militarizzazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache marsigliesi / 4: l’alba verrà, provate a ripassare https://www.carmillaonline.com/2023/06/01/cronache-marsigliesi-4-lalba-verra-provate-a-ripassare/ Thu, 01 Jun 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77311 di Emilio Quadrelli

Forse ci sono tempi più belli, comunque questo è il nostro (J. P. Sartre)

Con questo testo concludiamo, almeno per il momento, le nostre “Cronache marsigliesi” pur augurandoci di poterle riprendere al più presto. Se ciò avverrà vorrà dire che questo lavoro poggiava su basi minimamente solide e che il tempo dedicatovi non è andato perso. Alle quattro puntate presenti ne seguirà una quinta la quale tenterà di fare un bilancio “politico” di quanto qua appreso in forma cronachistica e avendo a mente anche i [...]]]> di Emilio Quadrelli

Forse ci sono tempi più belli, comunque questo è il nostro (J. P. Sartre)

Con questo testo concludiamo, almeno per il momento, le nostre “Cronache marsigliesi” pur augurandoci di poterle riprendere al più presto. Se ciò avverrà vorrà dire che questo lavoro poggiava su basi minimamente solide e che il tempo dedicatovi non è andato perso. Alle quattro puntate presenti ne seguirà una quinta la quale tenterà di fare un bilancio “politico” di quanto qua appreso in forma cronachistica e avendo a mente anche i materiali raccolti nelle puntate di “Lotte organizzazione dei dannati di Marsiglia” che Carmilla ha ospitato.

Detto ciò, andiamo subito al sodo. Questa puntata ruota tutta intorno agli esiti dell’incontro nazionale, del 6 e 7 maggio, organizzato dalla rete marsigliese dei precari e dei disoccupati. Un incontro che se da un lato ha evidenziato la concreta possibilità della “messa in forma” di un’organizzazione complessiva della nuova composizione di classe, dall’altro ha altresì posto in luce la non linearità di questo passaggio. A partire da ciò abbiamo costruito l’articolo su due interviste che, a ragione, possono ben esemplificare il senso e i toni del dibattito in corso. Tagliando le cose un po’ con l’accetta possiamo dire che a delinearsi sono due ipotesi le quali, pur condividendo la medesima base analitica, tendono a optare per due ipotesi politiche non proprio identiche. In realtà, ma questa è l’opinione di chi scrive, più che in contrapposizione dovrebbero essere complementari anche se, a prescindere dal punto di vista dell’autore, occorre dare conto di dette differenze.

Per semplificare possiamo dire che da un lato vi è una visione molto più “partitica” e “ortodossa”, dall’altra una “movimentista” ed “eretica”. Cominciamo con l’ascoltare L. R. , infermiera precaria e avanguardia politica a tutto tondo della rete dei precari e dei disoccupati, la quale, nel dibattito in corso, incarna significativamente la tendenza maggiormente ortodossa. Per riprendere il filo del discorso siamo ripartiti da quanto andato in scena in Francia e le prospettive di quel movimento per calarci, subito dopo, sulle giornate del 6 e 7 maggio e le ipotesi che da queste sono scaturite.

Sono passati venticinque giorni dal Primo maggio e, a quanto pare, non sembra esservi più alcuna traccia di tutta quella mobilitazione che sembrava dover rovesciare Macron e il suo progetto. Voi siete stati sempre molto cauti sulle reali possibilità di questo movimento e i fatti sembrano darvi ragione. Molto sinteticamente puoi provare a fare un bilancio di tutto ciò?

Direi che si è avuta una conferma di ciò che noi, pur standoci dentro e cercando di far convergere nelle manifestazione anche quella fetta di classe operaia e proletariato rimasta in disparte, abbiamo detto sin da subito sulla natura di questo movimento. In piazza è scesa sostanzialmente l’aristocrazia operaia in difesa di una sua condizione. Questa lotta aveva almeno due limiti, da un lato non era in grado di parlare al resto della classe operaia e del proletariato, e diciamo anche che non ha provato a farlo, dall’altro non ha compreso minimamente la cornice nella quale si muoveva. L’attacco di Macron era un attacco tutto politico finalizzato ad azzerare le postazioni di forza e di potere che questi settori di classe erano, e in parte sono, in condizione di esercitare. La cornice non era quella dello scontro sindacale ma del conflitto politico, insomma una questione di potere. Ciò era, ed è, molto chiaro al governo ma non lo è stato per nulla per chi è sceso in piazza. L’idea, per spiegarsi, da parte di chi è sceso era un po’ questa: Ora gli facciamo vedere che siamo incazzati e questi fanno marcia indietro. Il governo, invece, è andato avanti e chiaramente, di fronte a ciò, si sarebbero dovute fare altre cose, bloccare, e non per un giorno, la Francia, si sarebbe dovuto generalizzare la lotta e prendere atto che si andava incontro a uno scontro di potere e quindi costruire degli organismi di potere in aperta rottura con lo stato. Che questi settori di classe potessero approdare a scelte simili era, però, del tutto improbabile. Questi settori di classe non sono anticapitalisti e non lo sono per natura quindi era, come si è dimostrato, del tutto improbabile che potessero arrivare a simili conclusioni. Diciamo che l’errore è stato un errore di fondo, non aver compreso che lo scenario politico è del tutto cambiato e che la borghesia imperialista non ha più alcuna intenzione di governare attraverso una perenne mediazione. La fermezza di Macron è stata quanto mai significativa. Con la riforma delle pensioni ha aperto una breccia enorme e a partire da questa sarà in grado di dilagare e, passo dopo passo, fare fuori tutta quella forza e rigidità operaia che è propria del mondo dei garantiti. Si diceva: Non diventeremo come l’Italia, ma il progetto di Macron è proprio quello di modellare la Francia sull’Italia. Al momento sembra riuscirvi. L’azzeramento della aristocrazia operaia, o di un suo corposo ridimensionamento, è un processo oggettivo dell’attuale sistema capitalista. I tempi di questa destrutturazione non sono certi anche perché molto dipenderà dalle lotte di resistenza che verranno messe in campo ma, questo mi sembra essere il dato obiettivo, la linea del comando è chiara.

Processo, quindi, irreversibile? Dentro questo movimento non si sono avuti segnali che le cose potrebbero andare in altro modo? Insomma i giochi sono fatti?

Non necessariamente. Qualche rottura, non di grandi dimensioni, ma significativa c’è stata. Qua a Marsiglia un gruppo di ferrovieri ha bloccato, nonostante l’opposizione della CGT, la stazione. Questo gruppo ha iniziato a relazionarsi con noi e a discutere il passaggio dentro un’altra struttura sindacale che noi abbiamo individuato nel SUD dove siamo riusciti a costruire un nostro solido gruppo tra i precari della sanità, degli educatori sociali e della ristorazione. Questo, quello della ristorazione, è stato un passaggio molto importante perché, come dirò più avanti, ha posto le premesse per l’organizzazione di un settore di classe che a Marsiglia è molto ampio. Oltre ai ferrovieri vi è anche un gruppo di postali che, nel corso di questa lotta, ha rotto con la CGT e ha iniziato a parlare con noi, non per fare la rivoluzione, sia chiaro, ma per trovare una struttura dove poter difendere la propria condizione. Quello che è successo a Marsiglia è successo anche altrove, Lione tanto per dire ma anche a Lille e pur Parigi anche se di Parigi non ne sappiamo molto, dobbiamo però tenere presente che, al momento, si tratta di rotture di gruppi di avanguardie non ancora in grado di tirarsi dietro la gran massa interna alla CGT. La cosa che non bisogna fare è crearsi delle facili illusioni ma avere la consapevolezza che ciò che dobbiamo svolgere è una attività il cui scenario è la lotta di lunga durata senza illuderci che di colpo vi siano delle spallate o almeno delle spallate in grado di incrinare il potere imperialista. Se pensi a cosa sono state la banlieues nel 2005 e nel 2006 e cosa, in concreto, ne è uscito fuori diventa evidente che senza organizzazione e progettualità politica anche le più radicali insorgenze di massa sono destinate al fallimento. Quindi ciò che oggi va privilegiato è un costante processo di lotta e organizzazione finalizzato a costruire quadri politici a tutti gli effetti. Un altro aspetto che occorre tener presente è la prossima scadenza di settembre. Con le pensioni il governo ha inserito un cuneo che proverà a utilizzare, un fronte dietro l’altro. Il prossimo passaggio, una riforma della sanità all’italiana per capirsi, è già in programma per settembre. Lì potrebbero prodursi fratture anche più consistenti, vedremo.

La tua descrizione appare convincente e i fatti, per di più, sembrano confermarlo. A fronte di ciò, tuttavia, rimane irrisolta la “linea di condotta” del resto della classe operaia e del proletariato non garantiti. Questi non sono entrati in gioco ma non hanno neppure mostrato di avere una qualche progettualità alternativa. Come si risolve questo impasse?

Il cuore della questione è, come ti ho accennato, l’assenza di un progetto politico in grado di unificare le lotte e i comportamenti di questi settori di classe. Sotto questo aspetto possiamo prendere Marsiglia come vero e proprio paradigma. Questa città, insieme a tutte le sue piccole città satelliti, incarna completamente la realtà di classe contemporanea. Una realtà che vede sempre meno una classe operaia strutturata e un dilagare di forme di esistenza proletaria che oscillano tra le varie tipologie di precariato, alla condizione di disoccupato senza trascurare le quote di proletariato che entrano continuamente nei circuiti illegali. Questa è la fotografia di Marsiglia che, secondo noi, rappresenta, sicuramente non da sola, il destino delle masse proletarie francesi. Marsiglia non è una città facile tanto che, come certificano un po’ tutti i documenti polizieschi, è considerata una città estremamente pericolosa. Su questo è importante dire qualcosa poiché, la svolta propriamente turistica di Marsiglia, ha comportato processi di militarizzazione del territorio non proprio irrilevanti. Apro questa parentesi perché mi sembra molto significativa. Marsiglia ha sempre avuto questo primato di città pericolosa in Europa anche se qualcuno, sicuramente esagerando, la colloca tra le aree urbane più insicure del mondo. Ciò che è sicuramente vero è che questa città è attraversata da una tensione costante con periodiche esplosioni di rabbia. Rabbia sicuramente impolitica insieme a tutto un insieme di comportamenti illegali che la rendono sicuramente molto poco rassicurante soprattutto se, a differenza del passato, il turismo diventa una delle principali voci economiche della città. Qua si aprono una serie di questioni. Mi accorgo che non sto seguendo il filo della tua domanda. Vorrei dilungarmi su questo perché ha molto a che vedere con ciò che noi facciamo o almeno ci proviamo. Ok?

Sicuramente sì, quello che dici mi pare di estremo interesse, quindi affrontare il tema della militarizzazione, ma non da meno quello di Marsiglia città turistica, mi pare essenziale per comprendere dei passaggi che non sono sicuramente locali. Io vivo a Genova e qua siamo del tutto immersi in uno scenario simile.

Bene. Intanto cominciamo con il dire che cosa significa città turistica e a quale tipo di turismo si fa riferimento. Un certo tipo di turismo di élite vi è sempre stato e questo, per forza di cose, è sempre stato racchiuso in determinati perimetri. Se guardi, la stessa zona centrale di Marsiglia, mi riferisco all’area del Vieux – Port, è sempre stata una zona un po’ a sé che poco o nulla aveva a che spartire con il resto della città. Basta pensare che la zona di Noailles, considerata una zona particolarmente insicura e abitata principalmente da algerini e comoriani, è praticamente a ridosso del Vieux – Port. Questo turismo interagiva poco o nulla con la città. Aveva e ha i suoi locali, i suoi yacht, i suoi alberghi di lusso, gli appartamenti da film e le sue ville. Accanto a questo c’era un turismo diciamo di nicchia, persone attratte da Marsiglia le quali arrivavano intenzionate magari a rimanervi. A questi, volendo, possiamo aggiungervi i francesi poveri, soprattutto di Parigi, che venivano al mare a Marsiglia appoggiandosi ai parenti di qua. Questo turismo, sotto tutti i suoi aspetti, incideva molto poco sulla vita della città. Mi pare abbastanza indicativo ricordare che, un po’ da sempre, in estate Marsiglia, per il suo clima, diventa la meta di molti senza fissa dimora. Vedere persone accampate per le vie della città è abbastanza normale e questo non in qualche luogo fuori dalla vista, ma nel centro stesso della città. Chi, nella bella stagione, arriva a Marsiglia con il treno o il bus e scende per la scalinata di Saint – Charles si ritroverà nel viale adiacente dove incontrerà non pochi accampamenti. Non sto scherzando. Vi sono interi nuclei familiari che, di fatto, vi abitano. Sotto questo aspetto Marsiglia è sempre stata una città molto tollerante nonostante le sue amministrazioni di destra. Questo clima sta ormai decisamente cambiando e la causa è il turismo di massa. Turismo di massa vuol dire trasformare il più possibile la città in una vetrina omologata agli standard propri del turismo di massa. Questo, tra l’altro, comporta due cose. Da una parte rimodellare, sotto il profilo urbano e architettonica, la città su quello che è pensato come modello globale della città ovvero far perdere l’identità storica di una città al fine di renderla simile a tutte le altre; dall’altro inventare e costruire luoghi caratteristici, come nel caso del quartiere Le Panier, del tutto inventati e completamente estranei alla sua storia. A differenza del turismo di élite, che non ama sicuramente dilatarsi ma, al contrario, mira a essere del tutto esclusivo quello di massa deve continuamente espandersi. Questo vuol dire che sempre più aree della città devono essere messe a valore, la militarizzazione del territorio soggiace esattamente a questo passaggio che va colto come passaggio tutto interno al ciclo della produzione. La sicurezza non è un totem fascista ma parte integrante di questo ciclo economico. Se, in tendenza, tutta o gran parte della città deve diventare una meta turistica, la messa in sicurezza del territorio è il presupposto dell’organizzazione capitalista della e sulla città. Se oggi, chi dorme per strada, non è oggetto di scandalo perché non sono i turisti che attraversano quelle strade domani, che è già oggi, lo diventa. Messa in sicurezza del territorio da un lato, ma anche disciplinamento della popolazione e della forza lavoro dall’altro. Questo è l’altro aspetto che il turismo di massa si porta appresso. Militarizzazione significa spingere sempre più a nord coloro i quali sono individuati come classi pericolose ma anche essere un potente deterrente per quella forza lavoro impiegata nel turismo alla quale è negata ogni visibilità politica e sociale a partire, e non è proprio cosa da poco, alla libertà di organizzarsi sindacalmente. L’abbiamo presa un po’ alla lontana ma siamo tornati al nostro tema, il problema dell’organizzazione politica di questi enormi settori operai e proletari. Molti affrontano la questione della militarizzazione come aspetto puramente repressivo e non colgono il nesso ciclo economico – repressione. Lo stato non attua la militarizzazione perché ha l’ansia della repressione, ma militarizza perché questa è funzionale a un determinato tipo di economia. Qua a Marsiglia le amministrazioni di destra avevano determinate forme di tolleranza che l’attuale di sinistra non ha. Questo cosa vuol dire che la destra è tollerante e la sinistra no? La trasformazione di Marsiglia in città turistica obbliga, dal punto di vista del comando, a determinati passaggi e questi passaggi diventano di fatto obbligati per chi è chiamato a gestire la trasformazione.

Stiamo andando oltre il nostro spazio per cui torno su quello che, almeno inizialmente, mi ero prefisso di chiederti. Nel precedente articolo mi avevate parlato di questo incontro nazionale con un insieme di realtà con le quali condividevate molti aspetti. Questo incontro si è svolto il 6 e il 7 maggio. Puoi farmene, per quanto difficile, un resoconto esauriente e sintetico?

Ci provo. Prima, però, vorrei aggiungere una cosa che mi sembra rilevante. Non so se in Italia avete idea di ciò che sta succedendo a Mayotte, che è un dipartimento francese d’Oltremare delle isole Comore. Lì è in corso un conflitto piuttosto duro tra la popolazione e la frazione di comoriani legati alla Francia. A Marsiglia vi è una grossa fetta di comoriani. Questi vivono, per lo più, nella zona di Noailles che è anche una delle zone più povere e considerate insicure di Marsiglia e il conflitto a Mayotte li ha messi in movimento facendo emergere tutta una memoria anticoloniale e antimperialista. Con alcuni di questi, che ovviamente sono per lo più disoccupati e illegali, siamo entrati in contatto e la cosa, oltre a permetterci di entrare dentro Noailles come forza politica e sindacale ci ha rinforzata la convinzione di quanto importante sia un discorso politico sull’imperialismo. Ora provo a rispondere alla tua domanda. Questo incontro ha visto la presenza di compagni provenienti da una quindicina di città. Le realtà più significative sono quelle di Lione, Lille, Grenoble e Saint Etienne perché sono quelle con un maggior radicamento dentro le realtà sociali. In queste quattro città, infatti, sono presenti dei comitati popolari di quartiere che svolgono attività del tutto simili quelle che stiamo portando avanti noi qua a Marsiglia. Non sto a ripeterti delle cose che, in gran parte, ti sono state dette nel corso degli articoli che hai scritto. Diciamo che, grosso modo, per quanto riguarda l’analisi della composizione di classe, la fase politica che stiamo vivendo e così via abbiamo riscontrato punti di vista sostanzialmente comuni. Ci sembrava, e questa è stata la nostra proposta politica, che una delle principali carenze che riscontriamo è l’assenza di una dimensione politica. Mi spiego. Manca una analisi complessiva sulla fase imperialista contemporanea, un discorso chiaro sulla guerra e la Nato, sulla militarizzazione dei territori, sulla questione femminile. Manca una teoria politica senza la quale pensiamo impossibile costruire organizzazione. Allora il primo passaggio che ci siamo dati è fare una rivista che assolva a questo compito. Un giornale non è sicuramente tutto, ma è lo strumento indispensabile per costruire organizzazione. Questo è quanto principalmente è uscito fuori dalla riunione del 6 e 7 maggio. Ora si tratta di andare a una verifica di tutto ciò.

Il punto di vista ascoltato non è il solo emerso nel corso della riunione. Qualcosa di diverso, anche se non apertamente contrastante, emerge attraverso le parole di S. D. una attivista già protagonista nel corso delle Corrispondenze precedenti. S. D., pur condividendo pressoché in toto le argomentazioni analitiche esposte da L. R., sembra propendere per uno sviluppo organizzativo abbastanza diverso. Le sue argomentazioni ci appaiono particolarmente utili, nonché interessanti, poiché, come si ricorderà S. D., sta svolgendo un ruolo importante nell’occupazione abitativa nel Terzo. Le sue sono le parole di “una avanguardia di lotta” la quale, forse più di altri, è in grado di comprendere le varie sfaccettature che fanno da sfondo alla vita delle masse. Il suo essere “empirico” sembra essere ben distante da un empirismo incapace di cogliere la complessità ma, al contrario, proprio in virtù di questo empirismo appare in grado di calarsi per intero dentro la classe, coglierne gli umori e le immancabili contraddizioni così come, proprio grazie a questo empirismo, pone in evidenza quanta importanza abbiano gli immaginari, le culture e le sub culture per le masse subalterne. Se, come noto, non di solo pane vive l’uomo i “punti di vista” dei subalterni vanno colti, interpretati e fatti propri. Questo, del resto, non è una novità. Se pensiamo all’Italia e al peso che, negli anni ’60, hanno avuto le “culture underground” nel definire una certa idea della rivoluzione, nella quale l’antiautoritarismo era diventato il collante unitario di tutto ciò che si apprestava a mettere radicalmente in discussione gli assetti sociali (il che aveva ben poco a che vedere con la tradizione del movimento operaio), diventa non solo ovvio, ma persino banale, tenere presente il punto di vista di S. D. Non ce ne vogliano i comunisti ad hoc ma è indubbio che per una intera generazione operaia i Rolling Stones siano stati molto più importanti di Stalin e i Teddy Boys dei Soviet. Perché oggi dovrebbe essere diverso? Perché oggi lo sfondo culturale o sub culturale che dir si voglia dei subalterni dovrebbe essere ignorato? Pur con tutte le sue contraddizioni, delle quali non è possibile rendere conto nel contesto, la generazione che negli anni ’70, in Italia. ha portato l’assalto al cielo è sicuramente rintracciabile più dentro Parco Lambro che nelle anguste sedi dei vari partitini comunisti già pronti a farsi nuova polizia. Sulla scia di questi presupposti ascoltiamo S. D.

