migrazioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 C’era una volta… oppure c’è ancora Marx? https://www.carmillaonline.com/2024/02/14/cera-una-volta-oppure-ce-ancora-marx/ Wed, 14 Feb 2024 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80491 di Sandro Moiso

Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp. 350, 32 euro

Si adopera l’espressione «marxismo» non nel senso di una dottrina scoperta o introdotta da Carlo Marx in persona, ma per riferirsi alla dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo «accompagna» in tutto il corso di una rivoluzione sociale e conserviamo il termine «marxismo» malgrado il vasto campo di speculazioni e di sfruttamento di esso da parte di una serie di movimenti antirivoluzionari. (Amadeo Bordiga – Riunione di Milano, 7 settembre 1952)

Occorre [...]]]> di Sandro Moiso

Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp. 350, 32 euro

Si adopera l’espressione «marxismo» non nel senso di una dottrina scoperta o introdotta da Carlo Marx in persona, ma per riferirsi alla dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo «accompagna» in tutto il corso di una rivoluzione sociale e conserviamo il termine «marxismo» malgrado il vasto campo di speculazioni e di sfruttamento di esso da parte di una serie di movimenti antirivoluzionari. (Amadeo Bordiga – Riunione di Milano, 7 settembre 1952)

Occorre iniziare dalla perentoria e sintetica frase pronunciata da Amadeo Bordiga più di settant’anni fa per cogliere lo smarrimento che al giorno d’oggi può cogliere un certo numero di militanti antagonisti ogni qualvolta sentono usare il nome del filosofo di Treviri oppure il termine che ne indica l’opera e la sua interpretazione da parte di terzi.

Condizione che, spesso, trasmette un’idea di inutile deja vù o, ancor peggio, di opportunistica rivendicazione di una dottrina ridotta a fantasma di se stessa proprio ad opera di coloro che un tempo, ora sempre meno, a Marx ed Engels si richiamavano, magari insieme al nome di Lenin o di altri appartenenti al periodo dello stalinismo trionfante e dell’opposizione allo stesso.

Per far uscire l’opera di Marx da questa sorta di terra di nessuno in cui è stata relegata, grazie anche all’assenza di una significativa ripresa della lotta di classe, può risultare utile la lettura del volume collettivo appena pubblicato da Carocci editore che raccoglie i contributi di quattordici studiosi di fama mondiale, appartenenti a diversi ambiti disciplinari e provenienti da vari paesi, nei quali si prova ad offrire uno sguardo più moderno e attualizzato sulle idee del filosofo tedesco riguardo all’ecologia, ai processi migratori, alle questioni di genere, al modo di produzione e riproduzione capitalistico, alla composizione del movimento operaio, alla globalizzazione e alle possibili caratteristiche di un’alternativa allo stato di cose presente.

Marcello Musto il primo dei due curatori, che insegna Sociologia alla York University di Toronto in Canada, può essere considerato forse il principale marxologo del tempo presente, grazie anche alla pubblicazione di opere quali L’ultimo Marx (Donzelli, 2016), Karl Marx – Biografia intellettuale e politica (Einaudi, 2018) e, ancora con Carocci editore, Ripensare Marx e i marxismi (2011).
Mentre Alfonso Maurizio Iacono, l’altro curatore, insegna Teoria e storia dei sistemi filosofici all’Università di Pisa ed è autore di numerose opere, tra le quali vanno ricordate Teorie del feticismo (Giuffrè, 1985), Autonomia, potere, minorità (Feltrinelli, 2000), L’illusione e il sostituto (Bruno Mondadori, 2010) e Studi su Marx (ETS, 2018).

Dopo aver sottolineato il rinnovato interesse nei confronti di Marx a partire dalla crisi iniziatasi nel 2008, Musto, nella sua introduzione al testo, ci ricorda che Il capitale non fu l’unico progetto rimasto incompiuto del filosofo e rivoluzionario tedesco.

La spietata autocritica di Marx aumentò le difficoltà di più di una delle sue imprese e la grande quantità di tempo che dedicò a molti progetti che voleva pubblicare era dovuta all’estremo rigore a cui sottoponeva tutto il suo pensiero. Quando Marx era giovane, era noto tra i compagni di università per la meticolosità. Si racconta che si rifiutasse «di scrivere una frase se non era in grado di dimostrarla in dieci modi diversi». E’ per questo che il giovane studioso della sinistra hegeliana pubblicò ancor meno di molti altri. La convinzione di Marx che le sue informazioni fossero insufficienti e i suoi giudizi immaturi gli impediva di pubblicare scritti che rimanessero sotto forma di abbozzi o frammenti1.

Già questo basterebbe a differenziarlo da tanti suoi successivi emulatori e seguaci, sia nella superficialità con cui tante volte hanno dato alle stampe testi poco rigorosi, ma molto ideologici, quanto da coloro che hanno fatto di ogni sua affermazione un’autentica e immutabile parola di veritas.

Alcuni dei testi pubblicati da Marx non devono essere considerati come la sua parola definitiva sui temi in questione. Ad esempio, il Manifesto del Partito comunista è stato considerato da Friedrich Engels e Marx come un documento storico della loro giovinezza e non come il testo definitivo in cui venivano enunciate le loro principali concezioni politiche. Inoltre, bisogna tener presente che gli scritti di propaganda politica e quelli scientifici spesso non sono combinabili. Questo tipo di errori è molto frequente nella letteratura secondaria su Marx2.

Questa mancata contestualizzazione dell’opera spesso si accompagna a un timore reverenziale nell’interpretarla, fin dalla sua morte, a partire dalla quale forse anche lo stesso Engels fu responsabile di un eccesso di imbalsamazione cercando di fissare in una forma definitiva, ad esempio, sia il secondo che il terzo libro del Capitale di cui esistevano varie stesure in forma di appunti, nessuna delle quali aveva convinto del tutto l’autore.

Nasceva così, probabilmente, proprio dal lavoro comprensibilmente rispettoso di Engels, nei confronti dell’amico scomparso, un’interpretazione “dottrinaria” che spesso si è preoccupata più del “monumento Marx” che dell’effettiva utilizzazione della sua opera. Cosicché spesso l’interpretazione della sua opera è stata fin troppo spesso collegata alla mera dinamica di sviluppo delle forze produttive, mentre, in particolare, è stata in seguito dimostrata anche la rilevanza che Marx assegnò alla questione ecologica, a quella delle migrazioni e a quella coloniale.

E proprio a questi tre, attualissimi, temi sono rivolti numerosi saggi tra quelli contenuti in Ricostruire l’alternativa Marx, in particolare in quelli di Silvia Federici su Genere, razza e riproduzione sociale in Marx: una prospettiva femminista; quello di Kohei Saito su L’accumulazione originaria come causa del disastro economico ed ecologico e, ancora, quello di Pietro Basso su Marx sull’esercito industriale di riserva e le migrazioni: vietato abusarne.

Ci si accontenterà qui, per necessità di spazio espositivo, di prendere in esame il saggio di Pietro Basso che, senza nulla togliere all’importanza degli altri citati e non, ha il merito di occuparsi di una questione particolarmente sentita all’interno del dibattito politico contemporaneo e, allo stesso tempo, di rivelare l’abuso fatto, in nome di un “marxismo” superficiale e travisato, dell’opera del rivoluzionario (autentico) tedesco.

Nella rinnovata attenzione al suo pensiero, è toccato a Marx esser chiamato in causa, da sinistra e perfino da destra, in particolare in Italia e in Germania, per legittimare con la sua autorità le politiche di “chiusura delle frontiere” agli immigrati che impazzano in Europa, e spesso fuori dall’Europa. Si tratta di uno sfacciato abuso del pensiero di Marx, compiuto facendo riferimento alla sua analisi della funzione dell’esercito industriale di riserva e delle migrazioni nel capitalismo, ma falsificandola (in parte) e amputandola (del tutto) delle sue conclusioni politiche. Mi occuperò qui di tale abuso prendendo in considerazione la logica di alcuni falsari di successo (Diego Fusaro, Wolfang Streeck, Sahra Wagenknecht)3.

Per poter fare ciò, Basso riprende l’originale riflessione di Marx sull’importante categoria, ai fini dell’analisi della struttura sociale ed economica capitalistica, “esercito industriale di riserva”, presentata fin dai Grundrisse tra le contraddizioni chiave insopprimibili del modo di espansione del capitale. Per dirla con le parole dello stesso Marx: « Il capitale tende sia ad aumentare la popolazione lavoratrice [questo aumento è il primo presupposto dell’aumento del plusvalore – N.d.A.], sia a porre incessantemente una sua parte come sovrappopolazione – popolazione inutile fino al momento in cui il capitale può valorizzarla»4.

Anche se ai tempi di Marx, che prendeva in esame soprattutto lo sviluppo del capitalismo in Gran Bretagna, il problema migratorio era rappresentato soprattutto dalle relazioni e dalle rivalità che intercorrevano tra la manodopera inglese e quella irlandese, ciò non toglie che il fondatore del pensiero e dell’agire rivoluzionario moderno fosse sufficientemente attento alle dinamiche e all’evoluzione di quel rapporto e, in particolare, a ciò che la forzata emigrazione irlandese finisse con l’avere sugli irlandesi stessi e le loro lotte, sia che queste fossero a carattere nazionale che sindacale.

In tale contesto, in cui il capitale tende ad usare ogni arma ideologica e non soltanto per dividere al suo interno il proletariato, Marx si schierò sempre apertamente e risolutamente a favore della «collaborazione sistematica tra occupati e disoccupati per infrangere o indebolire le conseguenze rovinose sulla propria classe di quella legge naturale della produzione capitalistica […] ogni solidarietà tra occupati e disoccupati turba infatti il “puro” gioco di quella legge»5.

Per Marx, quindi, la produzione da parte del capitale di un esercito industriale di riserva è una legge, non un evento passeggero, un’occasionale disfunzione del capitalismo legata a questa o quella politica sociale, ovvero – per stare in tema – a questa o quella politica migratoria. E l’unica forza che può contrastarla è la lotta unitaria tra proletari occupati e disoccupati. Omettere tale doppia conclusione, storico-teorica e politica, è falsificare in modo impudente il pensiero marxiano e marxista in materia6.

A più riprese, Marx, parlando dei vasti spostamenti forzati di popolazioni da un continente all’altro dovuti alle esigenze del colonialismo che alimentavano lo sviluppo del capitalismo, «sostiene a più riprese che il capitale si alimenta di una “doppia schiavitù”: la schiavitù salariata, indiretta, in Europa, e la schiavitù “pura e semplice”, diretta, degli sfruttati di colore nelle colonie»7.

Veniamo ora gli utilizzatori/falsificatori del pensiero di Marx. Costoro si richiamano all’analisi marxiana dell’esercito di riserva e del suo inquadramento delle migrazioni come migrazioni forzate, distorcendoli e amputandoli delle loro conclusioni politiche, per tentare un’operazione impossibile: farne un argomento forte del loro nazionalismo “sociale”. […] Un fritto misto di verità e spudorate falsificazioni. La verità-confessione è che Fusaro e suoi sodali sognano l’avvento di uno Stato nazionale che sia capace di regolamentare l’anarchia del capitale e del mercato, e sia forte, italianissimo, fino al punto di essere sovrano rispetto alla “power-élite globalista” – un vuoto idealismo antistorico che ignora le barriere che si sono frapposte in passato, e ancor più si frappongono oggi, a un tale sogno retrogrado. A seguire un coacervo di mistificazioni sinistreggianti. Sfugge a questo “filosofo” (Diego Fusaro- N.d.R.) e ai suoi sodali rosso-bruni che nelle società occidentali è in atto una acutissima polarizzazione di classe, classe capitalistica versus classe-che-vive-del-proprio-lavoro, e la più radicale sussunzione di sempre del politico all’economico, anche nelle singole nazioni, non solo alla scala globale8.

Il filo rosso del recupero moderno del pensiero e dell’opera di Karl Marx si svolge, tra le pagine e i saggi raccolti nel testo, attraverso queste e altre necessarie e importanti riflessioni che hanno, tutte, il merito di presentare un Marx svecchiato dalle antiche appropriazioni ideologiche e adattissimo, se interpretato conseguentemente e non “falsificato”, a funzionare ancora come metro di paragone per ciò che è rivoluzionario separandolo dalle vuote e, troppo spesso reazionarie, chiacchiere di maniera. Non resta dunque, a chi scrive, che lasciare ai lettori il piacere di scoprire, ancora una volta insieme a Marx, una possibile alternativa all’attuale modo di produzione e ai suoi flagelli ambientali, sociali, economici, militari, razziali e di genere.


  1. M. Musto, Introduzione a Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp.13-14.  

  2. Ivi, p. 14.  

  3. P. Basso, Marx sull’esercito industriale di riserva e le migrazioni: vietato abusarne in Ricostruire l’alternativa Marx, op. cit., p.219.  

  4. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 414.  

  5. Marx, Il capitale, Libro I, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, UTET, Torino 1974, p. 815.  

  6. P. Basso, op. cit., p.222.  

  7. Ivi, p. 223.  

  8. Ivi, pp. 227-229.  

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“Io capitano”: morfologia di una fiaba vera https://www.carmillaonline.com/2023/09/25/io-capitano-morfologia-di-una-fiaba-vera/ Mon, 25 Sep 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79179 di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare [...]]]> di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare mondo poetico e creativo. Per cui, non posso certo essere d’accordo con alcune recensioni uscite nei giorni scorsi che lo criticano per mancanza di verosimiglianza, definendolo addirittura un “falso storico”, definizione che nasce da un delirio allo stato puro nonché da una ignoranza pressoché totale dell’intera opera dell’autore. Chi pretende verosimiglianza ad ogni costo crede anche che su temi scottanti come migrazioni, guerre, disastri, distruzioni, omicidi efferati non si possa che lavorare in maniera ‘neorealista’ o documentaria. L’interpretazione fiabesca o fantastica di tali fenomeni, in molti casi (compreso quello in questione), non induce davvero a una inutile spettacolarizzazione o a gratuiti estetismi ma serve a edulcorare, per mezzo del linguaggio artistico, fenomeni spesso difficili da raccontare. Mi viene in mente la trasposizione fiabesca realizzata da Fabrizio De André con La canzone di Marinella: come dichiarò il cantautore, quella sua fiaba messa in musica derivava da un fatto di cronaca nera relativo all’uccisione di una giovane prostituta scaraventata in un fiume. Compito dell’arte è anche questo: sublimare, creare metafore, visioni, spazi incantati liberi e resistenti. In tema di migrazione possiamo ricordare il delicato Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki, un film che racconta con tono fiabesco e visionario l’avventura del piccolo Idrissa, arrivato nel porto francese come migrante clandestino in un container.

Il più importante tema ‘garroniano’ – se così si può dire – presente nel film è quello della crescita e della formazione. Il giovane Seydou (Seydou Sarr), dal Senegal, vuole intraprendere una migrazione verso l’Europa che si trasforma in un viaggio di formazione irto di pericoli. Il film non ha la pretesa di raccontare documentaristicamente i viaggi dei migranti verso la Libia ma di narrare l’avventura personale di Seydou, assimilabile quasi a un nuovo Pinocchio che vuole scappare di casa per compiere il suo viaggio scendendo negli inferi della coscienza. Non si dimentichi che Garrone è l’autore di una versione cinematografica (2019) del celebre romanzo di Collodi, versione in cui importanti sono appunto i temi della crescita e della formazione, del corpo e del suo mutamento (si veda la metamorfosi in asino e i risvolti più fisici e dolorosi che ne derivano, come lo scricchiolio delle ossa che sentiamo durante la trasformazione). Il mutamento del corpo, coi suoi dolorosi e angoscianti risvolti, nel cinema di Garrone è poi presente in Primo amore (2004), in cui il personaggio di Sonia, interpretato da Michela Cescon, martirizza il proprio corpo dimagrendo fino all’anoressia per assecondare le ossessioni di Vittorio (uno strepitoso Vitaliano Trevisan). Seydou scende negli inferi delle prigioni libiche, laddove il corpo viene ferito e martoriato, legato e appeso con lacci di cuoio durante le torture (anche in questo caso avvertiamo il ‘perturbante’ suono dei lacci che stringono). Il film racconta la fiaba vera di Seydou, una fiaba che rimanda in forma allusiva all’atroce e cruda realtà che i migranti africani sono costretti ad affrontare per arrivare in Europa. D’altra parte, è lo stesso Vladimir Propp, autore della Morfologia della fiaba, a ricordarci, in un’altra sua opera – Le radici storiche dei racconti di fate – che le fiabe non nascono certo dal nulla ma possiedono un sostrato storico ben radicato nella realtà sociale delle popolazioni che le creano.

