Midwest – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 80 https://www.carmillaonline.com/2018/04/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-80/ Sun, 15 Apr 2018 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45048 di Dziga Cacace

C’è de’ bei pezzi di harne dentro!

935 – Lo sconcertante Alex, l’ariete di Damiano Damiani, Italia 2000 “Senza parole” è un abusato modo di dire e figuratevi se un logorroico come me possa rimanere realmente senza parole. Ma è accaduto. Giuro. Perché ho assistito a qualcosa di ineffabile, che sfugge all’espressione verbale. Di fronte al foglio elettronico il mio cervello s’è comportato come un opossum che si finge morto: è crollato di lato e non ha più dato segni di vita. Cosa si può scrivere di un film [...]]]> di Dziga Cacace

C’è de’ bei pezzi di harne dentro!

935 – Lo sconcertante Alex, l’ariete di Damiano Damiani, Italia 2000
“Senza parole” è un abusato modo di dire e figuratevi se un logorroico come me possa rimanere realmente senza parole. Ma è accaduto. Giuro. Perché ho assistito a qualcosa di ineffabile, che sfugge all’espressione verbale. Di fronte al foglio elettronico il mio cervello s’è comportato come un opossum che si finge morto: è crollato di lato e non ha più dato segni di vita. Cosa si può scrivere di un film che sembra rinunciare programmaticamente alla dignità? Allora procedo con una fredda elencazione dei fatti: si parte con la giovane Michelle Hunzinker (sic, nei titoli di testa) che inorridita raccoglie un coltello insanguinato. È stata testimone di un assassinio e fugge col coltello tra le mani, il Nobel. Un giornalista televisivo in preda ad anacoluti (immagino per adesione realistica) consegna all’opinione pubblica la certezza che lei sia colpevole (di nuovo per amor di verità, se uno ricorda il Bruno Vespa vintage e tanti colleghi che sono seguiti). Lei fugge in macchina, i cattivi la incrociano su una strada di campagna e la cacciano giù da un dirupo. Esplosione e miracolo del buon pastore coi pecuri che la raccoglie. Poi conosciamo il personaggio di Alberto Tomba, Alex, agente del CIS: Albertone è attorialmente cane con pedigree stratosferico e mettiamoci anche anni di prese per il culo della Gialappa’s Band e di dichiarazioni insensate ai cronisti sportivi ed è fatta: la credibilità è nulla e la sensazione è di vedere uno Z Movie, tanto più che la regia alterna mestiere a vaccate imbarazzanti, zoomate missilistiche e altri attori senza senso (Ramona Badescu, porella).
E poi i dialoghi, con il sedicente infelice attore costretto a recitare (…) alla fidanzata versi seduttivi come “Giuro che stasera sono lì a stropicciarti le piume”. Ci mettiamo mezz’ora per arrivare al cuore della vicenda: Alex deve accompagnare la Hunziker, sospettata, a incontrare il giudice, ma lo mandano da solo. Uhm, sospetto! Fughe, scontri degni di una lite tra alunni ripetenti di terza elementare e il rapporto tra carabiniere e protetta che cresce con una profondità emotiva degna di un episodio di Peppa Pig. La coppia regala alla grande e devo dire che ho cominciato a tenere per loro, perché i delinquenti ai quali sfuggire non sono i tizi perversi che vogliono far secca lei, no, lo sono i produttori di questa incommensurabile vaccata. Che posso pure immaginare l’imbarazzo quando avranno visto per la prima volta il risultato della dissennata operazione: doveva essere una fiction Mediaset, poi s’è deciso per un’uscita estiva, nascosta, sinché il passaggio televisivo ha sancito la natura stracult della porcata in questione. Si arriva stancamente fino al finale e io metto da parte dialoghi stralunati come: “Mi hai fatto puntare la pistola contro una suora!” (e cosa volevi? Toccarti i coglioni?); oppure: “Mi devi rintracciare una targa: ti faccio lo spelling” (lo spelling?). Tomba è un patatone con l’espressività propria di chi aspetta un’autopsia e la Hunziker al confronto sembra Meryl Streep e l’apice si raggiunge quando i due, ammanettati, devono procedere a una pisciata boschiva. Uno pensa possa bastare la trafila di castronerie sinché non irrompe nella trama anche il vero cattivo, Orso Maria Guerrini, il baffo della Birra Moretti!, con una voce bassissima da vero attore di teatro, ma capitato in una recita dell’asilo. Insomma: fa tutto schifo e tenerezza e ho assistito a incontri di rubamazzo con più azione. Il finale è una specie di parodia di Ufficiale e gentiluomo e la parole FINE è l’unico momento riuscito di un film firmato da quel Damiano Damiani già glorioso regista di cinema impegnato. Che poi uno dice l’impegno… ma lo vedi i danni che fa? (Dvd; 6/6/12)

