Milieu edizioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gang: le lotte vanno cantate https://www.carmillaonline.com/2023/07/20/gang-le-lotte-vanno-cantate/ Wed, 19 Jul 2023 22:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78318 di Luca Cangianti

Marino Severini con Alberto Sebastiani, Quel giorno Dio era malato. Sulle strade dei Gang, storie e canzoni, Milieu, 2023, € 16,50.

Tutto inizia a Bologna il 1° giugno del 1980 al concerto dei Clash. Marino Severini e suo fratello Sandro hanno una vera e propria illuminazione. Si arruolano nell’esercito rivoluzionario del combat rock e iniziano un’avventura musicale che giunge fino ai nostri giorni attraverso molte evoluzioni, contaminazioni e collaborazioni. Quel giorno Dio era malato, uscito da poco più di un mese per Milieu edizioni, è il [...]]]> di Luca Cangianti

Marino Severini con Alberto Sebastiani, Quel giorno Dio era malato. Sulle strade dei Gang, storie e canzoni, Milieu, 2023, € 16,50.

Tutto inizia a Bologna il 1° giugno del 1980 al concerto dei Clash. Marino Severini e suo fratello Sandro hanno una vera e propria illuminazione. Si arruolano nell’esercito rivoluzionario del combat rock e iniziano un’avventura musicale che giunge fino ai nostri giorni attraverso molte evoluzioni, contaminazioni e collaborazioni. Quel giorno Dio era malato, uscito da poco più di un mese per Milieu edizioni, è il racconto ispirato e dinamico del back stage creativo di un viaggio lungo quarant’anni tra autogrill, alberghi, camerini e palchi circondati da un popolo allergico alle logiche di palazzo.

Per il gruppo marchigiano dei Gang, la musica è militanza e la chitarra, come per Woody Guthrie, è una macchina utile a sconfiggere il fascismo. Le «lotte vanno cantate» dice Severini, anche quelle sconfitte, perché solo in questo modo possiamo creare l’immaginario antagonista necessario a sostenere nel tempo la resistenza degli oppressi. Da questo punto di vista si spiega la decisione del gruppo, presa all’inizio degli anni novanta, di passare dall’inglese all’italiano, accentuando aspetti narrativi e tradizionali che consentissero la valorizzazione della vita operaia, popolare e perfino contadina. I riferimenti politici e musicali emergono così da una miscela esplosiva di cantautori e movimenti rivoluzionari: Pete Seeger, Phil Ocks, Bob Dylan, Joan Baez, Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Christy Moore, Bruce Springsteen, Billy Bragg, Steve Earle, Jay Farrar, Tom Morello, i partigiani, gli zapatisti, i no tav e persino i seguaci della teologia della liberazione.

Per chi non abbia direttamente vissuto esperienze simili a quelle raccontate nel libro, a volte può esser difficile capire a pieno l’entusiasmo etico ed estetico che attraversa questa prosa simile a una ballata. Se però inquadriamo i codici qr che rimandano ai video delle canzoni, i cui testi sono perfettamente amalgamati con il flusso narrativo, tutto diventa d’immediata e piacevole comprensione. Perfino il comunismo sembra qualcosa a portata di mano: «per me – scrive Severini a tal proposito – è proprio questo in fin dei conti, conquistare un giardino per ogni essere umano, perché ogni essere umano ha diritto al proprio giardino, a coltivarlo, a prendersene cura, a godere della sua magnificenza, a spartirne con altri i semi dei fiori e delle piante».

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Da Tom Joad a Capitol Hill, passando per Rambo e Rocky https://www.carmillaonline.com/2021/03/04/da-tom-joad-a-capitol-hill-passando-per-rambo-e-rocky/ Thu, 04 Mar 2021 22:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65099 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Il grande Sly. Film e avventure di Sylvester Stallone, eroe proletario, Milieu edizioni, 2021, pp. 174, 1,90 euro

Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 1931, i membri della Workers Film and Photo League potevano scrivere su “Experimental Cinema” (una rivista redatta da Jan Leyda, David Platt e Seymour Stern e ricollegabile al Partito Comunista degli Stati Uniti) che: «Movie must become our weapon (il film deve diventare la nostra arma)». Nel frattempo quel cinema e quei film che gli autori del vecchio articolo [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Il grande Sly. Film e avventure di Sylvester Stallone, eroe proletario, Milieu edizioni, 2021, pp. 174, 1,90 euro

Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 1931, i membri della Workers Film and Photo League potevano scrivere su “Experimental Cinema” (una rivista redatta da Jan Leyda, David Platt e Seymour Stern e ricollegabile al Partito Comunista degli Stati Uniti) che: «Movie must become our weapon (il film deve diventare la nostra arma)». Nel frattempo quel cinema e quei film che gli autori del vecchio articolo avrebbero voluto virare in chiave di rivendicazione proletaria hanno cambiato più volte colore e non soltanto per il passaggio dalle pellicole in bianco e nero a quelle in technicolor e, per finire, al digitale.

Anche il cambiamento dell’eroe proletario non è stato di poco conto. Da Tom Joad a Rambo il salto non era facilmente prevedibile ai tempi della grande crisi, anche se il secondo sarebbe uscito dritto dritto dalle pagine di First Blood, un romanzo di David Morrell pubblicato in America nel 1972 e in Italia, da Feltrinelli, nel 1973. Una vicenda destinata a simboleggiare il dramma di una generazione di reduci che, alla fine di un allucinante apprendistato durante la guerra in Vietnam, si ritrovò carica di medaglie e disturbi mentali, ma priva di diritti reali.

Non solo, però, poiché il libro scritto da Diego Gabutti, con la solita arguzia ed ironia, e pubblicato da Milieu, con un ricco e spesso divertente apparato iconografico, ci ricorda come proprio intorno alla e dalla figura di eroe proletario dipinta nei film che hanno visto Sylvester Stallone (Sly) sia come interprete che come ideatore abbia avuto inizio ciò che è attualmente definibile come action movie. Se qualcuno, poi, si scandalizzasse davanti alla definizione di eroe proletario qui, e nel libro, utilizzata a proposito dei personaggi interpretati da Sly val forse la pena di ricordare che la migliore cinematografia americana degli anni ’70 produsse sì una gran quantità di film dallo spirito nettamente antagonista, ma anche che in quei film “di contestazione” quasi sempre i protagonisti erano studenti oppure drop-out ed emarginati di vario genere, più facilmente riconducibili al proletariato marginale che non a quello (bianco) di fabbrica. L’unico ad avere al suo centro tre figure di operai piuttosto incazzati è il celebre Blue Collar (1978) di Paul Schrader, con Richard Pryor e Harvey Keitel, liberamente tratto dalla crime story Across 110th Street di Wally Ferris (1970)1, in cui le “scelte” proletarie bianche e nere danno il via a una girandola di violenze, inseguimenti, tradimenti e fughe verso impossibili lidi di benessere. In qualche modo, quindi, ad un primo action movie, in questo caso vagamente politicizzato, in cui il fondamento è dato da una insoddisfazione “di classe” accompagnata da una scelta irreversibile, destinata a sfociare nella violenza e nell’azione.

In fin dei conti il trucco stava già nel fatto che, a differenza del romanzo di David Morrell, nel film di Ted Kotcheff del 1982 Rambo non sarebbe morto. Permettendo così quella trasformazione dell’eroe di origini proletarie in eroe seriale che poi avrebbe costituito uno degli aspetti più noti della carriera di Sylvester Stallone. Rambo, Rocky (e ci scusiamo qui di aver fatto sì che il reduce sembri precedere il pugile, considerato che il secondo fu il protagonista del film di John G. Avildsen già nel 1976) e il Barney Ross de I mercenari (The Expendables 1, 2, 3, 4…) che, però, già rimette iconoclasticamente in discussione, quasi distruggendolo dall’interno, lo stesso genere.

Con il suo solito stile, irridente e irriverente, Gabutti ci guida dai gangster, eleganti e raffinati, in smoking del cinema muto a quelli “con la faccia sporca” del cinema di James Cagney e Edward G. Robinson degli anni della Grande Depressione, quando il codice Hays2 vietò, in un momento storico in cui i rapinatori di banche alla Dillinger erano vissuti negli Stati Uniti come autentici eroi3 dal proletariato e dai piccoli agricoltori caduti in disgrazia, la realizzazione di film nelle cui vicende i gangster potessero essere i vincitori oppure gli autentici eroi.