Seydou e suo cugino Moussa, interpretato da Moustapha Fall (insieme al quale il ragazzo vuole intraprendere il viaggio), a Dakar, si recano presso un anziano riparatore di televisori il quale sconsiglia i due giovani dall’intraprendere il viaggio perché andranno sicuramente incontro alla morte, dal momento che lui stesso lo ha intrapreso e ha incontrato solo morte e sofferenze. Non è un caso che l’uomo appaia circondato di vecchi televisori, sui quali sta lavorando, che rappresentano un lembo malato di quell’Europa che i giovani vogliono raggiungere e che, appunto con i suoi strumenti mediatici, attira tanti africani desiderosi di ricostruirsi una vita. Ma quegli strumenti appaiono adesso come vuote scatole inerti, marchingegni fossilizzati in una funebre inutilità, contenitori di falsità abbrutenti, latori della civiltà occidentale e consumistica. Se l’Europa per l’anziano senegalese è un luogo di morte, così sono morti anche quegli oggetti che lo circondano, simbolo dei fasti promessi dalla ricca società del capitalismo. Seydou e Moussa però non captano i messaggi della ricca Europa tramite quei vecchi e inutili involucri, bensì con il loro smartphone; il musicista Seydou, allora, arriva a creare dal nulla una canzone composta da brevi frasi giunte via internet attraverso il telefonino. Si tratta però di frasi tristi (“perché non mi chiami più?”, “Dove sei?”, “perché mi hai lasciato?”), segno che quella stessa Europa, alla fine, non è il paese di Bengodi ma è attraversata anch’essa dalla solitudine e dal dolore.

Intraprendere un viaggio difficile, che può mettere a repentaglio la stessa vita, possiede risvolti attinenti alla sfera del sacro, ed è così che i due ragazzi, prima di partire, si recano presso uno sciamano. Visitano anche un vecchio cimitero nel quale riposano i loro antenati perché per partire è necessario avere, in un certo senso, la loro ‘benedizione’. Vicino al cimitero svettano degli alberi che si muovono al vento e sembrano quasi impersonare antiche e quiete divinità che ondeggiano per proteggere i due giovani: si potrebbe pensare alla rappresentazione delle Furie, destinate a trasformarsi in Eumenidi, cioè in “benevole”, negli Appunti per un’Orestiade africana (1969) di Pier Paolo Pasolini, mostrate dal regista sotto la forma di alberi. Anche nel documentario di Pasolini, perciò, sono presenti diversi elementi di finzione dal carattere ‘fiabesco’ e immaginativo. A fianco di alcuni documenti filmici dell’epoca, anche molto crudi, relativi a uccisioni e massacri, Pasolini effettua in diversi momenti del suo film delle scelte antirealistiche, immagini che mostrano in forma allusiva la difficile situazione dei paesi africani della fine degli anni sessanta.

Il racconto fiabesco di Garrone apre a dei momenti di resistenza che sembrano confermare il verso di Hölderlin che recita, più o meno, “là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. Il viaggio nel deserto mostra spazialità sconfinate care al cinema di Garrone: spazialità che sembrano quasi inghiottire i personaggi; si può pensare, allora, al già citato Pinocchio ma anche agli sfondi di Il racconto dei racconti (Tale of Tales, 2015) che, in alcuni casi, inglobano e annichiliscono le figure umane oppure, ancora, alle periferie di Roma solcate dal ‘canaro’ Marcello (Marcello Fonte) in Dogman (2018), spazi che sembrano inchiodare il personaggio al suo triste destino. Ma appunto, in questo spazio annichilente e assassino, Seydou incontra dei momenti incantati che sembrano allontanarlo dalla disperazione. Non potendo fare niente per salvare un’altra migrante che morirà di stenti nel deserto, il ragazzo immagina di farla volteggiare in una levitazione semplicemente tenendola per mano: il dolore, la morte e la disperazione vengono sublimati ma certo non spariscono. Si potrebbe pensare a certi momenti incantati di Il tempo dei gitani (1988) di Emir Kusturica, momenti che salvano i personaggi dalla dura realtà che li circonda, la povertà, le faide, la microcriminalità e la violenza diffusa. La scena della levitazione è una via di fuga dal dolore, un momento di resistenza in cui si può essere liberi e, appunto, resistere alle afflizioni e ai dolori inflitti ai più poveri dalla società basata sull’accumulo di capitale. In modo non troppo diverso, i migranti siciliani di Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, durante il terribile viaggio di terza classe sul piroscafo (costruito come una grande scenografia teatrale) che li conduce a New York, si immaginano squarci incantati che restituiscono loro la dignità e la libertà sottratte da un sistema malato e meschino che offre agi e possibilità soltanto ai ricchi.

Un’altra spazialità che ingloba i personaggi è quella del mare: uno spazio “liscio”, secondo l’analisi di Deleuze e Guattari, che l’egemonia dell’Occidente ha sempre cercato di ‘striare’, di sottoporre, cioè, alle griglie del controllo. La ‘striatura’ del mare emerge nelle inquadrature che mostrano il passaggio del peschereccio guidato da Seydou vicino a delle gigantesche piattaforme petrolifere: se dapprima i migranti, vedendo delle luci, credono di aver finalmente raggiunto la terra, si rendono successivamente conto di trovarsi di fronte a delle costruzioni mostruose a cui non sanno bene dare un nome. È l’egemonia dell’Occidente, lo sfruttamento capitalistico del petrolio che erige quei mostri, un interesse economico che produce sempre nuove ricchezze a scapito dei “dannati della terra”, per utilizzare un termine di Frantz Fanon. Qui, la fiaba diviene dura realtà: pur apparendo, in immagini dalla forte impronta visionaria, come delle costruzioni mostruose, quelle piattaforme sono reali. In una fiaba, forse, i migranti avrebbero incontrato delle navi da crociera predisposte dagli stessi stati occidentali per accoglierli invece di lasciarli morire in mare. Dagli spazi ‘striati’ reali, invece, è impossibile aspettarsi qualcosa che non sia puramente dettato dagli interessi economici.

Il film si chiude con un grido: Seydou, giunto in prossimità delle coste della Sicilia, urla le parole che danno il titolo al film, “Io capitano”. Parole urlate che entrano in conflitto con il suono ossessivo e meccanico delle pale di un elicottero della Guardia di Finanza che si staglia sul peschereccio dei migranti. Sì, è vero, l’elicottero li trarrà in salvo ma poi verranno rinchiusi in un CPT e magari espatriati; nella fiaba vera raccontata da Garrone, il peschereccio sarebbe probabilmente arrivato sano e salvo fino alla costa (quando, invece, nella dura realtà, molte imbarcazioni fanno naufragio). Il rumore dell’elicottero è il rumore dello spazio “striato” che si contrappone alle spazialità “lisce” e “nomadi” da cui i migranti provengono: è il suono del potere, del controllo, del respingimento. È il suono dell’egemonia occidentale che costruisce le piattaforme petrolifere e costringe molti giovani africani ad affrontare la morte nei loro terribili viaggi. Il grido di Seydou (“sono io il capitano”) è lanciato anche contro la finta costruzione mediatica occidentale del mito dello scafista, figura che in realtà non esiste. Non sono certo i trafficanti di esseri umani a mettersi alla guida delle barche ma i migranti stessi, arruolati dalla manovalanza inviata dai trafficanti di alto bordo, i quali magari se ne stanno tranquilli nei loro palazzi del potere. Il cosiddetto “scafista” è un mito mediatico che serve a spostare l’attenzione dal mancato salvataggio di esseri umani ad opera delle istituzioni verso la criminalizzazione di una figura da utilizzare come capro espiatorio. Seydou non fugge, accetta fino in fondo la sua responsabilità di essere il “capitano”, parola che, se ci pensiamo bene, rimanda ancora una volta ad un universo favolistico e avventuroso ed entra in contrasto con la costruzione mediatica dello “scafista”: il giovane, infatti, grida forte il suo rifiuto di essere inquadrato in un ruolo preconfezionato dal perbenismo occidentale, da un potere che non si assume le proprie responsabilità di fronte al fenomeno contemporaneo delle migrazioni. “No, non sono uno scafista” – dice Seydou, “sono un capitano”, parola che sembra uscire da un mondo letterario e incantato, fatto di storie di mare, dei romanzi di Conrad e di Stevenson, dei capitani delle navi pirata e di quelli “coraggiosi” di Kipling.

Seydou, urlando di essere il capitano, innalza il suo immaginario coraggioso, libero e resistente contro il suono granitico del controllo, del potere che lo vorrebbe imprigionare nel ruolo anonimo e indefinito del ‘diverso’, dell’“immigrato” o dello “scafista”. Nella fiaba vera raccontata da Garrone, Seydou è diventato – parafrasando i versi di William Ernest Henley ripetuti come un mantra da Nelson Mandela durante la sua prigionia – il “padrone del suo destino”, “il capitano della sua anima”. E nessun potere e nessun controllo, mai, lo potrà fermare.

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La residenza contesa https://www.carmillaonline.com/2023/03/16/la-residenza-contesa/ Thu, 16 Mar 2023 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76486 di Giovanni Iozzoli

Michele Colucci, Stefano Gallo, Enrico Gargiulo (a cura di), La residenza contesa. Rapporto 2022 sulle migrazioni interne in Italia, Il Mulino, Bologna, 2023, pp. 207, € 21,00

In questo interessante volume di recente uscita, i curatori affrontano un intreccio tematico ricco, intricato e di forte impatto politico: il rapporto tra residenza anagrafica, diritti sociali, diritto all’abitare. Un groviglio di questioni solo apparentemente di pertinenza dello studioso – e infatti il libro assume un taglio generale e di largo accesso. Infatti, i frenetici flussi odierni di popolazione, soprattutto dentro le metropoli [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Michele Colucci, Stefano Gallo, Enrico Gargiulo (a cura di), La residenza contesa. Rapporto 2022 sulle migrazioni interne in Italia, Il Mulino, Bologna, 2023, pp. 207, € 21,00

In questo interessante volume di recente uscita, i curatori affrontano un intreccio tematico ricco, intricato e di forte impatto politico: il rapporto tra residenza anagrafica, diritti sociali, diritto all’abitare. Un groviglio di questioni solo apparentemente di pertinenza dello studioso – e infatti il libro assume un taglio generale e di largo accesso. Infatti, i frenetici flussi odierni di popolazione, soprattutto dentro le metropoli italiane, viaggiano a ritmi più rapidi di uno schema, ancora prevalente, che subordina i diritti di cittadinanza ad un riconoscimento burocratico in cui il concetto tradizionale di “residenza” resta centrale.

Che fare quando centinaia di migliaia di persone – inclusi nuclei familiari e minori – non hanno la condizione per rientrare dentro i parametri classici della residenza? I problemi “storici” delle grandi occupazioni di immobili in città come Roma o Napoli, o i problemi d’inclusione di chi è arrivato in tempi più recenti da oltre frontiera, si intersecano tutti con le questioni sollevate dal libro.

Quindi, nonostante il taglio scientificamente rigoroso, di carne viva si sta parlando, non di statistica o sociologia. La ricerca è curata, oltre che dal prof. Gargiulo, dell’Università di Bologna, da Michele Colucci e Stefano Gallo, ricercatori del CNR, da anni impegnati nello studio dei fenomeni migratori e validi rappresentanti di una “sociologia militante” che assume l’analisi dei processi sociali dentro un orizzonte critico e trasformativo.

Riportiamo qui brevi stralci dell’introduzione

«La spinta a occuparci del tema della residenza, oggetto di questo volume, ha origine da un’evidenza con cui hanno fatto i conti generazioni di funzionari pubblici, scienziati sociali, osservatori e soprattutto persone in carne ed ossa, preoccupate di non trovare nei registri ufficiali un riscontro effettivo della propria esistenza. […] Soprattutto in età contemporanea, la certificazione anagrafica della residenza rappresenta una sorta di certificazione di esistenza in vita. Quando tutto fila liscio, quando la corrispondenza tra residenza reale e residenza legale non viene messa in discusssione, la questione non si pone. Ma appena sorgono problemi, intoppi o dinieghi, la questione può balzare agli occhi come un ostacolo insormontabile alla fruizione dei diritti più elementari. […] Il tema rappresenta una costante nelle inchieste sociali sull’Italia contemporanea fin dagli anni della ricostruzione post-bellica e del miracolo economico. Come verrà analizzato approfonditamente in diversi contributi del volume, l’Italia repubblicana eredita dal fascismo una legislazione che vincola il cambio di residenza da un comune all’altro (e quindi il diritto ad un percorso migratorio non irregolare) alla sussitenza di un contratto di lavoro nel luogo di destinazione. Questo “peccato originale” dell’Italia repubblicana produce immediatamente effetti sociali pesanti, aumentando le diseguaglianze e le discriminazioni: chi si sposta nelle medie e grandi città e non è in grado di rispettare i requisiti per il cambio di residenza viene privato della possibilità di iscriversi all’anagrafe e, quindi, di numerosi dirittti fondamentali. A essere interessate all’esclusione anagrafica sono fasce ampie e numerose della popolazione: circa un milione di persone alla fine degli anni cinquanta». […]

«Negli ultimi anni in Italia il peso dell’uso della residenza come strumento di accesso e negazione dei diritti sociali e civili è cresciuto in maniera esponenziale. Tale crescita ha conosciuto due momenti di grande visibilità pubblica, sui quali si soffermano lungamente alcuni contributi del libro: l’approvazione del “Piano casa” nel 2014, attraverso la cosiddetta “Legge Renzi-Lupi” e l’approvazione dei decreti sicurezza nel 2018 ad opera dell’allora ministro dell’Interno Salvini. Il tema della residenza ha quindi conosciuto un’inattesa popolarità, dovuta alle polemiche e alle proteste che hanno accompagnato tali provvedimenti. […] L’esclusione dalla residenza rischia di assumere in un futuro prossimo connotazioni discriminatorie ancora più subdole e sottili. Le trasformazioni tecnologiche che ormai da diversi anni stanno interessando l’anagrafe, rappresentano, almeno potenzialmente, nuovi filtri all’ingresso: il processo di digitalizzazione, soprattutto a seguito del passaggio ormi compiuto dalle anagrafi comunali a una Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr), si sta traducendo nell’utilizzo di strumenti di identità digitale – Spid, Cie e Cns – quali vie d’accesso obbligate alle procedure amministrative. Per entrare in possesso di questi dispositivi, tuttavia, è necessario disporre di un documento di identificazione, il cui rilascio ha quasi sempre come prerequisito l’iscrizione in anagrafe, e di un certo grado di risorse cognitive, informatiche e infrastrutturali. Chi ne è privo , per ragioni di età, condizioni di vita, reddito o altro, rischia di rimanere tagliato fuori dalla possibilità di ottenere la registrazione, con tutte le conseguenze negative. […] Da questa prospettiva, le scienze sociali sono chiamate a fornire un contributo fondamentale, superando in primo luogo alcune semplificazioni terminologiche e concettuali. Generalmente, infatti, l’esclusione anagrafica ha determinato, tanto a livello scientifico quanto a livello politico e mediatico, la tendenza a considerare “invisibili” i cittadini abitanti ma non residenti. Un’immagine del genere, tuttavia, non fa giustizia di quanto, ieri come oggi, questi cittadini abbiano fatto di tutto per rendersi “visibili”. […] Per comprendere fino in fondo le origini e le conseguenze delle contraddizioni angrafiche e del tema della residenza è necessario allora riformulare la questione in termini di “invisibilizzazione”, enfatizzando cioè il fatto che la condizione di invisibilità – salvo rari casi – non è il frutto di scelte individuali ma è l’effetto di azioni istituzionali, più o meno deliberate ed esplicite, che rendono le persone “invisibili” in senso amministrativo».