936 – Rocky III di Sylvester Stallone, USA 1982
L’idea era goderselo oscenamente con l’avanzamento veloce, scegliendo le scene migliori e tagliando la fuffa, ma non c’è stato niente da fare: i film di Rocky sono ineludibili, costruiti con una sapienza spettacolare infallibile, con tutti i meccanismi del Mito che girano a mille. E mi sono arreso praticamente subito: Rocky è uomo della strada, ignorante, rozzo, ma con un sogno, un pizzico di talento, forza di volontà e una squadra di amici e familiari che lotta per lo stesso obiettivo. Il problema è quando si è raggiunto il top della carriera: soldi, successo e lusinghe ottenebrano il già non lucidissimo fronte occipitale del pugile che guadagna sempre più, si allena di meno e diventa un po’ borghese, perdendo l’occhio della tigre. La noia, insomma, esistenziale e pure a livello di coppia, anche perché Adriana è appetitosa come un passato di verdure. Mettiamoci che l’entourage è completato da quel buzzurro di suo fratello Paulie, pseudo manager, e dall’allenatore Mickey, con l’apparecchio acustico e pronto per la fossa. Un incontro di wrestling con Hulk Hogan (!) rischia di finire male e il Balboa e i suoi si guardano negli occhi: hanno tutti la panza piena e lui è stufo di pigliare legnate come un somaro. Ma al momento dell’annuncio del ritiro davanti a una statua celebrativa si fa avanti Clubber Lang (Mr.T, quello dell’A-Team), lingua lunga, cresta e bicipite potente. Sfida Rocky e lo intorta insultandogli la moglie, tranello in cui lui casca come un tontolone. Come da manuale di sceneggiatura (di film un po’ di merda, in effetti) si riparte, solo che Rocky si allena davanti alla stampa con l’orchestra che suona e annesse manifestazioni circensi mentre l’altro, il negro cattivo che parla a mitraglietta, suda sette camicie al riparo dai flash. E quando si arriva all’incontro Clubber tira uno spintone al vecchio Mickey: Rocky non vuole combattere perché ne è turbato, stellassa, e il suo avversario ha messo nell’equazione – di nuovo, come con Adriana – qualcosa di estraneo allo sport. E non solo: prima del match Mr.T trova il modo di insultare anche l’elegante Apollo Creed, nero ripulito e commentatore tivù, cioè per lo spettatore medio negro accettabile. E a metà secondo round Rocky è già knock out, mentre il vecchiaccio sta morendo, cosa che farà puntualmente credendo che il suo protetto abbia vinto. Bene, siamo al punto di non ritorno: Balboa, sconfitto, si deve confrontare col suo monumento, metaforicamente e realmente, risultando in effetti meno espressivo del bronzeo gemello, eretto in cima a quella famosa scalinata. E come si fa? Apollo Creed vuole riportarlo sul ring, stavolta ci si allena the old way, in cantine puzzolenti, correndo sulla spiaggia, danzando sul cemento, al suono supercafone dei Survivor. Poi c’è il momento di crisi ed è Adriana che dà la svegliata e allora riparte il tema di Rocky, evvai di allenamenti, corse, sudore, danze, con Apollo che passa un po’ di negritudine e senso del ritmo a questa specie di blocco di travertino che esibisce una canotta veramente gayissima. Aggiungo che Apollo gli regala i suoi mutandoni: del resto, tra particolari dei muscoli guizzanti, abbracci intensi e praticamente nessun accenno etero, qui la bromance si trasforma in un amore omo che verrà spezzato solo da Ivan Drago, eh. Si arriva al match e Rocky adotta la strategia di Muhammad Ali in Zaire e fa stancare Clubber Lang che lo pesta come un mastro ferraio ed è provocato da parole grosse come “Mia madre me le dava più forte!”.
È una tattica curiosa, un po’ come pigliare a testate un muro e chiedergli: “Sei stanco, adesso?”. E quello lì a un certo punto è stanco sì e a Rocky torna l’eye of the tiger e lo tarella di brutto e vince. Yo, Adrian! I did it! E poi, a concludere la vera storia d’amore del film – a questo punto rivoluzionario perlomeno dal punto di vista sessuale – Rocky e Apollo sono a darsele di santa ragione in cantina, quindi di nascosto perché non è ancora epoca di coming out, ma sudati, felici e vivi. E io cosa posso dire? Che mi aspettavo anche peggio, perché la regia è ottusa ma essenziale, asinina con i primi piani insistiti ma anche movimentata quando la tensione lo esige, e in generale montaggio e recitazione sono inappuntabili. Okay, e Stallone? Ma Stallone non deve recitare bene, perché Rocky è così, un babbo di minchia, bloccato neuronalmente: gli devi leggere negli occhi la decrittazione del pensiero, devi abbassarlo al nostro livello di spettatore del Midwest, se no non funziona! E detto questo, c’è ritmo, drammaturgia e qualche (forse inconscio) spunto per una lettura erotica interessante. E poi, cosa posso dire? Io ormai voglio bene a tutti i film: brutti, belli, scarrafoni… il mio cuore ha più stanze di un bordello (cit.). Sarà l’età, il rincoglionimento, la malinconia, la depressione – che ne so! – ma di fronte a un film (un filmaccio) degli anni Ottanta, ritrovo quell’atmosfera, quel tempo, quelle sensazioni. Sto scrivendo un romanzo ambientato nel 1986 e rimpiango quel mondo senza telefoni, internet e social: cerco quel sapore come un cefalo merdaiolo perché in fondo quello è il cinema con cui sono cresciuto, che mi ha formato, informato, deformato e in cui mi ritrovo. Ora forse questo è il film sbagliato da prendere a esempio, perché è di una semplicità imbarazzante, ma oggi ricerco la linearità narrativa quasi elementare di certo cinema del passato e non sopporto più la ricchezza odierna, dove forma, effetti e innovazione nascondono il narrato, quasi lo soffocano. Certo, la mancanza di tempo e quella faccenda di una volpe con l’uva devono avere il loro peso, ma è così e non so che farci. (Dvd; 3/6/12)