Quei proletari e piccoli farmer che, come i personaggi di Steinbeck (il cui romanzo sulle conseguenze sociali della grande crisi e delle tempeste di polvere fu pubblicato nel 1939) portati sullo schermo da John Ford nel 1940, erano sempre e comunque bianchi, così come il volto di Henry Fonda destinato a diventare quello di Tom Joad, il protagonista di Furore. Inutile non vederlo oppure ricordarsi che in altri due romanzi dello stesso Steinbeck, Pian della Tortilla (1935) e Vicolo Cannery (1945), ai poveri emarginati bianchi della California si sarebbe aggiunto qualche immigrato o vecchio residente messicano.

Le vicende che porteranno Sly, che poco o nulla aveva di proletario nella sua storia personale, da un cinema di serie Z blandamente pornografico, che lo rese celebre come Italian Stallion, oppure in cui si narravano le vicende di un confuso hippy- terrorista, alla celebrità sono ricostruite dall’autore, che non manca mai di sottolineare la novità rappresentata comunque dalla cinematografia “stalloniana” nella reinvenzione del cinema destinato al vasto pubblico del consumo di massa.
Niente di raffinato o sperimentale, per carità, ma una narrazione molto vicina al cuore profondo di un’America bianca, spesso lontana dal potere reale ma ancora illusa da sogni di grandezza ormai morti e sepolti, di cui, anche dopo l’assalto a Capitol Hill nel giorno della Befana, ci sfuggono i contorni (e la storia). Ma che nei suoi film l’attore ha saputo benissimo interpretare o, almeno, ha saputo dare un volto riconoscibile e in cui riconoscersi.

Forse il miglior riconoscimento per Stallone e il suo cinema potrebbe essere quello di aver costituito, prima dell’avvento di Donald Trump con il suo Make America Great Again, il grande premio di consolazione per “una classe operaia che fu”, anche se non sono pienamente convinto che Diego possa accettare tale definizione per l’oggetto della sua indagine.


  1. Pubblicato in Italia come Notte di caccia a Harlem da Aldo Garzanti Editore, Milano 1972  

  2. Codice Hays è il nome con cui è indicato, dal nome del suo creatore Will H. Hays, il Production Code, una serie di linee guida che per molti decenni hanno governato e limitato la produzione del cinema negli USA. La Motion Picture Producers and Distributors of America adottò il codice nel 1930, iniziando però ad applicarlo effettivamente nel 1934, e lo abbandonò solo nel 1967  

  3. Si pensi soltanto alla ballata di Woody Guthrie Pretty Boy Floyd, dedicata ad un membro della banda Dillinger  

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Cecco Bellosi: Con i piedi nel lago https://www.carmillaonline.com/2013/07/18/cecco-bellosi-con-i-piedi-nel-lago/ Thu, 18 Jul 2013 21:55:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7744 di Girolamo De Michele cecco_bellosi_piedi

Cecco Bellosi, Con i piedi nell’acqua. Il lago e le sue storie, introduzione di Davide Van De Sfros, prefazione di Aldo Bonomi, Milieu Edizioni, Milano 2013, pp. 240, € 14.90

Ogni italiano con una minima infarinatura scolastica ha in mente almeno due luoghi letterari: una selva oscura nella quale s’è sperduto un viandante, e una corona di cime montuose che sembrano sorgere dalle acque d’un lago. Accanto ad altre immagini radicate, più che nel patrimonio letterario, nella dimensione dell’infanzia (una bottega dove un falegname intaglia un pezzo di legno, la grotta del presepe, [...]]]> di Girolamo De Michele cecco_bellosi_piedi

Cecco Bellosi, Con i piedi nell’acqua. Il lago e le sue storie, introduzione di Davide Van De Sfros, prefazione di Aldo Bonomi, Milieu Edizioni, Milano 2013, pp. 240, € 14.90