Ciao, a quanto ho capito tu hai una visione delle cose che non coincide esattamente con quanto abbiamo appena sentito. In che cosa tu e non solo ti differenzi?

Allora, intanto faccio una premessa, da un punto di vista dell’analisi concordo interamente con quanto detto da L. R. per cui non starò a ripetere cose già dette. Veniamo invece alle cose sulle quali mi ritrovo meno. L’idea di una rivista, un giornale quello che è va sicuramente bene, ma è sul taglio che ho dei dubbi. Dubbi che finiscono con l’avere a che fare sulla nostra pratica. Ecco la prima cosa che non vorrei fare è un giornale dei e per i comunisti. Di cosa ce ne facciamo? Lo leggiamo tra di noi? Serve al movimento di massa? Non credo. Certo mettere dei punti fermi è importante , non è che si può andare avanti senza avere un’idea il più chiara possibile su dove siamo, cosa succede complessivamente e via dicendo questo è sicuramente un aspetto fondamentale ma non possiamo privilegiare questo aspetto perché così veniamo a perdere la dimensione reale delle masse. Così si finisce con il parlare una lingua che rimane estranea insomma a me sembra che così si finisca con il partire da noi per arrivare a noi e questo sicuramente non va bene. Certo, in questo modo, diventa tutto più facile ma questa scorciatoia che effetti ha? Come si relazione con il movimento reale? Quanto è in grado di raccogliere ciò che, sicuramente in maniera estremamente contraddittoria, proviene dalle masse? La compagna ha parlato delle ipotesi teoriche del giornale/rivista mentre io mi focalizzerei maggiormente sull’iniziativa che stiamo costruendo dentro al Terzo, ovvero aprire una sala boxe anche dentro a quel quartiere. Se siamo arrivati a questo punto, e credo che il bilancio di ciò che abbiamo fatto sia estremamente positivo, è perché siamo partiti dalla classe e abbiamo sempre avuto la classe, nella sua concretezza e non come astrazione, come punto di riferimento. Ecco, per certi versi, mi sembra che corriamo il rischio di rincorrere l’astrazione dimenticandoci della dimensione concreta la quale, come abbiamo visto anche di recente, non è per nulla facile. Sarò un po’ minimalista, ma ciò che maggiormente mi ha convinto della riunione che abbiamo fatto il 6 e il 7 maggio è il collegamento con i comitati popolari di quartiere, i collettivi operai di Saint – Etienne e Lione. Credo che è a partire da queste realtà che diventa possibile costruire organizzazione perché è dentro a queste situazioni che è possibile avere costantemente il polso della classe e interagire positivamente con questa.

Vorrei portare l’intervista su due aspetti. Il primo è perché e in quale prospettiva state cercando di aprire una sala boxe nel Terzo? Il secondo riguarda i problemi , che hai brevemente accennato, che riguardano la complessità e anche la difficoltà che comporta stare costantemente dentro la concretezza della classe.

L’apertura della sala boxe nel Terzo indica la riuscita che l’occupazione abitativa che stiamo portando avanti in cooperazione con gli abitanti del quartiere sta dando dei risultati che vanno di gran lunga oltre le aspettative che potevamo immaginare. Il Terzo, come un po’ tutti sanno, è un quartiere difficile e complicato dove non vi era alcuna presenza politica e sociale. Per molti versi possiamo dire che il Terzo rappresenta l’esclusione tra l’esclusione. Oggi possiamo dire che lì è in atto una sperimentazione politica e organizzativa che potrebbe trasformare questo luogo considerato un po’ da tutti come il quartiere reietto in quartiere di avanguardia. Oggi, a Marsiglia, il Terzo può essere considerato, almeno dal punto di vista territoriale, il punto più avanzato del conflitto sociale. Ciò dimostra come sia necessario andare tra gli strati più profondi della popolazione e per farlo occorre, per prima cosa, essere in grado di ascoltare ciò che da quegli strati proviene. L’apertura della sala boxe è un passaggio che abbiamo discusso dentro al Comitato di quartiere a partire dal fatto che il poter disporre di uno spazio sociale e sportivo è una necessità politica del quartiere e infatti avrà la connotazione di Casa del popolo e non semplicemente quella di Collectif Boxe Massilia. Il fatto che questa richiesta sia stata portata avanti da non poche donne mi pare decisamente importante e qua vorrei aprire una parentesi. Noi stiamo riscontrando un notevole successo tra le donne proletarie. Questo è vero nel Terzo e un po’ ovunque. Questo significa che vi sono tutti i presupposti per costruire una rete femminista operaia e proletaria in aperta opposizione al discorso del femminismo borghese. Uno dei punti centrali di questa organizzazione dovrà essere l’autodifesa e il rifiuto della delega di se stesse agli apparati statali. Sotto questo aspetto alcune indicazioni che provengono dalle esperienze delle donne curde mi sembrano decisamente importanti. Con questo voglio dire che dobbiamo essere in grado di recepire tutto ciò che proviene sia dalla classe, sia dalle esperienze rivoluzionarie del presente. Anche il Black Panther Party quando è sorto era visto come una specie di eresia mentre oggi, tutti e proprio tutti, lo considerano un’icona non dissimile dal partito di Lenin il quale, dal canto suo, ai suoi tempi non è che fosse considerato uno proprio in linea.

Mi hai parlato di contraddizioni e problemi che avete incontrato nel lavoro di massa i quali sono stati oggetto di notevoli discussioni.

Ti parlo di un solo episodio perché mi sembra che sia quello che ha portato al pettine tutta una serie di nodi. Mi riferisco al meeting di boxe, Ladies Boxing Perf’ Marseille che abbiamo organizzato nei Quartieri Nord. Lì sono emerse una serie di contraddizioni non proprio da poco. Il primo è stata la questione del velo. Alcune volevano combattere con il velo. Questo la Federazione non lo consente e quindi è successo un casino. Inutile che stia a entrare nei dettagli della giornata, ciò che importa è come ci rapportiamo alla questione del velo perché è una cosa che, ovviamente, non ci ritroviamo solo nella boxe. Molte ragazze giovani indossano il velo, questo è un fatto. Il velo, poi si può discutere sino a domani su questo, è una forma di identità anticoloniale e antistatuale che le giovani donne, almeno alcune, utilizzano. Possiamo liquidare questa prassi come arcaicità, come aspetto reazionario o addirittura come un comportamento filo-fondamentalista o dobbiamo vederla in un altro modo, ma se optiamo per questo non è che possiamo risolverla con una bella lezione di marxismo. A Marsiglia l’islamismo non ha preso molto ma un po’ ha preso e lo ha fatto perché noi, dico noi comunisti, non siamo in grado di affrontare la questione in profondità e finiamo, anche senza volerlo, con l’approdare nell’islamofobia. Ovviamente dentro il Collectif questo ha aperto un dibattito che non è ancora risolto.
Il secondo casino che è emerso è stato causato dalla sessualizzazione, chiamiamola così, che soprattutto le pugili lesbiche hanno impresso ai combattimenti. In poche parole, così come alcune donne musulmane hanno voluto rimarcare attraverso il velo la loro identità, le pugili lesbiche hanno voluto rimarcare il loro essere lesbiche in un contesto prevalentemente omofobo. E qua un altro bel casino. Certo, ed è la cosa più facile da dire, si può intervenire dicendo: “Questo è un incontro di boxe e tutto il resto non c’entra”, lo si può dire, ma la cosa chiaramente non funziona. Così come il velo è un modo, discutibile sin che si vuole, è un modo per contrastare una discriminazione, ostentare determinati comportamenti sessuali è un modo per rifiutare il ghetto. Ultima cosa lo scontro tra gang. Al meeting erano chiaramente presenti gran parte delle gang e evitare il peggio non è stata certo una passeggiata. Velo, omosessualità, gang possiamo ignorarli avendo per ciascuno di questi aspetti una bella formuletta che risolve tutto, ma così rinunciamo a quote non irrilevanti di classe oppure entriamo in relazione dialettica con questi aspetti. Per farlo devi stare con continuità e costanza dentro le situazioni e con questo torno e chiudo con l’esperienza che stiamo maturando nel Terzo. Non è che lì tutte queste cose non esistano, non è che lì abbiamo trovato la classe fatta a nostra immagine e somiglianza, semplicemente abbiamo cercato di comprendere, interagire, far emergere delle contraddizioni e soprattutto abbiamo posto in atto dei percorsi di lotta perché dentro la lotta le cose si modificano. Questo è ciò che continueremo a fare.

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Il nemico interno/6 https://www.carmillaonline.com/2020/12/21/il-nemico-interno-6/ Mon, 21 Dec 2020 03:30:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64015 di Alexik

Sin dall’inizio della lotta, e con particolare intensità negli ultimi dieci anni, l’opposizione popolare al TAV Torino/Lione si è dovuta confrontare con un livello altissimo di violenza istituzionale, di cui la  criminalizzazione penale è un aspetto rilevante. La creazione di una corsia preferenziale per i procedimenti contro il movimento, con il coinvolgimento di  centinaia di imputati, l’esercizio dell’azione penale anche per reati “bagatellari”, l’abuso delle misure cautelari, l’utilizzo a piene mani del concorso e delle aggravanti, la particolare velocità dei processi,  la sproporzione delle [...]]]> di Alexik

Sin dall’inizio della lotta, e con particolare intensità negli ultimi dieci anni, l’opposizione popolare al TAV Torino/Lione si è dovuta confrontare con un livello altissimo di violenza istituzionale, di cui la  criminalizzazione penale è un aspetto rilevante.
La creazione di una corsia preferenziale per i procedimenti contro il movimento, con il coinvolgimento di  centinaia di imputati, l’esercizio dell’azione penale anche per reati “bagatellari”, l’abuso delle misure cautelari, l’utilizzo a piene mani del concorso e delle aggravanti, la particolare velocità dei processi,  la sproporzione delle condanne e delle sanzioni economiche, sono da anni parte dell’esperienza concreta dei militanti, ed evidenti a chiunque soffermi lo sguardo sul fenomeno repressivo in Valsusa.

Per questo tre  anni fa un gruppo di compagni e compagne ha ritenuto importante iniziare un’opera di archiviazione storica dei materiali processuali che rendesse possibile un’analisi più dettagliata della criminalizzazione giudiziaria nei confronti del movimento, la misurazione del fenomeno e la sua comparazione con altri campi di esercizio dell’azione penale.
Parallelamente si è provveduto alla creazione di un software per la gestione delle informazioni e dei documenti, con la costruzione (ancora in corso) di un data base ad uso degli studi legali di riferimento del movimento No TAV.

Il progetto ha tratto origine e ispirazione da un lavoro  già avviato da un militante storico della Valle. Si è sviluppato nutrendosi dei saperi di compagne e compagni provenienti dalla preziosa esperienza, maturata anche in SupportoLegale, nell’ambito del sostegno tecnico e politico agli imputati e ai legali di movimento dopo il G8 di Genova del 2001. Ha coinvolto informatici e giovani ricercatori e ricercatrici in campo giuridico,  con il sostegno della Associazione Bianca Guidetti Serra.
Si è trattato di un impegno importante,  con una grossa mole di lavoro, che ha permesso la catalogazione degli atti processuali  (nella loro parte accessibile: datazioni delle fasi, dibattimento e decisioni) per i processi aventi come imputati e imputate militanti del movimento No Tav, chiusi almeno in primo grado al 31 dicembre 2017.

Sui materiali archiviati si è appena conclusa una prima esperienza di ricerca a cura di Alessandro Senaldi,  incentrata in particolare su 151 procedimenti iscritti al Registro Generale Notizie di Reato (RGNR)  dal 2005 al 2016,  fra  i quali di 86 è stato possibile ricostruire in maniera completa la storia processuale.
La ricerca, pubblicata sulle pagine online della rivista Studi sulla questione criminale, comprende una parte quantitativa e relative valutazioni su cui è interessante soffermarsi.
Dati che confermano, in buona parte, la conoscenza maturata dal movimento attraverso l’esperienza diretta, ma che al contempo permettono una quantificazione più precisa di vari aspetti rilevanti dell’offensiva giudiziaria contro l’opposizione al TAV.

Lo sviluppo temporale della criminalizzazione giudiziaria

Il debutto della Procura e del Tribunale di Torino sul palcoscenico della vicenda TAV ha inizio nel 1998, con gli arresti di Silvano Pelissero, Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas, e  l’iscrizione del primo procedimento penale riconducibile al progetto dell’Alta Velocità Torino Lione.
Presto la morte di Sole e Baleno irrompe come un segno anticipatorio della violenza che lo Stato sarà disposto a mettere in campo a tutela della Grande Opera, così come il processo che segue contro l’unico sopravvissuto anticipa caratteristiche della criminalizzazione giudiziaria del movimento del decennio successivo, come l’utilizzo di imputazioni per terrorismo destinate a sgretolarsi in Cassazione.

A questo episodio premonitore faranno seguito diversi anni di quiete dell’azione penale, che riprenderà lentamente fra il 2005 e il 2006, per subire poi un’impennata dal 2010.
Senaldi traccia la curva di questa evoluzione, che mostra come si passi dall’assenza di procedimenti iscritti al RGNR  nel 2009 ai 40 del 2011, 34 nel 2012, 37 nel 2013. Procedimenti che comportano il coinvolgimento di centinaia di imputati.

“Tale impennata – commenta l’autore –  se per alcuni versi appare naturale conseguenza della radicalità espressa dal movimento a fronte dei primi passi concreti mossi dalla compagine promotrice, può anche essere letta come l’effetto della nascita del “Gruppo Tav”, ovvero il pool di magistrati istituito, contestualmente alle prime operazioni di implementazione dell’opera, dal procuratore capo Caselli (il 13/1/10)”.

Va detto che, se è vero che i primi passi concreti per l’apertura dei cantieri determinano l’intensificarsi delle azioni di contrasto e le relative denunce, ciò che alimenta il rapido sviluppo e i contenuti dell’azione penale è la militarizzazione della Valle.
È lo Stato che provoca lo scontro, che ne moltiplica le occasioni con il massiccio dispiegamento di truppe sul territorio, e che ne traduce l’esito in una miriade di notizie di reato, grazie anche ad una particolare ‘produttività’ a riguardo da parte della digos di Torino.

Il “Gruppo TAV” della Procura è l’ingranaggio successivo, che ha cura di adoperarsi affinché ogni denuncia contro i militanti – anche quelle relative a infrazioni minimali – si trasformi prontamente in richiesta di rinvio a giudizio, generalmente accolta dal Giudice per le Indagini Preliminari.
C’è da tener conto inoltre del fatto che gran parte dei reati contestati ai militanti No TAV – proprio quelli generati dalle frizioni con le FF.OO. (violenza, minaccia, resistenza a pubblico ufficiale – articoli 336 e 337cp) – prevedono l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero attraverso la citazione diretta a giudizio, senza passare al vaglio del GIP.

Scrive Senaldi che su 80 procedimenti da cui è stato possibile ricavare il dato, sono ben il 62,5%  quelli in cui la fase delle indagini preliminari si conclude con la citazione diretta in giudizio da parte del PM.
Vi è quindi anche un meccanismo in presa diretta che collega l’efficientismo della Procura di Torino all’impennata delle iscrizioni nel Registro Generale Notizie di Reato.

Una Procura, peraltro, talmente efficiente da aver costituito il 13/01/2010 il ‘Gruppo TAV’ – con una nutrita assegnazione di personale (2 procuratori e 5 sostituti procuratore, su un organico complessivo della Procura di una cinquantina di PM) – ben prima che vi fossero reati rilevanti contro la Grande Opera su cui investigare1.
Molto meno solerte, invero, quando è il momento di procedere per le denunce sporte dai manifestanti No TAV per le violenze degli agenti delle FF.OO., il cui esito si conclude sistematicamente con l’archiviazione2.

Procedimenti “ad alta velocità”

La ricerca di Senaldi fornisce una quantificazione di quanto già chiaramente riscontrato dal movimento e dai suoi legali in termini di velocità dei procedimenti nelle loro varie fasi.
Partiamo dalle indagini preliminari.

Sugli 83 procedimenti in cui è possibile ricavare questo dato risulta una durata media delle indagini preliminari di 279 giorni, a confronto con il tempo medio sul territorio nazionale  (quando si tratta di reati con autore noto) di 404 giorni.
Sicuramente tale velocità trova spiegazione nella costruzione di un gruppo di PM specificamente dedicato,  o nell’ampio ricorso alla citazione diretta in giudizio da parte del PM, che salta il passaggio dal GIP.
Ma una interpretazione convincente emerge anche dall’analisi dei documenti del maxiprocesso ai No TAV ad opera della ricercatrice Xenia Chiaramonte:

Cronologicamente… vengono prima le annotazioni di polizia, poi il vaglio del PM … e poi il vaglio di un secondo magistrato, stavolta con funzioni giudicanti che è il giudice per le indagini preliminari.
Chi legge questi atti però si trova davanti dei testi che si citano l’un l’altro e che si avvalorano di passaggio in passaggio senza profondamente criticarsi al fine di quel profondo e sostanziale vaglio che il codice prevede. Il PM ripercorre in modo pressoché pedissequo le annotazioni della polizia giudiziaria, poi le trasferisce su un diverso documento che approda nelle mani del GIP, il quale al posto di valutarlo nel dettaglio lo conferma, e così, come analizzeremo, nel peggiore dei casi si arriva a una decisione dal tenore nuovamente troppo simile“.3

E ancora, nelle parole di una militante intervistata: “La procura è partita dalle informazioni Digos e ha finito la requisitoria con le stesse informazioni Digos, anzi si vede proprio negli atti, si vede che ci sono dei copia-incolla con gli stessi errori di ortografia presenti nelle annotazioni di servizio della polizia“.4
Vale a dire: le indagini le costruisce la Digos prima dell’inizio del procedimento, e poi attraversano tal quali le varie fasi del procedimento stesso senza che i PM e che i GIP si attardino in eventuali approfondimenti, confronti con altre fonti testimoniali, confutazioni, emendamenti vari, inutili correzioni ortografiche. Un modus operandi che con tutta probabilità accorcia i tempi notevolmente.

Ma, tornando ai dati elaborati da Senaldi, se nei procedimento contro i No TAV la velocità delle indagini preliminari è notevole, quella dei processi è addirittura stupefacente.
Uno dei parametri considerati dall’autore per valutarne la misura è il tempo che mediamente passa tra un’udienza e l’altra, ovvero la media in giorni che trascorrono per ogni rinvio.
È stato possibile calcolare questo dato su 63 processi contro il movimento, con un tempo medio di rinvio di 57 giorni.
Come emerge dal  “Rapporto sul Processo Penale 2008” dell’Unione delle camere penali italiane, presso il tribunale di Torino il rinvio ad altra udienza presenta tempi medi di 102 giorni per i processi monocratici e 82 giorni per quelli collegiali, mentre, la media nazionale è di 139 giorni per i primi e 117 per i secondi.
Al di là delle medie, vi sono casi (come al maxiprocesso), dove la frequenza delle udienze è risultata talmente alta  da suscitare le vibranti proteste degli avvocati difensori del movimento, che valutavano il calendario definito dal Tribunale di Torino come lesivo del diritto alla difesa, visto che gli impediva di prepararsi adeguatamente.

Per quanto poi riguarda la durata del primo grado di giudizio dei processi ai No TAV, calcolata come tempo trascorso dalla prima all’ultima udienza, “dalla comparazione con le statistiche fornite da fonti ministeriali in tema di velocità dei processi, emerge come quelli contro il movimento siano ad “alta velocità”, ovvero, 2,5 volte più veloci della media nazionale“.

