resoconto conclusivo fatto da Anderton (e dunque dallo stesso Dick) e la struttura effettiva degli eventi. Proprio in questa discrepanza, secondo me, si può trovare la chiave per portare l’analisi di Minority Report oltre il punto in cui i due precedenti articoli, quello di Bertetti e il mio, erano arrivati ciascuno per conto suo. In tal senso, il presente scritto intende essere un approfondimento, piuttosto che una confutazione.

Nota di A.D.: Tre sono i precog del racconto (alla cui descrizione erano ispirati gli inquietanti Ibridi di BSG) e tre i loro responsi, aggiungo quindi agli altri due appena illustrati il mio parere.
Come sempre nel caso di PKD, la ricostruzione degli eventi narrata dal protagonista va considerata soggettiva del personaggio, e non oggettiva dell’autore: il resoconto conclusivo è di Anderton, non di PKD. Il fatto che i precog producano regolarmente rapporti di minoranza in realtà indica che almeno due di loro siano in grado di prevedere gli effetti delle loro premonizioni, e che ciascuno di loro veda più in là del precedente nella catena dei potenziali eventi. Dunque, alla Precrime, il caso standard si svolge così: il primo precog vede la linea temporale originaria, nella quale il delitto viene commesso; il secondo precog la linea temporale alterata, nella quale la Precrime conosce le profezie ma non agisce, e il delitto viene commesso; il terzo precog la linea temporale definitiva, nella quale la Precrime conosce le profezie, e agisce, sventando il delitto. Due responsi positivi, e uno negativo.
Quindi come s’è svolto il caso Kaplan? Il primo precog ha visto la linea temporale originaria, nella quale il delitto veniva commesso; il secondo precog la linea temporale alterata, nella quale Anderton, scoperte le profezie, decideva di non agire, non commettendo il delitto; il terzo precog la linea temporale definitiva, nella quale Anderton, conosciute le profezie, finiva per decidere di agire, commettendo il delitto. Anche stavolta due responsi positivi, e uno negativo. Nessuna incongruenza. Anche stavolta a fare la differenza non è tanto conoscere le profezie, ma decidere se, e come agire.
PKD non era certo intenzionato a criticare lo sviluppo della scienza, della tecnologia, della conoscenza in sé, ma l’uso che gli individui e la società ne fanno. Da autore e vero appassionato di fantascienza infatti non utilizza la Precrime solo come metafora profetica della sorveglianza globale, del profiling  di massa, ma è in grado di suggerire persino le potenzialità positive d’una conoscenza che consentisse di sostituire la gestione repressiva dell’ordine pubblico con una preventiva (salvare delle vite, indebolire il braccio armato della legge) per poi mostrarci come queste potenzialità vadano inevitabilmente a farsi fottere, e cosa sia davvero a mandarcele.
Se la Precrime diventa criminogena, finendo addirittura per causare direttamente gli omicidi che dovrebbe sventare, non è perché gli uomini abbiano imparato a prevedere il futuro, ma perché non abbiano ancora imparato a non comportarsi da stronzi.

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