Michail Bachtin – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Troia brucia dopo una guerra senza fine https://www.carmillaonline.com/2023/03/30/troia-brucia-dopo-una-guerra-senza-fine/ Thu, 30 Mar 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76699 di Paolo Lago

Alberto Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 280, euro 26,00.

La caduta di una città, assediata dai nemici durante una guerra, è uno dei drammi più grandi della storia, che si ripete sempre. Alberto Camerotto, nel suo saggio Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, incentrato sul racconto della caduta di Troia, inizia dalle immagini di un grande vaso proveniente dall’isola di Mykonos e databile tra il 675 e il 670 a.C. Le immagini – osserva lo studioso – mostrano bene gli orrori della [...]]]> di Paolo Lago

Alberto Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 280, euro 26,00.

La caduta di una città, assediata dai nemici durante una guerra, è uno dei drammi più grandi della storia, che si ripete sempre. Alberto Camerotto, nel suo saggio Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, incentrato sul racconto della caduta di Troia, inizia dalle immagini di un grande vaso proveniente dall’isola di Mykonos e databile tra il 675 e il 670 a.C. Le immagini – osserva lo studioso – mostrano bene gli orrori della guerra, quando non c’è più rispetto né degli dei né degli uomini: violenza cieca perpetrata ai danni di donne e bambini inermi. La persis, cioè la caduta e la presa di una città, nella fattispecie Troia, non è fatta di gesta epiche e valorose, di scontri in battaglia, di duelli ma di soprusi e violenze esercitate nei confronti di esseri umani indifesi. Come scrive Camerotto, “il racconto dell’Ilioupersis è testimonianza di ciò che è la guerra, non delle glorie, non delle prodezze memorabili degli eroi. Sono glorie maledette, lo sappiamo bene. Allora raccontare la persis è la disperazione che sta nei grandi occhi delle donne, delle Troiane, nei loro gesti, nelle emozioni tremende, nelle grida e nei pianti delle loro voci”. È un po’ come la guerra ‘al grado zero’: contiene tutti i suoi orrori, i genocidi, i massacri della popolazione inerme. E se il racconto della persis di una città è un motivo diffuso presso diverse culture antiche del Mediterraneo, dalla Mesopotamia all’Egitto, le violenze perpetrate dai soldati nei confronti di una popolazione ‘nemica’ assediata e vinta riecheggiano in ogni tempo, fino alla modernità e alla contemporaneità. Quelle stesse violenze, oggi, non sono più raccontate dai dipinti su un vaso ma dai media che, quasi in tempo reale e in modo brutale, ci propongono immagini di genocidi e massacri, dal Ruanda all’Ucraina.

Alberto Camerotto riesce a spiegare i temi portanti del racconto della caduta di Troia, un autonomo blocco narrativo epico, in modo semplice ma non banale. Il suo saggio è strutturato come una grande narrazione in cui – a fianco di frequenti citazioni dagli autori analizzati (soprattutto Omero, Virgilio, Petronio, Quinto Smirneo e Trifiodoro), in greco e in latino, seguite dalla traduzione, e di un apparato di rigorose note di carattere filologico che dispiegano un’ampia bibliografia sull’argomento – incontriamo uno stile diretto e, per l’appunto, narrativo, caratterizzato da un periodare breve, con frequente punteggiatura, capace di creare nella mente del lettore immagini forti ed efficaci che lo accompagnano nel susseguirsi del racconto. L’analisi dello studioso si incentra quindi su “quattro motivi che fanno da punto di riferimento o da nuclei tematici della narrazione, attorno ai quali si aggregano gli altri motivi: la guerra infinita, l’inganno del cavallo di legno, la festa della liberazione, la persis della città”.

Lo scontro fra Greci e Troiani si trasforma in una guerra senza fine: anche su quella di Troia, all’inizio, aleggia l’illusione di una guerra lampo. E, come molte guerre che, anche nella contemporaneità, si sono protratte per lungo tempo, anch’essa inizia come una grande spedizione della ‘guerra giusta’ per vendicare il rapimento di Elena. La narrazione epica dell’Iliade inizia dall’ira di Achille, al nono anno di scontri, quando ormai la “guerra infinita” è diventata il paradigma e il segno dell’identità, e “nella celebrazione se ne dimentica il significato reale, si dimenticano i morti e le sofferenze, quelle più semplici, quotidiane, tremende, proprio mentre ne costruiamo la memoria”. Ecco che gli anni devono essere dieci, un numero dal valore simbolico. I morti si aggiungono ai morti perché “quando si comincia una guerra non si può più tornare indietro”. Lo stesso potrebbe valere anche ai giorni nostri, in cui gli apparati bellici sono al servizio del capitale e dei suoi interessi: quelle stesse esigenze di carattere economico e strategico si trasformano in valori assoluti, in idee che non è possibile mettere in discussione, dall’una e dall’altra parte, come nel conflitto in Ucraina. Nel racconto della persis di Troia, sia in quello omerico che in quelli di Quinto Smirneo e Trifiodoro, entrambi del III secolo d.C., emerge anche la progressiva consunzione della macchina bellica, come se su tutto cadesse un velo di angosciosa stanchezza e l’intero apparato si stesse lentamente sgretolando. E tale consunzione sembra gravare più sugli oggetti che sulle persone: le navi, le corazze, le frecce, i dardi, gli scudi, gli elmi, gradatamente si trasformano, per utilizzare un’espressione di Francesco Orlando, in “oggetti desueti”, vecchi, consumati dal tempo. In questo caso, sembra che sia la stessa dimensione bellica a consumare, a divorare: è essa stessa divenuta desueta, vecchia, antiquata, imbambolata nella sua assurdità.

Nel racconto della caduta di Troia c’è un oggetto che spicca sopra tutti gli altri: è il gigantesco cavallo di legno che serve per la conquista e che costituisce il secondo nucleo tematico analizzato dall’autore. Il cavallo è altissimo, grande come un monte; il suo ideatore è Odisseo, mentre il costruttore è Epeo. Il cavallo rappresenta il trionfo del dolos, dell’inganno, l’unico modo per concludere una guerra di dieci anni. Esso, nei racconti di Virgilio e di Trifiodoro, assume anche connotazioni mostruose perché produce, appunto, un ‘parto’ mostruoso, i guerrieri che escono dal suo ventre: “c’è qualcosa di inquietante, è l’immagine spaventosa della vita che genera la guerra e la morte. Sono le contaminazioni che annunziano la persis”.

D’altra parte, contaminazioni inquietanti sono presenti anche nella descrizione della festa della città. I Troiani, infatti, introducono il cavallo in città convinti che si tratti di un dono dei Greci in occasione della fine della guerra e preparano una grande festa per accoglierlo. Gli avvertimenti di Laocoonte e Cassandra non vengono ascoltati e gli strepiti della festa si diffondono dappertutto travolgendo agni freno, ogni allarme, ogni resistenza. Nel momento in cui i guerrieri achei escono dal ventre del cavallo e cominciano ad uccidere i cittadini inermi, i cibi, il vino, le armi e il sangue, le grida di festa e quelle di dolore si mescolano in una inquietante antitesi: “Si muore come i maiali sacrificati nel banchetto infinito di un ricco signore, nella festa più grande” e “il vino rimasto nelle coppe si confonde col sangue”. La categoria della guerra si mescola con quella della festa: gli stessi oggetti (le tavole, i tizzoni dei bracieri, gli spiedi delle carni) che prima erano serviti per banchettare si trasformano in armi. Nella festa fa irruzione la morte: sembra di trovarsi di fronte al “vicinato” festa-carnevale-morte che Michail Bachtin intravede nel racconto di Edgar Allan Poe La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death), nel momento in cui la stessa “Morte Rossa”, la terribile pestilenza, sterminando tutti i partecipanti di una festa in maschera, riesce a penetrare nel castello dove un gruppo di giovani nobili si era rifugiato illudendosi di sfuggire all’epidemia.

L’ultimo motivo su cui si concentra l’attenzione dello studioso è il momento della caduta vera e propria di Troia che, è vero, “è solo una notte. Ma è qualcosa di più terrificante di dieci anni di guerra. Sono necessarie altre categorie per interpretare ciò che avviene. È un altro racconto”. È un momento in cui “ogni figura diventa un simbolo dell’immaginario della persis. Si ripete sempre, a ogni nuovo racconto”. Ogni individuo diventa una metonimia della sanguinosa caduta della città: ad esempio, Deifobo sta per i difensori, Priamo per la città e per i vecchi, Astianatte per la sorte dei bambini, Cassandra per il destino delle donne. Sono nomi famosi ai quali il nostro immaginario può associare i genocidi di esseri indifesi di ogni tempo: Astianatte, il figlio di Ettore scagliato giù dalle mura di Troia da Neottolemo su consiglio di Odisseo (il quale, adesso, appare come un efferato criminale di guerra e non come l’eroe errante perseguitato dagli dei consegnatoci dall’Odissea), diventa l’emblema dei bambini vittime delle guerre; Cassandra, la figlia di Priamo, profetessa condannata a non essere creduta, delle donne vittime di stupri e violenze. Troia è caduta, la sua persis sanguinosa è stata consegnata all’eternità dal canto epico; ma, possiamo chiederci, quante altre Troie oggi stanno bruciando e bruceranno? Quanti altri crimini efferati stanno continuando in svariate parti del mondo? Tante, purtroppo, sono le guerre che ancora si combattono – e tante sono quelle lontane dai riflettori dei media – non volute né dal fato e neppure dagli dei, ma dalla spietata logica del capitale che non guarda in faccia a niente e a nessuno.

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Marx e la narrazione storica tra necessità e contingenza https://www.carmillaonline.com/2023/03/13/marx-e-la-narrazione-storica-tra-necessita-e-contingenza/ Mon, 13 Mar 2023 05:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76352 di Fabio Ciabatti

George Garcia-Quesada, Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces, Haymarket Books, Chicago 2022, pp. 190, € 27,42.

Brancaccio, Giammetti e Lucarelli nel loro recente testo La guerra capitalista “si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista”. Così sintetizza Sandro Moiso su Carmilla nella sua recensione (qui) che si chiude con alcune domande suscitate dalla lettura del libro: “quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà [...]]]> di Fabio Ciabatti

George Garcia-Quesada, Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces, Haymarket Books, Chicago 2022, pp. 190, € 27,42.

Brancaccio, Giammetti e Lucarelli nel loro recente testo La guerra capitalista si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista”. Così sintetizza Sandro Moiso su Carmilla nella sua recensione (qui) che si chiude con alcune domande suscitate dalla lettura del libro: “quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà davvero ancora la forza militare per farlo, come ai tempi delle cannoniere e delle operazioni di polizia internazionale?” Per rispondere a questioni di tale portata l’analisi econometrica portata avanti dai tre autori è senza dubbio necessaria. Ma si può anche affermare che sia sufficiente? L’economista Roberto Romano, in un’altra recensione, dà una risposta negativa. Pur apprezzando l’analisi dei tre autori citati sulla centralizzazione, Romano sostiene la superiorità della concreta analisi storica quando si devono spiegare dinamiche complesse che non sono riconducibili ad una mera analisi economico-quantitativa, ma devono tenere conto di livelli differenti come la politica, la politica economica, la geopolitica e la geografia economica (qui). Menziono questa discussione senza voler entrare nel merito, ma solo per richiamare l’attenzione sul fatto che alcuni nodi teorici, da sempre al centro della riflessione storica di ispirazione marxiana (e non solo), non rappresentano meri arzigogoli intellettuali. Essi, infatti, riemergono con forza quando si cerca di comprendere questioni di estrema attualità e drammaticità come quelle legate alla guerra in corso. In estrema sintesi, che rapporto c’è tra la necessità strutturale e la contingenza storica, tra le strutture sociali e l’agency, tra la macrostoria e la microstoria?