Ogni italiano con una minima infarinatura scolastica ha in mente almeno due luoghi letterari: una selva oscura nella quale s’è sperduto un viandante, e una corona di cime montuose che sembrano sorgere dalle acque d’un lago. Accanto ad altre immagini radicate, più che nel patrimonio letterario, nella dimensione dell’infanzia (una bottega dove un falegname intaglia un pezzo di legno, la grotta del presepe, mari e foreste di una Malesia fantastica), quei due luoghi sono parte dell’inconscio collettivo di una nazione: ne costituiscono alcuni tratti identitari, in certo modo. Molti, in diversi modi, hanno spiegato che in quella selva oscura ci siamo dentro tutti, perché la selva è la nostra stessa vita: per questo la riconosciamo ovunque. Diverso è il caso del paesaggio che apre due delle pagine più famose del capolavoro del Manzoni, che si avvia per l’appunto su quel ramo del lago di Como i cui monti bisognerà poi che Lucia saluti col suo addio: monti descritti in punta di pennello, con una precisione estrema, ma che quasi tutti finiamo col conoscere solo per averne letto la descrizione, e non per averli visti o frequentati. Né sappiamo molto dei laghée che quei luoghi popolano: nell’immaginario nazionale, la Lombardia è Milano, e su Milano, falsamente, si appiattisce come su un luogo comune.

È su quei monti, attorno a quei due ramo del lago, che Cecco Bellosi ha ambientato il suo Con i pedi nell’acqua. O meglio: sono gli abitanti che popolano quei luoghi ad essere venuti alla penna raffinata, colta ed elegante di questo quasi-esordiente che ha avuto, come i gatti, alcune vite da spendere e un po’ troppe cose da fare per dedicarsi alla scrittura, scegliendo una solo anagrafica terza età per rivelarsi narratore di razza e di spessore, inanellatore di vite e racconti pubblicati dalle Milieu edizioni, un’agguerrita casa editrice indipendente dal catalogo molto interessante.

Il fascino di queste storie di irregolari – “agli irregolari” è dedicato il libro: e a chi, se non?, verrebbe da chiosare – è la via tortuosa, le molte selve che al cittadino che non ne vede i segni e i sentieri possono apparire oscure e nelle quali ci si addentra con la consapevolezza che si sta entrando anche dentro un archetipo letterario; ed entrandoci lo si scopre tanto diverso dalla realtà quanto lo è dai tempi e dagli uomini narrati da Bellosi il nostro presente: un presente che ci viene da altri spacciato come immutabile, inevitabile, ineludibile.

cecco_b Con un incipit inaspettato, l’Autore [a sinistra] sceglie di introdurre il suo lettore non attraverso i sentieri degli sfrosatori, degli spalloni, dei contrabbandieri la cui epica, tra l’inizio del secolo breve e i primi lampi del Sessantotto, sarà il centro della narrazione: ma dalle cucine della scuola di chef di Arzegno, che «per buona parte del Novecento ha partorito la pattuglia dei migliori» (p. 15): il confronto con le cucine televisive odierne, con «le dilettanti allo sbaraglio che imperversano nelle case a tutte le ore dal digitale terrestre o dal satellite» (p. 33) passate senza colpo ferire dalla professione di sorelle minori a quella di riscaldatrici di surgelati o spadellatrici in quattro salti, mostra senza possibilità di mediazione la differenza tra due mondi inconciliabili. E ci fa capire, subito, che è in quell’altro mondo che stiamo per entrare, quando il lago non era ancora la meta dei nuovi ricchi: «Sullo scorcio di fine secolo si è passati velocemente, insinuando qualche debole traccia di cronaca rosa sui muri screpolati nei secoli, dallo stilista italiano all’attore americano al petroliere russo arricchito alla borsa nera della morte del comunismo: c’è chi il bandito lo interpreta al cinema, e chi lo fa per professione nella vita di tutti i giorni» (p. 75).