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Un’Odissea post-apocalittica https://www.carmillaonline.com/2021/12/16/unodissea-post-apocalittica/ Thu, 16 Dec 2021 22:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69662 di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi [...]]]> di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi reali identificabili nel viaggio dell’eroe. D’altronde, si è sospettato anche che l’autore dell’Odissea si sia avvalso di un modulo narrativo e cosmologico assai diffuso nel Mediterraneo antico e definito dagli studiosi come «viaggio cosmico», in cui l’eroe di turno è chiamato a dimostrare le sue doti superumane percorrendo i territori più estremi e pericolosi dell’universo1.

Un’allusione al viaggio di Odisseo, ‘riambientato’ in un oscuro nord devastato da una catastrofica guerra, è stata attuata recentemente da Gianluca Di Dio col suo romanzo La Sublime Costruzione. L’allusione è una delle pratiche letterarie che, secondo Gérard Genette, rientrano all’interno della definizione di intertestualità perché essa si configura come «un enunciato la cui piena intelligenza presuppone la percezione di un rapporto con un altro enunciato al quale rinvia necessariamente l’una o l’altra delle sue inflessioni, altrimenti inaccettabile»2. Il viaggio di Odisseo diviene una sorta di macrotema al quale vengono attuate diverse allusioni che prendono corpo sotto le vesti di cinque tappe in cui incorrono i protagonisti del romanzo. Come accennato, nel futuro imprecisato narrato nel libro c’è stata una guerra catastrofica e il protagonista, Andrej Nikto, insieme all’amico Årvo Kettula, dalla sua devastata cittadina intraprende un lungo viaggio nella notte nordica a bordo di una gigantesca corriera bianca che conduce le persone verso una specie di fantomatico cantiere, dove si sta costruendo la «Sublime Costruzione» nel quale tutti potranno trovare un lavoro adatto a loro. Del resto, come avverte l’autore sotto la voce dell’io narrante Andrej, si tratta di una storia «simbolica, farneticante, totalmente esagerata». La ripresa del viaggio odisseico assume perciò tonalità simboliche che vanno a rappresentare «una storia comune, che non si distingue tra passato e futuro, una storia che ogni volta si distrugge per poi riaccadere di nuovo».

Il viaggio di Odisseo si trasforma nella peregrinazione post-apocalittica di Andrej e compagni, rappresentati quasi come dei migranti in fuga dal loro paese devastato dalla povertà e dalla guerra, nonché segnato da catastrofi ambientali provocate dalla stessa guerra. Come ci ricorda Marco Malvestio, sono due i modi con cui la fantascienza racconta le possibili catastrofi del futuro: distopia e romanzo post-apocalittico. Se la distopia evidenzia l’eccessivo sviluppo di alcuni tratti negativi di una società (come la sorveglianza di massa o l’inquinamento), il romanzo post-apocalittico «rappresenta la sopravvivenza di individui e/o società umane dopo un evento catastrofico»3. Rifacendosi al critico Heather J. Hicks, Malvestio nota come i tropi narrativi, in questo tipo di romanzi, siano più o meno sempre gli stessi: bande di sopravvissuti che si trovano a percorrere ambienti urbani distrutti circondati da campagne abbandonate mentre tutto intorno si trova una società regredita e imbarbarita, caratterizzata da una violenza estrema4. Lo stesso sfondo narrativo lo ritroviamo, ad esempio, in altri recenti romanzi italiani. Possiamo ricordare Sirene (2007), di Laura Pugno, che racconta un futuro in cui la società degli umani è costretta a vivere al buio e in città subacquee; Bambini bonsai (2007), di Paolo Zanotti, dove però la dimensione di abbrutimento e violenza è rivestita di toni fiabeschi; Qualcosa, là fuori (2016), di Bruno Arpaia, che racconta la migrazione del protagonista, fra violenze e sopraffazioni, in fuga da un’Italia devastata dall’inaridimento del suolo dovuto al cambiamento climatico; Pietra nera (2019), di Alessandro Bertante, in cui il protagonista deve compiere un viaggio dalle tonalità iniziatiche attraverso una Milano imbarbarita e una pianura padana disseminata di bande violente; Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende  (2020), del collettivo Moira Dal Sito, raccolta di racconti a cura di Wu Ming 1 che mostrano una comunità palafitticola nella bassa ferrarese del futuro, ormai inondata dall’acqua, in cui dominano barbarie e violenze ma anche una solida organizzazione comunitaria.

Nel caso de La Sublime Costruzione l’impianto post-apocalittico della narrazione, in virtù dell’allusione a un ipotesto come l’Odissea, subisce un travestimento dai tratti quasi epicizzanti, allontanati in una lontana e irraggiungibile dimensione epica. Rispetto alle altre narrazioni che seguono questi tropi narrativi, quella allestita da Di Dio possiede una marcata impronta onirica e visionaria. Tutto avviene come in un grande sogno all’interno di una notte polare e ghiacciata. La meta finale, quella «Sublime Costruzione» il cui cantiere può offrire lavoro a tutti, assume importanti tratti utopistici. Dopo l’apocalisse, perciò, c’è ancora spazio per l’utopia: un luogo dove finalmente si può ricostruire una vita all’insegna della normalità. Del resto, la presenza di questo cantiere che offre lavoro a tutti, nella città del protagonista, viene pubblicizzata con manifesti e volantini lanciati dai camion di passaggio. La dimensione utopistica di questo luogo potrebbe far pensare al «Teatro naturale di Oklahoma», sulla cui immagine si chiude il romanzo incompiuto e postumo di Franz Kafka, Amerika (1927). Come il cantiere, anche il «Teatro naturale di Oklahoma», un’enorme organizzazione con musicanti, attori, trombettieri, impiegati d’ogni sorta e che può offrire lavoro a tutti assume connotazioni utopistiche in quanto potrebbe rappresentare, per molti immigrati come il protagonista del romanzo, Karl, la realizzazione utopica di libertà all’interno del nuovo mondo americano.

I capitoli relativi alle cinque tappe che rimandano ai momenti narrativi dell’Odissea recano in esergo delle citazioni dal poema con il luogo testuale al quale si riferiscono. Nel capitolo quinto, intitolato Le pescatrici, si allude agli incanti delle sirene, presenti nel canto XII del poema; nel capitolo sesto, I sonnivori, il riferimento è all’episodio odisseico dei Lotofagi, nel cui paese voleva rimanere chi assaggiava il frutto del Loto; il capitolo settimo, I due colossi, riecheggia invece la sosta di Odisseo e compagni presso l’isola dei Ciclopi e l’incontro con Polifemo; il capitolo ottavo, La corruttrice prodiga, il più lungo e articolato, allude all’episodio di Circe; il capitolo nono, infine, riecheggia i momenti del poema in cui Odisseo incontra le anime dei morti nel paese dei Cimmerii.

Non è mia intenzione, qui, rivelare più di tanto sulla trama del romanzo e su come si configurano le trasposizioni in chiave post-apocalittica dei menzionati episodi omerici. Questo toccherà al lettore scoprirlo. Mi interessa, invece, analizzare la struttura del viaggio messo in scena dall’autore, all’interno del quale le tappe di matrice odisseica sono ben funzionali e opportunamente inserite. Lo spostamento, che costituisce il nucleo principale della narrazione, si configura come una vera e propria immersione amniotica in un mondo onirico, cadenzato appunto dal sogno e dal sonno. Non a caso, la gigantesca corriera bianca è un enorme contenitore di sonno e di sogno, dal momento che si configura come un grande dormitorio nel quale i «reclutati» per il lavoro al cantiere trascorrono il tempo sdraiati su una branda. La corriera avanza nella notte gelida e innevata come un vero e proprio essere mostruoso destinato a percorrere inenarrabili distanze disseminate di soste nel silenzio notturno dove, in lande devastate dalla catastrofe, possono celarsi i rischi più inaspettati. Allora, oltre che con il viaggio di Odisseo, si potrebbero scorgere delle consonanze anche con il viaggio di ritorno degli argonauti, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, nei momenti in cui il viaggio degli eroi si dirama su percorsi incerti e sconosciuti, quando «neppure sapevano / se navigavano sopra le acque / o nel regno dei morti» (IV, 1698-1699).

Il paesaggio è caratterizzato da esterni ed interni spogli e abbandonati, lande desolate o colline innevate disseminate di povere abitazioni, mentre le figure umane sembrano i simulacri di un’esistenza ormai incancrenita in un’abitudine all’orrore. Gli uomini e le donne che si trovano sulla corriera sono una sorta di automi che si muovono spinti più dal caso che dalla necessità di sopravvivenza, pronti a rivoltarsi gli uni contro gli altri per qualsiasi futile motivo. Per certi aspetti, la corriera assomiglia al treno che corre incessantemente nel mondo ghiacciato e devastato messo in scena dal film Snowpiercer (2013) di Bong Joon-ho: in esso l’umanità superstite è costretta a vivere secondo una rigida divisione in classi sociali ma dai vagoni dei più poveri partirà ben presto una inarrestabile rivolta. Sulla corriera de La Sublime Costruzione non ci sono poveri e ricchi o, meglio, i viaggiatori sono tutti dei poveri migranti che cercano una qualche possibilità di sopravvivenza dignitosa presso la «Sublime Costruzione». Nella motrice, invece, alloggiano i «reclutatori» (nonché dei «valletti» destinati alle mansioni pratiche), coloro che, per mezzo di un pervasivo controllo, sanno tutto sulla vita e le attitudini dei reclutati. Né mancheranno, come già accennato, delle vere e proprie lotte tra poveri, risse scatenatesi nei dormitori per i più futili motivi.

Il viaggio post-apocalittico affrontato dai personaggi del romanzo si srotola in un paesaggio onirico e lunare, devastato e ghiacciato, abbrutito nella sua totale disumanizzazione, simile a quello attraversato dall’uomo e dal bambino protagonisti de La strada (The Road, 2006) di Cormac McCarthy. Se quest’ultimo romanzo si riallaccia alla tradizione americana del ‘viaggio di formazione’ sulla strada (basti pensare a London e a Kerouac), in esso, come scrive Giuseppe Panella, «il mito sembra arrivato al capolinea e si congiunge con una visione devastata e livida di un mondo ormai giunto alla sua conclusione ‘innaturale’ per effetto di una non ben identificata e descritta epidemia inarrestabile»5. Il colore predominante nel paesaggio del romanzo di Gianluca Di Dio è il bianco: bianchi sono i campi e le strade innevate, bianca è la mostruosa corriera, «tutta completamente bianca». Nella parte finale della narrazione, dopo le innumerevoli peripezie, i protagonisti aspettano un’altra corriera ed essa si distingue da lontano proprio per il suo biancore quasi accecante: «Dal fondo del pendio sorse un rantolo felpato, e intravedemmo una chiazza di bianco luminosa scivolare sulla coltre, cancellata a tratti dai vortici dei fiocchi». Del resto, il Bianco – nota ancora Panella – «può essere ben più allucinante e devastante dell’emergenza della Nerezza»6, basti pensare all’orrorifico bianco accecante con cui si chiude la Storia di Gordon Pym (The Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket, 1837) di Edgar Allan Poe.

Nonostante la narrazione de La Sublime Costruzione rappresenti un viaggio simbolico e onirico, in esso è comunque presente la dimensione del corpo e del basso corporeo, in tutti i suoi aspetti, dalla rappresentazione del corpo degradato, piagato dagli stenti e dalla fatica fino all’evocazione della sfera sessuale e alla pressoché costante presenza del cibo e dei suoi scarti. I personaggi, infatti, durante le soste, si ritrovano spesso intorno a fuochi sui quali stanno cuocendo pezzi di carne sanguinolenta e la divorano facendola a brandelli in modo selvaggio. Anche se i corpi, come afferma Andrej Nikto, sono «incarcerati come fossili nel sedimento incoerente del pensiero», essi non perdono mai la loro preponderante dimensione fisica: copulano, si cibano in modo rozzo e disordinato, si colpiscono, si feriscono, sanguinano, sono sottoposti a sforzi fisici enormi. È il corpo a conferire una nota di colore ‘vivo’, quasi ‘carnevalesco’, all’interno dell’indistinto, glaciale sfondo bianco che avvolge la narrazione.

Del resto, il corpo è probabilmente l’unica ricchezza che questi migranti post-apocalittici possiedono come, d’altronde, i reali migranti contemporanei al confine fra Bielorussia e Polonia, imprigionati in un’apocalisse che sta avvenendo sotto i nostri occhi, rimbalzata ogni dove sui media, e di fronte alla quale siamo miseramente impotenti. Corpi di uomini, donne e bambini attanagliati dal freddo glaciale, in un altro apocalittico nord, costretti a viaggi inenarrabili, bloccati, esclusi, indesiderati, fra le macerie della catastrofe capitalistica. Ma la narrazione de La Sublime Costruzione si chiude con un accento di speranza, nell’immagine di una nuova creatura venuta al mondo, anche se si tratta di un mondo post-apocalittico: «fino all’ultimo dovremo apparecchiarci a un interminabile cammino di speranze. In questo viaggio astruso e senza ritorno, forse mostruoso, ma che immancabilmente dischiuderà la vita e la sua immancabile bellezza».

Che alla fine del viaggio ci sia, se non un’Itaca da raggiungere, almeno uno spazio di nuova vita e di nuova resistenza.


  1. Cfr. M. Bettini, C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino, 2010, p. 58. 

  2. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. it. Einaudi, Torino, 1997, p. 4. 

  3. M. Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, Nottetempo, Milano, 2021, p. 20. 

  4. Cfr. ivi, pp. 20-21. 

  5. G. Panella, Il disastro prossimo venturo. Distopia, apocalisse, fantascienza: tra Saramago e Ballard passando per Cormac McCarthy, in N. Turi (a cura di), Ecosistemi letterari. Luoghi e paesaggi nella finzione novecentesca, Firenze University Press, Firenze, 2016, p. 231. 