Questi nodi teorici sono affrontati in modo originale da George Garcia-Quesada nel suo libro Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces. Poiché abbiamo iniziato con la guerra dei nostri giorni, rimaniamo sul tema bellico riferendo quanto dice l’autore a proposito dell’analisi marxiana della guerra civile americana combattuta tra il 1861 e il 1865. In questo contesto il rivoluzionario tedesco non si limita a chiamare in causa le leggi di sviluppo del modo di produzione capitalistico che si esplicherebbero attraverso un processo di modernizzazione capitalistica, portata avanti dal Nord, a detrimento dell’arretrata produzione schiavistica degli stati sudisti. Anche perché quest’ultima, secondo Marx, ha natura pienamente capitalistica. Piuttosto vengono messe in evidenza due differenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico, interdipendenti ma in competizione. Negli Stati Confederati, infatti, la coltivazione per l’esportazione di cotone, tabacco, zucchero ecc. per essere remunerativa necessitava dell’utilizzo e della riproduzione su larga scala del lavoro schiavile, e di una continua espansione delle terre fertili coltivate. Data la contiguità spaziale delle due aree, il conflitto tra il Nord e il Sud era solo questione di tempo.
Dunque la spiegazione storica chiama in causa come elementi determinanti la topografia e la decrescente fertilità del suolo oltre che condizioni di natura strettamente politica e militare per definire lo scontro tra due differenti formazioni sociali. La dimensione spazio-temporale chiamata in causa si configura con riferimento alla forma-stato, ma la spiegazione ha come ultimo referente il mercato mondiale, data l’impossibilità per l’industria britannica, potenza egemone a livello globale, di sostituire nel breve periodo la produzione del cotone, bloccata dalle vicende belliche, proveniente dagli stati confederati. In sintesi la spiegazione della guerra civile si basa su una combinazione di formazioni sociali che, sebbene generalmente orientate all’accumulazione del modo di produzione capitalistico, non possono essere ridotte ad un unico meccanismo esplicativo.

Nelle righe precedenti abbiamo fatto riferimento a due differenti concetti, modo di produzione e formazione sociale, che ora andranno chiariti facendo riferimento ai differenti livelli di astrazione in cui si articola l’analisi marxiana. La fondazione del materialismo storico, secondo Garcia-Quesada, si basa su affermazioni di carattere metastorico che costituiscono la teoria dei modi di produzione (al plurale) avendo a che fare con le condizioni generali di produzione e riproduzione di tutte le società a partire dal ricambio organico tre essere umano e natura. A un livello inferiore di astrazione abbiamo la teoria di un singolo modo di produzione che, basandosi su astrazioni storicamente determinate, si articola in tendenze o meccanismi operanti in virtù di relazioni necessarie/interne. Scendendo ancora nella scala dell’astrazione abbiamo la spiegazione di una formazione sociale in cui si sintetizzano le tendenze del livello precedente con le specifiche le condizioni in cui operano. A livello massimo di concretezza storica abbiamo, infine, le congiunture.
Sul piano ontologico il modo di produzione è astratto ma reale, mentre la formazione sociale è più concreta e con più determinazioni da spiegare. A livello epistemologico il modo di produzione è un sistema chiuso e i suoi risultati sono necessari, mentre la formazione sociale è un sistema aperto e presenta un certo livello di contingenza. In altri termini lo studio del modo di produzione capitalistico è necessario ma insufficiente per l’analisi di una formazione sociale in cui prevale perché si deve tener conto delle diverse modalità attraverso cui il capitalismo si espande entrando in relazione con altri meccanismi di tipo economico, politico, ideologico ecc.
Il concetto di modo di produzione, dunque, non esaurisce la teoria della storia di Marx ma ne costituisce il necessario punto di partenza. Questo concetto, però, rimane centrale nella teoria marxiana in quanto uno specifico processo di produzione rappresenta la condizione di possibilità per tutta l’attività degli esseri umani dal momento che questi devono organizzarsi socialmente per soddisfare i propri bisogni e sopravvivere. Esso, dunque, è il grimaldello teorico per la totalizzazione, vale a dire per articolare e integrare le differenti prassi umane in un processo storico unitario sebbene mai concluso. In questo senso il concetto di modo di produzione rappresenta la discontinuità di base nella storia, organizzando ciascuna delle diverse forme di sociali sulla base dei loro principi peculiari a partire dalle interazioni tra le prassi umane e le loro condizioni materiali. Ma a questo punto sorge una domanda. Come intendere questa discontinuità dal momento che per Marx esiste una storia unica per quanto costituita da tempi non omogenei? L’unitarietà del processo storico si può riscontrare al livello più astratto dell’analisi, perché esistono condizioni comuni, metastoriche per la riproduzione di ogni società. Ma la ritroviamo anche analizzando il capitalismo perché si tratta del primo modo di produzione che, per il suo intrinseco dinamismo, è portato a espandersi a livello globale.

Insomma, con il capitalismo abbiamo per la prima volta una storia mondiale tendenzialmente unificata. Secondo Garcia-Quesada, Marx, solo in un primo momento, concettualizza questa tendenza nei termini di una teoria stadiale dello sviluppo storico:  l’espansione capitalistica, in qualità di stadio più avanzato, impone una singola totalizzazione spazio-temporale sulla molteplicità spazio-temporali delle coeve società caratterizzate da modi di produzione meno produttivi. In breve, lo stadio più avanzato è destinato a sostituire in toto quelli più arretrati in un processo che può essere concepito come un predeterminato schema di evoluzione. A partire dai Grundrisse, però, Marx articola una concezione diversa: il modo di produzione più produttivo non elimina necessariamente gli altri, ma crea diverse formazioni sociali sotto un meccanismo dominante, l’accumulazione capitalistica, che subordina e, nel caso, rifunzionalizza le forme sociali pregresse. Da ciò deriva, da una parte, la possibilità di delineare una concezione multilineare della storia, dall’altra, la capacità di rendere visibili diversi tipi di oppressione e sfruttamento. Questa concezione si è articolata e consolidata attraverso l’approccio teorico e politico di Marx ai paesi non europei. Un approccio che ha tra i suoi esiti più rilevanti l’ipotesi di una via russa al socialismo senza un passaggio preliminare attraverso un compiuto sviluppo capitalistico.
Ripetiamolo in altro modo: la dinamica capitalistica tende verso una totalizzazione dello spazio mondiale, ma quest’ultimo assume caratteristiche contraddittorie perché contraddistinto da uno sviluppo diseguale e combinato. Lo spazio-tempo capitalistico sussume ma non annulla la molteplicità delle configurazioni spazio-temporali presenti sul globo. Qui il tempo e lo spazio, come si può intuire dal titolo del libro di Garcia-Quesada, devono essere intesi come forme sociali storicamente mutevoli, vale a dire prodotti della prassi umana che organizzano i differenti processi sociali e che, nella loro inscindibile ma variabile relazione, definiscono le coordinate di ciascuna configurazione storica. Nonostante l’inseparabilità di queste due dimensioni, Marx utilizza modelli prevalentemente spaziali per descrivere le società precapitalistiche, con particolare riferimento al rapporto tra città e campagna. La dimensione temporale non scompare ma è messa in secondo piano perché questi tipi di società sono caratterizzati dalla longue-durée. La forte stabilità è una loro caratteristica essenziale. Il capitalismo è invece concettualizzato da Marx prevalentemente in termini temporali, caratterizzato come è dall’annichilimento dello spazio da parte del tempo. La separazione dello spazio dal tempo è però il portato dello stesso sviluppo capitalistico. È possibile pensare un processo sociale in termini esclusivamente temporali a patto di presupporre implicitamente uno spazio con caratteristiche costanti. Uno spazio, cioè, astratto, globale e mercificato in cui prevale la dimensione urbana. 

Abbiamo fin qui visto l’importanza delle configurazioni spazio-tempo a livello teorico ed epistemologico. Ma c’è un altro aspetto che emerge leggendo Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces. La rilevanza di queste configurazioni da un punto di vista narrativo. Nel raccontare la storia della Comune, per esempio, Marx, ricorre a uno slittamento nella scala della periodizzazione che permette una sorta di happy ending. Se ci si fermasse al breve periodo, alla congiuntura, la narrazione diventerebbe semplicemente tragica in considerazione del massacro dei comunardi. Ma su una scala temporale (e spaziale) più ampia possiamo prevedere la vittoria del proletariato. Questo slittamento ha una spiegazione politica, perché serve a motivare la prosecuzione della lotta. Al tempo stesso non si tratta di una scelta arbitraria dal momento che è possibile giustificarla sulla base della teoria marxiana la quale consente di affermare che i meccanismi generativi della lotta di classe non finiscono di operare nonostante la sanguinosa sconfitta della Comune.
La storiografia ha dunque degli aspetti narrativi che la accomunano alla fiction. Tuttavia, sottolinea Garcia-Quesada, questo terreno comune non dissolve la differenza tra i due generi e la loro specifica relazione con la realtà. Detto altrimenti, formulare un cronotopo – termine ispirato all’opera di Michail Bachtin che sta per configurazione spazio-temporale – significa per Marx articolare attraverso una narrazione il livello cognitivo, quello politico e quello estetico, anche se è il primo a prevalere perché la funzione principale in una storiografia realista è quella di dar conto dei meccanismi all’opera nel processo storico. Rimane il fatto che i cronotopi marxiani comportano sempre uno schieramento politico perché sono strutturati sulla base del conflitto descrivendo relazioni sociali diseguali con l’accumulazione del capitale come ultimo background di tutti i processi. Il resoconto marxiano della “cosiddetta accumulazione originaria”, per utilizzare un altro esempio tratto dal libro recensito, è una spiegazione narrativa che può essere formulata solo rendendo visibile il punto di vista degli espropriati, una spiegazione critica che approccia la totalità sociale dal suo lato nascosto e che implica una presa di posizione nella battaglia per la memoria.
Marx, a proposito del Capitale, parla della necessità di tenere distinti il metodo della ricerca da quello della esposizione (Darstellung) dei suoi risultati, consapevole del rischio di fare apparire l’esposizione stessa, anche in considerazione della sua articolazione dialettica, come una costruzione a priori. Ma con ciò, sostiene Garcia-Quesada, il filosofo tedesco si riferisce alla teoria del modo di produzione e dunque al livello dei sistemi chiusi. La narrazione rende invece conto della contingenza che inerisce ai sistemi aperti, cioè alle formazioni sociali e alle congiunture. La narrazione necessariamente completa l’esposizione, marxianamente intesa, al fine di spiegare la storia effettiva, collegando la microstoria con la macrostoria e, in questo modo, l’agency con le strutture e i meccanismi oggettivi che, a vari livelli, operano nelle diverse configurazioni spazio-temporali. Questi meccanismi, a loro volta, contribuiscono a definire la modalità narrativa più adatta alle società contemporanee. Se il capitalismo è il modo di produzione totalizzante per eccellenza, per descriverlo sarà necessario utilizzare un racconto a sua volta totalizzante ma, al tempo stesso, data la varietà delle forme sociali in cui esso domina, capace di fare affidamento su diverse sottotrame intrecciate in una narrazione multilineare.

Concludiamo con un’ultima considerazione. Secondo Garcia-Quesada, la dimensione episodica, che può essere catturata solo attraverso la narrazione, è quella che introduce la discontinuità nello spazio-tempo definito dalla narrazione stessa, indicando le possibili trasformazioni della dimensione strutturale e, in questo modo, un momento riconfigurativo che appare nella storia. Una considerazione di cui varrà la pena tener conto anche quando affrontiamo le questioni inerenti alla guerra in corso. Attraverso le attuali vicende belliche, infatti, si manifesta una tendenza verso il baratro che apparirebbe assolutamente ineluttabile qualora ci limitassimo a svelare il dispiegarsi delle leggi generali dell’accumulazione capitalistica.

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Il soprannaturale come strumento di libertà https://www.carmillaonline.com/2022/04/06/il-soprannaturale-come-strumento-di-liberta/ Wed, 06 Apr 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71296 di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti [...]]]> di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti letterari sui quali è imbastita la sua tessitura narrativa. Il romanzo giunge solo ora alle stampe ma è stato scritto circa vent’anni fa, sul finire degli anni Novanta, da uno dei più originali scrittori e saggisti contemporanei, Paolo Zanotti, scomparso prematuramente nel 2012.

