Michael Salter – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La pillola rossa dell’alt-right – 3 https://www.carmillaonline.com/2023/07/23/la-pillola-rossa-dellalt-right-3/ Sun, 23 Jul 2023 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77812 di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto [...]]]> di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto consumatore passivo della televisione, del cinema e della letteratura – ciò che preoccupa maggiormente è la convergenza tra l’identità gamer e l’estrema destra»1.

Diversi studi evidenziano la parziale sovrapponibilità tra il target di riferimento dell’alt-right e quello dell’industria videoludica; se Kristin Bezio2, ad esempio, coglie la contiguità demografica tra i potenziali partecipanti alle discussioni promosse dall’alt-right e i gamer, Anita Sarkeesian3 individua diverse affinità in termini di immaginario, bersagli e strategie tra alcune campagne sorte all’interno dell’universo videoludico e i movimenti politici della destra radicale statunitense.

Il caso forse più eclatante di come una campagna d’odio esplosa nelle piattaforme degli appassionati di videogame fortemente intrisa di immaginario conservatore, reazionario, che desidera ripristinare un passato idealizzato in cui l’universo videoludico era appannaggio esclusivo di uomini bianchi eterosessuali, è sicuramente quello del cosiddetto GamerGate.

Tutto è iniziato nell’agosto del 2014 quando, a partire da  un’invettiva contro una sviluppatrice di videogiochi pubblicata dall’ex fidanzato su un blog, una nicchia di giovani gamer maschi e bianchi ha lanciato una delirante campagna votata a denunciare la “corruzione” del mondo dei videogiochi in buona parte, a loro dire, determinata dalla presenza di alcune donne intenzionate a stravolgerlo. Si è trattato di uno dei primi casi in cui una discussione priva di rilevanza pubblica, porta avanti da un gruppo di individui, grazie al web, è sfociata in una campagna reazionaria di proporzioni spropositate rispetto alla causa scatenate, palesando quanto rancore misogino e chiusura identitaria covassero in corpo tanti giovani gamer.

Michael Salter4 invita a guardare quanto si manifesta all’interno degli ambienti videoludici come a una spia delle trasformazioni sociali in atto. «Non a caso, è nel contesto videoludico che l’aggressione rappresenta una modalità standard di partecipazione pubblica sulle piattaforme tecnologiche». Gli abusi e le molestie che contraddistinguono gli ambienti dei gamer risultato «in stretta relazione alle dinamiche più reazionarie dell’identità maschile e alla sottesa ideologia della tecnologia digitale»5. In particolare, Salter ricostruisce l’evoluzione del concetto di gender in ambito informatico mettendo in luce i suoi legami con la “mascolinità geek” fondata sul concetto di padronanza tecnologica.

Nell’ambito di Gamergate, l’impulso maschile a difendere determinate tecnologie – videogiochi e internet in primis – dall’assedio (reale o percepito) da parte di donne e utenti più diversificati, ha evidenziato la fragilità della mascolinità geek e la sua dipendenza da forme inique di egemonia tecnica. Non è un caso che particolari piattaforme – come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter – si siano rivelate terreno fertile per le campagne misogine di Gamergate6.

L’analisi di Salter mostra come «la lotta delle donne e di altri soggetti marginalizzati per accedere in modo più equo alla cultura e al contesto lavorativo dell’high tech» sia «complicata dalla mascolinizzazione della tecnologia, che privilegia l’egemonia di genere»7.

Nella cultura occidentale l’equiparazione della mascolinità alla tecnologia ha attribuito il primato maschile sull’accesso ai mezzi tecnici e la «progressiva mascolinizzazione delle industrie e delle culture informatiche ha incentivato intensi investimenti affettivi e identificazioni psicologiche da parte di uomini e ragazzi, generando permutazioni tecnologiche della soggettività maschile, che ha assunto nuove forme. Una delle più recenti è stata definita mascolinità geek8. Con tale espressione si indica «una soggettività di genere che prevede la rivendicazione – da parte di adulti e adolescenti di sesso maschile – della padronanza tecnologica come fattore essenziale dell’identità maschile»9.

La mitologia della rivoluzione informatica celebra gli ideali dell’individualismo, della competitività e dell’aggressività, elementi normativi nella mascolinità geek fin dall’avvento delle reti.[…] L’afflusso di utenti femminili e più diversificati sulle piattaforme di social media, nei videogiochi e in altri campi dell’elettronica di consumo ha messo in discussione l’equivalenza tra la tecnologia maschile e l’identità maschile geek. Il fenomeno è stato accompagnato da un’escalation di abusi e molestie che hanno avuto origine nelle sottoculture dominate dai geek, ma che oggi sono diventate parte del mainstream. […] Gamergate illustra in modo paradigmatico la congruenza sociotecnica tra la mascolinità geek e una comunicazione che prevede la sistematica oppressione dell’altro. Questa esplosione senza precedenti di molestie online che ha avuto origine all’interno delle sottoculture videoludiche si è diffusa in modo virale grazie a piattaforme come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter. […] Tale campagna di abusi è diventata endemica perché la sua razionalità di fondo era evidente nella progettazione, governance e strategia comunicativa di numerose piattaforme online. Non si tratta di una mera coincidenza: l’architettura e l’amministrazione di queste piattaforme condividono l’ideologia della cultura geek e delle industrie correlate. Ergo, l’abuso online prodotto e promosso da questa campagna d’odio non è un’anomalia: la tecnologia è sempre simbolicamente e strategicamente implicata nelle affermazioni dell’aggressione maschile10.