  6. Ivi, p. 228. 

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Umanità a perdere. Sindemia e resistenze https://www.carmillaonline.com/2021/10/29/umanita-a-perdere-sindemia-e-resistenze/ Fri, 29 Oct 2021 03:30:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68960 [Umanità a perdere. Sindemia e resistenze  è la prima produzione editoriale curata dall’ Osservatorio Repressione per la collana xXx di Momo Edizioni.  È una riflessione a più voci  su vari aspetti del periodo pandemico, dall’impatto disumanizzante sulla scuola, alla militarizzazione dell’emergenza sanitaria, alla tanatopolitica nei confronti dei migranti, alla crisi pandemica come opportunità di espansione dell’estrattivismo sui territori e di rafforzamento del capitalismo della sorveglianza. Il libro contiene i contributi di Antonio Mazzeo (“Militarismo e militarizzazione in tempi di pandemia”), di Claudio Dionesalvi (“La scuola ibernata”), del Laboratorio politico Off Topic (“Crisi pandemica e capitalismo della sorveglianza”), del portale Ecor.Network (“Estrattivismo, [...]]]> [Umanità a perdere. Sindemia e resistenze  è la prima produzione editoriale curata dall’ Osservatorio Repressione per la collana xXx di Momo Edizioni.  È una riflessione a più voci  su vari aspetti del periodo pandemico, dall’impatto disumanizzante sulla scuola, alla militarizzazione dell’emergenza sanitaria, alla tanatopolitica nei confronti dei migranti, alla crisi pandemica come opportunità di espansione dell’estrattivismo sui territori e di rafforzamento del capitalismo della sorveglianza.
Il libro contiene i contributi di Antonio Mazzeo (“Militarismo e militarizzazione in tempi di pandemia”), di Claudio Dionesalvi (“La scuola ibernata”), del Laboratorio politico Off Topic (“Crisi pandemica e capitalismo della sorveglianza”), del portale Ecor.Network (“Estrattivismo, conflitti e resistenza nel tempo della pandemia”), e di Salvatore Palidda (“La guerra alle migrazioni nel Ventunesimo secolo”), di cui proponiamo il testo.
“Umanità a perdere” può essere richiesto dal sito della casa editrice Momo, oppure inviando una e-mail all’Osservatorio Repressione. Alexik]

La guerra alle migrazioni nel Ventunesimo secolo

di Salvatore Palidda

Nel suo commento al quadro di Paul Klee, Angelus Novus, Walter Benjamin scrive: l’angelo “ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo.
Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
L’essere umano è trascinato dal tempo e dal progresso, lasciando alle spalle le tragedie e gli orrori di cui i dominanti sono stati capaci, seminando morte e distruzione ovunque. Redimere questi orrori, cioé dare senso e rendere giustizia alle vittime, non è un compito che viene assunto e garantito dalla divinità o dalla storia dell’umanità. Le macerie della storia restano mute, non trovano giustificazione… la storia dell’umanità è rimasta storia di sangue e morte. Così l’Angelo di Klee guarda angosciato il passato, mentre il vento (il tempo) lo spinge via, quando vorrebbe restare tra quelle vittime per tenerle strette a sé, per garantire a esse un significato di qualche tipo1. (Michael Löwy)

Introduzione

Soprattutto dopo il 1990 articoli, libri, documentari e film sulle migrazioni sono prolificati in quantità e anche in qualità. A parte la letteratura embedded, cioè quella prodotta dalla “scienza delle migrazioni” che come scriveva Abdelmalek Sayad2 propone il punto di vista dei dominanti, ci interessa qui la ricerca di un contributo nuovo sulla situazione che si è venuta a creare in questo primo ventennio del XXI° secolo.
Dopo aver descritto l’evoluzione di questa situazione dal 1990 in poi, cercherò di analizzare un aspetto che è poco studiato, cioè come i migranti e le migranti sono le persone che vivono più di tutti nell’insicurezza. Sono infatti loro che subiscono le angherie, le violenze e la neo-schiavitù da parte di padroncini e caporali delle economie sommerse ma anche da parte della repressione poliziesca. E va ricordato che questo colpisce ancora di più le donne migranti e quelli che sono razzializzati per le loro caratteristiche somatiche diverse dagli autoctoni.
Donne, immigrati come anche i rom (sempre assimilati ad immigrati, anche se talvolta italiani) sono “naturalmente” destinati a essere inferiorizzati per essere esclusi dalla parità dei diritti e quindi trattati come “umanità a perdere”, “umanità usa-e-getta” o da far morire.
A quelli che non riescono a mettere piede nei paesi di immigrazione è riservato il tremendo calvario nei lager libici e nei paesi di transito, o la morte per annegamento, o per stenti lungo tragitti infernali per via di terra.
Cercherò poi di mostrare come la scelta dei paesi dominanti (che oltre i paesi europei e l’America del nord sono anche l’Arabia saudita e gli emirati arabi) appare ormai quella della tanatopolitica, cioè il lasciar morire e sempre meno il lasciar vivere per meglio sfruttare.

Dal 1990 l’inizio della persecuzione del XXI° secolo 

Nella storia delle migrazioni i momenti tragici sono stati molteplici. Umiliazioni, razzismo e anche assassinii.
Ricordiamo che gli emigrati italiani hanno conosciuto questo tipo di trattamento negli Stati Uniti, in Francia ma anche in tutti i paesi di immigrazione nel XIX° secolo e nel XX° (alcuni film e documentari vanno rivisti e fatti conoscere ai giovani3).
L’immigrato è sempre stato oggetto di assoggettamento più o meno brutale, quindi inferiorizzato, umiliato e costretto ad essere alla mercé degli autoctoni dei paesi di immigrazione che appunto voglio innanzitutto schiavizzarlo. L’emancipazione degli immigrati, cioè la loro conquista di condizioni economiche e sociali decenti è stata sempre frutto di sacrifici immani, di costi materiali e morali enormi.
Non tutti ce l’hanno fatta, ma la storia ufficiale edulcorata ci parla solo delle buone riuscite e dei self-made-men o gli zii d’America; non si sa gran che dei milioni di immigrati che sono morti prima di arrivare o che sono stati distrutti dal lavoro massacrante, da condizioni di vita malsane e che non sono neanche riusciti a tornare indietro, non solo per la “vergogna” di non avercela fatta.
Nelle scuole si dovrebbe sollecitare gli alunni a cercare di ricostruire le migrazioni fra i loro antenati perché in Italia, in quasi tutte le famiglie, ci sono storie di migrazioni sia dalle campagne alle città (in tutte le regioni) sia verso le grandi città del centro e del nord.
E la storia si ripete anche per gli italiani che oggi di nuovo emigrano sempre più numerosi sia verso le città del nord sia verso l’estero.
Le statistiche sugli spostamenti delle persone sono impressionanti e rivelatrici dell’attuale contesto liberista che offre soprattutto lavori precari o al nero anche agli italiani, che quindi si spostano continuamente alla ricerca di qualche impiego più decente4.

Certo, la sorte dei giovani emigranti italiani di oggi è meno tragica di quella dei giovani africani, asiatici, dell’America latina.
L’idea banale dominante è che si tratti di giovani attratti dal miraggio di guadagni facili, di una vita agiata, di divertimenti e piaceri che nel loro luogo d’origine sono irraggiungibili o del tutto mancanti.
Oppure che cerchino un lavoro ben pagato perché aspirano all’emancipazione economica.
Purtroppo la realtà è molto peggiore. La stragrande maggioranza dei migranti di oggi scappano per non morire: restare nel luogo di origine è come morire non solo a causa delle guerre ma spesso perché si tratta di terre devastate dalle attività delle multinazionali dei paesi dominanti.
Basta pensare agli scempi e devastazioni provocate dalle attività di estrazione di carbone, petrolio, gas, uranio. 5
In questi luoghi massacrati dall’estrattivismo non cresce più neanche un filo d’erba, non ci sono più animali domestici di allevamento, non si può più coltivare la terra né pescare. Si veda per esempio qual è la situazione nel delta del Niger6, in Congo7, in Nigeria e un po’ in tutti i paesi. A questo si aggiunge il sistematico impoverimento dei paesi africani per opera delle multinazionali.8
In Kenya e altrove sono le grandi lobby finanziarie che comprano territori sterminati espellendone la popolazione (quello che si chiama Scramble for Africa e Land e water grabbing: il volto aggressivo del neocolonialismo in Africa9).
Sono queste devastazioni che, fra altre conseguenze nefaste, provocano la diffusione di malattie infettive come l’Ebola, come è successo in Congo, in Sierra Leone, in Guinea, in Liberia e altrove.10
Il Congo è il paese che si trascina in una guerra permanente interna da oltre venti anni e a questo si aggiungono i disastri ambientali e le epidemie.11
Ma chi ha ridotto il Congo in questa situazione? Chi ha ucciso Patrice Lumumba che avrebbe potuto guidare il Congo verso la pace e il progresso effettivo, se non gli uomini sostenuti dai servizi segreti statunitensi? Chi alimenta la guerra permanente in Congo come altrove?12
Quali sono le lobby che producono e vendono armi persino ai terroristi?
I primi produttori e venditori di armi sono le famose otto potenze mondiali fra cui l’Italia.13

Le numerose prove schiaccianti sulle responsabilità delle multinazionali dei paesi dominanti nella devastazione, rapina e massacro dei paesi di emigrazione mostrano che le migrazioni di oggi sono di fatto più tragiche di quelle del passato.
Esse sussumono tutti i disastri sanitari, ambientali, economici e politici che il liberismo di oggi ha ancor più aggravato.
Non è il clima in quanto tale che produce “rifugiati climatici”, i migranti sono vittime dei disastri sopra citati. Non è l’aumento della popolazione mondiale (che secondo i dominanti sarebbe incontrollabile) a provocare emigrazioni “disperate”.
Anche dieci miliardi di persone potrebbero vivere decentemente sul pianeta Terra se ci fosse equa distribuzione delle ricchezze, delle scoperte scientifiche e tecnologiche, se fossero eliminate tutte le attività devastatrici delle multinazionali dei dominanti.14
È la logica dei dominanti che spinge a pensare che l’aumento della popolazione mondiale andrebbe a sovrapporsi ai cambiamenti climatici generando migrazioni violente e l’invasione dei paesi ricchi.
A parte il fatto che i cambiamenti climatici sono provocati dalle attività delle multinazionali dei dominanti, è ovvio che le migrazioni vanno da territori devastati verso terre dove c’è più benessere. E purtroppo i migranti non hanno la forza di far pagare ai dominanti i danni che hanno provocato nel loro paese di origine, e invece sono lasciati morire.
In realtà la logica dei dominanti è che ormai c’è eccesso di umanità, e che quindi se ne può fare “uso-e-getta”, i migranti possono essere trattati come “umanità a perdere”, super-sfruttati sin quando sono validi schiavi e poi eliminati, espulsi, cioè lasciati morire.
In altre parole, le migrazioni di oggi non sono più volute come manodopera stabile, e quindi ingabbiata per disciplinarla e renderla servile e supina.15
Questa era la biopolitica tipica della società industriale. Il liberismo invece ha fatto diventare questa pratica spesso violenta appunto perché mira a super-sfruttare i migranti e poi disfarsene come umanità di scarto o in eccesso.

I migranti e ancor di più le donne migranti prime vittime del liberismo violento

Soprattutto dopo il 1990  in tutti i paesi di arrivo gli immigrati sono stati sempre più usati per i lavori precari, al nero o da neo-schiavi. Il dispositivo di dominio per praticare questo assoggettamento è consistito sia nel rendere precario o difficilmente raggiungibile lo statuto giuridico stabile (permesso di soggiorno), sia nell’accentuare i controlli delle polizie al fine di costringere gli immigrati a subire passivamente il super-sfruttamento legale (o solo semi-legale) e quello al nero.
In Italia (come altrove) i caporali che reclutano e inquadrano gli immigrati possono fare quello che vogliono perché questi non hanno alcuna protezione da parte delle polizie e delle autorità, anzi a volte diversi agenti delle polizie sono complici di caporali.
Di fatto in Italia (ma anche in altri paesi dominanti) gli immigrati e ancora di più le immigrate, in regola e peggio se senza permesso di soggiorno, sono la categoria più a rischio di essere vittima di angherie, abusi e violenze16 e a volte addirittura di omicidi come è successo ai polacchi in Puglia.17
Centinaia sono i casi noti di vittimizzazione degli immigrati e questo anche nelle grandi imprese para-statali come Fincantieri.18
L’opinione pubblica di tutti i paesi di immigrazione e in particolare in Italia è invece bombardata da continui discorsi che additano gli immigrati come i responsabili di atti di delinquenza e criminalità.
La falsità di questi discorsi è flagrante ma ignorata. Da quasi venti anni le stesse statistiche dei reati che le polizie hanno perseguito mostrano che c’è stato un calo molto rilevante nonostante queste siano state aizzate ad accanirsi nei confronti di immigrati, rom, marginali e presunti sovversivi.
È lampante il fatto che mentre tutti i reati diminuiscono c’è stato un aumento degli immigrati che in Italia sono passati da neanche 900 mila nel 1990 a quasi sei milioni oggi. Si può quindi dire che l’aumento degli immigrati ha fatto diminuire i reati.19
Ma questa constatazione evidente resta ignorata e spesso immigrati, rom, marginali e presunti sovversivi sono costantemente presi di mira, perseguitati e talvolta arrestati per presunti reati o per piccoli atti illeciti. Sono infatti la “prede facili” delle polizie (anche locali) che così vogliono dimostrare che gli italiani sono trattati da cittadini mentre gli altri da persone senza diritti.
Gli immigrati vittime di reati non si rivolgono alle polizie perché sanno che non saranno protetti e che anzi rischiano di essere perseguitati ancora di più se senza permesso di soggiorno.

La tendenza all’approdo alla tanatopolitica

Da circa 20 anni la politica europea così come quella degli Stati Uniti, dell’Australia e di altri paesi di immigrazione è stata quella di esasperare sempre più la guerra alle migrazioni. Una guerra praticata con mezzi militari e di polizie oltre che da dispositivi di controllo e repressione a cominciare dai muri. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, la proliferazione dei muri è stata spaventosa.20
Quando avvenne questa caduta del Berliner Mauer si contavano nel mondo 15 barriere fisiche, una decina in più rispetto a quante ne esistevano alla fine della Seconda guerra mondiale: oggi queste sono 70, con altre sette già finanziate e in via di completamento.21
In questi ultimi anni, e in particolare da quando è scoppiata la crisi della pandemia, la situazione dei migranti nei lager libici come nei centri espellendi in Grecia e altrove e alle frontiere nei Balcani è diventata sempre più drammatica.22
Il fatto più vergognoso è l’evoluzione di Frontex. Un recente articolo del quotidiano Le Monde23 riprende il reportage del canale pubblico tedesco ZDF con la collaborazione dell’ONG Corporate Europe Observatory (CEO), un’indagine sui legami tra l’Agenzia europea Frontex e l’industria della sorveglianza e degli armamenti. Decine di documenti dimostrano violazioni delle regole delle istituzioni europee sul lobbismo, una mancanza di trasparenza e una quasi totale assenza di preoccupazione per il rispetto dei diritti umani.
Come da anni documentano anche Statewatch e Migreurop, Frontex è di fatto diventata una sorta di associazione di funzionari in combutta anche con mercenari e bande criminali (come quelle libiche) e pratica la tanatopolitica (il lasciar morire).
Non sono solo i Salvini, Orban, Trump e altri a puntare sulla guerra alle migrazioni sia per nascondere le loro malefatte sia per avere consenso facile da quella parte della popolazione fagocitata dal discorso suprematista-fascista.24
Di fatto i soldi dei cittadini contribuenti europei sono spesi per un crimine contro l’umanità. Una campagna di tutte le associazioni che si battono contro il liberismo e per i diritti umani dovrebbe quindi battersi per la soppressione di questa agenzia di crimini contro l’umanità. L’Unione europea a parole pretende essere un’istituzione che difende i diritti umani e nei fatti diventa responsabile di crimini contro l’umanità. Purtroppo, la pervasività dei discorsi dominanti è tale che anche tante associazioni non si rendono conto di questa tragica eterogenesi della pseudo-democrazia, un fatto politico totale che il liberismo ha imposto al mondo intero.