La vicenda si svolge a Pisa, nell’ambiente universitario della seconda metà degli anni Novanta (lo stesso vissuto dall’autore e, fra parentesi, anche dal sottoscritto). A creare scompiglio fra i personaggi principali del racconto (Florian, regista del teatro “Sant’Andrea”, la sua fidanzata Emilia, l’ingegnoso Luca, il poeta Giacomo, il “seduttore punito” Simone, Oreste e Lodovico, padri rispettivamente di Florian e di Emilia), a un certo punto, sopraggiunge una bellissima ragazza sconosciuta, Ortensia, la cui identità è sfuggente e non definibile dal momento che assume anche nomi diversi a seconda della situazione, Viola, Lisa, Arabella. Ortensia è un personaggio fluido, nomadico, caratterizzato da una propensione naturale all’erranza, soprattutto notturna, aperto a una pluralità di ruoli e di identità ed è caratterizzato da tratti soprannaturali tanto da essere connotato, in diversi momenti, come una vampira. Anche un altro personaggio, Emilia, possiede in sé una fluidità di genere che si oppone al rigido schematismo maschile-femminile. A un certo punto, infatti, per mezzo di una vera e propria metamorfosi transgender, la ragazza si tramuterà – fasciandosi i seni e indossando abiti maschili, quasi come la protagonista del film Titane (2021) di Julia Ducournau – nel fantomatico fratello Edoardo, che ha abbandonato da anni la casa paterna per vivere all’estero.

E sul palcoscenico pisano (importanti, come vedremo, sono i riferimenti al teatro) agisce una sarabanda di personaggi che sembrano muoversi ininterrottamente da una parte all’altra della città, in un impianto narrativo tenuto saldamente insieme da una struttura di tipo picaresco. Il soprannaturale, però, non si insinua nella narrazione solo tramite il personaggio di Ortensia: ci sono altri personaggi evanescenti, eterei, onirici, connotati anche da una venatura a metà fra il diabolico e il buffonesco, come Tancredi, il gatto parlante di Florian, con tanto di stivali, che si esprime con una elegante cadenza francese da moschettiere, o come Titti e Osvaldo, i “fratellini infernali”, o il personaggio ambiguo e sfuggente di Francesco Paolo o, ancora, il misterioso Hermann Salice Contessa.

Chissà se, tra le fonti di ispirazione di Zanotti, figura anche Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, uno dei più grandi scrittori russi contemporanei, nato a Kiev nel 1891. L’atmosfera fiabesca e onirica che si respira in Trovate Ortensia!, venata di soprannaturale, ricorda molto quella che ci avvolge se sfogliamo le pagine del capolavoro dell’autore russo. Secondo Francesco Orlando, “il soprannaturale è qui prima di tutto scatenamento dei precedenti leggendari dentro il quotidiano”1. Nella quotidianità della Mosca degli anni Trenta fanno irruzione una serie di personaggi dai tratti soprannaturali: Woland, un misterioso professore straniero esperto di magia nera (che altri non è se non il Diavolo in persona) e i suoi accoliti, tra cui incontriamo l’enorme gatto Behemoth che, insieme a Korov’ev (Fagotto) crea scompiglio in tutta Mosca con i suoi poteri magici; poi Azazello, che porta sempre un pince-nez con un vetro rotto, Hella, un vampiro femmina il cui nome è un chiaro riferimento a “Hell”, “inferno” e, infine, Abadonna, signore della guerra e servo di Woland. Secondo Orlando, questo romanzo “propugna anche di fatto una solidarietà tra soprannaturale e letteratura, dimensione privilegiata del diritto alla fantasia e alla libertà”2.

Anche il soprannaturale che pervade le pagine di Trovate Ortensia! dischiude una dimensione di fantasia e libertà: apre al lettore un immaginario liberato e trasforma i momenti quotidiani di una città in una sospensione magica e incantata, attraversata in alcuni momenti da connotazioni veramente orrorifiche e infernali. Come già accennato, i personaggi sono persi in un vortice nomadico e picaresco, impegnati in scorribande cittadine che diventano viaggi onirici e fiabeschi in spazi senza confini. Come sempre osserva Orlando, rifacendosi alle teorie freudiane, “come i giochi del bambino, la letteratura apre uno spazio immaginario fondato sulla sospensione o neutralizzazione della differenza tra vero e falso, uno spazio in cui vige il diritto di rispondere al piacere dell’immaginario”3. In uno spazio aperto ad un immaginario liberato si muovono anche i piccoli protagonisti di Bambini bonsai (2010), in cui Zanotti racconta con grazia e maestria il viaggio di Pepe e altri bambini in un futuro post-apocalittico e eco-distopico, verso la “casa-nave” di Petronella. In Trovate Ortensia! non sono solo i tratti soprannaturali a dischiudere una dimensione di fantasia e di libertà ma anche la stessa struttura “polifonica” della narrazione. Sono anche le svariate voci che agiscono nel racconto a offrire spazi di libertà, sono anche i diversi registri stilistici e lessicali, aperti verso un pastiche quasi gaddiano che bene ingloba nella narrazione parole ed espressioni del vernacolo pisano (i cui termini sono spiegati in un glossario alla fine del libro), a plasmare nuove aperture verso il piacere dell’immaginario. E, non da ultimo, a permettere le vie di accesso a una fantasia liberata è anche la natura enciclopedica dell’opera, cui si è già accennato, quella pluralità di generi e di autori che si nascondono dietro la tessitura narrativa.

Una natura enciclopedica che è riscontrabile fin dal titolo, il quale è una vera e propria citazione da Rimbaud, da H, un componimento delle Illuminazioni – nel quale l’enigmatica figura femminile è caratterizzata da “mostruosità” e “gesti atroci” – che si conclude proprio con le parole “trovate Ortensia” (“trouvez Hortense”). Del resto, un preciso rimando a Rimbaud lo possiede anche il personaggio di Florian, caratterizzato, durante uno dei suoi vagabondaggi per la città, come un “Pollicino rêveur incapace di rintracciare il filo della prossima mollica”. In La mia bohème, è lo stesso poeta francese a definirsi come un “Petit-Poucet rêveur” (“Pollicino sognatore”) mentre vagabonda per strade e osterie nelle notti di settembre. Il romanzo ritrovato di Zanotti è costellato anche da criptocitazioni, le quali, parafrasate, si inseriscono quasi naturalmente all’interno della narrazione, perfettamente inglobate e ‘naturalizzate’ nel testo ospitante. Ad esempio, nel momento in cui Francesco Paolo, nel suo giardino, è intento a sfogliare un libro sul Madagascar, sopraggiunge Ortensia come un’apparizione fantasmatica e l’autore commenta: “Perché gli spettri ti possiedano non c’è bisogno di una stanza, non c’è bisogno di essere una casa”, frase che appare quasi come una parafrasi dei seguenti versi di Emily Dickinson: “Non occorre esser camera né casa / per sentirsi invasati dallo Spettro” (One need not to be a chamber – to be Haunted / One not to be a House”).

Una spiccata letterarietà di fondo non risparmia neppure certe descrizioni trasognate dei personaggi. Nel momento in cui Emilia e Florian si incontrano per la prima volta, la reciproca attrazione che li travolge è rivestita di connotazioni romantiche venate di letteratura. Infatti, “Emilia era bella come una reincarnazione di Emilia Viviani, la Rapunzel dell’Ottocento rinchiusa nel convento di Sant’Anna e amata dal poeta Shelley esiliato a Pisa: Emilia Viviani, l’«anima amante che si slancia fuori del creato e si crea nel infinito un Mondo tutto per essa diverso assai da questo oscuro e pauroso baratro»”. Se Florian, nel guardare Emilia, possiede un filtro romantico e letterario, anche la ragazza, nel momento in cui vede il giovane per la prima volta, non è da meno: “E a questa apparenza di anima bella corrispondevano pensieri altrettanto romantici, se anche Emilia era riuscita allora a vedere in Florian, nei suoi riccioli e nella sua barba che sapeva di mare l’ultimo fiore di una lunga genìa di viaggiatori, pirati, avventurieri, liberatori della Grecia, garibaldini, anarchici cavalieri dell’ideale, partigiani, sessantottini e più in generale combattenti per la libertà”. Anche le descrizioni della città di Pisa sono incastonate in una dimensione letteraria e incantata. Se nella frase “in questo periodo, le notti di Pisa hanno qualcosa delle notti bianche”, la città toscana è immediatamente accostata all’immaginifica Pietroburgo di Dostoevskij, in quest’altro brano un po’ più lungo, la città, sotto lo sguardo di Ortensia, si trasforma letteralmente in uno scenario da romanzo:

Per le strade di Pisa, intanto, Ortensia cammina col suo passo ciondolante, eppure svelto e snello. Di tanto in tanto, senza fermarsi, sorride e ridacchia. Percorre via Vittorio Veneto, e poi via Battelli e via De Amicis fino all’arco e a piazza Gondole. Di lì inizia la scenografia notturna di via Santa Marta, e infine si arriva all’Arno. Dal ponte della Fortezza il fiume si vede più largo che dal ponte di Mezzo. Ci si può anche scendere e trovare un piccolo lembo di terra tra erbosa e sabbiosa. Ortensia si ferma sul ponte, ma guarda in alto. Al di sopra dell’Arno incombe un cielo romanzesco: metà turchino intenso, metà blu cobalto – forse domani pioverà (e forse è quello che stanno pensando tutti). Nella parte più chiara del cielo, le stelle vanno a comporre un percorso prefissato. Un aereo ne costeggia alcune e poi, sotto forma di automobile, si scontra con una stella più luminosa. Ortensia ridacchia e sorride, sorride e ridacchia, poi guarda al vecchio palazzo del lungarno Galilei, si rabbuia e se ne va (pp. 112-113).

Come in un esperimento di geopoetica, le vere strade di Pisa si trasformano in uno scenario narrativo e romanzesco. Con Trovate Ortensia! possiamo insomma divertirci a seguire un personaggio letterario sulla mappa reale di una città, come fa Umberto Eco con Parigi per scoprire “dove abitava quell’individuo reticente e misterioso che era Aramis”4 oppure a ripercorrere dal vero quelle stesse strade nella Pisa contemporanea che, da quella seconda metà anni Novanta, non è poi cambiata così tanto.

Una ben salda caratterizzazione letteraria (e musicale in quanto, in un’occasione, si trasforma quasi nella Marinella della celebre canzone di De André) la possiede anche Ortensia. Nella sua veste di personaggio etereo e fantasmatico viene infatti più volte avvicinata a una vampira. Non a una vampira qualunque, ma a Carmilla, la protagonista dell’eponimo romanzo di Joseph Sheridan Le Fanu del 1872, a cui si ispira anche il nome di questa webzine. I riferimenti alla vampira del romanzo dello scrittore irlandese vengono attuati anche tramite un sottile gioco allusivo, in quanto “Carmilla” è il nome di un locale di Pisa, molto frequentato dagli studenti nel periodo in cui si ambienta il romanzo. Ad esempio, a proposito di Viola-Ortensia così si esprime Luca: “Luca, per sdrammatizzare, gli disse che l’aveva scampata bella, perché questa Viola – che non a caso, beh, era finita al Carmilla – doveva essere tipo una vampira aliena che deve accoppiarsi, e all’uopo cerca il maschio più adatto […]”. E anche di fronte alle avances del “seduttore” Simone, Ortensia ha una reazione quasi vampiresca: “La reazione di Ortensia a queste effusioni si dimostrò, anzi, persino eccessiva, specie quando si chinò sul collo di Simone e iniziò a succhiarlo e baciarlo metodicamente, quasi a fargli male”. Successivamente, la ragazza appare preda di una misteriosa malattia – simile a quella da cui è afflitta Carmilla – che la illanguidisce e la fa dormire molto, rendendola ancora più evanescente ed eterea. Tra l’altro, ammalata, viene condotta a casa di Emilia, la quale le si affeziona nello stesso modo in cui, nel romanzo di Le Fanu, Laura, che vive con il padre in un castello isolato della Stiria, si affeziona alla languida e bellissima protagonista. E, non a caso, una volta che Ortensia si sarà ristabilita, Emilia progetta di portarla proprio al “Carmilla”: “Progetto per il prossimo fine settimana: la metto in tiro e la porto al Carmilla”. Un diretto rimando a Carmilla di Le Fanu è poi attuato da Florian, in riferimento alla possibilità che Arabella e Ortensia possano essere la stessa persona: “Però, se è veramente il suo vampiro, doveva averci il nome anagrammato: Carmilla-Mircalla. Ortensia, invece, non c’incastra con niente”. Si può ricordare che un riferimento alla protagonista del romanzo dello scrittore irlandese lo incontriamo anche in un racconto di Zanotti dal titolo La cella geografica (adesso, insieme ad altri racconti usciti sul “Caffè illustrato” fra il 2004 e il 2010, incluso nella raccolta L’originale di Giorgia e altri racconti, pubblicata nel 2017): qui, l’io narrante riveste di connotazioni quasi demoniche e soprannaturali una sua amica d’infanzia di nome Camilla, chiamata appunto con i due appellativi dei doppi di Carmilla, Mircalla e Millarca, anagrammi del nome della fanciulla vampiro.