Un’ “alta  velocità” che stride con la lentezza con cui, nella stessa città, è stato condotto il giudizio per lo stupro di una bambina, finito in prescrizione dopo 20 anni nel febbraio del 2017. (Continua)

Nota: i tre grafici qui riprodotti sono tratti da Senaldi, A. (2020) I dati dei processi contro i/le No Tav: un contributo al dibattito, in Studi sulla questione criminale online.


  1. I contorni di quest’ultima anomalia sono stati così delineati, tempo fa, dal Comitato Spinta dal Bass: “In effetti, solo nel gennaio 2010 iniziano i presidi e le manifestazioni di opposizione ai sondaggi, realizzati da LTF sui terreni della Consepi. La cosa curiosa è però che le prime due comunicazioni di reato per tali vicende arrivano sul tavolo della Procura rispettivamente il 10 gennaio e il 15 gennaio, per i primi due presidi effettuati in località Traduerivi il 9.1.2010 e il 12.1.2010. E invece, già il 13 gennaio dello stesso anno, dimostrando così una straordinaria capacità predittiva e divinatoria, i vertici della Procura decidono di costituire un’apposita sezione di magistrati, che, caso più unico che raro nella storia giudiziaria, viene istituita prima che i reati vengano commessi.
    Alla data della sua istituzione, infatti, la sezione Tav dispone di una sola notizia di reato, relativa, tra l’altro, ad un’invasione  terreni… vale a dire un reato che più modesto e inoffensivo non si può…
    E, invece, di fronte a tale fatto di evidente straordinaria tenuità … che fanno i vertici della Procura?
    Decidono di dirottare imponenti risorse umane ed economiche su questo fronte repressivo, distogliendo alcuni PM dai loro normali compiti d’ufficio per destinarli ad una sezione che non aveva però, in allora, materiale su cui investigare.
    La relativa sezione specializzata non nasce come risposta organizzativa alla necessità di affrontare una moltitudine di procedimenti per fatti simili (come ad esempio è avvenuto per le altre sezioni …) ma anticipa la verifica dell’esistenza di tali reati”. 

  2. Si consiglia, a riguardo, la visione del documentario Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa“. 

  3. Xenia Chiaramonte, Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No TAV, Meltemi, 2019, p. 109. 

  4. Ibidem, p. 198. 

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La classe operaia che non volle farsi Stato: Linea di condotta https://www.carmillaonline.com/2020/04/06/la-classe-operaia-che-non-volle-farsi-stato-linea-di-condotta/ Mon, 06 Apr 2020 21:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59202 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975 con una introduzione inedita, Interno 4, 2020, pp. 352, 20 euro

“Cos’è un grimaldello di fronte a un titolo azionario? Che cos’è la rapina di una banca confronto alla fondazione di una banca? Che cos’è l’omicidio di fronte al lavoro?” (L’opera da tre soldi – Bertolt Brecht)

Credo sia giusto, in questo quarantunesimo anniversario del 7 aprile e del teorema [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975 con una introduzione inedita, Interno 4, 2020, pp. 352, 20 euro

“Cos’è un grimaldello di fronte a un titolo azionario? Che cos’è la rapina di una banca confronto alla fondazione di una banca? Che cos’è l’omicidio di fronte al lavoro?” (L’opera da tre soldi – Bertolt Brecht)

Credo sia giusto, in questo quarantunesimo anniversario del 7 aprile e del teorema Kalogero, tornare a parlare di un’opera giunta alla sua terza edizione. A quattro anni dalla seconda (2016) e a dodici dalla prima (2008). Un’opera, quella di Emilio Quadrelli, che non soltanto ripercorre la storia dell’autonomia operaia italiana, dai primi anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta, a partire dal conflitto e dall’iniziativa di classe che la fondarono e le diedero le gambe su cui marciare, ma che, in questa nuova edizione, aggiunge un dato di tutto rispetto: la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta uscito nel 1975, accompagnata da un’esauriente Introduzione a cura dello stesso Quadrelli.

Una rivista uscita in numero unico, con datazione di copertina luglio-ottobre 1975, che avrebbe preceduto di poco «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti», uscito poi in nove numeri tra l’autunno di quello stesso anno e il settembre del 1977, di cui si è occupato recentemente sempre Emilio Quadrelli per Red Star Press (qui) proprio per riportare alla luce un’esperienza di analisi e pratica politica militante troppo a lungo rimossa dalla ‘storia ufficiale’ di ciò che è entrato nella memoria collettivaa come Autonomia Operaia.

Azzeccatissimo appare subito il titolo del primo paragrafo dell’introduzione alla rivista, Fuori dalle linee, proprio perché quel numero unico oltre che allontanarsi dal discorso marxista o marxista-leninista imbalsamato nelle varie forme dei gruppuscoli e dei partiti, grandi o piccoli, che ancora a tali esperienze formali si richiamavano, così come l’esperienza dell’Autonomia Operaia aveva già messo in pratica, prendeva anche le distanze dalla stessa Autonomia così come si era andata definendo, organizzativamente e politicamente, in un contesto in cui le formulazioni dei più importanti intellettuali di quell’area e la pratica posta in essere si sarebbe allontanata sempre più dalla centralità dell’azione operaia opponendo a questa la ricerca di un nuovo, e mai completamente definito, soggetto politico.

Se gran parte dell’esperienza e del nuovo programma politico espresso dall’autonomia, così come si era andata formando intorno alla rivista Rosso, derivavano dall’esperienza già ‘eretica’ di Potere Operaio, Linea di condotta e, successivamente, Senza tregua avrebbero aggiunto a questa l’esperienza dei militanti fuorusciti da Lotta Continua dopo la svolta capitolarda, istituzionalizzante e filo-PCI della sua direzione proprio nel 1975 e che avrebbe portato al definitivo scioglimento di quell’organizzazione, avvenuto nel contesto del congresso di Rimini, nell’autunno del 1976. Proprio quel congresso che il leader di quella formazione ormai allo sbando avrebbe aperto con parole involontariamente profetiche: C’è stato un terremoto…

Entrambe le esperienze, quella di Rosso e di Linea di condotta, affondavano le loro radici in un rifiuto del lavoro salariato che all’interno delle frange più avanzate della classe operaia di fabbrica si era andato accompagnando al rifiuto di farsi Stato, così come invece proponevano il segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, il partito che continuava a definirsi come il più grande partito comunista dell’Occidente e la CGIL, nel tentativo di separare non solo la classe dalle sue avanguardie più combattive, ma anche da una critica radicale delle condizioni di lavoro, produzione e riproduzione della vita che si era manifestata in maniera sempre più ampia e decisa non soltanto nel pensiero critico degli intellettuali militanti che avevano dato vita alle riviste più importanti degli anni Sessanta (Quaderni rossi, Classe operaia, Classe, Quaderni piacentini), ma che proprio a partire dalle manifestazioni di piazza e nelle lotte di fabbrica degli operai, da piazza Statuto in avanti, aveva trovato le gambe su cui marciare.

Veniva così nettamente alla luce uno scontro, voluto e gestito da una sinistra istituzionale sempre più coinvolta nella gestione dell’economia, della società e dell’ordine pubblico, in nome di un superiore interesse nazionale, destinato non solo a dividere la classe al suo interno e davanti al nemico, ma anche e soprattutto in nome di una presunta oggettività economicistica di ispirazione marxista, destinata a privare la classe di una delle sue armi più importanti e decisive: la teoria rivoluzionaria.

Paradossalmente non solo il PCI, che pur si richiamava ancora al marxismo e al socialismo di cui traboccavano ancora formalmente le pagine delle sue riviste e i discorsi degli intellettuali che ne avevano comunque da tempo sposato linea e strategia, ma anche i vari partitini di ispirazione trotzkista, stalinista, marxista-leninista filo-cinese e bordighista non erano riusciti a cogliere le novità insite nell’esplosione di lotte che avevano caratterizzato soprattutto il periodo compreso tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. Anzi, pur con modalità diverse e diverso intendimento, quegli stessi erano spesso diventati di intralcio allo sviluppo delle lotte di classe che si erano andate sviluppando nelle fabbriche, nei quartieri e nelle scuole.

Così, invece, non era stato, come nota giustamente Quadrelli nella sua ricostruzione, per i due raggruppamenti che più si erano smarcati da qualsiasi richiamo alla tradizione formale dei partiti di derivazione cominternista, ovvero Potere operaio e Lotta continua. Entrambi coinvolti fin dal loro primo apparire nelle lotte prodotte spontaneamente dal basso; sia che si trattasse dalle lotte in fabbrica che dell’occupazione di case, di riduzione degli affitti e delle bollette oppure delle rivolte popolari come quella di Reggio Calabria, indicata fin da subito, tranne che per i due gruppi in questione e dai situazionisti, come manifestazione di stampo fascista da tutti gli altri.

In questa differente interpretazione della realtà delle lotte giocava non tanto, come i principali rappresentanti del marxismo ‘ortodosso’ avrebbero fin da subito affermato, l’avventurismo delle nuove formazioni politiche, ma piuttosto una più corretta e consona ai tempi interpretazione della capacità di analisi dialettica contenuta nelle formulazioni di Marx e di Lenin. Troppo spesso citate mnemonicamente e/o opportunisticamente dalle altre forze politiche e troppo spesso stravolte oppure semplicemente non comprese nella loro essenza.

Si può affermare, come fa Quadrelli, che la prassi rivoluzionaria riprese spunto in quegli anni non tanto dagli archivi polverosi, dai testi salvati dalla critica roditrice dei topi o dalla novella intellighentsia formatasi nelle scuole di partito o nelle università, ma direttamente dalle lotte nate spontaneamente dalle condizioni di lavoro e di vita con cui si barcamenavano gran parte dei lavoratori (occupati e non), dei giovani (studenti e non), delle donne (lavoratrici e non), in un momento di grandi trasformazioni socio-economiche che avevano accompagnato o erano derivate dal cosiddetto boom economico.

Un boom economico che aveva visto, come sempre, accumularsi una gran parte della ricchezza socialmente prodotta nelle mani di un’imprenditoria audace e aggressiva, a discapito di un proletariato di fabbrica o marginale che aveva potuto accedere a ben pochi vantaggi sociali, pagati con uno sfruttamento del lavoro sempre più intenso e allargato anche alle sfere dell’esistenza quotidiana. Così come l’allargamento dell’istruzione superiore a fasce giovanili sempre più ampie era stata accompagnata dallo sviluppo di istituzioni scolastiche sempre più destinate alla formazione di una manodopera maggiormente alfabetizzata ma indirizzata a una specializzazione lavorativa che più che altro avrebbe contribuito ad una più generale abitudine al lavoro alienato, e domato preventivamente, dall’abitudine alla disciplina dell’orario e dell’obbedienza.

Tutto questo era però esploso, non in grazia di una preventiva azione comunicativa e di formazione condotta dai partiti e partitini di sinistra all’interno delle differenti frazioni di classe, ma proprio a causa di una realtà sociale che aveva finito con lo spingere al parossismo le contraddizioni di un modo di produzione che aveva fatto delle sue esigenze di accumulazione ed estorsione del valore il metro di misura di qualsiasi attività umana: lavorativa, intellettuale, collettiva, individuale, artistica o sessuale e riproduttiva che fosse.
Così proprio chi stava in basso aveva saputo raccogliere la sfida e ribellarsi.

Potere operaio e Lotta continua seppero far proprie le lezioni di chi dal basso aveva iniziato a ribellarsi e liberarsi e, per un breve e intenso periodo, farsene portavoce. Ricreando quella dialettica tra spontaneità dell’azione delle masse, teoria e prassi politica che sola poteva servire a confrontarsi vittoriosamente con il capitale e i suoi funzionari. Il partito rivoluzionario insomma tornava idealmente, ma non soltanto, a rinascere proprio là dove non era stato direttamente teorizzato o non aveva tratto ispirazione dalle forme mummificate del passato terzinternazionalista e non.

Tornava a rinascere ma non a formarsi, poiché le varie componenti dei due movimenti finivano col favorire un altalenarsi di tendenze ora allo spontaneismo ora all’organizzativismo e ora all’istituzionalizzazione, quest’ultimo aspetto soprattutto per quanto riguarda la leadership di L.C., che non permisero il formarsi di una organizzazione politica capace di trarre linfa e capacità direzionale dalla indicazioni che pur provenivano in tal senso dalle lotte proletarie e dal basso e neppure dalle trasformazioni in atto a livello di riorganizzazione industriale, finanziaria, amministrativa e giuridico-militare dell’apparato economico e statuale capitalistico.

Fu proprio questa difficoltà a portare alla fine delle due esperienze con una, quella di Pot Op, che avrebbe però costituito la componente ‘teorica’ più importante della fase politica successiva, mentre l’altra, quella di L.C., avrebbe fornito, proprio in virtù dell’essere stata l’organizzazione militante più diffusa all’interno del proletariato metropolitano e di fabbrica fino al 1975, la principale componente operaia e proletaria di un’esperienza politica, militante e, successivamente, militare che non ebbe eguali nel resto del mondo occidentale.

Non bisogna infatti mai dimenticare che in Italia sono stati 20.000 gli inquisiti per i fatti di lotta armata; 4200 sono stati incarcerati a seguito dell’accusa di banda armata o associazione sovversiva; 300 hanno avuto pene con meno di dieci anni, oltre 3100 più di dieci anni, quasi 600 più di quindici anni, centinaia gli ergastoli. Questi dati, che se analizzati da un punto di vista sociologico vedrebbero altissima la componente proletaria tra coloro che furono inquisiti e altrettanto alta quella delle presenze femminili, ci dicono di un’irruzione nella Storia, di un autentico balzo di tigre all’interno di contraddizioni sociali altrimenti irrisolvibili, che proprio a partire dal 1975 ebbe inizio su una scala più vasta di quella già teorizzata e immaginata, con rigida logica partitica tradizionale (la coscienza instillata nella classe da un partito di militanti di professione), dalle Brigate Rosse.

Proprio al centro di queste fratture, esperienze politiche e organizzative e riflessioni teoriche si situa la cristallina esperienza di Linea di condotta, tanto ispirata dalla riflessione politica di alcuni militanti che si erano divisi dagli altri esponenti di Potere Operaio dopo la sua fine, quanto dalle energia, dalla rabbia e dalla delusione che aveva spinto alla ricerca di nuove modalità operative e organizzative una giovane classe operaia uscita fortemente delusa dalla precedente militanza in Lotta Continua, nelle sue strutture di fabbrica, territoriali e di servizio d’ordine.

Sfogliando le più di 160 pagine di Linea di condotta si osserva la presenza di una notevole mole di articoli: riflessioni teoriche e analisi marxiane destinate ad esplorare le trasformazioni dell’assetto politico-istituzionale italiano(con particolare attenzione al ruolo del PCI e della manovalanza fascista), la teoria del valore, lo scontro operante anche all’interno della crisi economica di quegli anni tra rivendicazioni della classe e volontà di ristrutturazione capitalistica, la ridefinizione dell’importanza dello scontro intorno al salario e la sua funzione politica ancor più che sindacale, oltre che i due documenti in cui l’ala più radicale degli operai di L.C. aveva detto addio alla formazione precedente, ormai impastoiata dalle paure e dalle scelte riformistiche della sua direzione, in aperto contrastato con la pratica militante degli anni precedenti.

Sono pagine che annunciano l’inevitabilità di una guerra civile, magari a bassa intensità, che avrebbe attraversato la società italiana e animato lo scontro di classe negli anni a venire. Un annuncio della necessità di un partito formale che, pur rimanendo sul filo del tempo, avrebbe dovuto saper interpretare una rivoluzione anonima e tremenda guidandola su traiettorie non ancora sperimentate. Proprio come dovrebbero fare ogni autentica rivoluzione e ogni autentico partito rivoluzionario, che per esser tale deve saper rivoluzionare anche le proprie forme, senza voler far rientrare le novità dello scontro di classe all’interno di forme già superate o sconfitte (probabilmente le due cose si accompagnano sempre) finendo col riuscire soltanto a castrare le iniziative e le indicazioni di lotta e organizzazione provenienti da una società in rivolta.

Indicazioni che proprio a partire dall’esperienza operaia ponevano al centro la questione del potere politico. Ma la “questione del potere” non poteva e non può che chiamare in cau­sa la “questione militare”. Se, infatti il “politico” presuppone sempre la messa in forma della guerra, la “questione militare” non poteva e non può essere altro che parte costitutiva del “politico” medesimo.

Una scelta che avrebbe visto ancora alcuni degli intellettuali presenti nei ranghi redazionali del numero unico allontanarsi negli anni successivi, ma che avrebbe dato i suoi frutti, magari immaturi e forieri di indicazioni per il futuro allo stesso tempo, nelle lotte degli anni successivi.
Una lettura che si rivela particolarmente utile ancora e forse soprattutto oggi, quando di fronte alla pandemia che ci avvolge, alla crisi economica e alla probabile guerra che verrà, l’assenza di prospettive è causa, per molti militanti antagonisti, di una condizione di impotenza e smarrimento cui le iniziative spontanee di lotta dal basso (dalle fabbriche alle carceri fino ai territori) iniziano a fornire modalità di risposta non ancora pienamente colte nella loro intima essenza.
Così come non è ancora stato colto in pieno l’assetto politico-militare che il capitale si è dato negli ultimi anni, in funzione di una guerra civile già annunciata e di cui la militarizzazione legata all’attuale crisi sanitaria ed economica non è che uno dei più prevedibili aspetti.

N.B.
Il testo è fin da ora disponibile on line in ebook e anche in cartaceo, sul sito dell’editore, su amazon, su ibs e per le librerie che vorranno ordinarlo presso il distributore (Messaggerie) che comunque anche se operativo a mezzo servizio avrà disponibile il libro.

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Sull’epidemia delle emergenze/ Fase 5: i movimenti sociali al tempo della quarantena https://www.carmillaonline.com/2020/04/01/sullepidemia-delle-emergenze-fase-5-i-movimenti-sociali-al-tempo-della-quarantena/ Wed, 01 Apr 2020 21:01:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59070 di Jack Orlando, Maurice Chevalier e Sandro Moiso

“Quando l’acqua inizia a bollire…è da sciocchi spegnere il fuoco.” (Nelson Mandela)

“In situazioni di caos, crescono le opportunità per la libertà” (Abdullah Ocalan)

Abbiamo cominciato a ragionare su questa fase in senso strategico ormai un mese fa, cogliendo come questa epidemia sarebbe diventata uno spartiacque tra quella aberrante normalità che vivevamo e ciò che verrà dopo; abbiamo indicato che, in questo tempo di perenne emergenza, l’unica regola della militanza rivoluzionaria è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità (qui).

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di Jack Orlando, Maurice Chevalier e Sandro Moiso

“Quando l’acqua inizia a bollire…è da sciocchi spegnere il fuoco.” (Nelson Mandela)

“In situazioni di caos, crescono le opportunità per la libertà” (Abdullah Ocalan)

Abbiamo cominciato a ragionare su questa fase in senso strategico ormai un mese fa, cogliendo come questa epidemia sarebbe diventata uno spartiacque tra quella aberrante normalità che vivevamo e ciò che verrà dopo; abbiamo indicato che, in questo tempo di perenne emergenza, l’unica regola della militanza rivoluzionaria è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità (qui).

Abbiamo proceduto ad analizzare, allora, come questa crisi metta in discussione e demolisca molti degli assunti e delle posizioni consolidate fino a ieri; una catastrofe che non ha risparmiato alcuno spazio dell’agire umano e politico: dalle relazioni internazionali, al controllo sociale, alle relazioni, alla geopolitica, alla guerra o all’accumulazione di capitale. Tutto viene tritato a grande velocità e tutto, altrettanto velocemente, si rinnova buttando via ciò che è obsoleto.
Crediamo che i movimenti sociali non siano estranei a questo processo e che, certamente, non possano esserlo (chi ne rimane al di fuori, d’altronde, è più cera da museo che essere vivente). È all’analisi di questo altro elemento che vorremmo concentrarci adesso.