Minniti, Salvini e ora Draghi: la continuità della tanatopolitica italiana

Il discorso tenuto da Draghi a Tripoli il 5 aprile 2021 è una nuova pagina vergognosa sia perché un orrendo insulto ai tanti migranti morti, torturati e massacrati in Libia, sia perché di fatto sigilla un vero e proprio rilancio del neocolonialismo italiano.25
Il neo-capo del governo italiano conferma la sua coerenza liberista e fa sua anche la volontà di continuità dell’intento italiano di difendere a tutti i costi gli interessi delle multinazionali italiane all’estero. ENI e Leonardo sono così rassicurati: gli impianti petrolchimici saranno protetti, il commercio di armamenti sarà sostenuto, le mire per l’accaparramento delle “terre rare” e altre risorse naturali in Libia come in Africa e altrove saranno incoraggiate. Va da sé che questi obiettivi non saranno per nulla infastiditi da preoccupazioni umanitarie. Con sfacciato sprezzo per i diritti umani, mister Draghi s’è premurato esprimere “soddisfazione per il lavoro della Libia sui salvataggi”26, ha quindi dato prova di incarnare appieno lo spirito liberista contemporaneo che rinnova il principio: business is business; tanto poi lui non manca di andare dal Papa per farsi benedire, così come non manca di elogiare le ONG che in Italia distribuiscono cibo ai poveri, ma non certo le ONG che salvano i migranti.
Staremo a vedere se il Papa e la chiesa cattolica avranno il coraggio di denunciare il liberismo neocoloniale. E’ evidente che con il governo Draghi l’Italia sembra approdare a una coalizione nazionale che ambisce alla ripresa delle velleità neocoloniali. Il destino dei migranti appare quindi ancora più oscuro … la necessità di una nuova mobilitazione per i diritti umani, contro il neocolonialismo è più che mai urgente.

Conclusioni

Le migrazioni sono un fatto politico totale27 che da sempre fa parte della storia della formazione e delle trasformazioni delle società. Il liberismo pretende farne carne da macello e di fatto usa questa pratica di dominio anche contro quella parte della popolazione autoctona che vuole escludere dai diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti. In effetti il liberismo di oggi è soprattutto distruzione, devastazione, crimini contro l’umanità.
I dominanti disprezzano l’umanità e sembrano non avere alcun interesse per la posterità, cioè per il futuro. Ne sono prova le loro mire a crearsi dei bunker iper-sicuri, dotati di ogni sorta di marchingegno postmoderno, mentre alcuni puntano sulle navette spaziali in cui scappare in caso di cataclisma terrestre (non è fantascienza, vedi i diversi reportage).
E non mancano militari, geo-ingegneri esperti in nuove tecnologie che pretendono di sperimentare nuovi dispositivi per le “guerre climatiche” che qualcuno pensa come mezzo per eliminare qualche miliardo di umani.
Tuttavia, i migranti di oggi come quelli di ieri hanno una straordinaria capacità di resistenza nonostante, purtroppo, tanti non riescono a sopravvivere.28
La mobilitazione dei migranti e di quella parte della popolazione dei paesi ricchi che è oppressa potrà arrestare questo nuovo genocidio del XXI° secolo.
Nei mesi di presidio No Borders a Ventimiglia (2015), durante una delle tante assemblee di quel periodo, un giovane sudanese, Faruk, rifugiato nel campo profughi Mai Aini in Etiopia e da lì scappato in quanto attivista politico, un giorno “prese parola pubblicamente” (non l’avrebbe potuto fare nel dispositivo creato per lui e quelli come lui) e disse:

Se l’Unione Europea e i suoi Stati membri non prenderanno provvedimenti per risolvere tutte le situazioni di illegalità da loro stesse create, allora saranno gli stessi migranti a determinare un cambiamento sociale, proveniente dal basso che si alimenterà nel tempo e per questo avrà grande probabilità di essere tramandato di generazione in generazione fino a radicarsi nelle nuove generazioni africane in un’aspirazione al riscatto sociale in un’Europa che accetti i giovani migranti, accogliendoli e integrandoli nella società di arrivo”.29


  1. Michael Löwy, Alternative all’abisso

  2. A. Sayad, La doppia assenza, Cortina, 2002, Milano. 

  3. Vedi in particolare:  Il cammino della speranza, Pane Amaro, Emigranti. Salvatore Palidda, Mobilità umane.Introduzione alla sociologia delle migrazioni, Raffaello Cortina Editore, 2008, pp.222. 

  4. Dal 2000 al 2018 nelle anagrafi dei comuni italiani ci sono stati 33.381.047 nuovi iscritti e 27.547.087 cancellati (queste variazioni sono forti sin dagli anni ’70 a seguito della fine delle grandi industrie e del loro indotto non solo nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova, ma in tutti i siti di grandi fabbriche). Inoltre si hanno oltre 5 milioni di residenti all’estero: gli iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) al 31/12/2017 erano 5.114.469 cittadini. Nel 2000 erano 2.353.000, nel 2005: 3.521.000, nel 2010: 4.115.000, nel 2016; 4.973.940. Un crescendo continuo. Vedi: Salvatore Palidda, Non-paradossi delle mobilità umane del XXI secolo

  5. Valerio Bini, Petrolio e miniere. Il pozzo dell’Africa, 21/05/19. 

  6. Viviana D’Onofrio, Il Delta del Niger, tra sfruttamento delle risorse, povertà e degrado ambientale, 12 Dicembre 2015. 

  7. Valentina Oliveri Elibelinde, Congo: multinazionali, guerre e risorse, 12 giugno 2018. 

  8. Franza Roiatti, Multinazionali in Africa: lo sfruttamento che spiega perché è così povera, 26 novembre 2020. 

  9. I primi paesi neocoloniali responsabili dello Scramble for Africa e del Land e water grabbing in Africa sono Stati Uniti, Regno Unito, Russia, Cina e Arabia Saudita. Vedi anche: Nanjala Nyabola, Il nuovo volto del colonialismo, 7 dicembre 2018; R. Mastro, L’Africa del tesoro. Diamanti, oro, petrolio: il saccheggio del continente, S&K, 2006 

  10. Africa: devastazione ambientale, sfruttamento ed Ebola, 18 settembre 2014. 

  11. Vedi l’eccellente articolo di Raffaele K. Salinari, In Congo una guerra permanente per materie prime e diamanti.  Aggiungo anche l’uranio tirato fuori a mani nude da ragazzini e venduto tramite intermediari mafiosi alla Francia per il suo nucleare: Investigations et Enquêtes, Trafic illégal d’uranium, 11 gennaio 2016, e anche:  Marco Omizzolo, Non c’è pace per la Repubblica democratica del Congo, 19 Febbraio 2021. 

  12. Daniele Mastrogiacomo, Congo, l’uranio dietro la guerra, 16 novembre 2008. 

  13. Si chiama IDEX la fiera internazionale degli armamenti dove accorrono tutti i produttori e commercianti di armi fra cui gli italiani, ultima edizione il 21-25 febbraio 2021. Alla 23° edizione della fiera Intersec, su Sicurezza, Cybersecurity, Safety & Fire protection, in gennaio 2022 saranno presenti 1400 espositori e visitatori di 135 paesi. 

  14. Salvatore Palidda, Non-paradossi delle mobilità umane del XXI secolo

  15. Yann Moulier-Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, Manifestolibri, 2002, Roma 

  16. Fra altri articoli e documenti vedi: Adragna, Bagnariol, Monaco, Nencioni, L’Italia del lavoro nero, 2013. Drogarsi per lavorare la neo-schiavitù dei braccianti sikh alle porte di Roma. A. Mangano, Violentate nel silenzio dei campi a Ragusa. Il nuovo orrore delle schiave rumene, 15 settembre 2014. A.Mangano, Schiave romene nei campi in Sicilia, per il gouvernement è un fenomeno ‘non significativo, 10 aprile 2015.  D. Perrotta, Vite in cantiere. Migrazione e lavoro dei rumeni in Italia, 2011. A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, 2008. Marco Omizzolo, Campi di sfruttamento, 20 settembre 2020. 

  17. Giuliano Foschini, Lorenza Pleuteri, Quei 119 spariti dalla Polonia e adesso scomparsi in Puglia, 13 settembre 2006. 

  18. Giovanni Giovannelli, Turi Palidda, Il furore di sfruttare e di accumulare, 9 gennaio 2020 

  19. Salvatore Palidda, Polizie sicurezza e insicurezze, Meltemi, 2021. 

  20. Christian Elia, Oltre i muri. Storie di comunità divise,  Milieu Edizioni, collana  Frontiere, 2019, Milano. 

  21. Annalisa Girardi, Tutti i muri nel mondo 30 anni dopo Berlino, 7 novembre 2019. 

  22. Nello Scavo, Sulla via balcanica dei migranti morta anche la pietà per i disabili, 10 gennaio 2021. 

  23. Jean-Pierre Stroobants, Frontex, l’Agence européenne de garde-frontières, à nouveau mise en cause pour ses liens avec des lobbyistes, 5 febbraio 2021. 

  24. Turi Palidda, Negazionismo, scetticismo o resistenze: dove va l’ecologia politica?, 17 ottobre 2019. 

  25. Mario Draghi a Tripoli: “Momento unico per ricostruire un’amicizia. Sui migranti siamo soddisfatti dei salvataggi in mare della Libia”, 6 aprile 2021. 

  26. Tommaso di Francesco, Draghi libico e soddisfatto, 7 aprile 2021.  

  27. Il concetto di fatto politico totale si rifà a quello di fatto sociale totale di Marcel Mauss, che a sua volta ridefinisce così il concetto di fatto sociale definito da Durkheim (a rischio di meccanicismo e determinismo). Oggi più che mai l’accezione politica appare opportuna perché “tutto si tiene”, ogni fatto del mondo contemporaneo è intrecciato con molteplici altri. È in questo senso che le migrazioni sussumono tutti i disastri provocati dalle multinazionali a livello locale e mondiale. 

  28. Salvatore palidda (a cura di), Resistenze ai disastri sanitari ambientali ed economici nel Mediterraneo, Derive&Approdi, 2018, Roma. 

  29. Tratto dalla tesi di dottorato di Francesca Martini, “Aporie e metamorfosi o eterogenesi dell’accoglienza degli immigrati in Italia Etnografia dei mondi dell’immigrazione nel frame liberista”, Scuola di Scienze Sociali, Università degli Studi di Genova, 2019-2020. 

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Territorio, sfruttamento, migrazione e conflitto: la lezione siciliana https://www.carmillaonline.com/2020/09/22/territorio-sfruttamento-migrazione-e-conflitto-la-lezione-siciliana/ Tue, 22 Sep 2020 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62608 di Jack Orlando

Antudo Info (a cura di), Si resti arrinesci, Deriveapprodi 2020, 9,00€

È da quando l’Italia è fatta che la famigerata Questione meridionale torna ciclicamente ad agitare il dibattito politico, con la sua coda di narrazioni vittimistiche e di paternali da vecchia borghesia, di scrollate di spalle e promesse solenni; un nodo mai sciolto perché in fondo non si può sciogliere uno dei pilastri dell’edificio del paese Italia, costruito sul sottosviluppo consapevole e strutturale del Sud a vantaggio del motore capitalistico collocato al Nord.

Un Sud buono per essere [...]]]> di Jack Orlando

Antudo Info (a cura di), Si resti arrinesci, Deriveapprodi 2020, 9,00€

È da quando l’Italia è fatta che la famigerata Questione meridionale torna ciclicamente ad agitare il dibattito politico, con la sua coda di narrazioni vittimistiche e di paternali da vecchia borghesia, di scrollate di spalle e promesse solenni; un nodo mai sciolto perché in fondo non si può sciogliere uno dei pilastri dell’edificio del paese Italia, costruito sul sottosviluppo consapevole e strutturale del Sud a vantaggio del motore capitalistico collocato al Nord.

Un Sud buono per essere usato come bacino di forza lavoro da trapiantare altrove, alle catene di montaggio della fabbrica, tra gli scaffali del terziario precarizzato o tra i banchi delle università-aziende delle metropoli, usato come discarica dove buttare gli scarti tossici di produzione e le colpe ataviche e primigenie del popolo italico pigro, truffatore e violento, la culla mitopoietica di un discorso dal sapore semirazziale, sempre buono per la legittimazione di politiche di sfruttamento sociale e avanzamento capitalistico da riversare poi su tutto il Belpaese.

Il Sud Italia come colonia interna, conquistato e assorbito a colpi di cannone e baionetta, normalizzato attraverso l’emorragia sociale delle migrazioni, desertificato attraverso la politica predatoria: è da questo assunto che parte il lavoro politico che la piattaforma siciliana Antudo ha sintetizzato nelle cento pagine del libro Si resti arrinesci (“se rimani riesci”), slogan che ribalta il vecchio e triste adagio cu nesci arrinesci (“chi parte riesce”), nel tentativo di dare corpo materiale e discorsivo alla battaglia contro l’emigrazione (soprattutto giovanile) dall’isola.

Più che tratteggiare i contorni essenziali di questa esperienza politica, quello che si rivela di importanza strategica nella riflessione proposta è l’assunzione di un punto focale per una prassi politica radicale (radicale nel senso originario, di andare alla radice delle cose) che sappia assumere attorno e dentro di sé tutto un caleidoscopio di contraddizioni e frizioni che vivono dentro lo schema del presente.

Assumere l’emigrazione come terreno di scontro vuol dire quindi andare a riscoprire quella storia, rimossa dalla storiografia ufficiale, che fa da trampolino alla riscoperta di un’identità culturale e collettiva sepolta sotto cumuli di giudizi inferiorizzanti. Insegnava Fanon che la scoperta di una propria identità e dignità costituisce una delle basi per il dischiudersi di una soggettività in grado di reclamare la propria emancipazione ed esercitare la propria coscienza. Non solo: significa ragionare sui meccanismi che si celano sotto quell’identità spezzata e sulle logiche politiche che hanno dato la forma alla realtà del meridione – quale posto assegnare alla sua gioventù, quali funzioni produttive (o improduttive) consegnare ai territori, quale tributo di sangue e denaro collocare sulla bilancia di disoccupazione e tassazione, quali nodi devono stringere più dolorosamente il corpo sociale per mantenerlo nella sua condizione subordinata.

Oppure, ancora, significa agire su una condizione oggettiva, materiale, che informa però soggettivamente tutto il tessuto sociale, ne crea le condizioni psicologiche ed emotive: dalle amicizie perse ai tornelli del porto, agli abbracci di congedo nelle famiglie, fino al senso di impotenza che aleggia su chi rimane e guarda gli altri andare altrove e quello di ineluttabilità che contorna gli emigranti. La dimensione strutturale si fa qui fatto intimo, di un personale che è immediatamente collettivo perché accomuna tutta una popolazione; il fattore particolare sgrana il rosario delle contraddizioni per disegnare tutto lo spettro del sistema di dominio e sfruttamento.
La battaglia per fermare l’emigrazione è allora battaglia per costruire le condizioni per rimanere, rimanere è il presupposto per la ricostruzione di una forza collettiva in grado di incidere e scardinare le strutture del nemico e costruire delle ipotesi concrete di cambiamento reale.

Se quello di Antudo è un lavoro pensato, costruito e agito particolarmente sulla dimensione locale della Sicilia è anche vero che, come vuole il luogo comune per cui ogni Nord ha il suo Sud, non è una dimensione esclusivamente siciliana quella dell’emigrazione come problema sociale, che, anzi, accomuna non solo tutto il meridione italiano, ma anche buona parte delle sue province, in cui il futuro ha i contorni stretti e grigi del cemento. Un minimo comune denominatore quindi, su cui ritorna quella possibilità di andare alla radice delle cose e dare corpo a focolai di resistenza e costruzione del dissenso e del contropotere.

Azzardando l’ipotesi di salire ancora di più nella catena della violenza sistemica, il marchio a fuoco impresso a suo tempo da casa Savoia alle terre del fu regno borbonico, non ricorda molto da vicino la collocazione che l’Italia ha assunto giocoforza nello scacchiere europeo? Fornitore di manodopera specializzata e rassegnata, discarica di colpe e rifiuti, peones cui dare pacche (o randellate) sulla testa; assunta con una punta di sarcasmo e saccenza padronale nel novero dei Pigs, i paesi scarsi d’Europa, i maiali che stanno nel primo mondo giusto a patto di stare nel fango del porcile.