Come già accennato, anche la dimensione teatrale riveste una notevole importanza in Trovate Ortensia!. Punto culminante della polifonia espressiva che anima l’intera narrazione è la messa in scena finale al “Sant’Andrea” del Racconto d’Inverno di Shakespeare: il teatro pisano si configura come lo spazio affabulatorio verso il quale convergono le erranze narrative del racconto e che vedrà riuniti tutti i personaggi. Il paradigma teatrale, nel romanzo di Zanotti, non è però rappresentato soltanto dal modello illustre di Shakespeare (pure se diverse opere dell’autore inglese appaiono come importanti ipotesti nel senso delineato da Gérard Genette). Esso compare anche, se così si può dire, in una sua dimensione più umile e popolare incarnandosi in una vera e propria rappresentazione di teatro vernacolare pisano attraversata dal registro stilistico più basso e buffonesco. Memorabile è la scenetta domestica, dominata da trovate comiche espresse con termini dialettali e popolari, che vede protagonisti il signor Lodovico, sua figlia Emilia, il signor Oreste e suo figlio Florian. Lodovico arriverà poi a trasformarsi quasi in un re che tiene imprigionata la figlia nella torre del suo castello per impedirle la frequentazione del pretendente Florian. Allora si scateneranno duelli, singolar tenzoni, avventure degne di un romanzo cavalleresco, monologhi drammatici in una granduignolesca mescolanza fra alto e basso.

Ogni dimensione narrativa appare dolcemente pervasa da un soprannaturale che, alleandosi con la letteratura, come osservava Orlando riguardo al Maestro e Margherita, permette il dischiudersi di un irrinunciabile diritto alla fantasia e alla libertà. È qui, credo, che risiede l’aspetto più significativo di Trovate Ortensia!, un vero e proprio gioiello letterario che finora era rimasto nascosto e che adesso, come un dispettoso e salvifico folletto, è riemerso dalle brume degli anni Novanta. E davvero, ai giorni nostri, c’è più che mai bisogno di una letteratura che, per mezzo di un immaginario venato di soprannaturale, possa offrire inediti slanci di liberazione a percorsi fin troppo obbligati. E allora ci rendiamo conto di quanto ci manca, oggi, la magica penna di Paolo Zanotti.


  1. F. Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, Einaudi, Torino, 2017, p. 159. 

  2. Ivi, p. 162. 

  3. Ivi, p. 22. 

  4. U. Eco, Lo strano caso di via Servandoni, in Id., Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University, Norton Lectures 1992-1993, Bompiani, Milano, 1995, p. 124. 

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“Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR” di Alessandro Bertante https://www.carmillaonline.com/2022/02/14/mordi-e-fuggi-il-romanzo-delle-br-di-alessandro-bertante/ Mon, 14 Feb 2022 22:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70522 di Paolo Lago

Alessandro Bertante, Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Baldini+Castoldi, Milano, 2022, pp. 205, euro 17,00.

In Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Alessandro Bertante, con la consueta maestria, presenta un altro dei suoi personaggi ‘dannati’ e solitari, implacabili camminatori metropolitani sull’orlo di inferni, instancabili attraversatori di frontiere in scenari contemporanei che sembrano già crudeli rappresentazioni di distopie in atto. Il protagonista Alberto Boscolo è un personaggio di finzione incastonato in uno spaccato storico reale: la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la fondazione e le [...]]]> di Paolo Lago

Alessandro Bertante, Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Baldini+Castoldi, Milano, 2022, pp. 205, euro 17,00.

In Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Alessandro Bertante, con la consueta maestria, presenta un altro dei suoi personaggi ‘dannati’ e solitari, implacabili camminatori metropolitani sull’orlo di inferni, instancabili attraversatori di frontiere in scenari contemporanei che sembrano già crudeli rappresentazioni di distopie in atto. Il protagonista Alberto Boscolo è un personaggio di finzione incastonato in uno spaccato storico reale: la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la fondazione e le prime azioni delle Brigate Rosse. Bertante incentra la sua narrazione sulla fase aurorale delle BR, quando queste ultime erano ancora uno dei tanti gruppi della sinistra extraparlamentare, e neppure particolarmente violento. Come l’autore sottolinea in una sua intervista a “Fahrenheit”, il romanzo ci offre delle immagini assai lontane da ciò che potremmo immaginarci oggi pensando alle Brigate Rosse, associate sempre all’efferatezza dei cosiddetti “anni di piombo” nonché al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro. Le BR che emergono dalle pagine di Mordi e fuggi sono un gruppo extraparlamentare impegnato soprattutto in atti dimostrativi e altamente radicato nelle fabbriche e nei quartieri più popolari e proletari, nei quali contribuiva anche all’occupazione degli stabili: «Eravamo il gruppo estremista responsabile degli attentati incendiari ai padroni ma anche uomini e donne che lavoravano nei quartieri e si facevano volere bene dai proletari».

Il personaggio di Alberto Boscolo – continua l’autore nell’intervista – si ispira a uno dei due brigatisti delle origini che hanno lasciato quasi subito la lotta armata e che non sono mai stati identificati. Non sarebbe azzardato, perciò, definire Mordi e fuggi (il titolo viene dalla frase che i brigatisti scrissero sul cartello appeso al collo del dirigente della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini durante il suo ‘sequestro-lampo’) come un romanzo storico che mette in scena uno spazio e un tempo preciso: Milano fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta. E allora, sotto i nostri occhi, fra le lotte e le contestazioni operaie e studentesche, scorrono alcuni degli eventi più tragici e luttuosi di quel periodo come la strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969, o l’assassinio di Giuseppe Pinelli. Gli eventi reali (in cui incontriamo i veri protagonisti di quegli anni, Renato Curcio, Mara Cagol, «il Mega» alias Alberto Franceschini) accaduti in quel periodo non sono però scrutati per mezzo di uno sguardo freddo e distaccato, ma vengono raccontati con partecipazione emotiva da un personaggio che, in essi, si trova immerso fino al collo. Perché il ventenne Alberto Boscolo, come già accennato, non è poi troppo diverso da altri personaggi di Bertante: irrequieti fino al limite della ‘dannazione’, immersi in un universo sociale contemporaneamente amato e odiato, tormentati dalle proprie scelte passate e future, condannati a osservare la realtà per mezzo di uno sguardo ipersensibile e partecipato (caratteristica, questa, che Mordi e fuggi – offrendo per di più uno spaccato storico reale – ha in comune con il “New Italian Epic” delineato da Wu Ming 1).

Probabilmente, anche lui è un «sopravvissuto» come Alessio Slaviero, personaggio io narrante che incontriamo in altre opere dell’autore, da Nina dei lupi (2011) fino a La magnifica orda (2012) e Estate crudele (2013). Un personaggio attanagliato dalla solitudine, ‘eversivo’ cultore dell’erranza metropolitana, incanaglito abitatore di soffitte e mansarde nel centro di Milano. Come Alessio Slaviero o come il protagonista de Gli ultimi ragazzi del secolo (2016), Alberto Boscolo compie lunghe camminate per Milano tratteggiate come vere e proprie imprese epiche. Lo sguardo ipersensibile di questi personaggi attua una vera e propria trasfigurazione della realtà; Boscolo, come Slaviero, si immagina di essere un cavaliere errante, un guerriero epico che combatte per la libertà (non a caso, nel libro viene spesso richiamato il paradigma mitico di Robin Hood). La stessa sintassi, frammentata in sintagmi lenti e solenni, dominati dall’anafora, mima l’incedere della narrazione epica (si legga, ad esempio, questa frase: «[…] siamo coraggiosi e temerari, siamo sprezzanti del pericolo. Siamo le Brigate Rosse»). La camminata si trasforma allora in un procedimento stilistico che, guardando a modelli illustri, permette il dipanarsi dell’incedere narrativo. Comunque, a monte delle erranze metropolitane (che, dalla flânerie ottocentesca fino alla «nomadologia» di Deleuze e Guattari possiedono una forte impronta sovversiva) dei personaggi di Bertante, più che l’epica, molto probabilmente, c’è il romanzo dell’Ottocento. Le stesse camminate metropolitane si avvicinano a quelle di diversi personaggi dostoevskijani, a cominciare da Raskol’nikov. È lo stesso Boscolo, del resto, a paragonarsi al protagonista di Delitto e castigo in un impeto di “mitomania” letteraria, in un momento in cui, dopo la scoperta e la cattura di alcuni suoi compagni, si chiude in casa sentendosi braccato:

Bruciai nel lavandino tutti i documenti in mio possesso: volantini, carta d’identità falsa, comunicati delle BR. Ma ancora non bastava, dovevo sedarmi per calmare la tensione prima di trasformarmi in una specie di caricatura di Raskol’nikov, privo di qualsiasi senso di colpa o tormento esistenziale ma comunque febbricitante e imprigionato fra le quattro mura di una mansarda. Scesi in strada e, muovendomi come una spia in territorio nemico, percorsi un centinaio di metri per raggiungere la bottiglieria di corso Genova, come al solito affollata di gente. Entrai e comprai una fiaschetta di grappa da mezzo litro. Tornato a casa, cominciai subito a bere, stolto e metodico fino a ottenere un poco di tregua dai pensieri ossessivi. Mi addormentai ubriaco, sdraiato sul piccolo divano della cucina.

Pure se «caricatura» di Raskol’nikov (i modelli alti sono sempre irraggiungibili), Boscolo si muove in spazi molto simili a quelli del personaggio di Dostoevskij: la strada, spazio di incontri buoni o cattivi, una soffitta, piccola e stretta (simile a una bara o a una tomba secondo Bachtin), le osterie dove si reca a bere e dove si dischiudono nuovi incontri e nuovi percorsi narrativi. La ‘letterarietà’ del personaggio è indiscutibile: esce in preda all’angoscia, va in una bottiglieria affollata e compra della grappa per poi ubriacarsi da solo in casa, azioni che davvero non compierebbe un lucido militante delle BR in clandestinità, col rischio di essere arrestato. E, parlando di Dostoevskij, non si può non ricordare I demoni (ispirato alle vicende politiche e sociali che ruotano attorno alla cellula rivoluzionaria di Nečaev) le cui atmosfere sembrano assai presenti in Mordi e fuggi mentre lo stesso Boscolo potrebbe apparire come una «caricatura» del ‘demonico’ Stavrogin. E dai personaggi dostoevskijani Boscolo sembra mutuare anche la sua angoscia devastante che, ubriaco o febbricitante, gli fa percorrere dimesse spazialità urbane (anche i personaggi ‘angosciati’ dello scrittore russo sono spesso caratterizzati come febbricitanti).

Lo spazio in cui avviene l’azione narrativa di Mordi e fuggi, come già osservato, possiede una collocazione precisa: Milano, che il personaggio percorre in lungo e in largo, dal centro alla periferia. I luoghi in cui avviene la narrazione sono sempre affrescati con precisione, dalle periferie ai quartieri del Giambellino e di Lorenteggio, da Piazza Duomo a via Tadino fino a Piazza Fontana. Il romanzo si apre con Boscolo che, in una fredda mattina di novembre, sta facendo volantinaggio all’ingresso di una fabbrica sulla circonvallazione ovest, vicino alla casa dei genitori che ha lasciato da tempo. Anche lo stesso spazio milanese, a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, assume connotazioni quasi mitiche, perennemente caratterizzato come freddo e avvolto dalla nebbia; uno spazio e un tempo – sembra – ormai sconosciuti e dimenticati: «Faceva sempre molto freddo in quegli anni, ogni giorno le città si risvegliavano al buio, coperte da una fitta nebbia che la luce dei lampioni non riusciva a spezzare». Del resto, si tratta dello stesso spazio tratteggiato ne Gli ultimi ragazzi del secolo in cui, in forma autobiografica, lo scrittore ripercorre la sua infanzia e adolescenza (la casa natale, anche qui, si trova vicino alla circonvallazione ovest; ma echi autobiografici sono presenti in quasi tutti i romanzi di Bertante: i nomi dei personaggi Alessio e Alberto, non a caso, hanno le stesse due lettere iniziali del nome Alessandro). Anche la Milano dell’infanzia, ne Gli ultimi ragazzi del secolo, appare sempre connotata da inverni freddissimi, allontanati in un ricordo che si fa mito, e la stessa città finisce per somigliare a quella, nebbiosa e malinconica, che vediamo in Milano calibro 9 (1972) di Fernando Di Leo, film ispirato alle suggestive atmosfere narrative di Giorgio Scerbanenco.