Nell’ultima settimana abbiamo assistito ad un rapidissimo espandersi del contagio a livello europeo e internazionale, con una forte accelerazione di processi geopolitici ed economici che sembravano premere ormai da un po’(qui).
Se per molti governi europei il caso italiano ha fatto in un certo senso scuola, sembra che anche i movimenti abbiano guardato all’Italia per elaborare le proprie risposte.
La reazione maggioritaria delle strutture politiche del Bel paese è stata quella di mettere in moto una grossa serie di piccole o grandi opere di solidarietà dal basso e mutuo appoggio; un’operazione importante di messa a sistema di quelle pratiche mutualistiche, che si erano da anni accumulate come patrimonio dell’autorganizzazione e dei centri sociali, dentro lo scenario di una crisi sanitaria e di un confinamento sociale inediti. A ruota sono seguite operazioni simili negli altri paesi, elemento che diventa allora di non secondaria importanza nel guardare i fenomeni in atto.

Se da un lato possiamo dire che la capacità di risposta autonoma e dal basso ai bisogni sociali sia un tassello essenziale della strategia antagonista per come la conosciamo, dall’altro non possiamo che rilevare come spesso questa risposta assorba la totalità dell’impegno non solo della prassi ma anche dell’orizzonte teorico di queste strutture.
Sembra, quindi, che l’ipotesi del conflitto venga allora definitivamente espulsa dal campo delle possibilità: nella tutela dei soggetti più fragili e nel lavoro di cura, il corpo militante si mette al servizio di una collettività da cui si era ritrovato ormai estraneo, e che attraversa ora andando a riempire i vuoti lasciati dalla macchina statale neoliberista. Ma se diamo per assodato il concetto per cui, al tempo del libero mercato, chi può essere messo a valore allora può beneficiare della macchina capitalistica mentre chi è inutile si arrangi da sé per non crepare; un lavoro di cura della fragilità finisce per essere sussidiario alle articolazioni assistenziali dello Stato e rischia, infine, di fare da agente pacificatore: gli “angeli che portano la spesa” vanno allora a spegnere o lenire quella frustrazione da cui può, in prospettiva, accendersi la miccia della rabbia sociale. Non è un caso che nell’ultimo decreto presidenziale, del 27 marzo, che è andato a rincorrere una tiepidissima ipotesi di insorgenza urbana, si sia fatto esplicitamente appello alla “catena della solidarietà”, o che diversi servizi televisivi abbiano lodato le gesta di questi giovani generosi, tacendo la loro provenienza dai famigerati centri sociali abusivi.

Non solo, nello schiacciarsi su questo volontarismo, si finisce per perdere di vista una tempesta che si avvicina a passi sempre più spediti: quando la quarantena sarà finita, quando si cercherà di tornare alla normalità dopo questa sospensione della vita, le città non saranno più le stesse. La loro fisionomia resterà invariata magari ma la loro sostanza, il tessuto vitale e le loro possibilità saranno ridotte in macerie. È un domani molto vicino quello in cui si inizierà a sanguinare per la disoccupazione, per il carovita, per la crisi degli alloggi, per i nuovi tagli fatali allo stato sociale. Ma a forza di lenire i graffi di oggi, non ci si accorge degli sventramenti che ci attendono; il rischio è quello di seguire una logica dei due tempi per cui oggi si temporeggia, domani si agisce; ma il tempo dell’azione non è rimandabile, i bastimenti vanno approntati quando la tempesta è in avvicinamento, non quando si scatena e sbalza i marinai fuori bordo, ad annegare tra le onde di una conflittualità che non si è saputo leggere.

Si differenzia in tale contesto, però, l’approccio di chi, dichiarandolo, organizza attività di sostegno alla popolazione per contrastare quell’opera della protezione civile e dei militari che portando aiuti si presentano con volto amico alla popolazione, poiché è proprio con queste strutture militari e paramilitari che si giocherà anche lo scontro per l’egemonia politica e sociale. La penetrazione del ‘repressore buono’ nelle menti oltre che nei quartieri proletari va denunciata sin da ora, non quando spareranno sui cortei, caricheranno i picchetti operai e faranno i rastrellamenti per le strade.

Parimenti, vediamo un’altra sensibilità che, anche quando non esclude l’ipotesi mutualistica, è più attenta al fronte che si sta costruendo e ai campi d’azione che già oggi emergono. Una sensibilità che però è spesso immobile ed incapace di agire. Nell’indicare la centralità del reddito per tutti, nel denunciare la colpevole inadeguatezza del sistema sanitario o la criminale carenza di misure di supporto alle fasce basse della popolazione piuttosto che l’infamia delle associazioni padronali, certamente si è colto nel segno dell’indicazione.
Ma un’indicazione senza prassi incisiva è poco più che uno di quei buoni propositi da capodanno la cui immancabile fine è il dimenticatoio di fine gennaio.
E se certo le condizioni ostiche della quarantena non aiutano lo sforzo d’immaginazione militante nel cercare altre pratiche, sempre quell’espulsione del conflitto come possibilità concreta sembra essere alla base di un raggio d’azione limitato alle campagne social, ai meme, al mailbombing, alla sensibilizzazione, o agli ambiziosi quanto velleitari annunci di scioperi degli affitti.

Altre esperienze, possono essere quelle attuate, ad esempio, a Milano, Varese, Genova, Trento e in Valle di Susa che hanno ripreso l’antica pratica dei tazebao e degli striscioni, con parole chiare su chi siano i responsabili di questa strage in corso, con testi semplici, comprensibili, richiedendo diminuzione dei prezzi dei generi alimentari, denunciando la militarizzazione del territorio, lo smantellamento della sanità, evidenziando in modo esplicito la farsa di un governo che punisce le passeggiate e tiene aperte le fabbriche, che dona elemosine illuso di prevenire possibili sommosse, saccheggi e rivolte.
Semplici tazebao che invitano chi li condivide a riprodurli, diffondendoli così sulle mura dei quartieri e nei piccoli paesi di montagna … un modo per rendere tutti protagonisti, senza chiedere adesioni a forze politiche, un modo per prepararsi, per metter fieno in cascina .

Come ancora diversa può essere considerata l’iniziativa nazionale del 1° Aprile: con striscioni e battiture dai balconi e con fuochi nelle valli alpine per sostenere le detenute e i detenuti e chiedere amnistia e indulto per tutte-i. Diverse dal mutualismo caritatevole e importanti perché indicano forme, tutte da inventare nel periodo della quarantena, e che possono coinvolgere tutte/tutti: battiture, tatzebao, canzoni di lotta cantate dai balconi invece degli inni nazional-popolari, parlare con i vicini per costruire rapporti di complicità necessari oggi, fondamentali per il domani. Come avviene a Torino in alcuni quartieri operai.
Queste esperienze, seppur non estese come sarebbe necessario, indicano un modo per lottare anche dentro l’isolamento sociale prodotto dalla quarantena e per non agire solo sul piano virtuale.

Nulla è da escludere in una fase di sconvolgimento come questa, tutto è da rilanciare e nulla da lasciare al caso, ma ancor più centrale è la necessità di guardare all’esperienze in corso, alle tensioni, spesso sotterranee che si muovono sotto il cielo, comprendere come per la guerra che verrà ogni elemento utile vada incastonato nel mosaico di una strategia rivoluzionaria ancora tutta in divenire.

Un dato interessante che ci sembra di cogliere, per quel che riguarda le reti di solidarietà , più all’estero che dalle nostre parti a dire il vero, è come esse siano sorte del tutto o quasi al di fuori degli ambiti di movimento1 e come esse inizino a masticare temi prima appannaggio dell’habitat militante che ora diventano urgenza collettiva, come il reddito o l’affitto, ma restino sostanzialmente impermeabili al linguaggio politichese che tuttora le porta avanti. E se il rent strike2 passa sotto traccia, nondimeno ci si organizza autonomamente per autoriduzioni collettive o, più placidamente, si smette di pagare l’affitto al padrone di casa.
Una serie di smottamenti che interessano soprattutto quelle aree metropolitane, patrie dell’atomizzazione capitalistica, in cui le fragilità si ammassano più numerose e lo Stato lascia scoperti e abbandonati migliaia di individui per limitarsi a gestirne le escandescenze e proseguire il solito scorrimento delle merci. Le metropoli, o meglio i loro margini, iniziano a brontolare e rivendicare sommessamente il proprio spazio sulla scena. Un sussurro, per ora, ma che minaccia di essere presto un grido.

Un’altra indicazione feconda ci viene invece da quei territori, come l’Euskal Erria, dove le organizzazioni antagoniste e una certa cultura politica hanno storia e radici forti, dove quindi la prassi militante sembra riuscire ad intercettare l’autorganizzazione spontanea e diffusa e agire in sintonia con essa. Lì, dove le reti di mutualismo spontanee sono nate in ogni quartiere o cittadina senza reciproco coordinamento, incontrando spesso la capacità tecnica dei gruppi militanti, è emersa un’ipotesi di avanzamento del discorso politico relativo al contropotere territoriale fondata sul concetto di autodifesa e sostanziata tramite un doppio fronte, di lotta e di cura3.

Vi sono, poi, luoghi dove il conflitto è da anni già luogo di ‘conflitto in armi’ , di spazi dove le esperienze rivoluzionarie hanno il controllo di parti del territorio e di fronte a questa epidemia, prodotta dal tessuto sociale, economico e produttivo del capitalismo, hanno dovuto porsi la questione di garantire la difesa delle proprie zone e delle proprie comunità, sapendo assumersi tutte le responsabilità del caso nei confronti della catastrofe generata dal modo di produzione avverso.
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Nel Chiapas, di fronte alla pandemia Covid-19, con le parole del subcomandante insurgente Moisés, l’EZLN ha dato disposizioni perché tutti i municipi autonomi e le organizzazioni amministrative aderenti alla lotta zapatista dichiarino l’allerta rossa, impediscano l’ingresso nei loro territori agli estranei e adottino misure igieniche straordinarie.
Come spiegano gli zapatisti, questa scelta non è dovuta solo alla pericolosità del virus bensì anche all’irresponsabilità dei vari governi del pianeta, tutti intenti a fornire dati e informazioni molto discutibili (se non addirittura falsi) finalizzati al controllo sociale e non alla reale difesa della salute pubblica.
Questa scelta che all’apparenza potrebbe sembrare una sospensione della battaglia in corso deve proseguire anche in questa situazione, trovando i modi necessari pur nelle condizioni attuali che impongono provvedimenti sanitari (qui).

Nella Siria del Nord, invece, mentre la Turchia approfitta del virus per colpire l’Amministrazione autonoma del Rojava continuando gli attacchi militari e togliendo l’acqua ai profughi e ai residenti, il Consiglio Esecutivo del Rojava ha posto in atto (a partire dal 21 marzo) misure di divieto di spostamento senza autorizzazione, la chiusura dei confini, la chiusura di negozi e scuole, il distanziamento e l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, e esonera dal lavoro il 40% dei lavoratori dei panifici (attività essenziale in quelle zone per poter sfamare la popolazione) e di altre attività, arrivando anche a dover chiudere le ‘tende del commiato’. Misure drastiche, ma che rappresentano l’interesse collettivo.

Il Rojava ha anche adottato misure di distanziamento, in una situazione di vita comunitaria e quindi molto dificili da realizzare, non imponendolo in modo militarista come nel nostro paese, bensì tramite l’appello dei vari feriti di Kobane e delle grandi battaglie di questi anni e appellandosi all’autodisciplina rivoluzionaria, un tema che andrebbe ripreso con chi in Italia grida allo scandalo di dover stare in casa non per porlo come contraddizione con le fabbriche aperte, non per denunciare le angherie di militari e polizia contro una solitaria corsa o passeggiata, ma finendo, anche non consapevolmente, col contrapporre la libertà individuale all’interesse di classe e collettivo. Così, se nei paesi capitalisti, nel ventre della bestia, bisogna denunciare l’utilizzo del distanziamento a fini repressivi e nella logica dell’emergenza, va al tempo stesso ripreso il concetto di disciplina rivoluzionaria, di rinuncia individuale per gli interessi collettivi della vita e della comunità, utile già oggi ma fondamentale per il domani.

Ma proprio perché si tratta di un’esperienza rivoluzionaria, quella del Rojava, si trova con poche strutture, attrezzature e strumenti sanitari a causa di un duro embargo e del non riconoscimento da parte dell’ONU e, di conseguenza, non riceve aiuti alcuni per la popolazione (come i kit per rilevare il virus, le mascherine e i respiratori), il che dimostra, una volta di più, come solo la solidarietà rivoluzionaria può sostenere queste esperienze.
Altro che versare i fondi per la protezione civile, le ASL, la Caritas ecc.… Oggi è necessario praticare l’internazionalismo e quindi di sostenere con casse di resistenza le varie esperienze rivoluzionarie e di mutuo soccorso, soprattutto da costruire nelle fabbriche e sui territori, poiché in questo modo si costruiscono rapporti concreti per un’alleanza comune contro il capitalismo.
In questo senso l’esperienza in Francia della ZAD dI Notre-Dame-des-Landes che ha portato le proprie autoproduzioni alimentari alle varie lotte presenti in Francia, vale di più di mille dichiarazioni di principio sui sacri testi.

In altri termini, dove la gestione autoritaria ed emergenziale dello Stato semina dispositivi di contenimento che facilmente saranno convertiti in strumenti repressivi all’occorrenza, molto raramente corrisponde un contrappeso che va incontro ai bisogni generati dall’epidemia. È lì che si generano le fratture ed è lì che si inserisce il militante per convertire una ferita in una carica sovversiva.
D’altronde la natura di classe di questo sistema viene a galla in ogni piega di questa emergenza e disvela tutto l’orrore e l’insostenibilità a cui il quotidiano ci aveva abituati. Il sostegno alle grandi aziende e le briciole alle famiglie, la cassa integrazione pagata dallo Stato e le ferie forzate dei lavoratori, le fabbriche che restano aperte e gli operai costretti ad ammalarsi dentro i reparti, i medici che crepano di malattia e superlavoro negli ospedali pubblici mentre le cliniche private intascano soldi. Nessuna di queste cose passa inosservata agli occhi di chi vive dal basso questa società e per i più ottusi, che ancora nutrono buonafede verso questo sistema, ci pensano i portavoce del governo a togliere ogni dubbio, con la loro retorica di guerra che sempre più prende i contorni di minacce velate a chi avesse in mente di alzare la voce e pestare i piedi, o con il loro darwinismo sociale che innerva tanto i discorsi quanto le misure. Non sono vite quelle che si vogliono tutelare ma forza lavoro, carne da cui estrarre valore. L’alternativa resta sempre una: la nostra vita o il loro profitto.

È solo a partire da questo assunto, ormai visibile a chiunque, che è possibile cogliere il senso pieno della sfida attuale, su cui possiamo seminare il germe di una incompatibilità sistemica in grado di seminare gli scontri di classe che verranno.
È su questo assunto che l’indicazione dei padroni e degli imprenditori come vampiri e assassini è diventata chiara e assumibile da chiunque, creando una linea di spartizione tra chi ci è amico e chi no nell’ora del bisogno, intrecciandosi alla voce di quegli operai che spontaneamente hanno incrociato le braccia per dire che non erano disposti a morire per un salario di merda.

Ed è sempre qui che la problematica del reddito, che coglie l’antica quanto principale contraddizione del capitalismo, non è più soltanto una velleità, ma l’esigenza di milioni di persone cui il blocco dell’economia pone il serio problema di cosa mettere in tavola la sera. Un problema che non può più essere una richiesta velleitaria o riformista. Ma deve diventare uno dei cardini di un agire antagonista: se lo Stato non è in grado di provvedere ai nostri bisogni e questo mercato ci esclude da un reddito allora ci si deve organizzare da soli per ottenerlo. Dalle assemblee sui luoghi di lavoro, già fin da ora e dopo la riapertura delle aziende, al picchetto e il blocco della fabbrica che non è stata chiusa da un’ordinanza; dalle assemblee e i convegni territoriali da convocare subito, a partire dalle aree più colpite, dopo il parziale ritorno alla normalità all’autoriduzione dell’affitto e delle bollette nella loro insostenibilità, la richiesta oppure l’imposizione autonoma di un calmiere dei prezzi contro il carovita e lo sciacallaggio in atto fin dall’inizio della pandemia.

Ognuno di questi atti, organizzati o meno, politicizzati o meno, andrà nella direzione di riprendersi pezzi di reddito e di vivibilità in seno a questa catastrofe; il compito del rivoluzionario non è fare una campagna su una o l’altra di queste cose, ma fondere spontaneità e organizzazione, pratica e discorso. È la nostra stessa possibilità di vita che difendiamo e nulla ci legittima più di questo nel forare ogni dispositivo. La questione del mutualismo e della presa in cura della comunità, d’altronde, non può essere slegata da un discorso simile e non può che essere strumento di radicamento e costruzione di contropotere autonomo nei quartieri e sui territori, realizzando articolazioni sociali di un discorso politico più complessivo e di rottura.

Quella della cura collettiva è una pratica che non può essere mossa dalla generica solidarietà (cosa buona e giusta, la solidarietà, ma non è mai stata motore di processi rivoluzionari), ma dall’obbiettivo di costruire un rinnovato rapporto di forza, in vista degli sconvolgimenti che verranno, all’interno di un territorio. Quest’ultimo, nella sospensione della normalità, assume un rinnovato valore strategico ed è all’interno di questa situazione imprevista che, specialmente nell’atomizzato ambito metropolitano, possiamo legare i fili delle nostre possibilità. Chi oggi distribuisce la spesa alimentare dovrebbe porsi in prospettiva il problema di bloccare il flusso delle merci, di redistribuire il reddito indiretto, di scioperare, di indicare il nemico e di legarsi all’amico prima estraneo, tutto nel tentativo di costruzione di una forza in grado di smantellare ogni pezzo dell’attuale sistema di dominio.

Nulla oggi può essere lasciato intentato, nulla deve essere abbandonato al caso. Si buttino a mare gli ideologismi inutili e le formule stantie, è di prassi forte e teoria laica che abbiamo bisogno. Dobbiamo necessariamente cogliere, per dirla con Fanon, l’importante nel contingente.
Si prepara oggi uno scenario che forse mai più ci sarà dato di rivivere: in queste intemperie si colga l’occasione di liberare la prassi politica e la società dalle ragnatele del passato o ci si lasci morire.


  1. Un esempio è il caso della società inglese che, da iperatomizzata, scopre la comunità come ambito di forza http://commonware.org/index.php/neetwork/929-pinte-e-pandemia 

  2. https://www.thestranger.com/slog/2020/03/27/43264462/so-you-want-a-rent-strike  

  3. https://eh.lahaine.org/auzo-elkartasun-sareak-larrialdi-egoeraren  

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Sull’epidemia delle emergenze /fase 3: poi fu la volta delle fabbriche e della classe operaia… https://www.carmillaonline.com/2020/03/14/sullepidemia-delle-emergenze-fase-3-poi-fu-la-volta-della-fabbrica-e-della-classe-operaia/ Sat, 14 Mar 2020 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58620 di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa? […] noi ci sentiamo in trappola e ci chiediamo: perché io sono qui?» (un operaio brianzolo a «Repubblica»)

Già perché siamo qui? In fabbrica, chiusi in casa, in quarantena oppure in ospedali che stanno per scoppiare ? E’ quello che molti iniziano a chiedersi, come in un romanzo di Stephen King oppure in un’ennesima [...]]]> di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa? […] noi ci sentiamo in trappola e ci chiediamo: perché io sono qui?» (un operaio brianzolo a «Repubblica»)

Già perché siamo qui? In fabbrica, chiusi in casa, in quarantena oppure in ospedali che stanno per scoppiare ? E’ quello che molti iniziano a chiedersi, come in un romanzo di Stephen King oppure in un’ennesima serie prequel o sequel di “The Walking Dead”.