938 – L’eccezionale Fawlty Towers di John Howard Davies, Gran Bretagna 1975
Ne avevo un pallido ricordo di quando ero a Londra, nel 1988, e avevo assistito con religiosa devozione a un’ennesima replica sulla BBC. John Cleese, lo spilungone dei Monty Python, è Basil Fawlty, un ambizioso quanto megalomane – e instabile mentalmente – direttore d’albergo: deve gestire le 22 stanze della umile pensioncina di grandi pretese Fawlty Towers, sulle costi inglesi, in un posto freddo, umido e dove non passa mai un cane. Lo affianca la stolida moglie Sybil, il cameriere pasticcione Manuel (uno spagnolo che non parla inglese) e Polly, una giovane cameriera sveglia. In 6 episodi da mezz’ora Cleese e compagnia disintegrano con ferocia inarrestabile e in un’isteria sublime tutte le vecchie buone maniere inglesi: un Little Britain anni Settanta acre e assolutamente irresistibile. La serie purtroppo brevissima si conclude con un finale grandioso, con la commozione cerebrale del personaggio principale e gaffe a ripetizione con degli ospiti tedeschi, a cui si ricordano tutte le malefatte della Seconda Guerra Mondiale, qualcosa che oggi – in epoca di correttezza politica – si farebbe fatica non solo a mettere in scena ma anche a concepire, con una censura preventiva su tutto quanto sia nazismo. La seconda serie (di Bob Spiers, 1979) l’abbiamo vista in tempi lunghissimi ed è meno riuscita, esasperata ma senza finezze, con vicende che nascono da equivoci verbali e si trascinano fino a che non va puntualmente tutto in vacca. Meno brillante, insomma, ma il tutto è una boccata d’aria fresca e di gas esilarante che si può recuperare grazie alla generosità della Rete. Approfittatene! (Giugno e luglio 2012)

940 – Mani sulle palle per The Day After di Nicholas Meyer, USA 1983
Questo l’ho visto al cinema Orfeo di Genova nel febbraio 1984, in via XX Settembre, sala che ormai da chissà quanto tempo ha chiuso… Era un film televisivo che aveva fatto parlare tutto il mondo ed era andato in onda dopo l’abbattimento di un aereo di linea sudcoreano da parte dei sovietici e, due mesi dopo, l’invasione USA di Grenada. Tutte cose che nell’equilibrio del terrore erano sollecitazioni per nulla tranquillizzanti; il mondo era diviso in due e anche se ti dicevi che non sarebbe mai successo nulla, ogni tanto ti si stringeva il culo solo a pensarci: e se uno si sbaglia e schiaccia il pulsante sbagliato? E se uno perde la testa? E soprattutto: oggi, quella marea di missili dove sono finiti? Io non ci credo mica che abbiano smantellato tutto, figurati, e non dormo all’idea che Putin abbia in mano questo arsenale. O che l’abbia avuto quello scemo di Bush. No, scusate: quegli scemi dei Bush. Vabbeh: per cui The Day After è un pezzo di storia che non sappiamo realmente se non possa tornare attuale. Il film è decisamente iettatorio, ossessivo, lugubre e rozzamente efficace. La fotografia bruttina, gli effetti così cosà (tremendi quelli con le persone che diventano radiografie!) e la musica orrendissima accompagnano una narrazione opportunamente frammentata in tante microstorie: i destini individuali di alcuni bifolchi di Lawrence, Kansas, che si trovano a vivere presso una base missilistica, ovvio obiettivo sensibile. Il fatto è che in DDR c’è casino, rivolte, scaramucce nei pressi del Muro e poi scontri tra truppe della NATO e del Patto di Varsavia. Finisce che a qualcuno – non è chiaro a chi per primo – scappi la mano e comincino a volare missili e al 55° minuto di proiezione Kansas City e dintorni conoscono gli effetti della tecnologia sovietica quando tre piccanti funghetti nucleari si alzano nel cielo. C’è la coppietta di contadinotti con figli che si fa una (ultima) trombatina incurante delle notizie che arrivano dal televisore, prima di essere tutti spazzati dal vento nucleare. C’è il soldato nero che vuole tornare dalla moglie ma strada facendo perde i pezzi e finisce in una fossa comune. E poi c’è il medico di buona famiglia (Jason Robards) che si danna invano per portare cure a tutti, fino a soccombere. Insomma: non c’è un cazzo di lieta fine e il giorno dopo è quello che viene a film concluso, con la terra rasa al suolo. Il film è angosciante ma decisamente antiretorico ed è girato in modo asciutto, con un percorso agonico senza speranza (e in realtà abbastanza ottimistico, secondo gli esperti). Però, al di là della confezione televisiva cheap, l’organizzazione del racconto non è male: la crescita del timore, il sentirsi totalmente succubi, senza difese, senza futuro, senza speranze, senza notizie. Nel tempo è diventato un film da considerarsi brutto, ma invece ha una sua forza di verità e dice cose sgradevoli a tutto campo (le esecuzioni degli sciacalli, l’egoismo e la violenza che esplodono di fronte alla tragedia). Reagan ne fu impressionato, anima sensibile. (Dvd; 3/6/12)