Ma quello spazio del mito – nonostante la formidabile temperie culturale e sociale degli anni Settanta, ancora di là da venire – sembra già possedere in sé i segni di una lenta decadenza: la Milano nebbiosa, fredda, solcata da lotte e contestazioni, sta per lasciare lentamente il passo alla Milano “da bere” degli anni Ottanta. Boscolo giunge in Piazza Duomo «completamente stralunato» e si ritrova in uno spazio che, sulla scia di un nuovo pervasivo consumo di massa, è destinato inesorabilmente a mutare: «Le grandi insegne pubblicitarie illuminate dal neon di fronte alla cattedrale raccontavano di una nuova esaltante stagione commerciale inneggiante all’alcolismo: Cinzano, Vov, China Martini, Fernet Branca, Vermouth Bosca erano lusinghe viziose appena mitigate dalla universalità popolare della Coca-Cola e dal rassicurante paesaggio piccolo-borghese delle Collezioni Facis». La città è destinata a trasformarsi nella «Milano Metropoli degli anni Ottanta», falcidiata dall’eroina e dalle televisioni private, cantata da Bertante ne Gli ultimi ragazzi del secolo. E Alberto Boscolo? In che modo si avvia verso questi nuovi anni di disimpegno, una volta abbandonata la lotta armata? Cos’altro sappiamo di lui? Come scrive l’autore in una nota finale «per il lettore», «nessun brigatista del nucleo storico rivelò la sua vera identità. Cosa che non faremo nemmeno noi».

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Al bar Pilade, fra bombe e complotti https://www.carmillaonline.com/2021/07/04/al-bar-pilade-fra-bombe-e-complotti/ Sun, 04 Jul 2021 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67001 di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano [...]]]> di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano al «banco di zinco» del bar nel «periodo in cui tutti si davano del tu, gli studenti ai professori e i professori agli studenti. Non parliamo della popolazione di Pilade: “Pagami da bere”, diceva lo studente con l’eschimo al caporedattore del grande quotidiano. Sembrava di essere a Pietroburgo ai tempi del giovane Sklovskij. Tutti Majakovskij e nessun Zivago»1.

L’ambientazione di quello stesso bar Pilade del Pendolo compare nella seconda parte del saggio di Wu Ming 1, La Q di Qomplotto, uscito recentemente per Alegre, intitolata QAnon: filamenti di genoma transatlantico, collected from good authorities. Ho definito come “saggio” l’ultima opera di Wu Ming 1 ma probabilmente devo correggermi: si tratta, infatti, di un UNO, cioè – parafrasando l’acronimo UFO, “Unidentified Flying Object” – di un “Unidentified Narrative Object”, cioè un oggetto narrativo non identificato. L’espressione è stata coniata dallo stesso Wu Ming 1 in un intervento comparso su “Carmilla” nel settembre del 2008 (New Italian Epic 2.0): «gli UNO sono esperimenti dall’esito incerto, malriusciti perché troppo tendenti all’informe, all’indeterminato, al sospeso. Non sono più romanzi, non sono già qualcos’altro». Si tratta in sostanza di una forma ibrida, sorta sulla scia di quella linea multiforme e menippea messa in evidenza da Michail Bachtin soprattutto nel suo saggio su Dostoevskij. Del resto, nella letteratura è già possibile individuare una forma a metà tra romanzo e saggio, il cosiddetto “metaromanzo”, cioè un romanzo che riflette su stesso e sulle sue forme, individuabile già a partire da La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo (The Life and Opinions of Tristram Shandy Gentleman, 1759-1767) di Laurence Sterne fino a Petrolio (1992) di Pier Paolo Pasolini.

Però, gli UNO si pongono anche al di là del metaromanzo: sono, come accennato, forme ibride, composte da reportage giornalistici, stralci narrativi, poesie, prose poetiche, il tutto combinato insieme per mezzo di svariati stili secondo la tecnica del pastiche. Insomma, il bar Pilade è l’ambientazione dell’ultima parte di La Q di Qomplotto il quale, per il solo fatto di riallacciarsi ad una precedente opera come Il pendolo di Foucault assume delle caratteristiche peculiari. L’autore (che si trasforma in personaggio e narratore) fa un sogno («Fu quella notte che feci il sogno»: così si conclude la prima parte del libro, quasi in una citazione dell’incipit del romanzo di Eco, «Fu allora che vidi il pendolo») e si trova proiettato in una dimensione a metà fra gli anni Settanta e il gennaio 2021 («Un 2021 parallelo, dove i bar erano aperti e nessuno portava la mascherina», QdQ, p. 395). È qui che, novello Casaubon, l’autore-personaggio racconta a Belbo e Diotallevi, gli editori del Pendolo, storie di complotti italiani, poi messi a nudo. L’andamento saggistico del libro, prevalente nella prima parte, assume perciò un aspetto narrativo: il saggio si trasforma in romanzo pur non perdendo il suo aspetto saggistico, il quale viene adesso intervallato da piccole scenette che avvengono all’interno del bar dove, ad ascoltare la storia, si trovano anche alcune giovani studentesse. Mentre l’autore racconta, preso dal suo narrativo impeto onirico, alcune esplosioni fanno tremare i tavolini e il bancone del bar, perché – come afferma Belbo – «sono anni di bombe, quelli che viviamo» (QdQ, p. 533).

L’operazione realizzata da Wu Ming 1 a partire dal romanzo di Eco rientra all’interno delle pratiche ipertestuali analizzate da Gérard Genette in Palinsesti (uno studio sulla «letteratura al secondo grado»), e potrebbe essere definita come una «amplificazione» del Pendolo di Foucault, cioè una vera e propria espansione narrativa. Lo scrittore, infatti, aggiunge delle situazioni narrative non presenti nell’opera originaria creando anche un nuovo personaggio, Valentina Belbo, la giovane cugina di Iacopo. Del resto, La Q di Qomplotto è costruita come un’opera intertestuale e incline al pastiche (inteso come pratica ‘imitativa’), un mastodontico contenitore che include innumerevoli riferimenti alla cultura, alla società e alla politica. La parte finale della prima parte, a partire dal capitolo 22, significativamente intitolato La virulenza illustrata, è scritta con uno stile che rimanda esplicitamente a Nanni Balestrini (lo stesso titolo del capitolo è ricalcato su quello del romanzo di Balestrini, La violenza illustrata, del 1976): la narrazione si velocizza in uno stile rapido e dal taglio giornalistico mentre scompare praticamente del tutto la punteggiatura. Ma è indubbiamente Il pendolo di Foucault «il libro delle metastasi» (così è intitolato il capitolo 4), un’opera che Wu Ming 1 ha tenuto costantemente presente nella stesura del suo lavoro:

Il pendolo di Foucault era tante cose: un romanzo di formazione (e deformazione), un’enciclopedia esoterica impazzita, una testimonianza sull’industria culturale italiana nel passaggio tra anni Settanta e Ottanta, e soprattutto una riflessione sulle fantasie di complotto: come nascevano, come si sviluppavano, come parlarne. Riflessione molto più comprensibile trent’anni dopo, nel passaggio tra gli anni Dieci e Venti del nuovo secolo. Eco aveva raccontato – senza mai voler essere “futuribile” – il mondo in cui mi trovavo ora, mentre facevo inchiesta su QAnon e dintorni (QdQ, p. 70).

A partire dal romanzo di Eco l’autore arriva fino a «QAnon e dintorni» per dimostrare come «le fantasie di complotto difendono il sistema». Sotto il nome di QAnon si indica una teoria del complotto di estrema destra, sorta negli Stati Uniti, secondo la quale esisterebbe una sorta di deep state che trama contro l’ex presidente Donald Trump per scardinare l’ordine mondiale, colluso con reti di pedofilia e misteriose pratiche ebraiche. Secondo Wu Ming 1, le principali definizioni da applicare a QAnon sono cinque:

1. un gioco di realtà alternativa divenuto mostruoso;
2. un modello di business;
3. una setta che praticava forme di condizionamento mentale;
4. un movimento reazionario di massa che cercava di entrare nelle istituzioni;
5. una rete terroristica in potenza (QdQ, p. 21).

La teoria del complotto difende il sistema perché quest’ultimo viene additato come la vittima di un ipotetico e inesistente deep state: «Nella propaganda di QAnon il potere occulto era la megalobby satanista e pedofila che controllava il deep state, e il contropotere rivoluzionario era la Casa bianca di Trump. Nella propaganda nazista, che forniva il precedente più ovvio, il potere occulto era l’internazionale giudaica e il contropotere rivoluzionario era il regime di Hitler» (QdQ, p. 52). Infatti, «chi credeva a fantasie di complotto tendeva ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche» (QdQ, p. 163). E la violenza è una delle pratiche adottate per difendere il sistema: l’autore passa in rassegna gli omicidi targati QAnon nonché il tentativo di strage messo in atto da Maddison, un giovane della North Carolina che, nel dicembre del 2016, armato, si era recato a Washington D.C. per punire i perversi pedofili del Comet Ping Pong, un locale nei cui sotterranei, secondo la vulgata complottista, sarebbe stato schiavizzato e violentato un numero indefinibile di bambini.

L’autore, in modo abile, pone sotto la sua lente diverse narrazioni di complotto che si sono instillate nelle menti delle persone, a partire dalla caccia alle streghe di Salem fino alla teoria della sostituzione etnica e ai Protocolli dei Savi di Sion, passando attraverso le idee che consideravano l’allunaggio una messa in scena o quelle sulla ipotetica morte di Paul McCartney nonché sui retroscena esoterici delle canzoni dei Beatles. Il suo intento – ben riuscito e ben calibrato – è quello di un debunking, cioè di uno smascheramento delle fake news e delle narrazioni tossiche. Per arrivare, dagli Stati Uniti, fino in Italia. E allora, una serie di capitoli intitolati In viro veritas? analizza in modo sottile la narrazione virocentrica che si è sviluppata nel nostro paese a partire dall’emergenza Covid, nel marzo 2020. Una narrazione dominante che ha attraversato e continua ad attraversare le coscienze degli individui: come lo stesso collettivo Wu Ming (a cui appartiene l’autore di La Q di Qomplotto) ha evidenziato in una serie di lucidi articoli apparsi sul blog «Giap» nel periodo dell’emergenza (fra i pochi che, in quello stesso periodo, valeva la pena leggere), invece di dare la colpa dell’insorgenza del virus a un sistema capitalistico malato che commercia carne su larga scala, deforesta, crea ovunque industrie tossiche, si tendeva, appunto «ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche». Ecco allora la famigerata colpevolizzazione del cittadino, rilevata in modo lucido anche dal sociologo Andrea Miconi nel suo saggio Epidemie e controllo sociale (qui la recensione su “Carmilla”): la colpevolizzazione di chi esce senza motivo, dei runner, di chi non porta la mascherina all’aperto e via di seguito. Una narrazione dominante scaturita dall’emergenza pandemica perché, come nota Wu Ming 1 per mezzo di una efficace metafora, quella stessa emergenza «esasperava tutte le tendenze che andavo descrivendo, stagliandole contro una luce violentissima, una lampada da terzo grado puntata in faccia al mondo» (QdQ, p. 301).