Conosciamo intanto l’unica risposta certa che il governo degli ominicchi e dei quaquaraquà sembra voler e saper fornire: poteri di polizia dati per decreto all’esercito che pattuglia le strade e ulteriori misure restrittive per tutti i cittadini, perché «dopo l’emergenza sanitaria e quella economica, il governo teme possa scoppiare anche quella della sicurezza pubblica, come successo nelle carceri. Dunque è necessario prepararsi in tempo, e cominciare a pensare a piani d’azione per le foze dell’ordine e, nel caso, per l’esercito. La rivolta delle carceri è stato solo un antipasto di quello che potrebbe accadere in caso di diffusione incontrollata dell’agente patogeno. Nelle regioni, il timore è che un’escalation dell’epidemia crei disordini. Negli ospedali, nei supermercati, nelle piazze. “Bisogna essere pronti ovunque e cercare di coinvolgere maggiormente i militari- spiega una voce autorevole di Palazzo Chigi- Senza allarmare la popolazione, ma senza farsi trovare impreparati per l’ennesima volta”». Come si afferma in un articolo di Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian, In che Stato siamo, sull’Espresso n° 12 del 15 marzo 2020.

Per quanto ci riguarda lo avevamo già annunciato dieci giorni or sono e confermato mercoledì scorso: tolte le minime e necessarie prebende, repressione e militarizzazione sarebbero state le uniche dimostrazioni di forza che un governo spaventato dalle proprie responsabilità, dalle possibili conseguenze elettorali e in apparente perenne crisi di identità avrebbe dato. Prima alle rivolte nelle carceri italiane ed ora alle proteste spontanee dei lavoratori, soprattutto delle fabbriche metalmeccaniche, del Nord e del Sud. Inevitabili tutte, sia le proteste e le rivolte che le risposte date. E vedremo subito perché.

Poco è bastato perché le odiose caratteristiche di classe della nostra società, che in altri momenti potevano essere più o meno nascoste dietro i paraventi formali della democrazia rappresentativa e televisiva, del cicalare mediatico e inconcludente per natura, oppure del rito del consumo di merci inutili elevato a unica ragione di vita e metodicamente eseguito ogni fine settimana in quegli autentici lager della psiche che continuiamo a chiamare centri commerciali, venissero alla luce tutte insieme. Nella maniera più chiara e lampante possibile.

Lo Stato e gli imprenditori, individualmente o attraverso le loro associazioni, hanno gettato la maschera. Senza pensarci due volte. Ce lo hanno detto in faccia, ciò che Marx ed Engels affermavano già quasi duecento anni or sono nel Manifesto del Partito Comunista: «il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese» (21 febbraio 1848). E’ il difensore e il promotore di quegli interessi. In pace come in guerra oppure durante un’epidemia. E in alcuni di questi frangenti non può più nasconderlo.

Gli operai, invece, pur digiuni di teoria, negli stessi momenti, vedono adesso sulla propria pelle che la favoletta della comunanza degli interessi nazionali o del “bene comune” non è altro che tale. Lo comprendono sulla loro pelle e su quella dei loro famigliari e, anche se è vero che in taluni frangenti possono essere stati sviati dal loro interesse primario da vaghe promesse inerenti il lavoro, i mutui e il benessere condiviso, non possono far altro che reagire. Viene ora alla luce la totale alterità dei loro interessi rispetto a quelli dei datori di lavoro e del capitale nel suo insieme.

Si chiama classe contro classe, lotta di classe oppure guerra di classe. Non occorre dichiararla, esiste nei fatti. Quotidianamente, anche se sono i momenti apicali della catastrofe sociale a rivelarne l’esistenza, senza possibilità di compromesso. Una guerra senza quartiere che viene combattuta subdolamente per anni dalla classe al potere e dai suoi meschini rappresentanti politici in una situazione di normalità, ma che rivela tutta la sua urgenza e ferocia, con la discesa in campo di tutti gli apparati repressivi e militari necessari, nel momento in cui gli attori inconsci (gli oppressi e i lavoratori), pungolati all’estremo da paura e frustrazione, diventano coscienti del gioco e del ruolo reale di carne da macello che sono costretti a svolgere dai fatti concreti e drammatici che li coinvolgono, senza più alcun paravento istituzionale o retorico.

E’ esattamente quello che è avvenuto e sta avvenendo in questi giorni.
Il governo ha fatto finta di chiudere tutto, ma di fronte alle richieste delle singole categorie ha ceduto, su quasi tutta la linea. Se questo avesse significato soltanto che rimanevano misteriosamente aperte attività come quelle delle profumerie, dei ferramenta, delle lavanderie o altro, ciò avrebbe significato ben poco. Al massimo l’impossibilità del governo di mostrare lo stesso pugno di ferro che ha così generosamente distribuito tra i carcerati in rivolta.

Il problema vero, scusate l’artificio retorico poiché già tutti come lettori lo avete pensato e compreso, è stato causato dal fatto che di fronte alle proteste, agli scioperi spontanei e anche all’assenteismo (fino al 40%) che si sono manifestati nelle fabbriche di fronte all’obbligo del continuare la produzione, anche in assenza parziale o totale di qualsiasi provvedimento che tutelasse la salute dei lavoratori, Conte e il suo governo hanno appoggiato in toto le richieste di Confindustria. Aggiungendo il danno a ciò che già di per sé era ridicolo.

Dalla Lombardia a tutta la regione padana, giù fino all’Ilva di Taranto i lavoratori hanno compreso automaticamente che lo scambio lavoro/salario contro salute non era più accettabile. Così come non può più essere accettabile un’etica lavorista che mette la produttività e la coscienza del proprio ruolo produttivo avanti a qualsiasi altra esigenza. Quell’etica del lavoro di stampo calvinista (con cui stanno facendo,ad esempio, i conti i lavoratori transfrontalieri italiani impiegati in Svizzera) che denuncia come una sorta di peccato ogni forma di assenza dal lavoro stesso.

Insieme agli scioperi, diffusi e numerosi su tutto il territorio nazionale, a saltare agli occhi sono i numeri delle assenze dalle fabbriche. Per malattia o altro. Rivelando così che la fuga, la diserzione, l’assenteismo sono la prima manifestazione della rivolta individuale contro l’oppressione e la condanna contenute implicitamente nelle costrizioni per i soldati in guerra e per gli operai obbligati a lavorare durante un’epidemia che può avere conseguenze mortali o comunque molto gravi per interi nuclei famigliari. Sono, al contrario di quanto il lavorismo spesso denuncia e pur nel loro piccolo, gesti audaci, micro-resistenze, autentici prodromi del rifiuto collettivo e meglio organizzato che verrà.

Ma procediamo con ordine vediamo di ripercorrere insieme le ultime giornate e le loro conseguenze.
La diffusione del virus covid19 nei luoghi di lavoro, dalle piccole imprese alle medie e grandi fabbriche sino ai cantieri edili, riflette il clima del paese e procede, tra la propaganda di guerra dei media che da un lato porta ad appiattirsi sull’unità e la fedeltà allo Stato, e un negazionismo che sottovaluta la portata del virus (caratterizzato da ‘tanto non capita a me’ o ‘è come una semplice influenza’).

Questa situazione, nei luoghi di produzione e lavoro, investe una classe operaia e un mondo della produzione segnato da anni di sconfitte, di diminuzione salariale e soprattutto dal ricatto del mantenimento del ‘posto’, della paura di trovarsi disoccupati o con un reddito di molto ridotto.
Il sindacato confederale (la triplice) cerca come sempre un punto di incontro con Confindustria e governo basato sul fornire i DPI e garantire le misure di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Col passare dei giorni e l’aggravarsi della situazione, inizia a girar voce di colleghi colpiti dalla malattia (dati che molte aziende nascondono), la prima risposta generale si manifesta con un aumento delle ore di mutua che nei giorni che precedono gli scioperi, su dichiarazione di confindustria e dei sindacati confederali, viene stimata al livello di un 30-40% di “assenteismo”.

I giorni che precedono la giornata degli scioperi del giovedì 12 marzo, tranne qualche lodevole iniziativa come quella dei S.I. Cobas dell’11 marzo a Pomigliano alla FCA Auto, vedono prevalere nelle aziende un clima di confusione, paura, rabbia e di attesa. Ci si aspetta molto dall’imminente decreto che viene emanato nella notte dell’11 marzo e annunciato alla nazione dal discorso di Conte. Tutti pensano che verranno chiusi tutti i posti di lavoro tranne quelli riguardanti i servizi essenziali. Le misure del decreto, in realtà, prevedono la chiusura di negozi ecc. ma escludono completamente la chiusura dei luoghi di produzione, affidando alle singole imprese la scelta o meno del fermo e richiamando ad un generico rispetto delle norme di sicurezza.
Appare chiaro che, dopo giorni di scontri interni a Confindustria e nella CGIL tra FIOM e CGIL, vince ancora una volta la logica che antepone il profitto alla salute.

Il discorso di Conte si rivela quindi, in un bagno di realismo capitalista, un vero e proprio schiaffo alla classe operaia dei settori produttivi. Come al tempo delle guerre mondiali del secolo scorso, ancora una volta i proletari sono carne da macello.
Il provvedimento, nei fatti privilegia la continuità della produzione senza imporre alle aziende il rispetto preciso delle norme di sicurezza in una sorta di autoregolamentazione e di conseguenza non si capisce come norme rigide vengano applicate sui territori per quanto riguarda il commercio e la mobilità delle persone mentre ciò non vale per le imprese.
La mattina del 12 marzo, senza dichiarazione di sciopero alcuna da parte dei sindacati confederali, inizia con fermate all’interno delle fabbriche e uscite di massa dalle stesse, con scioperi spontanei, con picchetti e presidi sostenuti dai delegati interni -pur stando a distanza di un metro l’uno dall’altro- che coinvolgono l’intero paese, in particolare Liguria, Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna.

A Genova si attiva lo sciopero dei portuali, a Mantova la Cornegliani si ferma, mentre i S.I. Cobas proclamano lo sciopero provinciale a Modena, scioperi anche alla Valeo di Mondovì, alla Whirlpool di Caltanissetta, alla MTM, IKK, Dierre, Trivium ad Asti, Vercelli e Cuneo, solo per citarne alcuni.
Sono coinvolti tutti settori dalla produzione alla logistica, finanche alcune sigle dei riders, il cui fermo del lavoro coincide con l’assenza totale di salario.
La parola d’ordine in tutti i luoghi di lavoro è chiara: chiusura totale.
Come la lotta dei detenuti dei giorni prima assumeva indulto e amnistia quali parole d’ordine, quella della classe operaia è chiusura assoluta.
Sia in un caso che nell’altro il sindacalismo e le associazioni riformiste del carcere cercano di spostare la questione sulle condizioni di salute necessarie per rimanere al ‘gabbio’ della galera e della fabbrica.

Pur all’interno delle contraddizioni del fronte confederale con la Fiom che dà copertura agli scioperi e chiede la chiusura, ma poi nelle parole della segreteria generale dichiara “nelle aziende ‘a norma’ lavoreremo, in quelle che continueranno a fare resistenza proseguiremo a fare gli scioperi e a non lavorare” dividendo così il fronte operaio, assistiamo ancora una volta all’ergersi della parola ‘lavoro’ al di sopra di tutto. Questo si nota bene anche in in un volantone, distribuito ai lavoratori dalla FILLEA CGIL (edili), che ricorda: “ … che il lavoratore non può assentarsi immotivatamente dal lavoro, non presentarsi sul luogo del lavoro in mancanza di provvedimenti dell’Autorità Pubblica per la mera preoccupazione di contrarre il virus e senz’altra motivazione rappresenta una fattispecie di assenza ingiustificata sanzionabile disciplinarmente…” una vera e propria intimidazione mascherata da informazione.

La giornata dello sciopero coincide peraltro col non poter più nascondere da parte delle aziende i moltissimi casi di contagio, come è successo al cantiere del tunnel del Frejus che ha cercato per alcuni giorni di tacere la presenza di due possibili contagiati con lo scopo di non perdere un appalto. Il cantiere è stato poi chiuso dopo la ‘scoperta’ di una verità nota a tutti e cioè che ivi non si poteva lavorare in sicurezza (distanze ecc.).
La situazione del contagio sui posti di lavoro diventa un bollettino di guerra: dalla Pirelli di Settimo Torinese, dove l’operaio ricoverato non è certamente un anziano eppure si trova in terapia intensiva, all’operaio della SITAF in terapia intensiva, alla LEAR di Grugliasco, all’Amazon di Torrazza Piemonte, alla Piaggio, alla FIAT di Rivalta, ecc.
I sindacati confederali, invece di lanciare l’unica parola d’ordine possibile – sciopero generale fino alla chiusura degli stabilimenti e cantieri-, aprono tavoli formali e informali tesi a fermare la conflittualità operaia e a trovare mediazioni tutte interne a confindustria, governo e burocrazie sindacali. Nella realtà è un balletto di aziende che chiudono per pochi giorni in modo autonomo con la scusa di sanificare gli ambienti.

Il risultato dei vari tavoli sarà a tutti evidente dopo l’incontro in video conferenza del 13 marzo tra governo e parti sociali che raggiungerà l’obiettivo centrale di prendere tempo e tenere tutti al lavoro con un decreto che continua ad essere rinviato e con proposte come la distribuzione di guanti e mascherine a tutti, ammesso e non concesso che venga poi realmente attuata. Si capisce benissimo, per chi conosce i luoghi della produzione, come dalle mense agli spogliatoi, alle macchinette del caffè, al posizionamento dei macchinari si sia tutti schiacciati, ed è praticamente impossibile mantenere il metro di distanza di sicurezza.
Come è evidente, se la ‘soluzione’ fossero le mascherine e i guanti non si capisce come mai siano stati chiusi piccoli esercizi di paese in cui è fattibilissimo entrare una persona alla volta e non le fabbriche.

Lo capiscono gli operai delle maggiori aziende di Torino, dove i fermi produttivi nelle aziende metalmeccaniche (Meccanica di Mirafiori, Mopar, Denso, Teksid, MAU, Maserati, Thales Alenia Space, Carrozzeria di Mirafiori soltanto per citarne alcune) arrivano a coinvolgere dodicimila lavoratori in un giorno. Crescono le preoccupazioni per il numero dei contagiati nelle fabbriche e aumenta il numero di coloro che incrociano le braccia, in una spirale che sembra, soprattutto sul fronte della lotta, inarrestabile.

Nella mattina del 14 marzo la beffa è compiuta, sindacati confederali e governo firmano un protocollo che conferma come il tema si affronterà azienda per azienda e la chiusura sarà contemplata solo per adeguare i luoghi alle norme di sicurezza sanitaria. Invece che unire e generalizzare la lotta dei lavoratori, le confederazioni sindacali li isolano impresa per impresa e delegano la difesa della salute ai rappresentanti della sicurezza (RLS). Mentre nel decreto è prevista l’ulteriore beffa dei 100 euro in busta paga per chi è costretto a lavorare1.
Si dovrà attendere lunedì, alla riapertura dei posti di lavoro, per vedere quale sarà la risposta concreta dei lavoratori, se vi sarà un aumento di quello che i padroni e burocrazie sindacali chiamano ‘assenteismo’, se si ripartirà con scioperi e fermate o se il trucchetto del ‘garantire la salute pur lavorando’ col ricatto del posto di lavoro, prevarrà su paura, rabbia e ribellione che possono rimettere in discussione la passività conflittuale di questi ultimi decenni.

Siamo di parte, è vero e lo dichiariamo apertamente poiché il compito di chi vuole mettere in discussione il capitalismo è evidente: soffiare sul fuoco.
E proprio per questo motivo ci teniamo a sottolineare ancora alcune cose. Ad esempio le motivazioni addotte per tener aperti gli stabilimenti. Come quelle del presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti: «Di fronte alla crescente emergenza del Coronavirus è indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende. Le imprese lombarde, fortemente orientate a continuare a garantire la continuità aziendale, si impegnano a rafforzare le proprie misure di prevenzione e contenimento dell’epidemia in linea con le indicazioni dell’ISS»2. Peccato che siano proprio i due poli industriali della regione, Brescia e Bergamo, a veder crescere in maniera esponenziale il numero dei contagiati. Di cui sarebbe ora di fornire i dati non per fasce di età, ma per categorie lavorative e sociali (lavoratori dipendenti, pensionati, disoccupati, casalinghe, lavoratori autonomi, studenti, etc.) per poter avere un quadro più preciso della situazione reale, fuori e dentro i luoghi di lavoro. Le stesse zone in cui, mentre scriviamo, la produzione manifatturiera si ferma con una adesione che raggiunge i picchi del 100% di adesione agli scioperi e si si fa più veemente la protesta degli infermieri, lasciati sempre più spesso senza tamponi e senza protezioni a fare turni massacranti esposti al contagio3 proprio e degli altri e dove oggi ha perso la vita un altro operatore sanitario per il virus.

Altri rappresentanti di singole aziende si sono espressi invece così: «No a chiusure temporanee di natura volontaria e facoltativa. Andrebbero a generare scompensi e disparità. Le nostre aziende stanno già subendo contraccolpi economici e continuando così a singhiozzo ne andremmo a subire non di meno»4. La ferrea logica dell’interesse individuale, travestito dal solito o tutti o nessuno (destinato a sfociare quasi sempre nel nessuno). Accompagnate, queste ultime riflessioni, da ciò che sta davvero al centro degli interessi degli imprenditori e che non riguarda la salute collettiva, ma l’export, come afferma in un’intervista il presidente di Apindustria, Douglas Sivieri: «I dati ci confermano una tendenza negativa che già avevamo osservato nel 2019 (3,7% in meno rispetto al 2018). Saranno però dati che rimpiangeremo e credo che chiunque, in questi momenti, metterebbe la firma per avere i numeri del 2019 a fine 2020»5.
Cogito ergo sum: meglio l’aumento percentuale dei contagiati e dei morti, piuttosto che un’ulteriore diminuzione percentuale dell’export. Difficile però convincere i lavoratori con questi discorsi.

Ecco allora la chiamata nazionale alle armi, proprio come un tempo. Si moltiplicano gli inviti a cantare dai balconi l’Inno di Mameli e Bella ciao oppure a recitare preghiere sul tetto del duomo di Milano, così come ha fatto nei giorni scorsi l’arcivescovo di Milano, per una bela Madunina che, a quanto pare, può andar bene sia per invocazioni di carattere medievale che per i cori nazionalpopolari.
Poi è arrivato l’ineguagliabile Tito Boeri, con la sua perorazione per Quei lavoratori al fronte6, in cui ancora una volta chiede l’abolizione di quota 100 (la sua bestia nera), l’abbassamento dei salari dei dipendenti delle compagnie aeree (come se queste non stessero già chiudendo per conto loro, per le cattive amministrazioni che si sono succedute negli anni e certo non soltanto a causa degli stipendi dei dipendenti) e altre amenità retoriche del genere, inserite in un clima di guerra che ci deve abituare a quel che verrà: il grande sacrificio comune.

Adesso, dopo l’esplosione delle carceri, con l’avanzare dell’insubordinazione nei luoghi di lavoro, la richiesta sempre più pressante di ulteriori misure poliziesche da parte di quei settori di Stato più reazionari, l’insofferenza che pare aumentare assieme alle multe per violazione della quarantena, non resta che vedere dove e quando tutta questa conflittualità, per ora latente e compressa, troverà il suo canale di sfogo saldando micro-resistenze individuali, rifiuto collettivo, e intolleranza a questa condizione perenne di miseria, in un unico grande fuoco.

A più di cento anni di distanza la vera questione è ancora quella posta da Rosa Luxemburg: socializzazione o barbarie.
Noi siamo ancora per la prima, contro questa barbarie travestita da progresso e sviluppo.
Ma questa volta non saremo più noi a pagare.