941 – Coraggio… fatti ammazzare di Clint Eastwood, USA 1983
Ravanando negli archivi della memoria e nei meandri della Rete mi ricapita tra le mani questo Callaghan reaganiano di cui avevo vaghi ricordi, se non per la famosa frase “Go ahead, make my day”, cioè “Va’ avanti, dà un senso alla mia giornata”. E decido di dargli retta, ritrovando un film rozzo come il suo protagonista ma efficace e divertente nella sua semplicistica bruttezza. Sì, perché la trama è perlomeno discutibile nella sua implausibilità e la messa in scena talvolta stupisce per sciatteria, però… Dunque, io con Clint ho un rapporto difficile: lo amo per i film di Leone, per Bird, per Madison County, per il magnifico e delirante Lo straniero senza nome e anche perché gli hanno cioncato una gamba ne La notte brava del Soldato Jonathan, ma di fronte a certe prese di posizione politiche che in qualche modo finiscono nei suoi film più sbirreschi, boh, vacillo. Diciamo che qui siamo – nell’arco parlamentare del suo operato cinematografico – molto a destra. Callaghan lo conosciamo già e qualunque cosa faccia, ci sono dei morti (come gli dirà un collega: “La gente quando ti frequenta ha il brutto vizio di morire”). Qui Harry ha 53 anni, è taciturno e parla solo per cavernose sentenze che più scritte non si può (in effetti tutte abbastanza memorabili), tiene le braccia pendule come il gorilla di Filo da torcere e con questa pellicola – di enorme successo – Clint incassò una barcata di dollaroni. Il film inizia, il protagonista va a prendersi il caffè e fa secchi tre rapinatori su quattro che hanno la sfiga di aver scelto quel diner lì da rapinare. Poi va a bluffare da un boss mafioso e lo fa schiattare d’infarto. I superiori gli dicono di darsi una calmata e lui decide di fare serata tranquilla sennonché i mafiosi provano a vendicarsi ma gli dice male e ne fa secchi altri tre. La sera dopo è un trio di stronzetti (tra cui uno mandato libero da una giudice troppo cavillosa) che prova ad arrostirlo con due molotov, ma lui gliene rende con estrema cortesia una e l’ameno trio finisce nella baia di San Francisco. Oh, ne fa secchi a mazzi di tre per volta: siamo al 43° minuto e ne ha già seppelliti dieci. Intanto una donna dalla memoria dolorosa (Sondra Locke, allora moglie di Clint e affascinante e disinvolta come un manichino) va vendicandosi della ghenga che dieci anni prima ha violentato lei e la sorella. Incrocia Callaghan nella cittadina (immaginaria) di San Paulo dove i superiori l’hanno mandato e da uno sguardo i due si intendono subito. Non sto a dirvi come va a finire perché c’è uno sviluppo ulteriormente violento e delirante che può dare qualche soddisfazione, specialmente con la scena finale che si conclude in groppa a un unicorno (…). Sappiate solo che Clint, con gli occhi spiritati e un virilissimo pistolone, perderà progressivamente la pazienza, specie dopo che gli hanno sgozzato l’amico nero e azzoppato il cane (scoreggione, giuro). (Dvd; 4/6/12)
P.s. del 2018: tre mesi dopo questa mia visione Eastwood si era surrealmente rivolto a una sedia vuota alla convention repubblicana, perculando Barack Obama e sostenendo Mitt Romney. Due anni fa ha ammesso una sorta di pentimento per il gesto, salvo poi informarci che lui, piuttosto che Hillary presidentessa, sosteneva Trump. Ecco.

943 – Il delirante Fantastica Moana di Riccardo Schicchi, Italia 1987
Moana Pozzi: l’angelo, la puttana, la santa, boh. E chi lo sa chi era, realmente? Specie dopo i misteri della morte e la beatificazione come perfetta icona cult. Io ricordo più l’imitazione di Sabina Guzzanti che le sue apparizioni tivù o le interpretazioni cinematografiche. Per cui, da vero studioso, mi procuro il film in pellicola che la lanciò, diretto dal visionario Riccardo Schicchi. Fantastica Moana è – a scanso di equivoci – una micidiale schifezza che fa quasi tenerezza per il tentativo, impossibilitato dalla mancanza di mezzi intellettuali e materiali, di costruire una fantasia erotica con uno sviluppo narrativo coerente. Anzi, se vogliamo, è un porno sbagliato, di cui si potrebbe sentenziare TROPPA TRAMA, perché la vicenda vede un ossessionato erotomane, Gabriel Pontello (già protagonista di fotoromanzi hard e idolo della generazione precedente la mia), che è ossessionato da Moana e s’ingroppa qualunque femmina gli si pari davanti – anche violentemente -, sognando di possedere la steatopigia pornodiva platinée. Il racconto è ambientato in un borgo che puzza di povertà, con esterni rurali squallidissimi e scene urbane che ci rimandano a un’Italia provinciale anni Ottanta imbarazzante. Lui ha una faccia da scemo rara ed è peloso come un orsetto. Lei è altera e bellissima e per qualche misteriosa trasmissione del pensiero viene turbata ed eccitata dalle fantasie del protagonista maschile. Le gesta del Pontello sono patrimonio comune di Moana, del suo agente e dei suoi compari: come per miracolo di sceneggiatura si conoscono tutti e condividono le info, arrivando alla mutua decisione che per liberare il borgo e la testa di Moana dall’incubo di questo satiro conviene farlo trombare con l’oggetto del suo desiderio.
Lei, voce off, ci spiega: “Esorcizzarlo consisteva nel coinvolgerlo in un’orgia a quattro e cioè distruggere ai suoi occhi la mia immagine”. Roba che neanche Deleuze e Guattari. Per cui Moana si concede generosamente all’indemoniato Pontello (assieme anche a Siffredi, che è il futuro tanto quanto Pontello era il passato) e si chiude in bellezza con champagne stappato. È finita? Ma no! C’è l’uscita magnificamente folle: Moana finalmente liberata guarda in camera, si contorce di nuova in preda a frenesia belluina e conclude: “E adesso… chi sarà di voi?”. Wow! Beh, che dire? L’alternanza tra realtà e sogno è dilettantesca ma il continuo montaggio parallelo è anche di un coraggio spropositato per un genere solitamente al risparmio. Detto questo le qualità tecniche del film sono imbarazzanti e quando ci sono momenti di recitazione Moana sonda gli abissi dell’infamità attoriale con un distacco quasi metafisico. E del resto anche quando zompa facendo e facendosi fare di tutto è straniante: non sembra mai partecipe, semmai dignitosamente indifferente, nivea, alta, bionda, aristocratica e sfuggente. Probabilmente questo atteggiamento che si riscontrava anche nelle uscite pubbliche ha contribuito a renderla l’icona che è diventata: silenziosa e misteriosa e presuntamente intelligentissima (ma per quali dichiarazioni non si sa), forse – come ha ipotizzato qualcuno – per accreditare i tantissimi amanti importanti (spettacolo, sport e politica… si diceva del cinghialone) dichiarati. Boh. (Youporn, 15/6/12)