Infine, nella già citata seconda parte del suo saggio che, sub specie narrationis, si ambienta al bar Pilade, lo scrittore analizza i «filamenti di genoma transatlantico di QAnon», dalla caccia alle streghe al «revival di Satana», attraversando e scandagliando gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Fino agli anni Novanta, per rivolgere la sua attenzione ancora all’Italia e al caso “Bambini di Satana”, quando nel 1996 viene arrestato a Bologna Marco Dimitri insieme ad altri esponenti dell’associazione «Bambini di Satana». Un’associazione culturale vicina alla sinistra antagonista che – è bene precisarlo – non ha niente a che fare col Maligno o l’Anticristo: «Per “satanismo”, Dimitri e soci non intendono una versione capovolta del cristianesimo ma una miscela di neopaganesimo, panteismo, libertinismo, anarchismo… I numi tutelari vanno da Aleister Crowley ad Arthur Rimbaud» (QdQ, pp. 515-516). Le accuse nei loro confronti sono svariate «e cambieranno di continuo, in un proliferare di fattispecie di reato: violenza sui minori, violazione di sepolcro, profanazione di cadavere…» (QdQ, p. 515). Stupri, rapimenti, bambini infilati nelle tombe, messe nere nei cimiteri della Bassa ma nessuno che si sia mai accorto di nulla. Nessuno si è mai accorto di nulla semplicemente perché non c’è stato niente di tutto questo, come non esisteva nessun sotterraneo al Comet Ping Pong. Lo stesso autore, insieme ad altri del collettivo Wu Ming, allora Luther Blisset Project, ha svolto all’epoca una controinchiesta per smascherare questa ridda di accuse, montate da diversi quotidiani e soprattutto da Il Resto del Carlino. La controinchiesta di Luther Blisset, come molte delle sue iniziative, ha una sottile origine letteraria, modellata sull’inchiesta realizzata dall’investigatore Dupin in Il mistero di Marie Rogêt di Edgar Allan Poe: nel racconto, Poe riflette su come la cronaca ha raccontato l’omicidio di Marie Cecilia Rogers, avvenuto a New York nel 1841, ricostruendo le incongruenze, giustapponendole e facendole giocare l’una contro l’altra. Così, «a partire dal settembre del 1996, semplicemente facendo le pulci al Carlino, esponiamo le aporie del teorema giudiziario, critichiamo la linea della procura e mostriamo le dinamiche della mostrificazione a mezzo stampa» (QdQ, p. 531). Alla fine, anche grazie a questa controinchiesta, le coscienze si smuovono, si creano delle brecce nella narrazione dominante e alla fine Dimitri (che si era fatto 400 giorni di carcere, molti dei quali in isolamento) e gli altri vengono assolti. Si è creata una breccia nel «satanic panic», in quel credere ciecamente nell’esistenza di una setta di satanisti pedofili che gode di protezione in alto e di cui fanno parte anche uomini di potere, già preesistente in Europa e in Italia prima di QAnon. Perché, come leggiamo in un articolo a firma Wu Ming uscito su «Giap», dal titolo Sulla morte di Marco Dimitri (13 febbraio 1963-13 febbraio 2021), «non sono “americanate”. Quella merda l’abbiamo inventata noi». E a Marco Dimitri (scomparso nel febbraio di quest’anno), che si era avvicinato al Luther Blisset Project e alla Wu Ming Foundation, è affettuosamente dedicato La Q di Qomplotto.

Ma non è finita qui: le ultime pagine del libro ci narrano, nell’ormai silenzioso e notturno bar Pilade, altre vicende di «satanic panic» nella bassa padana, accuse di pedofilia e presunto satanismo in quella che sembra ormai diventata – come suonava il titolo di una canzone dei CCCP – una vera e propria «Emilia paranoica». Ma la penna, la voce e la narrazione dell’autore continuano instancabili in una lucida opera di debunking, di smascheramento, nella volontà e convinzione di proferire una verità critica, quasi come un antico parresiastes. Infatti, come afferma Michel Foucault, la funzione della parresia (dire la verità a costo di un rischio) nella Grecia antica «non è di dimostrare la verità a qualcun altro, ma quella di esercitare una critica»2. Ed è una vera e propria critica in nome della lucidità di pensiero quella portata avanti dallo scrittore in tutte le cinquecentonovantuno pagine del suo libro, per smascherare paure e superstizioni, quelle narrazioni dominanti che si fanno largo fra bombe e complotti, per «creare un immaginario liberatorio e alternativo contro un immaginario tossico»3, fino agli ultimi lembi narrativi che si srotolano in quell’onirico e stupendo bar notturno.


  1. U. Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano, 1994, p. 71 

  2. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 2005, p. 8 

  3. Come si è efficacemente espresso Alberto Prunetti in occasione di una recente presentazione del libro alla “Corte dei Miracoli” a Siena, insieme all’autore. 

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“La logica dei sommersi” di Giorgia Meriggi https://www.carmillaonline.com/2021/06/20/la-logica-dei-sommersi-di-giorgia-meriggi/ Sun, 20 Jun 2021 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66817 di Francesca Fiorentin

Giorgia Meriggi, La logica dei sommersi, Marco Saya, Milano, 2021, pp. 54, € 10,00.

Che ne sarà della nostra poesia, rimasta così vergognosamente indietro rispetto alla scienza? O. Mandel’stam

in una conchiglia echeggia il grido di un pesce. È questo il suono dell’uomo che ama quando qualcuno se lo porta all’orecchio. S. Dagerman

Il volume di poesia La Logica dei sommersi, edito da Marco Saya nel 2021, possiede la bellezza di una danza della luce sugli specchi, creata da molteplici effetti di rifrazione di diverse identità che appartengono all’invenzione poetica. Scontato è dire che [...]]]> di Francesca Fiorentin

Giorgia Meriggi, La logica dei sommersi, Marco Saya, Milano, 2021, pp. 54, € 10,00.

Che ne sarà della nostra poesia, rimasta così vergognosamente indietro rispetto alla scienza?
O. Mandel’stam

in una conchiglia echeggia il grido di un pesce. È questo il suono dell’uomo che ama quando qualcuno se lo porta all’orecchio.
S. Dagerman

Il volume di poesia La Logica dei sommersi, edito da Marco Saya nel 2021, possiede la bellezza di una danza della luce sugli specchi, creata da molteplici effetti di rifrazione di diverse identità che appartengono all’invenzione poetica. Scontato è dire che la parola di Giorgia Meriggi è parola poetica nella pienezza del canone estetico bachtiniano, perché subito si presenta nitida la sua caratteristica di essere “staccata da ogni interazione con la parola altrui, da ogni sguardo sulla parola altrui” (M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi 2001, p. 93), generando in modo compiuto una propria lingua: la “lingua del poeta è la sua lingua, egli è interamente e indivisibilmente, usando ogni forma, ogni parola, ogni espressione secondo la loro destinazione diretta […], cioè come pura e immediata espressione del suo proposito” (ibid, p. 93). Monologicamente isolate, le parole sono tutte sottomesse alle intenzioni, servono il proposito della poeta e generano la sua lingua. La divisone dell’opera in tre parti è un cerchio nel quale si conclude una profonda riflessione sul mondo, a partire dal mondo dei sommersi.

Il titolo della prima parte, “Meditazioni sul mondo sommerso”, introduce subito un ordine assiologico partendo dall’origine più remota: i pesci, l’animale più lontano dalla specie umana, il più antico nella catena evolutiva che, come tale, contiene il luogo della diversità più radicale; contiene la prima spaccatura originatasi nel primordiale processo di evoluzione. È da questa traccia che bisogna partire per guardare l’umanità e il mondo: “L’animale che io sono mi guarda dalla stessa origine”. Come nel riaffiorare di un ricordo ancestrale, la poeta scrive: “Quando ero un altro animale, la luna era più vicina”. La luna era parte della terra, partecipe delle sue attività, animale anch’essa. Non erano nati né umani né dei, né litigi tra dei, né epopee di nascita di un dio e di un popolo, e quindi nemmeno guerre. L’unità indivisa dell’essere era lo zero primordiale:

Io credo nello zero
bianco e tondo come un uovo
ma vuoto
non mi fido dell’uno
magro e nero
col profilo severo
di chi vuol primeggiare.

Per questo di notte guardo il fiume
all’alba sono una biglia d’oro
che rotola dal parapetto
e cade nella bocca
di una carpa.

Tutto ha sempre origine
da un diluvio
e il salvataggio
a opera di un pesce.
Quindi torno nella mia forma
seduta su una panchina
con le foglie sotto i piedi,
non lo considero un prodigio.

Io
è un matrimonio
combinato
fra un breve tratto verticale
e il nulla circondato
da un capello.

Lo zero è l’origine indistinta da cui non sorge una dimensione verticale e orizzontale; è il ventre del pesce che accolse il profeta Giona, prima che egli diventasse il profeta di una religione. L’Uno parmenideo conosceva già la divisione tra mondo vero (l’Essere) e illusione (cambiamento, Non-Essere). Le riflessioni sulla “logica” dei sommersi sono molte e, intrecciate nella parola poetica, acquistano una notevole suggestione intellettuale. Abbiamo di fronte a noi una filosofia che conosce bene l’attuale sapere scientifico (biologia e altre scienze). Riportiamo alcune di queste riflessioni. Non ci deve stupire che manchi l’associazione di idee classica dei pesci con la forma figurata del Cristo, perché è evidentemente data per scontata.

I pesci riconoscono la luna come una di loro; la luna è una macchia bianca di luce che “depone le uova nelle ninfee”. Il mare è un grande pesce per i pesci e le stelle sono esplosioni (ciò non è più assurdo di ciò che noi umani diciamo della luce, noi che non conosciamo nemmeno le leggi fisiche per cui essa ci dona la vista). Nel mare la luce corre più lenta, i fotoni non incontrano elettroni e atomi dell’aria, ma una resistenza forte come nell’attraversamento di uno spazio di elettroni negativi: dunque il mare è uno spazio di Dirac, e i pesci vivono forse in un’altra dimensione. Il mare è un uovo, una grande cellula vivente; una sfera indivisa non conosce amore, vento, turbamenti dell’anima. Di notte, osserva, sei come i pesci: non puoi distinguere quello che respiri, aria o acqua, non lo puoi sapere perché non puoi vederlo. Non ci sono domande per i pesci, non c’è incrinatura nella natura o nello spirito; nemmeno la capacità degli organi di distinguere il pericolo che è nell’amo, perché non possono pensare a un oltre esattamente come noi non possiamo pensare a un aldilà. Eppure, ci riconosciamo essere stati scimmie, per la loro somiglianza con noi, ma non essere stati pesci. La luna, massa che si staccò dalla terra, a lei cedette la maggior parte di acqua, permettendo la nascita della vita. Come una figlia che dà vita, diventò la vera madre, ma non pensò e non previde che era necessario anche lasciare un medicamento per i problemi umani, per quando gli umani sarebbero stati gli abitanti della terra. L’acqua entra nelle branchie dei pesci come messaggio dei pensieri di Dio, e dunque i pesci sono un chiasmo dei pensieri dell’acqua.

Ma diventare il primo anello dell’origine della specie significa poter cominciare tutto da capo in altre direzioni, migliori. Infatti, perché evolvere da pesce a uomo, se l’Apocalisse punirà l’uomo, colpendo innanzitutto la sua origine, le acque, attraverso la stella Assenzio?

Nella seconda parte del libro i pesci si trovano nella ipotetica situazione di una vita nel mondo umano. Questa parte si intitola “Quattro parentesi sull’Accettazione” e prefigura il difficile rapporto tra il sommerso e il mondo esterno; vi troviamo anche la narrazione della fine dello stato di quiete del loro essere, segnato dall’inizio dell’evoluzione. Stilisticamente troviamo delle spezzature del verso, come l’articolo o l’avverbio posto alla fine della riga e seguito da un a capo. Il tutto dà la sensazione di un evento innaturale, di una rottura di armonia sintattica. I pesci si trovano in un acquario, così da poter guardare da vicino il mondo e interagire con esso, ma non si accorgono della discontinuità spaziale e temporale col mondo esterno. “Accettati” in un acquario, si trovano nella difficile situazione dell’Accettazione: l’essere accettati in casa nel mondo, abitanti un elemento diverso dalle acque del mare. Ma la parola Accettazione si configura anche come l’iter più burocratico della vita: viene in mente l’Accettazione di un ospedale, la noia e il dover sottomettersi a un iter di sopravvivenza e guarigione, entrando in un luogo in cui si uscirà diversi. L’Accettazione è dunque un grande acquario dove i pesci devono stare zitti e aspettare il loro numero. Escono i numeri, con le lettere. La fantasia di Giorgia è certo memore di Dante. A tutti i pesci viene data la P, P come pesce senza nome individuale, certamente, e P di Peccatore come sulla fronte di Dante quando sale lungo il Purgatorio. Dunque i pesci devono liberarsi dei loro peccati, richiesta inaccettabile per la luna (anch’essa pesce, secondo i pesci, anch’essa dentro l’acquario). Ecco che allora la luna esce, scappando dall’acquario: tutti i pesci sono naturalmente distratti dal suo andare via e la guardano. A questo punto l’unità dei pesci con l’universo è rotta: ognuno ha pensieri diversi, sono ora individui che non comunicano più tra di loro come una volta, quando l’acqua era unità indivisa dal mondo esterno, e il mondo non esisteva autonomamente. Perché la luna, pesce luminoso, è balzata fuori. Persa l’idea di unità con la luna, è persa l’identità della specie e nasce la coscienza individuale. È guerra a questo punto, e con la guerra la speranza di essere sputati sulla Terra. Il salto evolutivo avviene e i pesci si trasformarono in rane.