  1. Annalisa Cuzzocrea, Cento euro per chi resta al lavoro, la Repubblica 15 marzo 2020  

  2. Massimo Lanzini, Chiudere o no? Cresce l’elenco delle fabbriche che si fermano, Giornale di Brescia, giovedì12 marzo 2020  

  3. Infermieri, monta la protesta: «Non siamo carne da macello» – la Repubblica, 14 marzo 2020  

  4. M. Lanzini, cit.  

  5. Giornale di Brescia, giovedì 12 marzo 2019  

  6. la Repubblica, sabato 14 marzo 2020  

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Sull’epidemia delle emergenze e sulla catastrofe come campo del possibile https://www.carmillaonline.com/2020/03/04/sullepidemia-delle-emergenze-e-sulla-catastrofe-come-campo-del-possibile/ Wed, 04 Mar 2020 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58473 di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e [...]]]> di Jack Orlando e Sandro Moiso

Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia, se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno l’attuale modo di produzione e di vita capitalistico.

Il Coronavirus ha avuto un tempismo perfetto, cascando nel bel mezzo di una congiuntura che vedeva già intrecciarsi l’inizio di una nuova macroscopica crisi finanziaria ed economica, con una profonda crisi politica delle istituzioni locali, nazionali e globali e con una tensione crescente alla guerra, che solo in questi giorni prende una nuova accelerata, con masse di profughi che premono ai confini d’Europa e la Turchia che tenta di mangiarsi la Siria e conquistarsi un primato che non sarebbe più solo regionale.

Una grande situazione di possibilità, in fondo, che però trova pronta ad accoglierla una parte delle associazioni imprenditoriali1, ma non trova nessuno a raccoglierla tra le fila del “partito rivoluzionario”, sempre ammesso che ne esista ancora uno. Questo perché ci sembra che, dalle nostre parti, smarrite le bussole del conflitto, ci si adagi nella denuncia dell’emergenza accodandosi alla sua narrazione mediatica, senza coglierne le complessità né i margini di azione che ci offre.

La discussione sviluppata negli ambiti di movimento ci sembra in questo caso paradigmatica: un’oscillazione tra i poli dello scientismo e del politicismo, condito una tantum dal complottismo anti-americano vecchio stile. Insomma, un immancabile guardarsi la lanugine nell’ombelico mentre attorno tutto brucia.

Ai seguaci della scienza accordiamo, ad esempio, il fatto che non è possibile non tenere conto della dimensione molto concreta di un’epidemia reale con effetti reali e che, a meno che non si sia studiato medicina, non si hanno le competenze minime per dire quanto siano o meno reali certe minacce. Il problema di questo ragionamento però è che rischia di sfociare nell’abdicazione della propria posizione in virtù della ragion di Stato e del buonsenso: in ogni caso non possiamo dimenticare che compito dell’antagonismo è sempre cercare quegli spazi di conflittualità e inimicizia dati dalle contraddizioni del reale, forzarli fin dove è possibile, fino a farli esplodere possibilmente, invece di aspettare il ritorno ad una normalità che ci è sempre stata ostile.

C’è qui da porsi, poi, qualche altra domanda sulla questione Scienza.
Oggi in questo ambito si fa una gran confusione: tolti gli scettici e gli opinionisti, da una parte c’è chi finge che questa sia una branca asettica, immacolata e intoccabile della conoscenza umana e dall’altra chi, scientemente, ne condanna ogni aspetto negandone la validità in assoluto. D’altra parte, pur senza svilire l’attendibilità di medici e scienziati, come possiamo fidarci totalmente della scienza medica prodotta nei laboratori dei colossi dell’industria farmaceutica, delle loro invenzioni interessate, dei loro affari nei sistemi sanitari di tutto il pianeta2?

Occorre denunciare gli stretti legami tra ricerca, organismi sanitari, taglio della spesa pubblica e investimenti in ricerche finalizzate soltanto al profitto. Ma la denuncia non basta, occorre andare oltre, assumendoci responsabilità che troppo spesso sembrano andare al di là della capacità reale dei movimenti di pensare, organizzare e agire.
E’ anche questo un lavoro enorme. Bisogna rifondare la conoscenza e liberarne le possibilità, scientifiche e non, che in quella attuale sono state limitate o rimosse per il puro interesse finanziario e politico. Quello della riappropriazione della conoscenza, non solo scientifica, è un lavoro che occorre sviluppare durante la lotta, proprio come uno dei suoi motori.

Anche perché il trionfalismo scientista e tecnologico di cui l’attuale modo di produzione ha fatto sfoggio negli ultimi decenni oggi mostra tutta la sua debolezza. Il famoso “progresso” con cui i portavoce del capitale hanno giustificato qualsiasi impresa, dalla gara spaziale all’obbligo per qualsiasi tipo di vaccinazione, fino all’estrattivismo e alla devastazione ambientale, così come tutti i trionfalismi a proposito di sistemi 4.0, 5.0 o n.0 oggi mostrano tutta la loro fragilità e la vacuità delle loro certezze. Anche per questo non denunciarne la sistematica opera di rimozione di tutto quanto poteva essere d’ostacolo all’iniziativa privata significherebbe rischiare di vedere vanificate in blocco anche le conquiste reali della scienza con la S maiuscola. Quella che si è sempre mossa senza nascondere le proprie incertezze e i propri dubbi sui risultati raggiunti, facendo in realtà di questi ultimi, sempre momentanei e incompleti, il vero motore dell’avanzamento della ricerca e della conoscenza disinteressata.

Cosa ribattere a chi invece ignora o sottovaluta le dimensioni del fenomeno Coronavirus prendendolo per mera tecnica di governo? L’analisi della situazione solo da un punto di vista politico, senza tener conto dei fenomeni reali fa sì che, spesso, si perdano i contorni della realtà e si finisca per applicare concetti teorici in maniera meccanica e produrre così i fatti a partire dalle proprie opinioni.

A ragionar così, si prende il nemico per una sorta di monolite in cui non c’è differenza o contraddizione tra gli attori in campo: media, Stati, grandi capitali, organismi internazionali, tutti sfumati fino a diventare un unico Moloch per cui ogni emergenza è pura propaganda, ogni provvedimento preso è volto direttamente alla soppressione di libertà e di dissenso organizzato quando la prima si può reprimere facilmente in ogni momento emergenziale e il secondo, banalmente, non si sa dove sia finito. A continuare su questo sentiero, ci si troverebbe presto a difendere le borghesissime virtù del lavorare e consumare.

Paradossalmente, non affrontando il tema reale dell’epidemia e riducendolo a escamotage politico, si perdono completamente i termini dell’operazione, ci si scolla dalla realtà e ci si rinchiude nel vicolo cieco della retorica, perdendo di vista anche il campo delle possibilità.
Ai complottisti geopolitici abbiamo poco da dire. Uscite di casa, respirate aria fresca e chiedetevi se esistano capitalismi buoni, prima di ricondurre una malattia sorta in Cina ad un malefico piano statunitense3.

Ora, questo è il tenore della discussione sul Virus, ma crediamo valga su ogni altra Emergenza ed è invece proprio sul senso profondo di queste perenni emergenze che occorre indagare piuttosto che sulle loro forme contingenti.
C’è uno stretto rapporto che intercorre tra dichiarazione delle emergenze nazionali, o di altro tipo, e il controllo politico-militare, da parte dello Stato e dei suoi apparati repressivi, di territori e opinione pubblica.
Praticamente ogni emergenza corrisponde, nei fatti, ad una sorta di stato di guerra cui i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione sociale, politica o di età, dovrebbero rispondere uniti per amor di Patria e di unità nazionale di fronte a un pericolo esterno.
Non varia questo significato in presenza di guerre, epidemie o di catastrofi più o meno naturali.
Accettare la collaborazione con gli apparati dello Stato significa sempre inchinarsi alla volontà del nostro più feroce nemico4.

E’ come se di fronte ad una guerra dichiarata dal “nostro” Stato fossimo obbligati per default ad essere accondiscendenti con le misure prese per contrastarne i rischi. L’avevano compreso fin dal primo conflitto mondiale i giovani della Federazione giovanile socialista che diedero vita alla frazione intransigente del PSI poi divenuta, di fatto, la frazione comunista di Livorno. Fu il disfattismo rivoluzionario a guidare i giovani socialisti nella loro lotta alla guerra e al collaborazionismo, anche quando questa si travestì da “collaborazione nell’ora del pericolo” e dei soccorsi umanitari, dopo Caporetto, nei confronti dei profughi veneti investiti dalle armate austro-tedesche5.

Roba vecchia per qualcuno, ma estremamente attuale per chi voglia opporsi a tutte le strategie messe in atto per far rientrare le dissidenze nel “dolce” alveo della compatibilità sistemica.
Ma allora, qualcuno penserà, non dovremo più aiutare le popolazioni colpite da disastri e calamità? Dovremmo rifiutare la solidarietà attiva ai migranti in fuga? Certo che no, ma questo andrà fatto, e questa è un’altra assunzione di responsabilità oggi troppo spesso ignorata, non dimenticando mai di denunciare gli artefici dei disastri (militari o naturali), le cause intimamente legate al profitto e all’interesse privato oppure alla concorrenza imperialistica e, soprattutto, attraverso una propria organizzazione ovunque questo sarà possibile.

Non ci interessa scimmiottare la Croce Rossa, i boy-scouts o la Chiesa; ci interessa, sempre e comunque, tenere aperto ed allargare il conflitto sociale.
Allora, l’analisi che deve interessare il militante rivoluzionario non è quella che cerca il pelo nell’uovo della teoria o si piega alla ragion di stato per evitare di far danno dove non è competente. L’unica analisi che ci deve interessare è quella che parte dalla situazione data per coglierne le fragilità e agire su esse; il nostro unico cruccio deve essere sempre quello di spezzare le maglie del dominio; siamo gli irriducibili nemici di questo mondo, ogni sua debolezza deve essere sfruttata.

Quindi, il campo di battaglia che ci si dà è quello dell’Emergenza in quanto attore imprevisto che nell’arco di poco tempo ed alle soglie di una crisi finanziaria, politica e militare macroscopica, è in grado di gettare nel panico la classe dirigente mettendola in crisi sulla sua capacità di gestione della catastrofe. Vero che il rischio fa parte del capitalismo, vero anche che il rischio e il capitalismo non escludano il fallimento.

L’allarmismo emergenziale serve spesso per giustificare tutto e per “sorprendere” il pubblico6. Ma il perenne e catastrofico accumularsi di emergenza su emergenza ci parla anche dell’impossibilità di mantenere in piedi questo modo di produzione, anzitutto, nel momento in cui il suo primato sulla vita mette in pericolo anche sé stesso e disvela tutta la sua fragilità: il colosso cinese che rischia di andare in pezzi per una brutta influenza è un’immagine abbastanza rivelatrice.
Nella necessità di trovare una soluzione alle emergenze, si finisce sì per sperimentare tecniche assolute di controllo della vita ma anche per minare lo stesso modo di produzione capitalistico che si vuole proteggere. Ed ecco allora gli attori finanziari strepitare, le borse colare a picco, i capi di Stato rassicurare i mercati. La prima emergenza è in casa del nemico.

Da qui vediamo come di giorno in giorno la situazione di caos istituzionale, retto quasi soltanto dall’autoritarismo e dalla militarizzazione dimostra ben più di quanto si è detto a proposito del contenimento sociale. Da tempo, non a caso, si parla di guerra civile come unica risposta degli Stati alle richieste dei movimenti e dei cittadini, intesa come pacificazione, repressione e militarizzazione dei territori e delle risposte istituzionali: questo perché sono stati svuotati di qualsiasi funzione parlamentare, politica, economica autonoma e affidati soltanto alle decisioni prese in altri consessi7.
Motivo per cui di fronte ad ogni imprevisto e al conflitto rimangono in piedi soltanto grazie al collante dell’autoritarismo e dei provvedimenti eccezionali come la militarizzazione dei territori.

La figura dello Stato fa quindi, per ora, da parafulmine al capitale, e questo “stato d’emergenza” ci parla del suo agire in campo come attore obbligato a governare la catastrofe, ma la crisi di cui è vittima ormai da tempo si rende fortemente visibile nel momento in cui il controllo del territorio e la compressione delle libertà sono gli unici strumenti di cui dispone mentre non riesce a garantirsi una via d’uscita dal problema; le necessarie misure di contenimento finiscono per frammentare il consesso delle grandi potenze e così indebolire anche le indicazioni di quegli organismi sovranazionali che si trovano in condizione di difficoltà nel trasmetterlo attraverso una catena del comando fattasi, velocemente, assai ingarbugliata. Inoltre, la difficoltà gestionale dell’emergenza a cui non si era preparati, il suo inserirsi in una sequenza accelerata e perenne di emergenze, fa sì che si aprano delle falle nel dispositivo in cui è possibile far filtrare il bacillo della sovversione.
Ecco un compito per noi, quello del disfattismo anticapitalistico.

Qui entriamo su di un piano molto materiale e vediamo che il terreno del conflitto risiede in quell’insubordinazione spontanea che parte dalle necessità di vita. Sta anche qui, e non solo nell’azione statale, il disvelamento della guerra civile in atto, la lotta per le risorse e le possibilità di vita: non è la paura del controllo o di un golpe biopolitico a scatenare l’inimicizia, è il fatto che ci chiudono in casa e ci vietano di uscire ma non sono in grado di fornirci, fino ad ora, assistenza medica né approvvigionamenti; è il fatto che hanno massacrato il SSN fino a trovarsi incapaci di fare dei banali tamponi agli infermieri8; è il fatto che ci chiudono le scuole, le università, i cinema, i musei, vietano gli spostamenti ma comunque ci costringono a lavorare ed esporci al rischio senza niente di più in cambio; è il fatto che nell’emergenza ne approfitti il vampiro del mercato alzando i prezzi dei beni necessari senza che tra le misure ritenute draconiane ci sia un calmiere dei prezzi.
Questa risposta non può che generare scontento, conflitto e necessità di auto-organizzazione, ed qui che si deve inserire l’antagonista militante per coltivare l’ostilità e il malcontento, organizzare la deflagrazione sociale. Ad esempio, denunciando le condizioni e appoggiando oggi le richieste di coloro che sono in prima linea; come quelle espresse dai medici che denunciano apertamente gli scarsi mezzi messi a disposizione di chi col coronavirus deve fare i conti in ambulatorio e negli ospedali. Attaccando quella sanità privata che nell’emergenza si è rivelata fino ad oggi totalmente inutile e latitante.

Oppure rivendicando la salvaguardia del salario e del posto di lavoro per tutti i lavoratori dipendenti delle aziende toccate dalla crisi epidemica, denunciando il tentativo di abbassare il primo e di modificare le condizioni di lavoro, magari attraverso una ulteriore parcellizzazione e precarizzazione dello stesso per mezzo della diffusione del telelavoro, anche per la fase successiva all’epidemia. Contrastando ogni tentativo di ridurre gli spazi di lotta come, di fatto, impone la richiesta della Commissione di garanzia per una moratoria degli scioperi fino al 31 marzo (qui). Oppure, ancora, organizzando il blocco dei flussi e la ridistribuzione autonoma delle merci e dei beni su cui speculano gli sciacalli, i centri commerciali lasciati aperti quando si è fatto divieto di manifestare e, in genere, il mercato dove lo Stato ha preferito tutelare l’accumulazione di capitale.

Indagando, per esempio, quanto l’azione incrociata di Erdogan e Unione Europea (insuperabile nella sua ipocrisia) stia portando alla formazione di una nuova coscienza comune tra gli emigranti di diverse, e spesso ostili, nazionalità9. Sedimentata nei lager in cui per troppo tempo sono stati rinchiusi e saldata dall’azione comune concreta più che dalle vuote promesse di solidarietà provenienti da chi li sfrutta e imprigiona o li respinge e dalla reazione alla violenza degli apparati e delle ronde fasciste di Alba Dorata. Una coscienza, che si muove a prescindere dalla solidarietà dei movimenti europei ma che ci parla di forte conflittualità spontanea e autodeterminazione e ci impone, una volta per tutte, a ripensare un approccio politico rivoluzionario al fenomeno delle migrazioni e del loro soggetto cardine.

Al di là di tutti gli altri esempi che si potrebbero fare, ciò che occorre sottolineare è proprio questo: di fronte allo sgretolarsi degli Stati e dei loro rappresentanti partitici l’unica alternativa ragionevole, se non unica, è quella dell’auto-organizzazione politica dei territori e dei movimenti che li abitano, la costruzione delle sue articolazioni su scala globale. Purtroppo oggi molti, che stanno nei movimenti e sui territori, si abbandonano ancora a riflessioni riduttive, quasi mai di carattere generale ma, al massimo, massimaliste. Sembra che per troppo tempo il movimento antagonista si sia abituato a non assumersi le piene responsabilità che l’attuale situazione dei rapporti sociali dovrebbe imporre.

È nelle pieghe della quotidianità del dominio che stanno le possibilità da cogliere e da organizzare; lo stato d’emergenza, in questo senso, non fa che esasperare e mettere a nudo un dispositivo che è in atto quotidianamente in maniera sibillina, mentre la catastrofe, per quanto discorso governamentale che richiama a ubbidienza e unità, lascia intravedere tutta la debolezza dei sovrani, è il canto del cigno che ne precede la morte e apre possibilità di collasso che, a chi tiene ferma la bussola dell’abbattimento della modernità capitalista, sono un tesoro da saccheggiare rapidamente.
Tutto il resto sono sciocchezze dettate dal timore di affrontare il nemico vero su scala globale e nella maniera più adatta. Che non può più essere quella del parlamentarismo, della democrazia rappresentativa borghese o del pianto sulle vittime, né tanto meno della difesa debole degli ultimi ridotti rimasti a quello che un tempo chiamavamo Movimento.

Dobbiamo uscire una volta per tutte da questa psicosi dell’emergenza continua che ci fa rincorrere, come novelli giornalisti d’accatto, le notizie delle prime pagine che fanno più rumore. Il nostro pensiero strategico deve tagliare e attraversare di netto questa coltre di emergenze e colpire il nemico in profondità, nella sua intima catastrofe10 .

Il parto della civiltà capitalistica, in prossimità del XVI secolo, fu anticipato da doglie che agitarono un plurisecolare periodo di guerre, rivolte, saccheggi di nuovi continenti, cambiamenti climatici11 ed epidemie12 che Albrecht Dürer seppe cogliere nelle xilografie realizzate per illustrare l’Apocalisse di Giovanni nel 1498.
Sapremo fare altrettanto incidendo nelle lotte e nelle coscienze l’immagine della società futura di cui già da tempo avvertiamo i dolori delle doglie e i movimenti tellurici che l’annunciano?

Abbiamo di nuovo bisogno di eroismo collettivo, di determinazione infrangibile e instancabile, di intelligenza strategica, di lucidità e presa di distanza da tutto ciò che ancora rappresenta la miserabile eredità del modo di produzione attuale. Se è vero che viviamo nel tempo degli stati d’eccezione e delle emergenze permanenti, allora la regola di fondo che ci guida è una sola: uscire dall’emergenza e saper abitare la catastrofe per coglierne il campo di possibilità.