945 – Lorax – Il guardiano della foresta di Chris Renaud, USA 2012
Lorax sembra il nome di un gastroprotettivo da banco. E invece è un discreto film, che da una storiellina piccina picciò del Dr. Seuss costruisce una vicenda più articolata. Chi si lamenta che il film è per bambini: 1) non ha sicuramente letto l’originale di Seuss (e gli basterebbero 5 minuti), 2) ha visto il film in preda a turbinio digestivo. Però qualche criticonzo ha detto questa stupidaggine per primo e da lì tutti hanno scopiazzato l’affermazione. Sbagliata. Comunque: si schianta dal caldo e al cinema si sta al fresco, per cui ci andiamo con le due bimbette. Loro si divertono molto e io le seguo, Barbara invece borbotta un po’ annoiata. Film dal messaggio ambientalista e anche anticapitalista, in un film hollywoodiano che farà milionate di dollaroni col merchandising. È contraddittorio? Sì, e alcuni hanno aspramente criticato il tradimento del messaggio del Dr. Seuss ma grande è la confusione sotto il cielo e questo è sempre bene. In termini spettacolari il film fila come un razzo. Straordinario il lavoro scenografico e la cura dei particolari: ormai non stupisce l’accuratezza della realizzazione quanto la scelta dei materiali, come in un film vero e proprio, girato live action o come cazzo si dice, ma ci siamo capiti. Qui il vetro o il metallo o la pietra hanno una resa più vera del vero che fa impressione. Ammirevole è l’invenzione di un mondo rotondo spassoso, allietato da canzoni molto divertenti, dove il cattivo è un tappetto iroso e avido (cosa che a noi italioti ricorda sicuramente qualcuno). Proiezione perfetta e luci solo tenui accese sui titoli. Esperienza da ripetere il cinema: ogni volta che ci torno lo penso. E poi non lo faccio, ach! (Cinema Ducale, Milano; 23/6/12)

946 – Mondo Cane oggi, l’orrore continua commesso da Max Steel, Italia 1986
L’orrore è quello che prova lo spettatore, non equivochiamo. Trattasi di repellente documentario erede dei Mondo Movie di Jacopetti, Cavara e Prosperi e che mette in fila, col solito commento stolido e suadente, nell’ordine: un aborigeno nudo che dorme sul ciglio della strada, un duello tra cani, un campeggio nudista tedesco (mmh) e – sdoganate le tette – vai!: donne in palestra, lotta di donne nude, modelle di nudo, danzatrice nera delle Figi seminuda che sa muovere indipendentemente le tette (oooh!), pescatrici di alghe giapponesi a seno nudo, donne nude che si fanno spugnare con le alghe. Poi, dopo l’erezione inversa provocata, passiamo a New York (cioè, la civiltà, si direbbe, ma…) e ci scoppiamo una bella apertura di cadavere ripieno di droga, allenamento di judoka, indiani che lavano i panni, tuffi in un tempio indiano, gauchos argentini, agopuntura ustionante, tatuaggi giapponesi, pitoni cinesi scuoiati, gastronomia estrema con serpentelli decapitati, corrida spagnola, lapponi che bevono sangue di renna e cibi afrodisiaci con tartarughe mangiate fresche. Il passaggio deve aver solleticato il montatore che subito propone dei massaggi occidentali con una bella patata pelosa in primissimo piano, bassorilievi erotici a Khajuraho e una lesbicata veloce veloce, per par condicio. Si passa poi a usi e costumi del mondo: svastiche indiane, cadaveri bruciati sulle rive del Gange, pipistrelli giganteschi, pesca nel fango, sushi servito su una donna nuda, ciccione americane alle Hawaii, vacche sacre che cagano letame poscia impastato a mano, allevamento di bovini in USA e macellazione, vita tra i morti di fame in India, tonsura dei monaci buddhisti, bambini storpiati per chiedere l’elemosina, culturisti indiani, igiene giapponese, massaggi sensuali, amputazione yakuza di un dito (la scena si direbbe vera, ma chissà), elettroshock, operazione a pene aperto, travestitismo orientale very exciting, evirazione a Casablanca (nel momento supremo del taglio, commento illuminante: “Il re è morto!”), crescita del seno con tubi aspiranti, cadaveri e rimozione di una calotta cranica e infine visita sul set di un film porno atroce con attori urfidi. L’orrore continua, indubbiamente: alla fine cosa ho visto? Una carrellata antologica di cose “strane”, impressionanti e pruriginose, senza un vero filo conduttore. Stelvio Massi è il responsabile di cotanta ignominia, subìta a tratti – confesso – con l’avanzamento veloce che, va bene l’aggiornamento professionale del Cacace, ma a tutto c’è un limite. (24/6/12)