La terza parte si intitola “Monologhi dalla manifattura”, ed è un monologo originale per almeno due fondamentali motivi. Innanzitutto presenta un rovesciamento tra un interlocutore che parla in prima persona e il soggetto in terza persona (Signorina Pesce Rosso). Nascono in questo modo tre voci : l’io in terza persona (la Signorina Pesce Rosso), il quale, proprio perché oggettivato dal mondo (interlocutore) e non esauribile in esso, crea lo spazio fantastico in vive il vero soggetto poetico, seconda voce, silenziosa naturalmente; e, terza voce, il mondo cioè l’interlocutore. L’io oggettivato è interpretato dall’interlocutore in maniera così sbrigativa, ironica e paradossale da creare lo spazio per l’io poetico, che è fantasia e libertà da ogni oggettivazione. Infatti l’io poetico, schiacciato o disintegrato tra la sua oggettivazione del mondo e mondo vero e proprio, brilla nel vuoto del contrasto con quelle due dimensioni. L’interlocutore, ambiguo e ambivalente, parla a volte a favore del mondo e altre volte a favore dell’io oggettivato (Signorina Pesce Rosso). Il monologo fa dunque parlare almeno tre voci. Per questo la poetica di Giorgia si apre a un genere definibile “misto”, dato che la forma del dialogo appartiene al romanzo. In questo troviamo un’interessante innovazione della poeta: aprire un varco tra il genere poetico e il romanzo, assorbendo quest’ultimo nella poesia. Non a caso qui non ci sono versi ma si tratta di prosa poetica.

A proposito della Signorina Pesce, in questa figura compare “l’immagine dello strambo” e “la forma dell’incomprensione” che è “un momento organizzatore quasi sempre quando si tratta di smascherare la cattiva convenzionalità. Questa convenzionalità smascherata – nella vita quotidiana, nella morale, nella politica, nell’arte, ecc. – di solito è raffigurata dal punto di vista di chi non partecipa ad essa e non la capisce” (ibid, p. 310)
Il mondo di oggi, chiamato Manifattura, è il mondo animato da uno spirito materialista e scientista; essenzialmente pratico e utilitarista, fa risalire l’anima alle condizioni fisiche del corpo; segnato da una concezione razionalistica e meccanicista della psiche, concepisce come termine dell’evoluzione la macchina artificiale. L’interlocutore possiede un moralismo che vuole convincere la Signorina Pesce Rosso dell’idea che tutto nasce dalla materia, così che lei possa mettersi l’anima in pace e non avere pensieri nocivi; ne coglie appieno il disagio, la mette in guardia perché, nell’ottica della Manifattura, evoluzione e progresso sono la stessa cosa. A cosa arriveremo dunque? Lo descrive l’interlocutore: l’evoluzione suprema sarà ridurre il corpo a particelle (del corpo bastano poche particelle e il resto è inutile) che si connettono telematicamente attraverso uno schermo. Se pensiamo la macchina del futuro come una relazione tra poche molecole del corpo necessarie a essere collegate con un supporto digitale si potrebbe dire che continueremo a pensare dopo la morte, ma come? si chiede l’interlocutore. In termini di alternanza di byte, 1 e 0…. È allora preferibile il corpo glorioso della resurrezione? “Difficile rinunciare a una qualche sostanza” – è scritto nel finale: e qui, chi dice questo? Le due voci (interlocutore, Signorina Pesce Rosso) parlano ora confondendosi. Difficile, impossibile dunque sostenere il materialismo come visione della vita. Il finto dialogo termina qui. L’interlocutore ha portato alle estreme conseguenze l’ideologia della manifattura e la sua visione intellettuale del mondo si è dimostrata insufficiente; è fallita. In questo fallimento le due voci (dell’interlocutore e della Signorina Pesce Rosso) convergono in una sola voce, d’accordo fra di loro. Invece la poesia dice, nella forma più bella:

La vera alternativa è persa: era la logica dei sommersi: – era – un tempo.

 

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Il corpo e lo sguardo nel cinema della modernità https://www.carmillaonline.com/2020/09/24/il-corpo-e-lo-sguardo-nel-cinema-della-modernita/ Thu, 24 Sep 2020 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62892 di Paolo Lago

Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 211, € 12, 50.

È il corpo il protagonista del recente, interessante saggio di Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, uscito per Marsilio. Il corpo degli attori più significativi e indimenticabili che hanno attraversato il cinema della modernità. Quest’ultimo, secondo Serge Daney, ha dei precisi confini cronologici: “Il cinema moderno è nato nell’Europa martoriata dalla guerra, con Rossellini, e sarebbe morto trent’anni dopo con Pasolini”. Nel cinema moderno, [...]]]> di Paolo Lago

Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 211, € 12, 50.

È il corpo il protagonista del recente, interessante saggio di Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, uscito per Marsilio. Il corpo degli attori più significativi e indimenticabili che hanno attraversato il cinema della modernità. Quest’ultimo, secondo Serge Daney, ha dei precisi confini cronologici: “Il cinema moderno è nato nell’Europa martoriata dalla guerra, con Rossellini, e sarebbe morto trent’anni dopo con Pasolini”. Nel cinema moderno, quindi, “i personaggi non sono più entità astratte” ma “corpi di carne”, spesso indolenti e stanchi come gli attori (e i non attori) chiamati a portare la loro verità a queste finzioni”. I corpi degli attori del cinema della modernità, perciò, come scrive Scandola in modo suggestivo, “desiderano vivere la propria vita e non quella del personaggio”. È questa l’idea di fondo del saggio, il quale, analizzando soprattutto le figure degli attori, ci offre un vero e proprio viaggio – probabilmente un viaggio mai percorso così in profondità da altri studiosi – attraverso lo stile e la poetica di tanti registi che fanno in modo che le storie raccontate “risultino la secrezione dei personaggi e non il contrario”.


L’analisi è svolta seguendo un rigoroso ordine cronologico: si parte dagli anni quaranta del Neorealismo per approdare agli anni ottanta. Una delle interpreti più significative del Neorealismo è sicuramente Anna Magnani. Icona del cinema neorealista – basti ricordare l’interpretazione della popolana Pina in Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini – in Bellissima (1951) di Luchino Visconti ella diviene il fulcro di numerosi rimandi metacinematografici. È la stessa Maddalena, personaggio del film interpretato dalla Magnani, a attuare diverse allusioni alle precedenti interpretazioni dell’attrice fino a trasformarsi in una comédienne dell’Ottocento durante la scena della toilette davanti allo specchio (“In fondo che è recità?” si chiede Maddalena ed ecco il personaggio che si finge attrice: “due colpi di pettine sui capelli scarmigliati, la mano destra sul petto come una comédienne dell’Ottocento, e una fortissima key light puntata sul viso”). L’analisi, passando attraverso la figura di una altro grande attore di questi anni, Massimo Girotti (emblema, nelle sue prime interpretazioni, della “maschilità latina forte e sana” e traghettato al Neorealismo da Luchino Visconti con Ossessione), ci conduce fino a una caratteristica stilistica del Neorealismo, e cioè la scelta di attori non professionisti (una pratica, del resto, prescritta già da importanti registi e teorici come Vertov, Bazin e Ejzenstejn) e di attori bambini. L’analisi si incentra allora sull’interpretazione di Edmund offerta da Edmund Meschke in Germania anno zero (1948) di Rossellini. “Non sappiamo se questo attore bambino – scrive Scandola – scoperto in una famiglia di circensi, sul set faccia davvero, come sostiene il regista, solo ciò che è abituato a fare. Di certo, a più di settant’anni di distanza, il suo corpo gracile e nervoso resta forse l’emblema più alto del sogno neorealista, che era quello di catturare il reale senza le mediazioni dell’attore e del personaggio”.

Secondo lo studioso, l’attore della modernità gravita sostanzialmente fra due stati: “L’immobilità, grado estremo dell’inazione potenziato” (in autori come Ferreri, Pasolini, Straub o Fassbinder) e “una sorta di movimento perpetuo, il quale si configura come camminata, vagabondaggio o viaggio. Un vero e proprio viaggio, come già accennato, è anche quello che facciamo noi lettori nella modernità cinematografica grazie al saggio di Scandola: proseguendo, incontriamo così il secondo capitolo, dedicato soprattutto al cinema francese degli anni sessanta e alla Nouvelle vague. Secondo Robert Bresson, “l’attore ideale è la persona che non esprime nulla” ed è così che egli chiede ai suoi attori di essere semplicemente se stessi, di non compiere gesti intenzionali ma automatici, di essere, in sostanza degli “automi” che si muovono in un racconto filmico messo in scena non per imitare il vero ma per mostrare l’infinito mistero racchiuso in esso. Alain Resnais, invece, in L’anno scorso a Marienbad (L’Année dernière a Marienbad, 1961) chiede a Delphine Seyrig, altra importante attrice di questo periodo, di lasciar trasparire la letterarietà e, quindi, il lato più fantastico e irreale, dal suo personaggio (addirittura denominato solo con una lettera, A). Lo stesso corpo dell’attrice, come gli “oggetti desueti” (per dirla con Francesco Orlando) che formano l’arredamento dell’albergo e gli elementi decorativi del parco, subisce un vero e proprio processo di frammentazione (basti ricordare anche l’incipit di Hiroshima mon amour, dello stesso Resnais, “dove a stento si riesce a distinguere una parte del corpo da un’altra”).

La Nouvelle vague offre poi un nuovo processo di immedesimazione fra attore e personaggio: sul set l’attore non interpreta più un altro da sé, ma semplicemente se stesso. E questi nuovi attori vengono filmati in pose e modalità molto diverse: dall’inazione più totale fino all’erranza e al movimento quasi incessante. Un importante punto di riferimento, in questo senso, può essere sicuramente uno dei vertici del cinema di Orson Welles, e cioè Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, 1955), in cui il movimento incessante del protagonista Guy van Stratten (Robert Arden) assume la dilatazione di un vero e proprio viaggio ludico e ipertrofico sulla scacchiera di un’Europa uscita da poco dal secondo conflitto mondiale. L’erranza, il viaggio e la fuga diventano infatti delle vere e proprie cifre stilistiche del cinema moderno, anzi delle vere e proprie figure. Errano e si muovono i personaggi di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, ma anche quelli di Fellini (La dolce vita, 1959), Pasolini (Accattone, 1961, Mamma Roma, 1962), Bertolucci (Strategia del ragno, 1972).

Altre importanti figure di attori analizzate dal saggio sono Brigitte Bardot (soprattutto nell’interpretazione di Il disprezzo, 1963, di Jean-Luc Godard) Claudia Cardinale (musa, fra gli altri, di Visconti e Zurlini) e Jean-Pierre Léaud, il quale si configura non solo come uno degli attori prediletti da François Truffaut ma anche come “il corpo del Sessantotto”, basti pensare all’interpretazione di La cinese (La chinoise, 1967) di Jean-Luc Godard ma anche a quella di Porcile (1969) di Pasolini.