Seguendo il filo del dominio coloniale non si tratta più (o non solo) di una faccenda localistica, di una Questione meridionale, ma di una questione dei territori, del loro uso capitalistico ma anche del loro contro-utilizzo all’interno di un disegno di antagonismo radicale di ampio respiro. Non si sta parlando qui della vetusta e mai chiarita parola d’ordine “ritornare nei territori”, ma di impugnare quei punti focali, quale è ad esempio l’emigrazione, che assumono su di sé la carica delle emozioni proprie del soggettivo e la dimensione delle contraddizioni oggettive che il capitale mette in bella mostra sui marciapiedi, di coniugare un’azione capillare e localizzata con una strategia di costruzione organizzativa e politica il più ampia e articolata possibile, sulla base di elementi centrali e riproducibili. Tale è la scommessa ambiziosa che, in controluce, le pagine di Antudo sembrano suggerire all’occhio militante, levandosi di torno quelle sfumature morali da sinistra pretesca che nessun interesse suscitano nel soggetto reale, per affrontare invece battaglie che sono prima di tutto materiali e che, proprio in quanto materiali, vanno a mutare l’orizzonte dei peones convertendoli in guerrilleros, e a ridisegnare i territori da luoghi d’accumulazione di capitale ad avamposti di conflitto.

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Siamo tutti Carola! Va bene, però dopo che si fa? https://www.carmillaonline.com/2019/07/11/siamo-tutti-carola-va-bene-pero-dopo-che-si-fa/ Wed, 10 Jul 2019 22:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53547 di Giovanni Iozzoli

[Questo scritto è uscito su Napoli Monitor il 04/07/19. Nonostante Carmilla non riproponga testi già pubblicati in altri contesti, in questo caso viene fatta un’eccezione ritenendo il pezzo utile al dibattito]

Lo Zelig di quel che resta della sinistra, ogni tanto assume identità fittizie – il più delle volte un personaggio mediatico o globale – e prova disperatamente ad aggrapparsi alla scia della personalità o dell’evento, cercando un qualche contenuto, un valore, un orientamento. Siamo tutti Assange, siamo tutti Me too, siamo tutti Greta: aver buttato nel cesso la storia rivoluzionaria del Novecento, l’assenza di [...]]]> di Giovanni Iozzoli

[Questo scritto è uscito su Napoli Monitor il 04/07/19. Nonostante Carmilla non riproponga testi già pubblicati in altri contesti, in questo caso viene fatta un’eccezione ritenendo il pezzo utile al dibattito]

Lo Zelig di quel che resta della sinistra, ogni tanto assume identità fittizie – il più delle volte un personaggio mediatico o globale – e prova disperatamente ad aggrapparsi alla scia della personalità o dell’evento, cercando un qualche contenuto, un valore, un orientamento. Siamo tutti Assange, siamo tutti Me too, siamo tutti Greta: aver buttato nel cesso la storia rivoluzionaria del Novecento, l’assenza di memoria teorizzata come valore, l’introiezione acritica dell’agenda liberista scambiata per modernità e diritti civili, tutto ciò ha reso l’ectoplasma della sinistra bisognoso di unirsi a “qualcos’altro” – generalmente qualcosa di evanescente e assai provvisorio – per riuscire a dare una effimera definizione di sé.

A me la faccenda della Carola non entusiasma. A parte la solidarietà umana per una ragazza coraggiosa (oggettivamente simpatica, anche per l’iperbolico reato di cui è accusata: “resistenza a nave da guerra”, fattispecie penale più adatta a Godzilla), questa pseudo contesa tra Capitana e Capitano, mi sembra porti acqua solo al mulino di Salvini. Non riesco proprio ad aderire alla prevalente cultura del “like”: mi piace o non mi piace – questa storia che siamo sempre pubblico di uno spettacolino in cui al massimo ci è consentito schierarci a favore o contro qualcosa.

Al di là del fatto che le ONG mi provocano una istintiva diffidenza – in alcuni casi sono state persino strumento governativo di guerra e di golpismo1 –, possiamo andare avanti attaccandoci a questo o quel barchino e sperando che queste rappresentazioni mediatiche indignino e risveglino una qualche “opinione pubblica democratica”? Il fatto che “Io sto con Carola” mentre la stragrande maggioranza degli italiani sta con Salvini non dovrebbe un po’ preoccuparci? È vero che su certe battaglie ideali, in certe fasi storiche, la minorità è condizione inevitabile: ma non ci poniamo neanche il problema di come uscirne, di come riconnetterci alle pubbliche opinioni con un posizionamento forte e alternativo, che ci opponga a Salvini ma non ci confonda con la Boldrini o la Open Society?

Cosa è successo in questi anni? Che le destre sono state molto determinate nel costruire una loro narrazione sull’immigrazione – con delle varianti che vanno dalla “sostituzione etnica” (la versione demenzial-hard) fino alla “immigrazione favorita dalla sinistra e dalle cooperative per speculare”. Niente di trascendentale, come livello del dibattito – del resto Bannon non è Evola, e se quello è il loro guru, possono al massimo sguazzare in quelle basse acque melmose. Però, grazie a queste elaborazioni ripetute e consolidate nel tempo, qualsiasi persona di destra mediamente informata, anche il salumiere sotto casa, sa articolare il suo discorsetto su immigrazione ed economia mondo.

A sinistra, invece – nel campo dei movimenti, della resistenza di classe –, qual è la lettura che si dà dei processi migratori? Se ne manca una, abbiamo qualche problema – se è vero che entro tre decenni in Africa ci sarà un miliardino di persone in più. Ce la possiamo cavare con il tifo per Carola?

Quali sono le parole d’ordine con cui affrontiamo questa cruciale fase storica, nei quartieri, in fabbrica, nei posti di lavoro? Cosa dobbiamo raccontare, quando si parla di dinamiche migratorie, che “io sto con la Sea Watch”? Ma che argomento politico è, scusate? Tutt’al più è uno schieramento individuale, anche eticamente nobile. Ma non costituisce un posizionamento strategico, né aiuta a costruire una teoria, sulle migrazioni. E soprattutto non aggiunge e non toglie niente a una narrazione di destra che si fa ogni giorno più tetragona ed efficace. Sono le ONG il nostro contributo al dibattito? È Carola – o Casarini o la Open Arms o Soros – che ci darà la linea in materia? Eccola la subcultura maledetta del like – sto con questo o sto con quello – che ci toglie la fatica di pensare, leggere e anticipare la complessità dei fenomeni, costruire progettualità, parole d’ordine, alleanze nella società, che non siano sempre “di solidarietà” (parola di cui in politica forse è meglio cominciare a diffidare, perché non è al buon cuore che bisogna affidarsi), ma di nuova vertenzialità sociale. Che nei prossimi mesi e anni significherà essenzialmente: come evitare che sezioni di proletariato differenziate su base etnica e di gerarchia sociale, si scannino tra loro per strapparsi a vicenda residui di welfare, per contendersi spazi urbani all’abbandono e svendersi sul mercato del lavoro al peggior offerente. Carola e le navi delle ONG non possono dirci niente, in materia.

Bisogna che su queste tematiche ricominciamo a discutere, senza troppe inibizioni politicamente corrette, da scienziati sociali, per chi ne ha voglia e competenze: una bella analisi materialista sull’imperialismo, la demografia, le contraddizioni tra le classi (e dentro la classe), i problemi del continente africano (che identifichiamo sempre con l’Africa sub-sahariana e la sue estrema fragilità, senza pensare alle metropoli d’Egitto o della Nigeria, come se avessimo rimosso addirittura anche solo la possibilità della lotta socialista e della rivoluzione panafricana e il nostro contributo si limitasse a come far sbarcare gommoni a Lampedusa). Insomma, trovare il modo in cui le avanguardie (o sedicenti tali) possano rapportarsi a questa tematica fondamentale, in una modalità che non sia sempre “a posteriori”, all’inseguimento di questo o quello strappo indotto dalle destre o dall’oggettiva durezza dei tempi.

Molti le fanno, queste cose, per carità; ma da qualche parte bisognerà trovare l’intelligenza (collettiva) per fare una sintesi e consolidare delle soglie acquisite di discussione, che diventino patrimonio comune e strumentazione politica d’intervento per le nuove generazioni che scelgono l’impegno anticapitalistico: non lasciamo che brancolino nell’improvvisazione, nel solidarismo umanitario, in vaghe aspettative millenaristiche su una “futura umanità” che si produrrà da sé, quando la bontà trionferà sull’egoismo. Se non disponiamo delle armi della critica, sarà facile, per Salvini e i suoi sgherri, rovesciare addosso a noi e agli stranieri, la frustrazione di massa degli italiani.


  1. “Le ONG sono un moltiplicatore di forze per noi, una parte estremamente importante della nostra squadra combattente”: dal discorso di Colin Powell alle ONG alla vigilia della campagna Enduring Freedom, citato in un reportage di Maria Grazia Bruzzone su La Stampa del 07/05/2017. 

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Eneide, Profugus: la tempesta https://www.carmillaonline.com/2019/06/11/eneide-profugus-la-tempesta/ Tue, 11 Jun 2019 21:16:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53052 di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di chi scrive, Profugus. Misteri, migrazioni e Popoli del mare nell’Eneide di Virgilio, pp. 640, € 30, Odoya, Bologna 2019 (presentazione giovedì 13 giugno ore 21 alla libreria Comunardi di Torino). Se ne riporta qui uno stralcio (con citazioni tratte dall’edizione Virgilio, Eneide, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1967). Una riflessione teatrale sul tema in un’ora di lezione recitata, Enea profugo, prodotta per la Compagnia Marco Gobetti (e raccolta nel volume di AA.VV., Conflitti, lavoro e migrazioni. Quattro “Lezioni recitate”, SEB27, Torino 2018) è [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di chi scrive, Profugus. Misteri, migrazioni e Popoli del mare nell’Eneide di Virgilio, pp. 640, € 30, Odoya, Bologna 2019 (presentazione giovedì 13 giugno ore 21 alla libreria Comunardi di Torino). Se ne riporta qui uno stralcio (con citazioni tratte dall’edizione Virgilio, Eneide, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1967). Una riflessione teatrale sul tema in un’ora di lezione recitata, Enea profugo, prodotta per la Compagnia Marco Gobetti (e raccolta nel volume di AA.VV., Conflitti, lavoro e migrazioni. Quattro “Lezioni recitate”, SEB27, Torino 2018) è in giro per l’Italia con l’attore Andrea Caimmi.

 

§  Capitani lamentosi?

Proemio a parte, di fatto l’Eneide inizia con una tempesta: e non una tempesta qualunque, ma un perfect storm virato sulla meteorologia del mito, un’arcitempesta in cui tutti i venti a disposizione di un dio intervengono a recare la maggior devastazione possibile. Una tempesta, inoltre, collocata a Occidente, sui mari poco noti in direzione del sole al tramonto: un dato geografico/simbolico da apprezzare non tanto in relazione alle ormai dettagliatissime mappe dell’età di Virgilio (dove il far west andava ben oltre la Spagna), ma piuttosto alle rotte di capitani micenei o egeoanatolici della tarda età del bronzo. Una tempesta, in terzo luogo, che determina il naufragio a Cartagine, dove poi Enea narrerà le proprie avventure. In realtà Virgilio riprende qui e ritocca lo schema dell’Odissea, dove un’altra tempesta a Occidente poco dopo l’apparizione in scena dell’eroe (libro V, cioè dopo i primi quattro sulle avventure di Telemaco) ne determinava il naufragio sulle coste dei Feaci, e lì a sua volta avrebbe narrato le sue avventure. Insomma una sequenza costituita da una natura sconvolta verso i limiti del mondo, le disavventure di una nave, e un narrare.

Rispetto a Omero, Virgilio enfatizza anzi la suggestione: all’estremo come situazione (l’arcitempesta) e come posizione geografica (l’Occidente, limite del mondo) aggiunge quello della posizione nel testo (l’inizio, limite dell’opera). La realtà estrema è per definizione quella delle situazioni-limite, della terra incantata ai confini del mondo (in senso geografico come simbolico) che provoca a rileggere quanto crediamo di conoscere. Pensiamo all’isola Ogigia della ninfa Calipso in qualche lontano Occidente (il nome Ogige è stato associato al personaggio dell’epopea di un primo diluvio, al titano/fiume liminare Oceano, e a termini greci per concetti estremi come primordiale o gigantesco): lì Odisseo mette a fuoco che è preferibile invecchiare da mortale coi propri cari piuttosto che farsi immortale con Calipso. Pensiamo all’isola beata dei Feaci, dove l’eroe può rileggere – rivedendone il senso – tutto quanto ha vissuto. Pensiamo ancora alle terre favolose degli Etiopi e (più tardi) degli Antipodi, homines pedibus aversis coi paradossi del mondo alla rovescia: tutti casi in cui la realtà estrema è una terra beata, terra della meraviglia e delle meraviglie, che mette in questione le nostre categorie. E che però è anche miticamente un confine cosmico col caos: l’arcitempesta a Occidente parla il linguaggio delle paure sull’Oceano, per gli antichi l’immenso fiume che circonda il mondo degli uomini ed è insieme misura, limite e riflesso di un inconcepibile “esterno”. Da quel caos verrà il tentativo per l’eroe di riordinare narrando: e per Odisseo alla corte dei Feaci ciò sarà possibile. Mentre per Enea, la narrazione avrà esito fallimentare: quella tempesta rispecchia in fondo – lo scopriremo – qualcosa che ha dentro, che causerà tragedie e occorrerà riarmonizzare.

C’è dunque un senso profondo, in questo inizio, e il soffermarvisi non risponde unicamente a una logica di buona poesia. E che sia questo l’inizio lo dice anche il fatto che qui per la prima volta vediamo Enea, lo udiamo parlare e anzi ne troviamo il nome, finora elegantemente alluso o sostituito da qualifiche o epiteti.

Ancora una volta può spiacere a lettori ubriachi di un certo tipo di romanità che il primo incontro con l’eroe avvenga in questi termini:

 

Di colpo le forze si sciolgono a Enea, con un brivido,

e geme e giunte levando le mani alle stelle

grida: “Oh beato, oh mille volte beato

chi sotto gli occhi dei padri e l’alte mura di Troia

poté incontrar la sua sorte! E tu, fra i Dànai fortissimo,

Tidide, perché nella piana d’Ilio a me pure

non toccò stramazzare, esalar per tua mano la vita,

là dove per l’arma d’Achille giace Ettore fiero,

e il gran Sarpedonte, e, sotto l’onde travolti, il Simòenta

tanti scudi d’eroi ed elmi e forti corpi trascina!”

Gridava così e, stridente d’Aquilone, una raffica

gl’investe la vela, scaglia l’onda alle stelle.

 

Si può obiettare che in quel momento i Troiani avrebbero avuto bisogno di vedere nel capo ben altra calma. Ma quell’arcitempesta è l’epifania anche visiva di un punto di rottura interiore, sopraggiungendo (il lettore non lo sa ancora) in un momento critico della vita di Enea; e quel gridare è rivelativo di una serie d’implicazioni.

Anzitutto, “Di colpo le forze si sciolgono a Enea, con un brivido”: cioè appunto all’improvviso la resistenza di anni cede, e cede nel panico. Enea, per quanto all’anagrafe semidio, è un uomo come gli altri e ha paura. Ma ha paura tanto più perché (scopriremo) suo padre è morto poco prima; e lui si è trovato all’improvviso il capo/pater familias del suo popolo, con tutto ciò che ne deriva in termini di responsabilità. E (come pure scopriremo) non è ancora pronto a gestirla. Ecco dunque che con linguaggio nuovamente teatrale, aperto cioè alla drammatizzazione del punto di vista soggettivo, Virgilio inizia con l’eroe che tocca il proprio limite, il proprio essere spezzato, il proprio incassare emozioni di tutti e anzi potenziate dalle responsabilità del ruolo. Questa scena non è insomma solo un semplice, brillante ricalco di quella più o meno corrispondente dell’Odissea con l’angoscia dell’eroe nella tempesta – anche se qui iniziamo già a vedere come Virgilio lavori col precedente omerico –, ma è anche il grido – letteralmente – di Virgilio contro ogni banalizzazione eroicistica. Però c’è probabilmente anche una seconda suggestione, parallela: quel brivido – che ne preannuncia vari altri, in occasione di epifanie sovrannaturali – mostra che Enea sembra avvertire la manifestazione di una potenza che va oltre l’ordinario di una tempesta per mare. Che la sensibilità di Enea flirti con una vaga veggenza ci sarà confermato dal prosieguo.