  1. Si pensi soltanto al presidente di Confindustria, Boccia, che continua in questi giorni a soffiare sul fuoco delle Grandi Opere Inutili e Dannose (ma ritenute necessarie per il rilancio dell’economia), confermando il discorso sviluppato, già a partire dagli anni ’50, da Amadeo Bordiga sulla stretta interconnessione tra dinamica capitalistica, sciacallaggio economico e catastrofi “naturali”- A. Bordiga, Drammi, gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra editore, Milano 1978  

  2. Sulla possibile “creazione” del Covid-19 in laboratorio si veda qui  

  3. Qui invece due recenti articoli tratti da «Repubblica» e dal «Corriere» sulle paure americane  

  4. Si veda, ad esempio, lo strappo istituzionale voluto da Macron e dal premier, Edouard Philippe per far passare all’Assemblea nazionale, il 1° marzo, la legge sulle pensioni, approfittando del divieto di manifestare indetto per “fronteggiare” il Coronavirus  

  5. Si veda in proposito: L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno editrice, Roma 2019  

  6. È di queste ore la “sorpresa” per la vittoria di Biden nel Super-tuesday elettorale americano, come se già non si sapesse che Biden è l’unico candidato ammissibile per l’establishment americano, sia democratico che non  

  7. Di cui, per altro, anche gli europeisti più convinti cominciano a dubitare:
    “Oggi l’Unione Europea rischia di essere travolta da due emergenze globali […] La prima è l’epidemia di coronavirus. La seconda la nuova crisi dei migranti riaperta dalla Turchia, che usa i profughi siriani come arma di ricatto […] Entrambe le crisi sono figlie del fallimento degli stati nazionali nell’affrontare emergenze che sarebbero di loro competenza. Le politiche sanitarie non prevedono una gestione comune, così come la sorveglianza delle frontiere esterne e dei flussi migratori rientra nella sovranità delle capitali, che da tempo non riescono a intendersi su una linea di condotta unica. Ma le emergenze non rispettano i trattati europei. Così, dopo che ogni governo della Ue ha cercato di fermare l’epidemia per conto proprio, tutti si devono tardivamente arrendere al fatto che il contagio è un problema comune. Ma questo non basta a decidere di centralizzare la lotta al virus a livello europeo, proprio a causa dell’incertezza su come agire. Qual’è il punto di equilibrio tra la tutela della salute difesa dell’economia e della vita sociale delle nostre comunità? Poiché nessuno conosce la risposta, ognuno pensa di avere la propria verità in tasca e vuole applicarla a modo suo” (Andrea Bonanni, Due crisi, stesso fallimento, la Repubblica 2 marzo 2020)  

  8. Si vedano qui le conseguenze del taglio della spesa sanitaria proprio nel Lodigiano e qui più in generale su quello lombardo  

  9. “Arrampicata sul ramo più alto, nella campagna tra la turca Edirne e la regione greca dell’antica Tracia, la vedetta afghana sa che dipende tutto dal suo segnale. Non si va più in solitaria. La coalizione dei respinti si è data una strategia. Per una volta i contrasti etnici, le scazzottate negli accampamenti tra pachistani e indiani, le gelosie tra afghani e iraniani, la diffidenza dei somali, la malinconia dei siriani, lasciano il posto ad un’alleanza inedita […] si sono dispiegati lungo chilometri e chilometri di frontiera. Impossibile per le guardie greche sigillare il confine” Nello Scavo, Bastonate e spari sui migranti in fuga dalla Turchia alla Grecia, Avvenire 3 marzo 2020  

  10. L’etimologia della parola catastrofe è da ricondurre al verbo greco καταστρέϕω (katastrepho) = io capovolgo. Da tale verbo, il sostantivo καταστροϕή (katastrophé) = capovolgimento, ribaltamento, stravolgimento…
    Il termine fu utilizzato dagli scrittori greci per indicare un esito spesso imprevisto, ma sempre disastroso, doloroso e luttuoso del dramma o di una qualche impresa, fatto o accadimento umano o naturale. Così, la parola catastrofe, che di per sé sarebbe stata di valenza neutra, indicando semplicemente un radicale e spesso repentino cambiamento della situazione, fu utilizzata, sin dall’antichità come sinonimo di sciagura, disastro, rovina, distruzione… A noi il compito di reinterpretarlo nel suo genuino significato di cambiamento radicale  

  11. Si veda, per il clima del XVI secolo e la cosiddetta “piccola glaciazione”, Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Einaudi, Torino 1982  

  12. Per il peso che cambiamento climatico ed epidemie ebbero invece nel contesto della fine dell’impero romano, si veda il recentissimo Kyle Harper, Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino 2019  

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Il grande nulla * https://www.carmillaonline.com/2020/02/04/il-grande-nulla/ Tue, 04 Feb 2020 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57755 di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. (La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e [...]]]> di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
(La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e non è mai morto, l’informazione mainstream, le frange superstiti di partiti ormai morti o in via di estinzione e anche alcuni siti che si vorrebbero antagonisti hanno esultato per la vittoria elettorale dell’”antifascismo”.
Una sorta di rivincita da campionato regionale su un avversario (le cui miserabili imprese politiche ed iniziative securitarie sono state già abbondantemente raccontate e vivisezionate sulle pagine di Carmilla da Alessandra Daniele) che come tattica elettorale, oltre al discorso securitario cucinato in ogni possibile salsa, ha avuto quella di baciare salumi e formaggi e andare a suonare i citofoni degli stabili di periferia, come un monello destinato prima o poi ad essere preso a sberle da qualche inquilino indispettito.

Ma si gongola anche qui e là per la vittoria del rappresentante di un partito che da anni ha fatto del mantenimento dell’ordine pubblico e della stabilità finanziaria la sua unica ragione di vita (e che senza vergogna sta al governo con chi ha precedentemente avvallato tutte le mosse di cui oggi il leader della destra è accusato). Si festeggia, inoltre, la scomparsa di un movimento (fondato da un comico e finito in farsa) nel quale molti dei critici odierni avevano precedentemente creduto, rivelando così, complessivamente, una cecità politica e una visione perbenista della realtà che non sa più assolutamente distinguere il grano dalla pula, la realtà dalla fantasia, il risotto dalla merda e, soprattutto, ciò che serve a liberare il pianeta e la specie dall’oppressione del modo di produzione più vorace e distruttivo che sia mai esistito.

Sì, cari lettori e compagni, perché ancora una volta non è stato l’antifascismo a vincere. Quello è stato sapientemente sbandierato da sardine e soci soltanto per nascondere il fatto che la scelta elettorale era tutta all’interno dello stesso campo.
Il campo giustizialista e securitario di chi suona ai citofoni e minaccia i migranti e quello di chi chiede un’identità digitale per accedere ai social e il daspo per chi non rispetta le regole del dialogo civile definite dall’ordine borghese.
Il campo della violenza organizzata delle squadre fasciste e delle ronde anti-migranti e della violenza di Stato che garantisce il dis/ordine pubblico nelle piazze e nei centri di detenzione attraverso la militarizzazione dei territori e del tessuto urbano.
Il campo della “giustizia” che reprime i sindacati di base e i lavoratori in lotta, i difensori della terra e delle comunità locali e sulla quale gli “antifascisti” vincitori non hanno nulla da dire, ma con il quale hanno molto da condividere (scusate se non ricordo, ma chi era il sindaco di Bologna definito lo sceriffo e a quale partito apparteneva?).

Il campo delle grandi opere inutili e dannose al Nord come al Sud (la prima dichiarazione della candidata del centro destra, dopo la vittoria in Calabria, ha riguardato la necessità di portare anche lì l’alta velocità ferroviaria, confermando così di fatto gli interessi della ‘ndrangheta nelle grandi opere, dalla Valsusa al resto del paese).
Il campo di chi reprime i migranti internandoli nei campi libici oppure negando loro lo sbarco sulle nostre coste oppure, ancora, trasformandoli in schiavi per il lavoro nero (soprattutto nell’edilizia e nei campi).
Il campo degli interessi incrociati tra aziende private, cooperative e finanza ed imprese edili di origine illegale.
Il campo dell’estrattivismo dichiarato, a favore delle trivelle nell’Adriatico e degli interessi dell’ENI.
Il campo di chi si affanna ad equiparare la violenza verbale a quella fisica, salvo poi voltarsi dall’altra parte quando i manganelli scendono pesantemente sulle schiene e sulle teste dei manifestanti contrari all’ordine esistente. Oppure di chi non sa cogliere nemmeno lontanamente l’enorme ingiustizia e la violenza insite nei licenziamenti individuali e di massa e nei rapporti di lavoro definiti dalle aziende, multinazionali o nazionali che siano, in nome del profitto e dell’estrazione selvaggia di plusvalore.
Il campo di chi non sta con le lotte, ma con gli imprenditori.
Il campo di chi si crede il mare, ma è soltanto una palude.

Ho sentito parlare di buon governo della regione “rossa”: certo il buon governo del capitalismo ben temperato di prodiana memoria1, in cui dalla collaborazione tra privato e pubblico può sorgere il “radioso avvenire” di una società capitalistica avanzata e magari green.
Il buon governo della triplice sindacale che vota favorevolmente per le grandi opere in nome del lavoro salariato e degli interessi delle azienda e delle coop rosse e bianche oppure, ancor meglio, della Nazione. Buon governo che, però, non sembra aver toccato o convinto tutti allo stesso modo (qui).

No, non è così che si vince il fascismo. Come già sapevano i migliori compagni comunisti, anarchici e antifascisti negli anni ’20 e ’30,2 la cui esperienza fu cancellata dalla controrivoluzione staliniana e dalla carneficina del secondo conflitto mondiale, il fascismo si batte soltanto vincendo sul capitalismo e superando proprio i limiti del dettato nazionale, aziendale, produttivistico e lavoristico su cui fonda il suo discorso. Di cui però gli attuali, momentanei, vincitori della schermaglia elettoralistica sono tra i migliori ed agguerriti rappresentanti.

Un vecchio comunista italiano, Amadeo Bordiga, affermava che chi vuol essere progressista dovrebbe avere almeno il coraggio di dichiararsi fascista, poiché proprio l’idea di progresso, tipica di questo modo di produzione oggi fallimentare in tutti i campi, fin dalle sue origini ha avuto come corollari il rafforzamento degli stati nazionali, il governo dei loro confini, lo sfruttamento in casa e fuori della manodopera schiavizzata nelle fabbriche e nei campi. Qualunque fosse il colore della pelle e a qualsiasi latitudine appartenessero gli imprenditori e i governanti.

Il capitalismo industriale è nato in carcere3 e il fascismo ne ha sempre esaltato le funzioni. Sia dell’uno che dell’altro.
Nazionalizzare le masse, questa la funzione del fascismo (il razzismo, che non può essere ridotto al solo anti-semitismo che è molto più antico, ne costituisce solo uno dei corollari, non il fondamento, poiché nacque con il colonialismo che avrebbe posto le fondamenta dell’attuale immondo modo di produzione)4. Rendere i cittadini tali in quanto orgogliosi del proprio (buon) governo e solidali con gli interessi del capitale e dell’imperialismo.
Non membri di una comunità umana, la marxiana gemeinwesen, di eguali sia dal punto di vista sociale che economico, ma partecipi di una comune fortuna di cui pochi, sempre meno visto che gli italiani più abbienti oggi detengono il 72% della ricchezza nazionale mentre a livello mondiale 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale5, detengono i rubinetti e il patrimonio globale.

Esaltare il lavoro produttivo e la “vittoria” sulla Natura sono altri due aspetti immarcescibili del fascismo e sono entrambi, ullallà, derivati dall’idea di progresso figlia dell’Illuminismo ben pensante e moderato.
Atteggiamenti moderati nei rapporti politici tra le classi, ma smoderati nel consumo di risorse, territori, merci e forza lavoro. Tanto da dimenticare sempre più spesso, nell’attuale gozzovigliare alla tavola della shoa, che i lager nazisti come i gulag staliniani furono sempre e prima di tutto campi di lavoro forzato. In cui “naturalmente” milioni di individui di qualsiasi fede, etnia, nazione, genere ed età sarebbero morti prima di tutto per la fatica, la fame e le malattie. Esattamente come capita ancor oggi, a cielo aperto e senza SS a far la guardia, in tante, troppe parti del mondo.

Esaltare l’ordine e zittire le voci “altre”, contrarie oppure solo critiche del regime è l’altra pratica del Fascismo, che affonda però le sue radici in tutta la Storia di un mondo diviso in classi fin dall’avvento della proprietà privata e che fa delle maggioranze silenziose il proprio ideale di partecipazione politica. Esattamente come possono esserlo le folle che cantano inni patriottici e inneggiano alla figura del Capo nelle adunate di piazza a sostegno di un regime (o di un movimento che ha nel non aver nulla da dire sulla realtà delle contraddizioni economiche e sociali reali la sua unica arma di distrazione di massa).

Pesci in barile, citofonatori e mortadelle benedette non rappresentano dunque altro che le due facce di una stessa medaglia, di uno stesso ordine. Così come lo erano i 5 stelle di qualche anno fa (con l’unica differenza che oggi la rabbia non deve essere nemmeno manifestata o sussurrata, per rispetto del borghesissimo bon ton).
Non vale neppure la pena di far nomi in queste considerazioni, non per timore di denunce o intimidazioni, ma soltanto perché tutti questi miserrimi soggetti, che nascondono la realtà di contraddizioni e di lotte che ci circondano in ogni dove e che in alcuni casi si affannano a definire come “ondata di destra a livello mondiale” (mescolando insieme gilets jaunes e Orban, lotte sociali ed ignobili episodi di razzismo delle periferie che sono in subbuglio senza neanche comprendere appieno il perché) le lotte, spesso sanguinose, che si sviluppano in ogni dove, sono già destinati all’oblio anche se oggi, dando per un momento ragione a Andy Warhol, hanno avuto modo di brillare come meteore per un istante o ancor meno.

I tempi della Storia, invece, sono molto lunghi. Il capitalismo non è stato mai ben temperato se non sulla pelle di qualche popolo o continente dominato e sfruttato per qualche decennio. In questa fasulla modernità la sua anima resta fascista e oggi, ancora una volta, sia in Calabria che in Emilia Romagna, ha comunque vinto il nostro peggior nemico. Quello con cui non possiamo esser altro che in guerra. Perché il dovere di combatterlo ci apparterrà sempre.
Fino alla morte o alla vittoria.

Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che oblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
(G. Leopardi – La ginestra)

* In omaggio a James Ellroy e alla sua nerissima e spietata Storia degli Stati Uniti dal secondo conflitto mondiale agli anni ’70. Una tecnica letteraria (l’abbinamento tra crimine e storia americana) perfetta per raccontare efficacemente la contemporaneità e i suoi sottoprodotti sociali, politici e culturali.


  1. Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino, Bologna 1995  

  2. Si veda almeno Arthur Rosenberg, Il fascismo come movimento di massa. La sua ascesa e la sua decomposizione (1934), Circolo Internazionalista Francesco Misiano – Pagine Marxiste, 2019 che sarà recensito nei prossimi giorni su Carmillaonline  

  3. Si veda Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Oscar Studio Mondadori, 1982  

  4. Per un’analisi delle origini del razzismo moderno e della cultura che lo ha fondato, basati entrambi tanto sull’ammirazione acritica della cultura greco-romana quanto sull’idea, mai dimostrata, dell’esistenza di una comune radice indoeuropea “bianca”, si veda Martin Bernal, Atena Nera, il Saggiatore, Milano 2011  

  5. “Alla fine del primo semestre del 2018 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 8.760 miliardi di euro, registrando un aumento di 521 miliardi in 12 mesi) vede il 20% più ricco degli italiani detenere il 72% della ricchezza nazionale, il successivo 20% controllare il 15,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero appena il 12,4% della ricchezza nazionale. Il top-10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.” (qui)  

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La guerra in classe https://www.carmillaonline.com/2017/04/22/37761/ Fri, 21 Apr 2017 22:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37761 di Armando Lancellotti

Gianluca Gabrielli, Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento, Ombre Corte, Verona, 2016, pag. 127, € 13,00

A pagina 183 del Libro della V classe elementare, volume di Religione, Storia, Geografia, stampato a Roma dalla Libreria dello Stato nell’anno XVIII dell’era fascista (1940), nel paragrafo Guerre coloniali, si legge che «L’Italia aveva assoluto bisogno di terre al di là del Mediterraneo, che le assicurassero il più ampio respiro sui mari, possibilità di lavoro ai suoi contadini, aiuti allo sviluppo delle sue industrie e dei suoi commerci». E qualche riga sotto, dove il testo [...]]]> di Armando Lancellotti

Gianluca Gabrielli, Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento, Ombre Corte, Verona, 2016, pag. 127, € 13,00

A pagina 183 del Libro della V classe elementare, volume di Religione, Storia, Geografia, stampato a Roma dalla Libreria dello Stato nell’anno XVIII dell’era fascista (1940), nel paragrafo Guerre coloniali, si legge che «L’Italia aveva assoluto bisogno di terre al di là del Mediterraneo, che le assicurassero il più ampio respiro sui mari, possibilità di lavoro ai suoi contadini, aiuti allo sviluppo delle sue industrie e dei suoi commerci». E qualche riga sotto, dove il testo comincia ad entrare più dettagliatamente nel merito delle diverse imprese coloniali italiane, al concetto della necessità e giusta ineluttabilità delle conquiste d’oltremare e alla celebrazione dell’eroismo dei soldati italiani, sempre dimostrato tanto nelle vittorie quanto nelle sconfitte (Dogali, Makallè, Adua), si aggiungono, con acrobatico capovolgimento dei ruoli di vittime e di aggressori, inequivocabili apprezzamenti ed aggettivazioni dei popoli del Corno d’Africa, descritti come «orde nemiche», «orde abissine» o come la «marea dei selvaggi guerrieri di Menelik», che solo per la loro bestiale ferocia e per il numero soverchiante hanno potuto avere la meglio dei soldati del Regio Esercito.

In un paragrafo successivo, dal titolo La guerra di Libia, sotto l’immagine di marinai italiani che sbarcano a Bengasi, si dice che la «Libia è posta proprio di fronte alla Sicilia, e l’Italia si trovò nella necessità di occuparla per non essere soffocata nel Mediterraneo, se di essa, come appariva molto probabile, si fosse impadronita qualche altra grande potenza europea». Ritorna qui il motivo della conquista doverosa ed inevitabile, motivata dalla necessità di anticipare l’ingordigia imperialistica altrui e di assicurare un “posto al sole” al Paese. Missione portata a termine grazie all’«eroismo dei nostri marinai e dei nostri soldati» che non arretrarono nonostante «l’infuriare del fuoco nemico».

Quando si tratta poi di affrontare il tema della Grande Guerra (La guerra mondiale: 1914-1918; La partecipazione dell’Italia alla guerra mondiale 1915-1918) l’autore della sezione di Storia – il professore Alfonso Gallo – non si lascia sfuggire l’occasione di collocare in linea di continuità Risorgimento, Grande Guerra e Fascismo, interpretando l’intervento del 24 maggio 1915 come l’unico modo per «decidere una volta per sempre il secolare duello con l’Impero d’Austria, liberando le Venezie Giulia e Tridentina, che ancora soffrivano del giogo straniero […]. Tra i più ardenti sostenitori della necessità che l’Italia prendesse parte alla guerra furono il poeta Gabriele d’Annunzio e il futuro Duce del Fascismo, Benito Mussolini». In tal modo Mussolini è presentato come colui che eredita il testimone della storia patria e delle sue guerre, di quella mondiale innanzi tutto, e che coerentemente, quindi, farà di interventismo, combattentismo, bellicismo, cameratismo gli ideali e i valori di riferimento, da usare come miti fondatori del fascismo nell’immediato dopoguerra e come principi con cui forgiare attraverso l’istruzione scolastica le generazioni dei fascisti di domani ancora nel 1940, quando ormai il fascismo è partito unico, governo e regime totalitari già da molti anni, e proprio quando decide di affrontare una nuova e ancor più tragica impresa bellica.