947 – Cazzi vostri: Open Water di Chris Kentis, USA 2003
Attenzione agli spoiler, eh. Dunque: film di grande successo in diversi festival per appassionati di cinema horror e/o serie B, Open Water parte da una bella idea ma soffre per la malaccorta realizzazione: è infatti girato con una telecamera digitale peggiore della mia che risale al 2002. Non c’è alcun controllo della fotografia, con errori da operatore alle prime armi (ambiente luminoso e volti neri, per esempio). E inoltre il riversamento per l’emissione tivù (come accadeva anche a Italiano per principianti in Dvd) non passa evidentemente attraverso lavorazioni su pellicola e il risultato è poverissimo, proprio da filmino delle vacanze. In questo caso vacanze che finiscono in vacca ma a livelli epici. Dunque: esiste gente che si diverte a fare escursioni subacquee per guardarsi il fondo marino. Oh: hanno ben inventato i Dvd documentari PROPRIO per farci vedere comodamente da casa cosa cazzo ci sia la sotto, eh. Lo dico perché una volta ho fatto snorkeling sul mar Rosso e da allora mai più: m’è venuto un infarto perché un sacchetto bianco fluttuante mi ha fatto credere di essere vittima dell’attacco di una manta assassina. Vabbeh. Ad ogni modo la coppia dei protagonisti fa parte invece di questi invasati con bombole, mute, pinne etc., solo che il destino è beffardo e siccome queste cose sono organizzate da tipi che passano il loro tempo a sbevazzare e a dire “easy man” agli stolidi turisti, finisce che i due vengono dimenticati in mare aperto, ai Caraibi, ma mica a venti metri dalla riva come a me. E in mezzo al mare fa freddo e capita di incrociare bestiole come squali, barracuda e meduse. E poi viene la notte e hai una sete micidiale e la fatica ti ammazza. Da un punto di vista narrativo l’inghippo è ben gestito: l’attesa dei soccorsi e l’angoscia crescono bene fino a un prefinale buttato via (una lite insulsa – in quella situazione, poi –, la notte che passa in un baleno, l’attacco degli squali velocissimo) e un finale gestito veramente col culo, in campo lunghissimo, mentre dovrebbero arrivare i soccorsi. Un anticlimax frustrante, dove tenti di capire cosa stia succedendo al posto di goderti sadicamente l’epilogo GIUSTO della vicenda. Ispirato a una storia vera, film decisamente inferiore alle ambizioni e premiato perché queste operine grammaticalmente atroci fanno tenerezza al pubblico dei festival, che intravede una possibilità per piazzare un giorno i propri filmini matrimoniali. Non m’ha fatto impazzire, s’intuisce, no? (Coming Soon Television; 26/6/12)

(Fine – 80)

Utilizzate a dovere il vostro Bonus Cultura! È ancora in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la prefazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band).
Altre Divine Divane Visioni su Twitter e Facebook.
Oppure binge reading qui, su Carmilla.

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Non c’è crisi in Paradiso. Paradossi e identità di classe nell’America di Obama e di Trump – Prima parte https://www.carmillaonline.com/2016/10/01/non-ce-crisi-paradiso-paradossi-identita-classe-nellamerica-obama-trump/ Fri, 30 Sep 2016 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33564 di Fabrizio Salmoni*

usa-1 Le cronache elettorali dagli Usa dipingono superficialmente la campagna per le presidenziali come se fosse un evento sportivo. Cosi facendo, il giornalismo italiano si conforma a quello internazionale contribuendo ad assuefare le menti all’idea che anche uno degli eventi politici più importanti per il mondo sia uno spettacolo in cui contano i singoli individui, i loro errori, i loro umori, le cartelle cliniche. Ai candidati si attribuiscono i favori o le preferenze di ampie categorie del corpo civile: le minoranze, le lobbies, le etnie, la comunità finanziaria, quelle religiose, i gruppi sociali peculiari dei vari Stati, ecc. [...]]]> di Fabrizio Salmoni*

usa-1 Le cronache elettorali dagli Usa dipingono superficialmente la campagna per le presidenziali come se fosse un evento sportivo. Cosi facendo, il giornalismo italiano si conforma a quello internazionale contribuendo ad assuefare le menti all’idea che anche uno degli eventi politici più importanti per il mondo sia uno spettacolo in cui contano i singoli individui, i loro errori, i loro umori, le cartelle cliniche. Ai candidati si attribuiscono i favori o le preferenze di ampie categorie del corpo civile: le minoranze, le lobbies, le etnie, la comunità finanziaria, quelle religiose, i gruppi sociali peculiari dei vari Stati, ecc. Un minestrone di ingredienti indistinti in cui le classi sociali vengono identificate essenzialmente con la dicotomia colletti blu e bianchi e “mondo delle imprese” (corporate world) mentre di middle class si parla per segnalarne la centralità “elettorale”, la perdita di potere d’acquisto, la sua discesa nella scala sociale.

Chi qui in Europa segue più attentamente le cronache della contesa americana con un occhio criticamente smaliziato non può evitare di notarne il paradosso più evidente: un elettorato fatto prevalentemente di bianchi poveri a forte componente operaia e contadina voterà in massa contro i propri interessi per un candidato miliardario portandolo probabilmente alla presidenza. Come può accadere? Cosa può aver rovesciato i tradizionali ruoli di rappresentanza politica tra i due maggiori partiti? Non sono forse i Democratici ad avere sempre rappresentato, dalla fine della Ricostruzione post Guerra Civile, lo stato sociale, i sindacati, le minoranze affamate di riconoscimento e diritti civili, la cultura inclusiva, insomma l’anima “progressista” della nazione mentre i Repubblicani si sono sempre connotati come i difensori del laissez faire economico, come rappresentanti delle corporation, del big business, e infine del capitalismo finanziario selvaggio e globale? Come è possibile che un proletario, indebitato fino al collo, privo di garanzie sindacali, di assistenza sanitaria, di garanzie pensionistiche, con la minaccia dell’ipoteca bancaria sulla casa, con i figli sempre più condannati dal lavoro precario e sottopagato a rimanere bloccati nella scala sociale malgrado le promesse del sogno americano, si schieri con la parte politica che per propria natura gli nega un’esistenza dignitosa?