Poi “geme e giunte levando le mani alle stelle / grida”. E qui sono due i movimenti interiori, prima ancora che esteriori, questo gemito dal profondo (“ingemit”) e uno slancio verso l’alto che ha il moto e l’urlo della preghiera, e ricorda agli dei che sarebbe stato meglio finire diversamente: ma non riesce neppure a rivolgersi loro, fatica a staccarsi da ciò che poteva essere, da ciò che un uomo può augurare a se stesso. Tanto più che morire in mare significa in genere non avere sepoltura, con tutte le penose conseguenze oltremondane (la lunghissima attesa dell’anima per accedere alla pace, eccetera). Ma la trovata brillante di Virgilio è inserire in poche frasi anzitutto un vertiginoso riepilogo dei fatti di Troia cantati dall’Iliade – le morti sotto gli occhi dei padri, il duello del libro V tra Diomede (è lui “fra i Dànai fortissimo, / Tidide”) ed Enea che viene salvato dalla madre divina in vista di una sorte gloriosa, il fiume che trascina via i corpi – e insieme il rapporto con ciò che avverrà. Perché nell’Eneide ritroveremo Diomede, ma è cambiato il senso e non vorrà più combattere con Enea; troveremo di nuovo un fiume ad arrossarsi di sangue e Virgilio lascerà implicite tutte le voci su Enea che vi scompare, affogato o assunto in cielo. Per questo qui non si tratta banalmente di un capitano lamentoso, ma di un dar voce a un conato di preghiera che interessa tutti, e dove Enea è il capo che parla, geme e leva lamentazione per la sua gente. Però la tempesta è scatenata.

 

I remi si spezzano, la prua si rivolta, offre all’onde

il fianco: gli corre incontro il monte d’acqua scrosciando.

Pendono questi in vetta al flutto, a quelli l’onda, che piomba,

apre tra i flutti la terra, schiuma e sabbia ribollono.

Tre navi il Noto afferrando, su scogli insidiosi le getta

(Are li chiamano gli Itali, nel mezzo dell’onde

dorso immane a fior d’acqua); tre l’Euro dall’alto

spinge alle Sirti sabbiose, spettacolo degno di pianto,

in mezzo alle secche le caccia, le stringe una morsa d’arena.

Una, che i Lici e il fido Oronte portava,

enorme piombando, davanti ai suoi occhi, un maroso

investe a poppa: ne balza via il timoniere

e a capofitto precipita; l’onda tre volte

fa roteare la nave, il vortice avido l’inghiotte nel mare.

Si vedono corpi nuotare dispersi pel gorgo funesto,

armi guerriere, e tavole, e teucri tesori fra l’onde.

Già d’Ilioneo, d’Acate guerriero già la valida nave,

e quella d’Abante, e quella che il vecchio Alete trasporta,

son vinte dalla tempesta: già tutte, sconnesso il fasciame,

accolgono l’acqua nemica, le falle s’allargano.

 

Questa descrizione straordinaria, con quelle di Omero e di poche altre voci resta a monte di un’intera letteratura sul tema della tempesta: vi sono già in nuce, e sembra già quasi di riconoscerli, Shakespeare, Coleridge, Conrad e tanti altri.

Strappata dalla costa nord a quella sud della Sicilia, la flotta troiana viene trascinata da Aquilone verso l’Africa e il canale di Tunisi. Per comporre il brano, Virgilio si informa sulle rotte, studia i rischi sui resoconti di viaggio e attraverso cenni suggerisce dove ci troviamo. Cioè – alla grossa – non lontani da Cartagine: gli scogli chiamati Are (“Aras”), citati da Livio e Plinio il Vecchio, saranno noti in arabo come Al Giamar o Zimbra e in francese Iles des Imbes; le Sirti, cioè Syrtis Maior (golfo della Sirte o golfo di Sidra, sulla costa settentrionale della Libia, a est) e Syrtis Minor (golfo di Gabès in Tunisia, a ovest) sono temutissime per i loro banchi di sabbia.

Tre navi – Virgilio non ci offre ancora, come farà più tardi, i nomi degli scafi – finiscono sulle Are, altre tre nella Piccola Sirti; quella di Oronte affonda; quelle di Ilioneo, Acate, Abante e Alete sono devastate dalla furia del mare. Iniziamo a ricordare questi nomi, specialmente alcuni che torneranno: Ilioneo, il più anziano e il più saggio dei compagni, citato fino al libro IX, dove si misura in combattimento ancora con gran forza fisica (nello sceneggiato RAI figura come composto sacerdote); Acate, scudiero di Enea (cioè quello che originariamente ne condivideva il carro in battaglia), presente ancora nei combattimenti dell’ultimo libro; Abante, che invece non verrà più ricordato; Alete, che riapparirà solo un paio di volte nel libro IX. La sensazione, qui come altrove, per nomi poi lasciati alla deriva dell’opera, è di un’invenzione contingente legata a esigenze metriche: ma non possiamo neppure escludere che Virgilio ammicchi a qualche figura minore da fonti perdute, nell’ambito dell’immenso iceberg di testi di cui solo una punta sopravvive nel tempo.

Il caso però più intrigante è quello di Oronte e della sua nave, perché ben introduce a un altro dei grandi temi sottostanti il quadro storico evocato da Virgilio. Il personaggio del capo licio Oronte – non presente nell’Iliade ma inteso nell’elaborazione successiva a Virgilio come successore del principe Glauco morto combattendo sotto Troia – è citato come “fido” (“fidumque”) perché ha accettato di seguire Enea e i Troiani nelle loro peregrinazioni, invece di tornare in patria dopo la guerra. Va detto che un altro licio, Scilaceo, rientrato in patria con le cattive notizie sulle perdite pesantissime del contingente e giudicato poco valoroso, sarebbe stato lapidato dalle vedove (Quinto Smirneo, Posthomerica, X, 167 segg.), ma Virgilio non ne considera la vicenda. Ora, l’affondamento della nave licia – a richiamare scene, in quel mare, che purtroppo conosciamo – viene letto dai commentatori in termini mitici: al loro popolo non spetta entrare in Lazio, la promessa non è destinata a loro e dunque muoiono in mare (ma è un tema che Virgilio sembra aver inserito tardi nel poema, negli ultimi libri più antichi i Lici non mancano). Però un’ombra d’imbarazzo ai mitologi resta: e al di là della storia di Scilaceo che pare una giustificazione un po’ forzata, perché a guerra terminata quel resto di contingente non ritorna in Licia e si aggrega a una stirpe di profughi? Posto che si ragiona in termini virtuali, di ombre di tradizioni e dati letterari dalla lunghissima gestazione, una risposta pur problematica emerge in rapporto al profilo particolare dei Lici della tarda età del bronzo: riconducibili cioè a quei Lukka insediati in una porzione dell’Anatolia probabilmente ben più ampia della Licia storica (ma c’è dibattito), e le cui terre sono menzionate in testi ittiti a partire dal II millennio a.C. Il mistero che li riguarda – cruciale anche per inquadrare le peregrinazioni dei Troiani nell’Eneide – è quello dei cosiddetti Popoli del mare.

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Nemico (e) immaginario. Il terrore ad intensità variabile. Media, migranti-zombie e terroristi-cloni https://www.carmillaonline.com/2019/05/07/nemico-e-immaginario-il-terrore-ad-intensita-variabile-media-migranti-zombie-e-terroristi-cloni/ Mon, 06 May 2019 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52213 di Gioacchino Toni

«Nello scenario contemporaneo, le immagini ci restituiscono […] un mondo attraversato da nuove forme di paura, una paura radicale, non più di questo o quell’oggetto, di questa o quella situazione, ma una paura radicale, totale, che si insinua nei meandri del nostro sentire, facendo tremare le radici stesse del nostro essere al mondo» («Fata Morgana» 38/2018)

Il numero 38/2018 di «Fata Morgana» – rivista che dedica fascicoli  monografici ai nodi problematici della contemporaneità affrontati attraverso il cinema e le diverse forme audiovisive – prende in esame il tema della “paura”. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Nello scenario contemporaneo, le immagini ci restituiscono […] un mondo attraversato da nuove forme di paura, una paura radicale, non più di questo o quell’oggetto, di questa o quella situazione, ma una paura radicale, totale, che si insinua nei meandri del nostro sentire, facendo tremare le radici stesse del nostro essere al mondo» («Fata Morgana» 38/2018)

Il numero 38/2018 di «Fata Morgana» – rivista che dedica fascicoli  monografici ai nodi problematici della contemporaneità affrontati attraverso il cinema e le diverse forme audiovisive – prende in esame il tema della “paura”. L’immagine cinematografica, che sin dalla sua nascita ha saputo suscitare insieme alla dimensione della fascinazione anche quella della paura, soprattutto nella sua variante horror contemporanea, cinematografica o seriale che sia, si presenta come uno degli spazi in cui prendono forma, in maniera concentrata, quelle paure dell’esistenza che caratterizzano i nostri tempi e che ritroviamo, ben oltre il genere horror (mai come ora genere ibrido), magari in forma meno diretta, un po’ in tutte le produzioni audiovisive contemporanee. Per certi versi gli audiovisivi sembrano essersi trasformati in testimoni dell’orrore contemporaneo tendenti a riflettere e mettere in scena l’esistenza sotto forma di paura.

Nell’introdurre il numero di «Fata Morgana» dedicato alla paura, gli autori sottolineano che da qualche tempo le sue forme, nell’impossibilità di individuare un oggetto concreto capace di suscitare paura, che dunque possa essere individuato ed affrontato, si sono indirizzate vero l’immateriale, l’invisibile e l’informe. «Una nuova forma di “paura assoluta” forse, la paura di un conflitto invisibile e allo stesso tempo diffuso, che rende insicuro e a rischio ogni gesto quotidiano come quello scatenato dal terrorismo contemporaneo, produce spesso l’immagine dell’assedio […] negli ultimi anni prolifera in modo esponenziale. L’assedio come una delle figure, delle immagini dell’esistenza. Il cinema lavora infatti da tempo sulla necessità di dare un’immagine allo spazio vuoto che il nemico occupa nello scenario attuale. L’immagine documentaria o l’immagine di finzione costruiscono, ognuna a suo modo, narrazioni della contemporaneità, nuove immagini del nemico forse, ma sempre più spesso, immagini della paura del nemico, della paura della sua irriconoscibilità».

Ci soffermeremo qua sul contributo di Massimiliano Coviello e Giacomo Tagliani, “Le intensità variabili del terrore: migranti e terroristi nel mediascape contemporaneo” («Fata Morgana», 38/2018), in cui viene messo in luce come nell’universo mediatico contemporaneo il sentimento della paura sembri ruotare attorno a due questioni: il terrorismo e l’immigrazione. Dall’analisi condotta dai due studiosi sulle rappresentazioni audiovisive dei media italiani, facendo riferimento in particolare al 2015, emerge come i due fenomeni, attorno ai quali si rimette in gioco il rapporto con l’alterità, siano stati affrontati dai media attraverso retoriche differenti pur riconducibili all’interno di campi discorsivi non troppo distanti.

Tanto la retorica della chiusura delle frontiere per sottrarsi all’invasione migrante, quanto quella della sicurezza preventiva per preservare il paese dalle minacce terroristiche, fanno leva, pur a livelli differenti, sulla paura di una minaccia incombente. Con riferimento al periodo esaminato gli autori indagano le modalità di creazione della paura che coinvolgono migranti e terroristi indicandole, in base al diverso grado di “intensità passionale” che le contraddistinguono, rispettivamente come “bassa” ed “alta”.

Se il cinema ha storicamente avuto a che fare con la messa in forma della paura, è interessante valutare il processo inverso: «ovvero come la produzione della paura abbia attinto e tuttora attinga dall’immaginario, dall’estetica e dalle retoriche cinematografiche per incrementare la propria efficacia discorsiva» (p. 114). Dunque, si chiedono Coviello e Tagliani, «Cosa accade invece nel momento in cui la trasmissione della paura e del terrore avvengono utilizzando esplicitamente gli strumenti del cinema, ricalcando i modelli consolidati di Hollywood, dal montaggio all’uso degli effetti speciali, dai paratesti al marketing, e dunque rivoltando le armi e gli strumenti del consenso contro chi li ha originariamente pensati?» (p. 115).
Ruggero Eugeni, ad esempio, nel suo saggio “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia” – in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) –, mostra alcuni esempi di come il terrorismo mediorientale abbia assorbito la cultura visuale occidentale e non esiti a ricorrere ad essa per potenziare il livello di terrore che intende esercitare.

Coviello e Tagliani approfondiscono le modalità con cui le immagini massmediatiche di migranti e terroristi contribuiscano a rafforzare paura e terrore non di rado attingendo da un’iconografia del contagio e da un immaginario epidemiologico costruito sulle figure dello zombie e del clone.
Da ormai diverso tempo gli zombie vengono presentati dalle produzioni audiovisive come una massa indistinta, feroce ed in continua crescita, che invade gli spazi cittadini a caccia di prede, mentre la figura del clone compare in diverse varianti che vanno dai replicanti agli ibridamenti tra essere umano e parassita alieno. Zombie e cloni, nella loro potenziale riproducibilità infinita, rappresentano, sostengono i due studiosi, «il perfetto personaggio distopico dell’era della riproducibilità genomica».

Visto che parallelismo tra le immagini del terrore e la loro diffusione virale e tra l’insediarsi dei terroristi all’interno del corpo sociale e la clonazione è già stato efficacemente proposto da William J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La Casa Usher, 2012), Coviello e Tagliani preferiscono concentrarsi sul parallelismo tra zombie e migranti.

L’anno 2015 si rivela importante per lo sviluppo della percezione dei migranti e dei terroristi per alcuni eventi in particolare: l’attraversamento dei confini europei di migliaia di profughi iniziato il 4 settembre a Budapest e gli attentati che hanno colpito Parigi, soprattutto il 13 novembre al Bataclan. Secondo i due studiosi tanto la marcia dei migranti, quanto gli attentati parigini si sono rivelati particolarmente eclatanti, oltre che per la loro portata storica, anche perché «si sono innestati […] su delle configurazioni visive ampiamente riconoscibili, incrinandone al contempo lo stato di normalità e serialità e i conseguenti effetti di assuefazione e anestetizzazione sugli spettatori» (p. 119).

Al fine di comprendere tale dinamica, nel saggio vengono ricostruiti i tratti salienti che si sono sedimentati nell’immaginario collettivo analizzando alcune immagini ricorrenti nei media italiani in cui i due eventi risultano rappresentati distintamente con specifiche modalità iconografiche e ciò risulta particolarmente evidente  se si mettono a confronto due servizi giornalistici trasmessi da canali Mediaset, «TgCom24» e «Tg5», a distanza di un solo giorno uno dall’altro.

Nel servizio del 16/02/15 di «TgCom24» viene trasmesso un video diffuso da Daesh contenente le immagini della decapitazione di cattolici egiziani sulle coste libiche, in cui il commento giornalistico (con voce fuori campo) sottolinea come sembrino accorciarsi tanto le distanze fisiche, quanto culturali (il ricorso alla lingua inglese) tra “noi” e “loro”. Evitando di mostrare esplicitamente le decapitazioni il servizio si chiude «con l’immagine del mare tinto di rosso: l’inizio del contagio (il sangue degli infedeli che arriverà sino alle coste europee) si unisce all’imminenza dell’attacco trasmessa dalla frontalità della minaccia» (p. 120).