Mondo tosto, quello del lago e dei laghée. Al cui centro c’è il mestiere dello sfrosatore: un lavoro duro che può diventare un’arte senza addolcirsi, che consiste nel passare la frontiera per portare farina, caffè, tabacchi, zucchero, dadi, selvaggina. Attorno a quest’arte ci sono regole ferree, comportamenti che non ammettono deroghe o distrazioni, rituali:

«La partenza di ogni viaggio ripeteva un rito silenzioso: ognuno si costruiva con la iuta, la corda e l’ago i peduu d’invöi, le pedule rovesciate con la cucitura sotto il piede; poi ritagliava con il fulcìi le palene, le bretelle con cui si metteva in spalla il sacco ingombrante, spigoloso e odiato quando cominciava a picchiare con insistenza sulle gambe, marinandole nel dolore. Ma poi amato alla fine della corsa. Dentro, dai settecento pacchetti di sigarette per i meno abituati ai mille per i più forti. Come quel tronco di rovere del Bagaten, che i finanzieri provarono ad abbattere, senza riuscirci, anche sparandogli. Ognuno, nel momento della cucitura delle scarpe per il viaggio, stava solo con i suoi pensieri: la morosa, i figli, l’adrenalina che scendeva lentamente in ogni angolo del corpo. Poi, a un cenno, tutti in fila con passo attento, svelto, determinato. Ogni volta le pedule venivano costruite con sapienza da artigiani: gli spalloni dicevano di non volersele portare appresso perché nel passaggio di confine i doganieri potevano fare storie, ma la verità è che non volevano rinunciare al rito propiziatorio» (pp. 130-131).

E ci sono gerarchie dettate dalla capacità individuale di saper trovare ogni volta un passaggio ignoto ai burlanda (i finanzieri) e alla tribù (la polizia tributaria), di saper organizzare e tenere insieme una colonna: da cui le leggendarie vite e imprese dei capi del contrabbando. Il Ment, innanzitutto e prima di tutti: la leggenda, «l’ultimo grande sprazzo di una valle inquieta, mazziniana e valdese, anarchica e contrabbandiera prima di rassegnarsi a un docile tramonto. La leggenda ha contorni sfumati, è traccia di racconto ogni volta diversa. Quando si accenna al Ment, i volti dei vecchi sorridono luminosi e si soffermano per attimi assaporati lentamente, in cui passa la nostalgia» (p. 61).

E poi il Berto, che di soprannome faceva il Mucc, il più radicale e sfacciato: «La finanza aspettava gli uomini sui sentieri più impervi? Bene, lui andava sulle mulattiere, sulle strade sterrate, sulle vie più scontate. La sfrontatezza era il suo mestiere» (p. 212). Il Barogio, che «ha rivestito, nella sua carriera, tutti i ruoli previsti dal mestiere. Spallone, capo, padrone in proprio, pilota di motoscafi suoi e di altri, autista di machine potenti e veloci, sue e di altri» (p. 213). Il Cia Cia, sbattuto dalla guerra su un’isola Greca: che invece di bearsi nell’elogio della fuga, come in un film di Salvatores (roba da fighetti della borghesia meneghina, l’elogio della fuga), imbarcato per Atene, fugge verso il nord, s’inventa un mestiere da barbiere in Bulgaria, viene catturato dalle SS ma evade, per poi ritrovarsi in Jugoslavia «dalla parte giusta: in base all’istinto, non alla politica» tra i partigiani di Tito, finire la guerra sfilando tra gli applausi della città di Spalato, e infine tornare a casa, a Lezzeno, dove la sua casa neanche c’era più: «Ricominciare fu dura, ma per fortuna c’era il contrabbando. Un mondo dove la sua esperienza di movimenti furtivi nella notte, sguardi attenti e capacità di lettura del silenzio si rivelò subito decisamente utile» (p. 187).

E infine il Cinto, che dà la cifra al suo mondo e al racconto di questo mondo con la sua lucida consapevolezza:

«Nei primi anni Settanta tutti, capitalisti e operai, pensavano alla fabbrica come un luogo capace, allo stesso tempo, di innovazioni tecnologiche e di sogni rivoluzionari. Mandando a scuola i figli e andandoci essi stessi, gli operai si illudevano di conoscere le stesse parole del padrone anche se la parola senza potere resta un flatus vocis.
Il Clinto lo aveva capito sin da subito: meglio la libertà del contrabbandiere che la schiavitù della tecnica, con le invenzioni più suggestive della creatività operaia che finivano nelle mani altrui.
Il sapere operaio non è mai diventato potere operaio» (p. 168)