La dura verità è che a partire dagli anni della presidenza di Ronald Reagan, della prescrizione-shock dei controllori di volo, del completamento della ridefinizione globale degli interessi capitalistici, del crollo dei salari, delle riduzioni fiscali, ha preso slancio un ribaltamento culturale senza precedenti che ha portato a fratture su linee trasversali del corpo sociale e a soluzioni politiche basate su argomenti che fino ad allora risultavano sovrastrutturali. Gli effetti di tale “rivoluzione culturale” (si, di questo si è trattato) sono stati la sostituzione in molti stati del Sud e del Midwest delle maggioranze Democratiche con amministrazioni Repubblicane e le presidenze Bush, padre e figlio, con l’emergenza di una solida classe dirigente neo-con. I due termini di Clinton non hanno invertito la tendenza, anzi con le sue ambiguità in politica sociale e il varo del trattato commerciale Nafta che ha interessato tutto il Nord America (Messico compreso) proprio il Democratico Clinton ha contribuito ad alimentare, il processo in atto, ancora prima che l’11 settembre aggravasse la situazione.

Protagonisti passivi di tale cruciale capovolgimento politico sono i ceti proletari nuovi e vecchi costituiti dai lavoratori salariati dell’industria e dei servizi, i piccoli agricoltori e allevatori impoveriti dal crollo dei prezzi e indebitati con le banche,1 i neo-urbanizzati dagli anni Settanta sradicati dalle comunità rurali di origine e immessi nei bassi ceti impiegatizi ora ricacciati indietro nella scala sociale dalla nuova crisi economica, i rednecks (operai, lavoratori artigiani e padroncini), i salariati dei ranch. Gente che vive le trasformazioni che la investono con un forte senso di perdita: di identità e ruolo sociali, di status economico, di radici culturali che la nuova collocazione non riesce a sanare. Anzi, peggiora man mano che i cambiamenti la travolgono. E a quel senso di perdita si aggiungono prima le ansie, poi la rabbia, poi necessariamente la ricerca di vie di fuga nel proprio piccolo, nell’alienazione, nella ricerca spirituale, nel volgersi con nostalgia al passato, ai “vecchi tempi” che erano sempre duri ma avevano delle soluzioni, delle vie d’uscita dignitose.

usa-2 Tutti questi attori sono collocati geograficamente per la gran parte nella cosiddetta Heartland, cioè il cuore d’America, il vasto territorio che include indicativamente il Sud storico, il Sud Ovest, il Midwest. Un’area storicamente determinante per le lotte contadine culminate tra il tardi 1880 e la prima metà dei 1890 con la rivolta Populista contro le banche, i poteri economici, le politiche monetarie, e con significative agitazioni operaie a cavallo dei due secoli. Un’area a grandi linee appartenente alla tradizione Democratica fino alla Presidenza Johnson e, con l’intervallo dell’esperienza Nixon, a quella di Jimmy Carter. Ai due lati della Heartland, le due coste con le loro ricche enclavi: il nord est e la California.

Cosa è successo da allora?

Non tutti gli analisti si sono resi conto di quanto stava accadendo: ancora nel 2006 un team di eminenti professori di statistica politica annotava una singolare polarizzazione nelle scelte dell’elettorato ma riteneva con tipico ottimismo che le “tendenze disturbanti” avrebbero trovato soluzione nella parte moderata della classe politica, giudicando transitorio il predominio Repubblicano e gli spostamenti elettorali. Tuttavia il loro studio riscontrava che il reddito o la ricchezza non incidevano sulle scelte politiche tanto quanto i temi locali mentre l’elettorato si divideva meno che mai dai tempi del New Deal su temi occupazionali o sull’apparteneza di classe. Allo stesso tempo, pur rilevando che la crescita della sensibilità religiosa non stava soppiantando le tematiche economiche ammettevano che “non si sentivano di escludere che ciò avrebbe potuto accadere“. 2

Le presidenziali del 2004 che diedero la seconda vittoria a George W. Bush avevano fatto registrare un’inquietante variante di peso decisivo: il 22% dei votanti aveva espresso ai sondaggisti di aver dato la prevalenza per la scelta nelle urne ai “valori morali” su ogni altra cosa. Poco prima, tredici Stati avevano votato contro la legalizzazione dei matrimoni tra contraenti dello stesso sesso: “Guns, God and gays” divennero la convenzionale spiegazione per la vittoria di Bush. Allo stesso tempo si manifestava un’altra anomalia: gli Stati più ricchi si configuravano come Democratici, quelli poveri come Repubblicani.

L’emergenza dei Tea Parties , organizzazioni informali su base popolare, che hanno cercato di condizionare le elezioni del 2008 addirittura esprimendo un candidato Repubblicano (Sarah Palin) alla vicepresidenza rivelavano il peso crescente di un vasto strato di elettorato posizionato a destra, a forte connotazione religiosa, favorevole all’isolazionismo in politica estera e alla riduzione della presenza federale nelle decisioni degli Stati. Un altro segnale, forse sottovalutato, dei cambiamenti in atto tra la gente.