E dal moderno il viaggio continua, fino a “oltre il moderno”. Incontriamo così altri attori significativi come Marcello Mastroianni, Chaterine Deneuve, Gérard Depardieu e Isabelle Huppert. Se il Mastroianni di Fellini si configura come un indolente homo deambulans, perduto nella sua erranza, “mediatore tra l’occhio dell’artista e l’orrore del mondo” (8 ½, La dolce vita), quello di Ferreri diviene corpo sofferente e morente, segnato nel profondo dalla “sfera rabelaisiana” individuata da Michail Bachtin e attraversata dai “vicinati” cibo-sesso-morte (La grande abbuffata, 1973). E, per quanto riguarda Chaterine Deneuve, fra le tante, doveroso è ricordare la sua interpretazione in Bella di giorno (Belle de jour, 1967) di Luis Buñuel. Secondo Scandola, “nessuno meglio di Buñuel ha saputo sfruttare in senso espressivo la soglia, sottile, che in Deneuve separa la carne dalla porcellana, restituendoci proprio il momento in cui la donna diventa bambola o più semplicemente potiche (e viceversa)”. Un altro attore capace di abitare il personaggio anziché lasciarsi abitare da lui è Depardieu, il quale ci regala appunto dei personaggi caratterizzati da instabilità caratteriale e ipersensibilità emotiva, inclini a muoversi, a errare, a vagabondare, senza mai perdere la propria, originaria “identità agricola e proletaria”. Infine, Isabelle Huppert o “il desiderio come enigma”: icona di un femminino, intravisto probabilmente per la prima volta da Claude Chabrol, “attratto dalle zone oscure del piacere”, sia esso libertino, extraconiugale, incestuoso. Nelle interpretazioni della Huppert, inoltre, si possono rintracciare elementi riconducibili a una ferinità quasi animale: una ferinità che diviene anche e soprattutto felinità. Proprio come un gatto, la Huppert sembra guardare gli “altri”, cioè noi spettatori solo “per vedere”: secondo Derrida, infatti, il gatto è l’incarnazione di un senso dell’alterità da cui ha origine il pensiero stesso. E, con Isabelle Huppert, l’intrigante e avventuroso viaggio allestito dallo studioso si chiude, dopo aver incontrato corpi e sguardi dai quali nascono storie, dalla cui inazione o vagabondaggio erratico si dischiudono nuovi percorsi di liberazione del nostro immaginario.

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Oltre l’eroe: movimenti, dialogo e traduzione https://www.carmillaonline.com/2016/11/21/oltre-leroe-movimenti-dialogo-e-traduzione/ Mon, 21 Nov 2016 22:30:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34386 di Fabio Ciabatti

chavez_in_amacaIn un precedente intervento su Carmilla ho sostenuto che in Venezuela una molteplicità di movimenti, sviluppatesi autonomamente, hanno trovato una riunificazione nella catena di vicende che parte dal Caracazo e arriva all’elezione di Chavez. Ci siamo inoltre chiesti come poter rappresentare questo processo di unificazione. Il primo elemento da considerare è l’evento della rivolta popolare che costringe i movimenti a unirsi spontaneamente e immediatamente per contrapporsi alla violenta repressione dello stato. Di fronte al pericolo estremo, sosteneva Sartre nella Critica della ragione dialettica, gli individui atomizzati si uniscono [...]]]> di Fabio Ciabatti

chavez_in_amacaIn un precedente intervento su Carmilla ho sostenuto che in Venezuela una molteplicità di movimenti, sviluppatesi autonomamente, hanno trovato una riunificazione nella catena di vicende che parte dal Caracazo e arriva all’elezione di Chavez. Ci siamo inoltre chiesti come poter rappresentare questo processo di unificazione.
Il primo elemento da considerare è l’evento della rivolta popolare che costringe i movimenti a unirsi spontaneamente e immediatamente per contrapporsi alla violenta repressione dello stato. Di fronte al pericolo estremo, sosteneva Sartre nella Critica della ragione dialettica, gli individui atomizzati si uniscono creando un’aggregazione qualitativamente diversa dalla somma dei singoli, il gruppo in fusione, che cementa la solidarietà sostituendola alla reciproca indifferenza. La rivolta rende evidente una frattura sociale, cementa il campo popolare e dischiude un nuovo orizzonte di possibilità. A questa unificazione immediata ne segue una caratterizzata da una processualità consapevole e orientata. E qui ci torna utile Enrique Dussel1 che descrive questo processo come caratterizzato da un’incorporazione analogica tra le diverse rivendicazioni popolari in grado di conservare la distinzione di ciascuno e di trasformare la prassi di liberazione popolare in una nuova proposta politica collettiva. Ciò si ottiene attraverso un processo di “dialogo e traduzione” tra le diverse istanze conflittuali. In questo modo è possibile che le rivendicazioni dei diversi movimenti possano incorporare quelle degli altri: per esempio il femminismo (l’esempio è di Dussel) scopre che le donne di colore sono quelle trattate peggio, che le operaie ricevono minori salari, che le cittadine sono discriminate nelle funzioni di rappresentanza; che le donne dei paesi periferici soffrono maggiore discriminazione e così via. Risulta implicito in questo schema l’esistenza di un sistema sociopolitico che interseca oggettivamente le diverse forme di sfruttamento ed esclusione rafforzandole reciprocamente. Esiste una base oggettiva che unisce i diversi movimenti, che li mette in condizione di scambiarsi proficuamente le loro esperienze.

Per Ernesto Laclau, invece, non è possibile rappresentare la società nel suo complesso come un sistema con le sue leggi di sviluppo, tali da definire a priori, per quanto astrattamente, soggetti sociali intrinsecamente antagonisti e potenzialmente alleati.2 In senso proprio, non si può parlare di capitalismo quale realtà oggettiva, ma solo di una molteplicità di gruppi che si costituiscono attraverso pratiche discorsive e che non preesistono a esse. Presupposta l’intrinseca eterogeneità del sociale, la costituzione di un popolo avviene attraverso la costruzione di una catena di equivalenze tra le diverse domande insoddisfatte che, di fronte a un potere ostile, costituisce una frontiera antagonistica tra stato e popolo. L’elemento decisivo per l’unificazione delle domande è però l’emergenza di un significante vuoto, vale a dire una domanda particolare che in maniera contingente assume il valore dell’universalità egemonizzando e unificando tutte le altre: possiamo parlare di un’idea forza sufficientemente ambigua da poter essere interpretata in modo compatibile con le differenti domande, ma capace di suscitare un forte investimento affettivo.

A differenza di Dussel, che considera possibile un meccanismo di contaminazione positiva e inclusiva tra le diverse rivendicazioni, per Laclau il legame tra le molteplici domande è essenzialmente negativo ed è in grado di generare soltanto una generica solidarietà: l’esclusione dall’ordine dominante è il loro elemento comune. La catena di equivalenze che supporta un sistema egemonico ricalca esplicitamente il sistema linguistico di Saussurre, caratterizzato dall’arbitrarietà della lingua: i segni si determinano reciprocamente delimitandosi l’un l’altro, in guisa meramente relazionale all’interno di un sistema linguistico chiuso, già accettato. Non esiste un referente extralinguistico che determina in qualche modo il sistema segnico. Allo stesso modo per Laclau non esiste una realtà socioeconomica oggettiva indipendente dalle pratiche discorsive. Non a caso il passaggio da una formazione egemonica a un’altra, secondo Laclau, comporta sempre una rottura radicale, una creatio ex nihilo. Come per i sistemi linguistici di Saussurre, si dà una frattura tra storia e sistema. Non ci sono mediazioni tra un sistema e un altro.
Di qui il carattere fittizio del significante egemonico: si tratta del necessario riempimento di un vuoto strutturalmente incolmabile, l’elemento di unificazione di una realtà irrimediabilmente eterogenea. Per questo l’unità del popolo di Laclau, in fin dei conti, è effetto della nominazione, del discorso che riempie il significante vuoto retroagendo sul sociale. E la nominazione ha un carattere sostanzialmente monologico: essenziale è il discorso del leader rivolto al popolo la cui comprensione è di tipo passivo (non retroagisce, non dialoga).

Si può però fare riferimento a una diversa concezione del linguaggio, quella sviluppata dal circolo di Bachtin3 che ci consente di non sottovalutare l’importanza del significante Chavez quale elemento di unificazione delle istanze popolari, permettendo di comprendere la genesi di questo significante come espressione di una pratica sociale conflittuale che riempie la figura del leader di un significato determinato, sebbene non univoco, in quanto significato conteso, oggetto di lotta per l’egemonia. Per Bachtin, infatti, la realtà basilare del linguaggio non è il sistema linguistico, ma l’interazione verbale, parte di uno scambio continuo, a sua volta parte del divenire globale di un collettivo sociale. La parola è intrinsecamente dialogica e per questo determinata sia dal parlante sia dal destinatario (ma il dialogo, in questo senso, non è necessariamente uno scambio tra pari). Senza che venga meno la sua unità, la parola ha tanti significati quanti sono i contesti di utilizzo; contesti che tra loro interagiscono, si sovrappongono e si oppongono continuamente. In ogni tappa dello sviluppo della società è presente un particolare gruppo di oggetti che acquistano forma segnica in quanto socialmente rilevanti e perciò suscettibili di valutazione sociale. Poiché la classe non coincide con il collettivo che utilizza gli stessi segni, nel segno stesso viene riflesso e rifratto l’intersecarsi di interessi sociali, si intersecano accentuazioni diversamente orientate, cariche di contenuto ideologico ed esistenziale: il segno diviene arena della lotta di classe nella sua polisemia e pluriaccentuazione.

Se parliamo del riempimento del significante Chavez, il segno come arena della lotta di classe può essere il filo conduttore per la riscrittura di una storia dal basso che sostituisca la storia dall’alto che si concentra sul progetto individuale e sul discorso del leader. Utilizzando Walter Benjamin, potremo dire che la storia dall’alto presenta delle significative analogie con il romanzo quale luogo in cui l’individuo, nel suo isolamento, esprime il disorientamento di fronte all’incommensurabile della vita umana.4 Il romanzo, come forma di ricordo interiore, è dedicato a un solo eroe, a una sola traversia, a una sola lotta. Tramite questo eroe, il romanzo riempie una mancanza: le fiamme da cui è consumato il suo destino generano il calore che il lettore non può ricavare dalle proprie vicende personali. In modo simile, il leader, come è presentato da Laclau, si trova, singolarmente, ad affrontare l’insopprimibile eterogeneità del sociale senza poterne ricostruire il senso complessivo. Ed è ancora il leader, che, attraverso il significante vuoto, riempie in modo fittizio (benché efficace) la mancanza determinata dall’impossibile totalizzazione del sociale. È sempre il leader che accende la fiamma dell’investimento affettivo, laddove la singola rivendicazione non è in grado di farlo.

Al contrario la prospettiva indicata da Dussel, attraverso il dialogo e la traduzione, fa riferimento alla possibilità di narrare, a sua volta basata sull’essenziale capacità umana di scambiare esperienze – proprio quella capacità che, secondo Benjamin, sembra venire progressivamente meno nell’epoca moderna. La narrazione, come forma di memoria collettiva, racchiudendo in sé i molti fatti dispersi, si appropria del corso delle cose e, come nelle fiabe, racconta l’astuzia o l’impertinenza degli oppressi. Nel prendere coscienza di sé, dice Dussel citando Benjamin, il popolo si riappropria, come memoria condivisa, delle proprie passate gesta cancellate dalla storia scritta dai vincitori. Tutto ciò a sua volta rimanda alla possibilità di individuare una comunità che unisca narratori e ascoltatori, poiché la narrazione richiede un tessuto minimo e immediato di vissuto condiviso, parole che siano il riverbero di questo tessuto, luoghi e tempi per condividere queste parole.

Ed è proprio una forma comunitaria che sembra riemergere nella descrizione della coscienza o cultura del barrio. Ma qui occorre procedere con cautela. La comunità precapitalistica organicamente chiusa, cui implicitamente rimanda il narratore di Benjamin, è tramontata con l’incedere del capitalismo e il tentativo di recuperarla sic et simpliciter, nella sua originaria compattezza, può avvenire solo nella forma della comunità immaginaria, sempre a rischio di torsioni regressive. Lo sviluppo contradditorio del capitalismo ha portato la molteplicità di mondi e gruppi sociali a intrecciarsi e cozzare tra i loro, a perdere la loro immediata e autonoma significatività. Per questo vorrei chiudere con quella che è poco più di una suggestione di tipo letterario. Di fronte all’attuale frammentazione sociale, una narrazione all’altezza dei tempi di un processo di liberazione potrebbe forse darsi in una forma simile a quella che è stata descritta da Bachtin parlando di romanzo polifonico5: una pluralità di voci e di coscienze realmente autonome, espressione dei loro mondi separati, ma non isolati, che nel loro incontrarsi e scontrarsi lascia emergere un senso che non è subordinato a un discorso monologico imposto dall’esterno, da un deus ex machina nei panni dell’autore o dell’eroe.


  1. Cfr. Enrique Dussel, 20 tesi di politica, Asterios, 2008. 

  2. Cfr. Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza Bari, 2008. 

  3. Cfr. Valentin N. Volosinov, Michail Bachtin, Marxismo e filosofia del linguaggio, Manni, 1999. 

  4. Cfr. Walter Benjamin, Il narratore, Einaudi, 2011. 

  5. Cfr. Michail Bachtin, Dostoevskij, Einaudi 2002. 

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