E che la guerra come principio ideale e come valore etico sia il cemento che deve tener assieme i mattoni della nazione lo si evince pure dal paragrafo (La pace) sulla Conferenza di Parigi, nel quale, dopo “l’iperbole storico-militare” secondo cui l’Italia dopo Vittorio Veneto sarebbe stata pronta e nelle condizioni per «assalire a rovescio la Germania», si dice che il trattato di pace di Saint-Germain con l’Austria – molto autarchicamente chiamato di San Germano – a causa dell’inettitudine dell’allora governo liberale non compensò a dovere i sacrifici sostenuti in trincea dai soldati italiani, che si videro negata la città di Fiume, che – ancora una volta – soltanto Mussolini fu capace di congiungere alla patria nel 1924. Così come fu capace di salvare il Paese dal pericolo rappresentato da coloro che il testo invariabilmente definisce «i sovversivi»: socialisti, anarchici, poi comunisti, operai e contadini delle leghe rosse, quanti erano stati un tempo neutralisti e che continuavano a condurre «una dissennata propaganda di odio contro la Religione, la Patria, la Monarchia. […] I sovversivi dissero che nulla di buono aveva ed avrebbe portato la guerra e che questa era stata un’inutile, colpevole strage». Insomma, tutto l’opposto di quanto i bambini italiani di dieci anni nel 1940 imparano a scuola e dal loro “libro di testo di Stato”, che della guerra fa la pietra angolare della nazione, salvata dal fascismo e da Mussolini, del quale – e non certo per caso – nel paragrafo IL FASCISMO, l’unico il cui titolo è stampato con lettere maiuscole, vengono subito messi in luce i meriti militari e l’impegno nel conflitto mondiale. «L’Italia fu salvata da Benito Mussolini. Egli era stato tra i più fervidi sostenitori della guerra contro l’Austria […]; aveva valorosamente combattuto come bersagliere; aveva sofferto gravi ferite. Animato dalla stessa fede e dallo stesso coraggio, si dedicò, dovesse costargli la vita, alla santa missione di ridestare nel popolo italiano quelle virtù, che già ne avevano reso possibile il risorgimento, prima, la vittoria nella guerra mondiale, poi». Insomma, l’esaltazione della guerra è il Leitmotiv che attraversa molte delle pagine della sezione di Storia del libro per la V classe elementare dell’anno 1940; cosa che non costituiva di certo una novità, dal momento che militarismo e bellicismo erano già da tempo gli strumenti principali a cui in Italia si era fatto ricorso nel processo di nazionalizzazione dell’infanzia, avviato già a partire dalla fine del secolo precedente.

educati guerra coverDi questi ed altri simili temi si occupa l’ultimo libro – Educati alla guerra – di Gianluca Gabrielli, che, di certo con rigore e sistematicità maggiori di chi si limita a sfogliare un vecchio libro su cui hanno studiato i propri genitori, considera le dinamiche del processo di nazionalizzazione e di militarizzazione dell’infanzia italiana, in particolare nei trentaquattro anni che vanno dalla guerra italo-turca per la Libia del 1911 al 1945, senza tralasciare un’opportuna incursione, che fa da premessa al corpo principale del libro, nell’Italia post-unitaria tardo ottocentesca.

Gianluca Gabrielli, dottore di ricerca in Storia dell’educazione all’Università di Macerata, da più di vent’anni ormai si occupa di colonialismo e razzismo italiani e di fascismo, con un’attenzione particolare per le problematiche educative e scolastiche e a questi temi ha dedicato numerosi lavori, articoli e libri, tra i quali si ricordano in particolare Il razzismo (Ediesse, 2012), scritto con Alberto Burgio, La scuola fascista (Ombre Corte, 2009), curato con Davide Montino e Il curricolo “razziale”. La costruzione dell’alterità di “razza” e coloniale nella scuola italiana (1860-1950) (Eum, 2015). [Su Carmilla: Gianluca Gabrielli, Scuola di razza 1/2 e 2/2
Davide Montino, RomanitàArmando Lancellotti, Lasciti coloniali: perché Calimero è tutto nero]
Importante anche il contributo dato all’allestimento di alcune mostre, tra le quali segnaliamo l’importantissima La menzogna della razza (1994), che ha rappresentato un momento decisivo per lo sviluppo avvenuto nell’ultimo ventennio degli studi sul colonialismo e sul razzismo italiani. Ed Educati alla guerra è anche il titolo di una mostra, dallo stesso Gabrielli curata, indirizzata a scuole ed enti culturali.*

I processi di nazionalizzazione della società di massa a inizio Novecento, anche, e talvolta soprattutto, attraverso la mobilitazione e la militarizzazione delle più giovani generazioni, non sono da considerarsi certo un caso esclusivamente italiano, ma in «Italia tale percorso di nazionalizzazione dell’infanzia attraverso la militarizzazione fu sicuramente tra i più continui e intensi di tutta Europa» (p. 7). E questo perché in quello scelto da Gabrielli come periodo paradigmatico dello sviluppo del fenomeno oggetto di studio – il lasso temporale 1911-1945 – l’Italia combatté la guerra italo-turca per la Libia, la Grande Guerra, intraprese la cosiddetta riconquista della Libia, poi l’impresa d’Etiopia, a cui fecero seguito la “crociata” spagnola, l’aggressione all’Albania ed infine il secondo conflitto mondiale e per ventitre di quei trentaquattro anni fu guidata da un governo, prima e un regime, poi che fecero della guerra un criterio identitario, un principio ideologico ed un valore etico.

Come è noto, una volta fatta l’Italia nel 1861, la classe politica e dirigente si pose il problema di “fare gli italiani”, di creare una nazione ed un’identità nazionale e l’esercito e la scuola furono individuati come gli strumenti più efficaci per intraprendere tale non facile compito. «Così molto fu l’impegno per introdurre nei percorsi scolastici gli elementi di patriottismo ereditati dalle lotte risorgimentali e rivivificati dalle prime imprese coloniali e dalla celebrazione dei relativi martiri» (p. 12). Ma le analisi di Gabrielli non si limitano al solo mondo scolastico e si allargano anche ad altri momenti del vivere quotidiano dei bambini e dei ragazzi italiani, che con gli inizi del Novecento vennero sempre più coinvolti dai fenomeni sociali di massificazione, che si manifestavano, per esempio, nella nascita di una specifica editoria per l’infanzia, in particolare con la pubblicazione di due riviste come il Giornalino della domenica (1906) e il Corriere dei piccoli (1908), che iniziarono a veicolare il tema della guerra, anche se essa veniva ancora presentata come qualcosa che non apparteneva propriamente al mondo dei bambini – per i quali manteneva ancora la forma del gioco – ma a quello degli adulti; oppure con lo sviluppo di un nuovo settore di mercato, in genere accessibile solo alle famiglie della ricca borghesia, cioè quello dei giocattoli, tra i quali prevalevano quelli per i maschi che erano per lo più di tema bellico e militare.

Un primo decisivo momento di accelerazione nel processo di nazionalizzazione e militarizzazione dei ragazzi italiani si verificò, sostiene l’autore, in coincidenza con la guerra per la Libia del 1911-’12; impresa coloniale che fece da punto di svolta per molti aspetti della vita politica e sociale dell’Italia giolittiana: fu in quegli anni che il nazionalismo abbandonò le originarie forme risorgimentali per assumere quelle imperialistiche della A.N.I e che l’opinione pubblica all’atteggiamento prevalentemente freddo tenuto nei confronti delle iniziative africane di Depretis e di Crispi sostituì il coinvolgimento per le sorti della Grande Proletaria civilizzatrice. Il patriottismo e il nazionalismo fecero il loro ingresso nella scuola italiana, così come i temi del fardello dell’uomo bianco e della missione civilizzatrice.

«Insomma, l’entusiasmo per la guerra imperialista in nome dell’appartenenza alla nazione sgretolava l’idea – recente e fragile – di una didattica che auspicasse la pace; la guerra coloniale spingeva i maestri a torcere l’insegnamento in senso nazionalista e li trasformava, in anticipo rispetto alla Grande guerra, in attivisti per la patria» (22). Il livello di coinvolgimento nazionalistico dei bambini e dei ragazzi italiani conobbe un incremento qualitativo decisivo e «fecero la comparsa
attività di sostegno morale o materiale ai militari nelle quali furono coinvolti gli alunni» (p.24), iniziative che sarebbero state poi replicate ed estese durante la Grande Guerra e in occasione delle guerre fasciste.

Con la prima guerra mondiale, che fu il più grande fenomeno sociale di massa che la storia avesse mai conosciuto fino ad allora e segnatamente per società ancora in larga parte arretrate come quella italiana, quanto già accaduto pochi anni prima con la guerra di Libia si estese e si sistematizzò. La formazione di una propaganda moderna e la comparsa del fronte interno non esclusero certo dai loro effetti i bambini e i ragazzi e non solo quelli nelle zone del fronte e per tutti i giovani italiani cambiarono tante cose.

Tra gli effetti combinati di queste due potenti spinte ci fu l’affermarsi dell’“ideologia della parsimonia e dei sacrifici”, già fortemente radicata e promossa in passato come etica del risparmio nell’educazione scolastica dei ceti popolari, ma in questa contingenza divenuta un “imperativo economico e morale [legato] alla potenza e persino alla sopravvivenza nazionale” (pp. 30-31).

Così nei giornalini per l’infanzia la «dimensione della guerra entrò in molti modi tra i materiali trasmessi ad esempio dal “Corriere dei piccoli”. L’interventismo del Corrierino infatti si fece più marcato e deciso rispetto agli anni della Guerra di Libia, promuovendo e poi accompagnando la partecipazione italiana al conflitto» (p. 31). Personaggi popolari delle storie per bambini come Schizzo o Italino divennero sempre più di frequente protagonisti di vicende belliche e pure «nel cinema» – osserva Gabrielli anche sulla scorta delle analisi fondamentali di uno dei più importanti studiosi di questi argomenti, Antonio Gibelli – «nello stesso periodo, furono prodotti e circolarono numerosi film rivolti al pubblico infantile o che avevano i bambini come protagonisti; si trattava di pellicole costruite su trame in cui l’eroismo dei piccoli rendeva possibili imprese eroiche» (p. 31-32).

Ma ancora più interessante è il caso delle forme di coinvolgimento attivo del mondo dell’infanzia in attività di supporto ai combattenti, come la scrittura di lettere che potessero essere di conforto per i soldati, o la preparazione di oggetti ed indumenti utili, come calze pesanti o «le compresse combustibili di carta e paraffina da inviare al fronte per permettere ai soldati di consumare pasti caldi anche in prima linea» (p. 33), il cosiddetto “scaldarancio”. Nel complesso, continua Gabrielli, si trattava di «iniziative che avevano lo scopo di familiarizzare i bambini con l’evento guerra, di renderlo accettabile e persino attraente, in definitiva di inculcare l’idea che combattere e morire, ma anche fare sacrifici per la nazione in armi era una cosa non solo necessaria ma per così dire naturale» (p. 33).

Nelle scuole interventismo, patriottismo, nazionalismo divennero pervasivi come conseguenza di un combinato disposto di circolari e direttive provenienti dal Ministero e di iniziative spontanee intraprese negli istituti dai docenti interventisti, che ridussero ben presto a minoranza costretta al silenzio i colleghi socialisti e neutralisti. Dopo il disastro di Caporetto, spiega Gabrielli, fu il Ministero ad inviare alle scuole superiori le direttive per introdurre lezioni settimanali sulla guerra in corso e dopo la sostituzione di Cadorna con Diaz «anche la mobilitazione verso l’infanzia conobbe mutamenti significativi. […] L’azione congiunta del Ministero e delle associazioni patriottiche venne intensificata e anche nelle città lontane dal fronte mutò le sue caratteristiche, divenendo più capillare e dando luogo a manifestazioni pubbliche a carattere patriottico che coinvolsero l’infanzia in modo inedito e massiccio» (p. 45).

La fine dello stato liberale sotto i colpi dello squadrismo fascista e l’avvento al potere di Mussolini comportarono l’elevazione a potenza dei processi di nazionalizzazione-militarizzazione dell’infanzia italiana. Come già detto sopra, l’intervento, la trincea, il combattimento, il corpo d’assalto ecc. fecero da miti fondatori, e come ideologia e come etica, del fascismo, che una volta divenuto regime a partito unico e potendo dispiegare tutte le proprie forze e velleità totalitarie, diede il via ad una capillare opera di modellamento dell’italiano nuovo, dell’italiano fascista, che non poteva non partire proprio dalla scuola e dal mondo dell’infanzia in generale.

E così le «spedizioni squadriste armate di manganello e di olio di ricino, quando non di pistole, coltelli e bombe a mano, divennero presto un mito celebrato dal regime ed esaltato anche nei testi scolastici» (p.50). «L’etica della violenza e la celebrazione della guerra» – fa notare Gabrielli – «divennero, con la trasformazione in regime, due degli elementi fondanti la pedagogia politica e sociale del nuovo Stato. […] L’investimento che il regime fece sulla scuola fu infatti significativo; essa veniva ritenuta l’avanguardia di un fronte, quello della costruzione dell’italiano nuovo, considerato cruciale» (52). In tal senso, un passaggio importante fu l’adozione del testo unico di Stato per le scuole elementari, decisa nel 1930.

Ma nonostante l’impegno profuso dal regime nella trasformazione della scuola in un utile ed efficace strumento di mobilitazione ed irregimentazione sociali, dal 1926 – come è noto – il fascismo istituì la O.N.B. (Opera Nazionale Balilla), poi confluita nella G.I.L. (Gioventù italiana del littorio) insieme alle organizzazioni femminili nel 1937. «All’Onb fu attribuito il compito della preparazione spirituale e fisica dei giovani in senso pre-militare e la gestione del tempo libero, ovviamente caratterizzato da pratiche che esaltavano le peculiarità del regime. […] Essa divenne presto una specie di “caserma” giovanile che prendeva forma per ospitare ed educare nello spirito littorio i ragazzi durante la loro crescita» (p. 59-60). Le attività pre e para militari e l’educazione fisico-sportiva erano le pratiche specifiche dei Balilla, in stretta relazione tra loro, dal momento che la «tradizione nazionale italiana di educazione fisica privilegiava la scuola prussiana, di derivazione militare, mentre rimase trascurabile l’influenza del filone anglosassone che valorizzava il gioco e lo sport. Fu con il fascismo che si compì una integrazione tra le due scuole, con l’egemonia di quella militare: l’affermazione dello sport e del divismo sportivo nella società spinse i teorici e pedagogisti più legati al regime a selezionare alcuni sport legati alla tradizione e al profilo virile e ad includerli tra quelli promossi come educativi» (p. 66).

Gli anni Trenta non furono solo quelli del consolidamento monolitico del regime, ma anche quelli in cui si concluse la cosiddetta riconquista di Cirenaica e Tripolitania, in cui si concepì, si predispose e si combatté la guerra per la conquista dell’impero abissino a cui fece seguito, quasi senza soluzione di continuità, la partecipazione alla guerra in Spagna; insomma fu il periodo in cui il fascismo sostenne le proprie guerre, prima di precipitarsi nel gorgo del secondo conflitto mondiale.
In questo clima, ricorda Gabrielli, nel 1934 venne introdotta nelle scuole secondarie una nuova materia riservata solo ai maschi: “Cultura militare”. A questo si aggiunga che non a caso proprio in coincidenza con la ripresa della politica coloniale africana venne dato il via alla politica razzista sia sul piano ideologico sia su quello legislativo, prima nelle colonie e poi in Italia. Tutto ciò non poteva non avere conseguenze nell’ambito dell’educazione, della scuola e del mondo dell’infanzia in generale. E come guerra e sport, anche razza e guerra si fusero per formare un grumo ideologico-politico elevato dal regime al rango di contenuto ed obiettivo pedagogici.

Il varo del razzismo di Stato tra il 1936 e il 1938 aggiungeva un ulteriore elemento alla polarizzazione amico-nemico. La stigmatizzazione dell’altro “razziale” – africano o ebreo – rientrava in questo schema, ormai irrigidito in categorie che non sfuggivano alla biologizzazione e alla demonizzazione radicale. Gli africani, da sempre considerati “negri” e cioè appartenenti alla “razza” inferiore per eccellenza nella codificazione delle diversità umane, dopo aver incarnato dal 1935 il ruolo di nemici selvaggi da sconfiggere nella guerra per conquistare l’Etiopia, erano successivamente divenuti i “sudditi inferiori”. […] Emblematica in questo senso è la circolare inviata dal ministro Bottai alle scuole il 26 aprile 1937 in riferimento alla corrispondenza scolastica degli alunni italiani con indigeni dell’Africa orientale, che raccomandava un certo distacco anche nelle espressioni utilizzate: mi risulta che alcuni alunni ed alunne delle scuole del Regno, scrivano lettere o cartoline ai giovinetti indigeni dell’A.O.I. [Africa Orientale Italiana], usando l’appellativo di “sorella” o di “fratello”. Quantunque non possa dubitarsi della buona fede dei nostri alunni, ritengo che nella corrispondenza con gli indigeni non debbano essere usate le suddette espressioni, perché i fratelli degli italiani sono solamente gli italiani (p. 101-102).

La guerra d’Etiopia fu combattuta tra l’ottobre del 1935 e il maggio del 1936, quasi in perfetta coincidenza con l’anno scolastico 1935-’36 – fa notare Gabrielli – e la scuola italiana fu investita da una ondata di militarismo e razzismo fatti di disprezzo del nemico, senso di superiorità razziale, rivendicazione del diritto alla conquista e ricorso all’argomento della missione civilizzatrice, come già, ma in scala minore, era accaduto per la giolittiana conquista libica. E i ragazzi furono chiamati al coinvolgimento totale, tanto nelle attività scolastiche di aula quanto in iniziative aggiuntive o in quelle predisposte dalle organizzazioni giovanili maschili e femminili.

L’esempio forse più emblematico delle modalità con cui il regime ritenne di poter militarizzare la mentalità dei giovani italiani è quello che riguarda la distribuzione alle scuole, già a partire dal 1934, di maschere antigas e la predisposizione di pratiche di addestramento e di simulazione per l’utilizzo delle medesime. Al di là del fatto, nota Gabrielli, che il numero di maschere distribuite per istituto sarebbe stato, in caso di bisogno, insufficiente, ciò che risulta evidente è il tentativo di militarizzare la quotidianità della vita scolastica e di introdurre nel pensiero e nelle abitudini degli studenti gesti e comportamenti bellici e il tutto attraverso l’allenamento all’uso della maschera contro il gas che gli italiani non rischiavano minimamente di ricevere sulle proprie teste, mentre proprio i nostri soldati già li avevano utilizzati in Cirenaica e in modo molto più massiccio e sistematico, nonché illegale, li avrebbero impiegati in Etiopia.

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939 e con la successiva decisione del regime di entravi nel 1940, tutte le pratiche, le forme e i metodi – propagandistici, pedagogico-scolastici, ricreativi, ginnico-sportivi – con cui il fascismo – proseguendo e potenziando quanto già compiuto dai governi dell’epoca liberale – aveva, nel corso di un ventennio scarso, militarizzato mentalità e comportamenti dei giovani italiani furono dispiegati con il massimo impegno nel tentativo di supportare lo sforzo bellico, almeno fino al 1943, quando poi i destini all’interno del Paese si divisero – e quindi anche quelli dei giovani – a nord o a sud della Linea Gustav prima e Gotica poi, ovvero – per i ragazzi più grandi d’età – a sostegno della Repubblica sociale o dentro alla Resistenza.

La reale dimensione della guerra moderna colpiva anche i giovani, in alcuni casi sbriciolando le mitologie del fascismo e conducendoli all’impegno nella Resistenza, in altri casi irrigidendo le mitologie dell’onore e della fedeltà al duce e impegnandoli in una lotta crudele al fianco dei nazisti. Come scrive Antonio Gibelli, “per quanto riguarda la mobilitazione e la nazionalizzazione di minori, l’8 settembre del 1943 segna un punto di svolta: è la perdita dell’innocenza, il brutale richiamo alla realtà […] il tempo dei sogni di grandezza si converte definitivamente in quello della disperazione e della ferocia” […] Spesso il discrimine di atteggiamento attraversava la soglia dei 18/20 anni. Chi superava questa soglia nel 1943 aveva già avuto modo di conoscere questa guerra e di capire che non valeva la pena di continuarla, spesso erano i soggetti che andavano ad alimentare la renitenza o che facevano la scelta di rottura e si impegnavano nella Resistenza. Invece i più giovani arrivavano ancora freschi di parate e parole d’ordine della propaganda a questo arruolamento precoce e cadevano ancora frastornati nella trappola della rabbia e della fedeltà feroce al mondo incantato e fittizio che gli aveva costruito intorno la propaganda fascista (p. 117).

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*La mostra Educati alla guerra, curata da Gianluca Gabrielli è distribuita da Pro Forma Memoria, agenzia da molti anni meritoriamente attiva nell’ambito della promozione culturale e didattica, della divulgazione e della ricerca storiche in particolare.

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