Ma quali fattori hanno determinato il cambiamento politico epocale che sembra aver trasformato il corpo sociale d’America?

usa-7bis L’elemento primo è stata la pesante manipolazione culturale intrapresa dai settori militanti della destra, indirizzata a saldare i “valori morali”, cioè quell’insieme di sensibilità provenienti dal buon senso della “gente comune” (la casa, la famiglia, il lavoro duro, ecc. ) e dalle tradizioni popolari peculiarmente americane (l’aspirazione al miglioramento inevitabile delle proprie condizioni conseguito con le proprie forze, la libertà estesa, il senso religioso, l’orgoglio nazionalistico, la convinzione di poter riuscire a conservare solo quello per cui ci si è in qualche modo battuti), con la sistematica cancellazione del fattore economico dalla lista delle cause della propria condizione. Al punto che per gli ultraconservatori il tema dell’agire del settore imprenditoriale o finanziario è venuto di proposito a cadere come soggetto di discussione. Per essi il business (e il conseguente profitto) è normale, naturale, va oltre la politica; il libero mercato è qualcosa di immanente e necessario che determina le condizioni del successo individuale o professionale. E’ materia fuori discussione. Se si è poveri le cause vanno cercate nella dissoluzione del sogno americano a opera di chi lavora costantemente per demolirlo: i “liberals” con i loro privilegi, il controllo del governo, della burocrazia, di Wall Street, della cultura, dei media, i loro costumi degenerati, il rifiuto laico di Dio e dei Comandamenti, l’ipocrisia del politically correct, l’ambientalismo ideologico, le mode effimere, il caos della grande città.

Ecco, il capolavoro di tutto questo lungo lavorio è stato essere riusciti a dichiararsi “popolo”, ad identificarsi con quello, a identificare un nemico diverso da quello economicamente naturale, ad escludere qualsiasi critica al sistema economico ma allo stesso tempo perseguendo con i propri rappresentanti e candidati nazionali e locali politiche favorevoli al big business, alla deregulation, al taglio dei salari. La destra repubblicana ha fatto leva sull’associazione tra orgoglio individuale (Voi siete il sale della terra, il cuore battente d’America che tira la carretta…) e vittimismo narcisistico (…eppure siete trattati oltraggiosamente male), sull’indirizzo delle ansie quotidiane e dell’odio per tale condizione verso i liberals (leggi Democratici). Se poi le aziende chiudono, licenziano, se la terra coltivata viene espropriata o devastata dagli oleodotti o supersfruttata dalle coltivazioni intensive, se i prezzi salgono per garantire il massimo profitto della grande distribuzione che spreme fornitori e dettaglianti e li conduce al disastro, quella è la legge del mercato, della concorrenza, icone dello spirito americano e componenti del successo individuale. E’ la dura realtà con cui tocca confrontarsi e con cui si crea il benessere per tutti. Se poi i politici Repubblicani promuovono leggi e normative a favore di cartelli affaristici locali, agribusiness e corporation, l’argomento rientra nel campo della “politica”, tema di per sé complicato e odioso da discutere, o nella logica sacrosanta del libero mercato.

usa-3 I fantasmi da scacciare stanno nella retorica liberal che minaccia l’autenticità stessa della way of life americana, nella società malata di criminalità, immigrazione, aborto, biotecnologia, droga, pornografia, diritti civili per chi non li merita, privilegi per i ricchi, matrimoni omosessuali. Un quadro completo in cui convogliare i ceti più poveri e meno istruiti su parole d’ordine da usare in sede politica per guadagnare terreno ma anche per creare una gabbia culturale da cui non si riesce più a evadere. Mentre nella stanza vicina si fanno affari.

Significativo per paradossale contraddizione il caso del Freedom to Farm Act, una legge promossa nel 1996 dal senatore Repubblicano Pat Roberts del Kansas e da altri rappresentatnti locali dello stesso partito, nominalmente per aiutare i coltivatori a competere efficacemente sul mercato dei prodotti agricoli revocando le normative di origine New Deal per la protezione dei prezzi: grazie a quella legge gli agricoltori avrebbero avuto la libertà di coltivare qualsiasi cosa in qualsiasi quantità affidandosi al mercato per spremere i prezzi migliori: cosi finalmente si toglieva di mezzo il governo dalla libertà di operare secondo i propri mezzi. Il risultato fu di provocare una letale spirale di sovrapproduzione che in pochi anni mandò sul lastrico i piccoli produttori favorendo cosi i grandi dell’agribusiness ADM, Cargill, ConAgra. Non un disastro sociale, per i Repubblicani, ma un’esemplare “ristrutturazione dell’industria alimentare” per avere maggiore flessibilità ed efficienza della distribuzione, una vittoria della libertà sulla “ingombrante sussidiarietà governativa”. Un cambiamento in peggio per il suolo e gli agricoltori falliti che però hanno continuato da allora a votare il GOP, il Grand Old Party (Partito Repubblicano).3

*Master in Studi Americani all’Università del Texas

(Fine prima partecontinua martedì 4 ottobre)


  1. Nel recente ottimo film Hell or High Water di David McKenzie due fratelli si fanno rapinatori per pagare l’ipoteca della loro terra. Il Texas Ranger di origine Comanche che dà loro la caccia riflette con i colleghi bianchi:”…Il tempo rende giustizia. Le terre che avete preso ai Comanche ora le state perdendo con le banche…”  

  2. McCarty, Rosenthal, Poole, Polarized America. The Dance of Ideology and Unequal Riches, 2006, MIT Press  

  3. Thomas Frank. What’s the Matter with Kansas? How conservatives won the heart of America, 2005 Picador  

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