Il servizio del «Tg5» del 17/02/15 mostra, invece, una colonna di migranti, di cui non si vede né l’inizio né la fine, incamminata verso una direzione indefinita. «La ripresa da dietro e in lontananza rassicura lo spettatore, ponendolo a una distanza debita dalla marcia». Alle immagini che mostrano un incedere apparentemente casuale di tale massa umana, succedono quelle di una tendopoli, forma instabile dell’abitare per eccellenza. «Il messaggio implicito viene designato principalmente dal reticolato di rimandi e allusioni che emerge dalla dimensione visiva e sonora: l’accenno ad un numero esorbitante di sbarchi verso le coste italiane si sovrappone all’immagine finale di un barcone ripreso dall’alto sovraffollato da migranti, elemento ricorrente nell’iconografia delle migrazioni» (p. 120). Tale servizio si inserisce all’interno di un immaginario diffuso ormai convinto di trovarsi di fronte ad un fenomeno che, giorno dopo giorno, erode la stabilità socio-economica occidentale con la sua forza trasformatrice continua seppure a bassa intensità.

Nonostante di tanto in tanto l’analogia tra migranti e terroristi faccia capolino nella retorica dei media e dei politici, in generale le rispettive rappresentazioni restano differenziate, pur contribuendo a dar ad un insieme omogeneo. «La polarità vita-morte è la potente cornice semantica entro la quale entrambi i fenomeni vengono inscritti, benché posti sugli estremi opposti dello spettro. La bassa intensità del terrore migrante corrisponde anzitutto a una edulcorazione dei toni cruenti per garantire la massima capacità di circolazione del discorso (che consiste principalmente nello scongiurare l’accusa di razzismo) e al contempo la massima potenza “terrorifica” (evidenziare la minaccia per la condizione attuale degli “ospitanti”)» (p. 121). Sovrapponendosi alla figura dello zombie, sostengono gli studiosi, il migrante si presenta come «non-(ancora) morto, alternativamente vittima da compatire o elemento infetto da non toccare. Un umano troppo umano che condensa sul proprio corpo i due poli antitetici che circoscrivono la condizione biologica del vivente» (p. 121).

Se lo zombie-migrante, nel suo suscitare terrore a bassa intensità, minaccia di contagiare il corpo sociale occidentale, il terrorista-clone, con il suo produrre terrore ad alta intensità, minaccia la negazione dell’umanità, la sua distruzione. «Privato di qualsiasi tratto umano, il terrorista è dunque un clone, un replicante senza soggettività alcuna, contro il quale è lecito scagliarsi preventivamente. Se il migrante era come noi, il terrorista non lo è mai stato: alle sue spalle non c’è una storia altra, ma solo una conferma di una progettualità tanatopolitica. Il terrore di cui si fa portatore è evidente e non c’è ragione di celarlo: se il migrante tiene la morte con sé senza mai lasciarla, il terrorista non aspetta altro che donarla al prossimo. Terroristi e migranti si fanno dunque portatori di una dialettica tra vita e morte opposta, che permette loro di mantenere inalterate le proprie peculiarità per continuare ad essere strumento propagatore – agente patogeno attivo o passivo – di terrore» (p. 121).

Su tale categorizzazione generale vanno dunque ad innestarsi i tratti specifici delle rispettive iconografie. Il terrore a bassa intensità incarnato dai migranti si struttura sull’immagine della moltitudine, quello ad alta intensità incarnato dal terrorista tende alla singolarità. Se il migrante esiste soltanto nell’anonimato di gruppo (la massa-zombie), il terrorista sfodera la sua potenza dirompente nell’imprevedibilità del gesto isolato che necessita però di dotarsi di un’immagine riconoscibile nella rivendicazione.
Ed ancora, se «il terrorismo è identitario in quanto i suoi esponenti sono sempre più indistinguibili dal corpo sociale che intendono aggredire, l’immigrazione è costitutivamente sotto il segno dell’alterità. Possiamo scorgere inoltre una seconda linea identitaria questa volta interna al fenomeno terroristico stesso, nei termini di un esercito di replicanti tutti uguali fra loro; al contrario, la massa informe e indistinta che governa la rappresentazione del viaggio del migrante si scioglie in una diversificazione interna per quanto concerne l’immigrato. Il migrante non è portatore di confusione circa la sua natura, che rimane necessariamente altra rispetto alla comunità nella quale intende inserirsi; l’incubo peggiore per quanto riguarda il terrorista, invece, è la sua capacità di replicarsi all’interno del tessuto sociale che intende colpire» (p. 122).

Nelle immagini mediatiche, sottolineano Coviello e Tagliani, il terrorista ci guarda negli occhi mentre il migrante procede indifferente al nostro sguardo. «L’interpellazione implica dunque un obiettivo e un progetto sottesi all’azione, l’oggettiva invece una casualità senza scopo e una messa a distanza utile a rassicurare lo spettatore che vuole immedesimarsi nel punto di vista che inquadra la scena» (p. 123).

È sul suolo libico, luogo di partenza dei viaggi ed al contempo avamposto di Daesh vicino al suolo italiano, e proprio durante il 2015 che le categorie dei migranti e dei terroristi hanno iniziato a vedere sovrapposte le rispettive configurazioni iconografiche e con esse i due livelli di intensità del terrore negli occidentali, dando luogo ad una sorta di intensità mista, come accade in un servizio del «Tg2» del 15/05/15 in cui sia la voce narrante che le immagini palesano il rischio della presenza di terroristi tra la folla in attesa di provare a raggiungere le coste italiane. La folla migrante viene mostrata non di spalle, come avviene di solito, ma frontale e mentre si dice del rischio di presenze terroristiche lo sguardo della telecamera si fissa sul volto di una donna indossante un burka. «Il cambio di prospettiva dal generale al particolare introduce così la sovrapposizione tra la figura del migrante – privo di identità e forte solo della presenza numerica – e quella del terrorista, resa efficace dalla ricerca da parte dell’obiettivo del dettaglio all’interno di una pluralità apparentemente omogenea » (p. 125).

Ad evitare la sovrapposizione terrorista/migrante, sostengono gli autori, hanno concorso gli eventi. «La marcia dei migranti e gli attentati parigini hanno infatti originato effetti passionali opposti, ribaltando paradossalmente la percezione del pericolo proveniente dall’esterno e dall’interno. Così, i profughi in marcia attraverso l’Europa hanno stabilito un principio di soggettivazione svincolandosi dalla rappresentazione di massa priva di volontà e progetto, costringendo i media a posizionarsi diversamente» (p. 126). I giornalisti sono stati costretti a mostrare la marcia frontalmente e ad altezza d’uomo, conferendo ai partecipanti l’immagine che nell’immaginario collettivo richiama l’avanzare delle masse proletarie ottocentesche. Quell’attraversamento europeo ha, perlomeno per qualche tempo, riscritto l’immagine migrante dimostrando come questa sia comunque sottoposta a negoziazione.

Nonostante non manchino esempi di ricorso a terrore ad intensità media in cui si sovrappongono migranti e terroristi, secondo Coviello e Tagliani, in generale se i migranti-zombie, continuano ad essere mostrati come massa indistinta di esseri privi di identità e di parola, i terroristi-cloni sono invece presentati come “esseri di slogan”, dunque dotati di una soggettività replicabile e trasmissibile.


Serie completa di “Nemico (e) immaginario

 

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Un’umanità che resiste https://www.carmillaonline.com/2019/01/11/unumanita-che-resiste/ Thu, 10 Jan 2019 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50524 di Paolo Lago

Ai margini di una grande città, un porto della Francia del Nord, c’è un’umanità che resiste. Siamo in un quartiere povero e i rapporti umani fra le persone sono ancora veri, reali, genuini. I protagonisti di questa vicenda sono Marcel Marx, un ex scrittore bohémien che fa il lustrascarpe alla stazione, sua moglie Arletty, la fornaia, la fruttivendola, la barista. Essi trascorrono una vita semplice, povera, perduta nel ripetersi sempre uguale dei giorni fra difficoltà quotidiane. Ma questa ripetitività è toccata da una forma di magia che avvolge di grazia [...]]]> di Paolo Lago

Ai margini di una grande città, un porto della Francia del Nord, c’è un’umanità che resiste. Siamo in un quartiere povero e i rapporti umani fra le persone sono ancora veri, reali, genuini. I protagonisti di questa vicenda sono Marcel Marx, un ex scrittore bohémien che fa il lustrascarpe alla stazione, sua moglie Arletty, la fornaia, la fruttivendola, la barista. Essi trascorrono una vita semplice, povera, perduta nel ripetersi sempre uguale dei giorni fra difficoltà quotidiane. Ma questa ripetitività è toccata da una forma di magia che avvolge di grazia irreale i duri problemi della vita di tutti i giorni. Un delicato affresco di questa umanità varia e resistente è tratteggiato, con tenui pennellate poetiche, in Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki, un film di qualche anno fa ma che risulta essere oggi molto attuale perché affronta in modo netto e rigoroso la problematica delle migrazioni. Il personaggio principale della storia, Marcel Marx (il cui nome, probabilmente, non è stato scelto a caso dal regista) si imbatte casualmente in Idrissa, un bambino africano ricercato perché si tratta di un immigrato illegale, sfuggito a una retata della polizia. Senza pensarci due volte, il lustrascarpe nasconde il bambino a casa sua e si dà da fare, spendendo anche i suoi ultimi risparmi, per aiutarlo. Idrissa, infatti, si era imbarcato illegalmente ed era stato nascosto dentro un container insieme ad altri migranti (famiglie e donne incinte) perché voleva raggiungere la madre a Londra. Scoperto nel porto di Le Havre, riesce a sfuggire alla polizia e a nascondersi. Insomma, nella Le Havre del film c’è una città ‘normale’, un reticolo geometrico di strade eleganti e palazzi, contornati dal lusso e dalla tecnologia e c’è una città ‘magica’, irreale, quasi un pazzo fumetto scaturito dalla fantasia di un sognante disegnatore. A completare il quadro di questo universo magico c’è il commissario Monet (anch’egli con un nome quasi ‘parlante’) che potrebbe in apparenza sembrare un rigido funzionario di polizia, grave e serioso, ma in realtà la pensa esattamente come Marcel e come gli abitanti del quartiere. Sarà lui, infatti, a permettere, alla fine, la fuga di Idrissa, mentendo ai suoi colleghi poliziotti. Nel mondo poetico tratteggiato dal film, Monet è un altro elemento resistente, il sabotatore delle griglie del controllo inserito all’interno dell’apparato di potere.

Idrissa è subito accolto e aiutato dai vari personaggi del quartiere che creano intorno a lui una vera e propria rete di solidarietà attiva. Mentre Marcel è impegnato a aiutare il bambino, sua moglie Arletty si ammala di una malattia incurabile e viene ricoverata in ospedale. Marcel Marx, allora, sarà occupato, un po’ come il suo omonimo più famoso, da una parte nel cercare di far valere i diritti degli ultimi, i migranti, nella sua volontà di aiutare il bambino, dall’altra, invece, nelle strazianti manifestazioni d’amore per la propria compagna, ammalata e prossima alla morte. Grazie ai contatti messi in moto da Marcel e al denaro da lui speso, Idrissa riesce a comunicare con suo zio e, alla fine, a imbarcarsi per raggiungere la madre. Dopo che il sistema di solidarietà attiva ha funzionato nel migliore dei modi, il commissario Monet scopre il bambino sul peschereccio e, contro ogni aspettativa degli spettatori, comunica agli altri poliziotti di aver già effettuato la perquisizione e di non aver trovato nessuno. Così Idrissa potrà partire e Monet e Marcel se ne andranno insieme al bar, a bere come vecchi amici. Sembra un miracolo, non c’è che dire, ma non è tutto. Arletty, dopo una nuova visita da parte dei medici, è inspiegabilmente guarita e viene riportata a casa da Marcel e, in conclusione del film, come un miracolo nel miracolo nel miracolo, il ciliegio del giardino fiorisce.

Probabilmente non c’è niente di miracoloso: l’unico miracolo è la volontà umana, l’aver messo in atto un sistema di solidarietà resistente contro le dinamiche del potere e delle leggi disumane. Non c’è niente di miracoloso nel quartiere di Le Havre dove vivono i personaggi, non c’è niente di miracoloso nell’aiuto reciproco e, infine, non c’è niente di miracoloso nei ‘sabotaggi’ di Monet. Tutto avviene come una normalità, come se fosse semplicemente giusto così. Perché, a pensarci bene, tutto ciò che è deciso dal potere, oggi, in Europa e in Italia, in fatto di migrazione, va contro i più elementari e ovvi diritti umani. Basti solo pensare alle navi umanitarie, cariche di esseri umani bisognosi di cure mediche, abbandonate in balia delle onde, che vengono rifiutate dai porti europei come le rinascimentali “navi dei folli”, barconi carichi di malati mentali abbandonati al mare e ai fiumi da una società che temeva la follia e la voleva segregare. Ciò che viene negato, come in una grande dittatura globale, è il diritto alla migrazione dei popoli, migrazione che c’è sempre stata e che fa biologicamente parte della specie umana e, oggi più che mai, dell’assetto geo-politico mondiale. Come afferma Emmanuel Mbolela, autore del libro Rifugiato. Un’Odissea africana, tradotto recentemente da Agenzia X, in un’intervista a Marc Tibaldi pubblicata su Carmilla, viene privato il diritto alla libertà di migrare, di spostarsi, di creare nuovi flussi e congiunture umanitarie.

Nel film di Kaurismäki, l’accendersi di questo spirito di solidarietà crea un mondo ‘magico’ e sublimato, in cui i personaggi si muovono, appunto, come nel “realismo magico” di Carné e Prevert. Quello attraversato da Marcel e dagli altri personaggi è un mondo parallelo a quello irreggimentato del centro cittadino moderno e tecnologico, un universo dove ci si sposta su vecchie, incantate automobili e corriere, e dove nei bar si può ancora ritrovare amicizia e sincerità. Si tratta di un mondo, del resto, che si ritrova anche in altri film del regista finlandese: si può ricordare Ho affittato un killer (I hired a Contract Killer, 1990) o Leningrad Cowboys Go America (1989) in cui, contro l’ostilità del mondo esterno, cruda e razionale, si crea una irrazionale, inspiegabile e magica solidarietà fra diverse solitudini, abbandonate a se stesse.

Si tratta di un universo simbolico riproducibile e ricreabile anche ai giorni nostri, con i più svariati mezzi, contro la meccanica della sorveglianza e della cattura, contro la disumanizzazione in favore di una legalità fascistoide sbandierata da vuoti simulacri di potere. E, questo potere, nel film sembra simbolicamente rappresentato dal poliziotto che, in nome delle leggi anti-immigrazione, vorrebbe sparare a Idrissa mentre fugge dal container, prontamente bloccato da Monet (“ma sei pazzo? È solo un bambino…”). Sembra che gli apparati di potere, oggi, come quel poliziotto, abbiano dimenticato l’umanità in nome di una meccanizzazione e disumanizzazione derivata dalla legge e dall’ordine, nonché dalla paura (il bambino fuggitivo, infatti, nei giornali dell’altra Le Havre, quella irreggimentata nell’ordine, viene descritto come un pericoloso terrorista armato): sparare a un bambino migrante che vuole raggiungere la madre, chiudere i porti e rifiutare tanti esseri umani in pericolo di vita, abbandonandoli al mare e alle burrasche. Ma forse, anche oggi, l’insegnamento del resistente lustrascarpe Marcel Marx può avere un valore enorme. Perciò, umanità resistenti di tutto il mondo, unitevi.

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