Non è un mondo benevolo quello del lago, né facile è viverci. Le storie dei contrabbandieri conoscono le tragedie della montagna, le fucilazioni, gli omicidi di Stato, i caduti per mano dei gendarmi. Ma anche le storie narrate attorno al mondo degli sfrosatori hanno talvolta il sapore della tragedia: come la morte della Gianna e Luigi, partigiani scampati ai fascisti e uccisi dal furore rivoluzionario, dalla grettezza personale, dall’ossessione ortodossa e inquisitrice dei loro ex compagni, sotto l’accusa, falsa, di aver parlato sotto tortura. O l’elegia di Elda, la più bella ragazza di Colonno, annegata nel lago d’Arzeno, il cui corpo fu cercato per quasi due mesi dal più esperto dei rampinieri, e infine trovato nella domenica di Sant’Anna.

È un mondo che si colloca non sulle linee di confine tracciate dai poteri e dagli Stati, ma nella frontiera, cioè nello spazio intermedio tra gli Stati e i poteri: «I luoghi di confine portano dentro di sé lo spirito d’avventura, l’incontro tra storie diverse, il dramma della divisione nel teatro del mondo. Se ne esce più liberi, più duri, più segnati» (p. 53). Nella frontiera, come in una terra di nessuno, vigono altre leggi e altre morali dettate dall’agire quotidiano, da un sapere condiviso sedimentato dalla vita in comune, da un senso di spontanea fratellanza e solidarietà che solo un’ottusa obbedienza può fraintendere per omertà: «L’omertà è sporca quando è suddita della paura e del potere, legale o illegale: in Italia, spesso, i due termini sono intrecciati. L’omertà può essere invece, come dicono i dizionari, solidarietà di popolo; in questo caso ha un volto pulito. Ed è dura a morire, perché non ha bisogno di sentirsi liberata dalla paura» (p. 96). In quel mondo più d’una Resistenza ha calcato quei sentieri: da quella, quasi ignota, dell’insurrezione anti-austriaca e repubblicana guidata nel 1848 da Andrea Brenta, «il Pisacane della Val d’Intelvi», a quella partigiana del 1943-45. E lungo quei sentieri fu guidato (ma questo nel libro non c’è) Giangiacomo Feltrinelli, per rifugiarsi in Svizzera all’indomani della strage di Stato del 12 dicembre.

Le storie di questo mondo vivono finché vive il mondo che le racconta: come aveva capito il Giorgio, quando intuisce che «terminate quelle storie, il lago si sarebbe asciugato negli egoismi senza prospettive di futuro. Come il resto d’Italia» (p. 172).

Perché, dunque, tornare a raccontarle?

Perché quelle storie alludono ad alte storie, che Cecco Bellosi ci racconterà, speriamo presto, in un nuovo libro; storie di rivoluzioni perdute, ma non inutili: «Le rivoluzioni non sono mai inutili, soprattutto quelle perdenti. Sono intrise del profumo inebriante della rivolta e imprimono la convinzione che il mondo possa cambiare davvero. Soprattutto danno senso alla vita» (p. 57). Come con quell’Aureliano Buendía che tutti siamo, o siamo stati, aver perso tutte le 32 rivoluzioni promosse non impedisce di assaporare il sogno della trentatreesima.

Queste storie ci mostrano un mondo diverso dall’attuale, contro il grigiore del presente, per dirci che un altro mondo è stato possibile, e che da quello possiamo imparare a rialzare la testa verso quel cielo cui dare, ancora una volta, l’assalto, «in attesa di una nuova storia con i piedi nell’acqua e la testa fra le nuvole» (p. 233).

Nota

A Con i piedi nel lago è stato assegnato il premio “Segnalazione 2013” – vale a dire “il premio della critica” – del Premio Chiara 2013, ex aequo con Andrea Gianinazzi, L’uomo che vive sui treni. Racconti ferroviari (Armando Dadò Editore, Locarno 2012) con questa motivazione: «Entrambi esprimono una sensibilità particolare per il proprio territorio; per Bellosi il Lago di Como, oggi terra di turisti, ieri di ribelli e artigiani, per Gianinazzi il ticinese, dove la storia con la S maiuscola si incontra con la precarietà di una vita sul confine».
Su Con i piedi nel lago leggi anche la recensione di Sergio Bianchi, qui.

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