Su GamerGate si sono fatti le ossa, conquistando la popolarità, personaggi poi divenuti di spicco nell’ambito dell’alt-right come Milo Yiannopoulos e Phil Mason.

Il nucleo narrativo di Gamergate secondo il quale i simboli della tecno-mascolinità, come i videogiochi e internet, sono stati attaccati frontalmente in una “guerra culturale” condotta da femministe e progressiste, si è fuso con altri movimenti reazionari dell’identità maschile, assumendo forme inaspettatamente virulente. 4chan e le forme associate di mascolinità geek hanno svolto un ruolo chiave nel promuovere e sostenere la campagna elettorale del presidente americano Donald Trump attraverso strategie che hanno offuscato il confine tra politica mainstream, misoginia organizzata e supremazia bianca11.

Se l’intrecciarsi di disuguaglianza di genere, alienazione capitalistica e tendenza maschile a riversare sulle donne le proprie frustrazioni non è di certo una novità, di nuovo c’è, secondo Salter, l’uso che ne ha fatto l’alt-right per mobilitare l’aggressività maschile.

Lo stesso Trump ha beneficiato dei meccanismi retorici e di mobilitazione che si sono sviluppati in rete nella sua campagna contro i politici di professione pretendendo di dare voce al rancore contro l’establishment di “un intero popolo” alle prese con gli effetti della globalizzazione. Trump è certamente espressione di un populismo che, riprendendo la definizione proposta da Jan-Werner Müller, può essere visto come

una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. […] Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico12.

Il web offre ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale che, per quanto contraddittorio possa sembrare, bene si amalgama al mito della cultura online della “protesta senza leader”.

I leader carismatici contemporanei prescindono dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità delle formazioni politiche tradizionali, rafforzando al contempo i rapporti con i loro potenziali seguaci con «promesse che si sa già non potranno essere mantenute, solo per rassicurare un bacino elettorale sicuro di niente, ma solo di essere stato trascurato da tutte le altre forze politiche. Ad esso ci si rivolge cercando di creare processi identificativi inesistenti, facendo credere di essere parte della massa»13 anche miliardari abituati al lusso più sfrenato che hanno cosrtruito il loro impero economico in buona parte prorprio attraverso ciò che dicono di voler combattere.

Indubbiamente questa particolare forma di cyberpopulismo, derivata dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità, ha potuto dilagare anche perché si è rivelata «capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo»14.

La fortuna di molti movimenti d’opinione etichettati come populismi, secondo Alessandro Dal Lago, è in buona parte dovuta al diffondersi di un tipo di comunicazione online in cui prevalgono i soggetti digitali sugli esseri umani reali.

Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali15.

L’editorialista del “Chicago Tribune” Clarence Page ha messo in relazione il successo della serie televisiva The People Vs. O.J. Simpson. American Crime Story (2016)16 e la campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca, sostenendo che per entrambi i casi si può parlare di dispute tra “narrative” di intrattenimento17.

La “narrativa”, sostiene Page, ha un ruolo determinante nella vittoria elettorale e il consenso può essere ottenuto ricorrendo a strategie da reality show date in pasto a un pubblico avido di essere intrattenuto: occorre dire qualcosa di scandaloso per poi, mentre tutti ne stanno ancora discutendo, rilanciare con una nuova affermazione scioccante. Ai seguaci spetta il compito di costruire sui social una comunità di sostengo impenetrabile da ogni altra informazione discordante. Quando serve riconquistare il centro della scena si ricomincia da capo rimettendo in moto il meccanismo.

Trump si è rivelato sicuramente abile nell’adottare per le sue campagne meccanismi propri dei reality show, di buona parte dell’entertainment della tv generalista contemporanea e dello stesso universo online, in questo, non poi così diverso dagli odiati media verticistici tradizionali di cui si pretende tanto diverso.

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene il sociologo Dal Lago, è la tangenzialità: il più delle volte gli interlocutori evitano di entrare nel merito di ciò che commentano, preferendo limitarsi a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale: molti dibattiti online si rivelano contenitori di interventi del tutto privi di argomentazioni.

Negli Stati Uniti, a tutto ciò si deve aggiungere un sempre più esibito orgoglio del “non sapere le cose”, soprattutto in ambito politico. L’ignoranza, al pari di una narrazione semplicemente altra, poco importa quanto improbabile possa essere, diviene una sorta di trincea entro cui rifugiarsi per evitare il difficile confronto con quanto viene derubricato come narrazione dominate, dunque da rigettare aprioristicamente.

Tutto ciò, sostiene Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss University Press 2023), si colloca ben oltre la tradizionale avversione americana per gli intellettuali. Ciò che si sta palesando negli Stati Uniti da qualche tempo non è soltanto un’incredibile disponibilità a credere a qualsiasi cosa non sia percepita come versione manistream, ma anche un’orgogliosa e arrogante opposizione attiva ad approfondire le questioni su cui si interviene pur di non abbandonare la comfort zone delle proprie improvvisate convinzioni. Non si tratta di «non fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative», quanto piuttosto di «una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione»18.

La propensione a cercare informazioni che avvalorino e rafforzino ciò in cui già si crede e a rigettare aprioristicamente quanto possa contraddirlo non nasce certo con internet ma è indubbio quanto questo si presti al meccanismo del “bias di conferma”. Se le leggende popolari e altre superstizioni sono tipici esempi di bias di conferma e di argomentazioni non falsificabili, i casi più estremi, sostiene Nichols, sono ravvisabili nelle teorie complottistiche. «I teorici del complotto manipolano tutte le prove tangibili per adeguarle alla loro spiegazione, ma, quel che è peggio, usano anche l’assenza di prove come conferma ancora più definitiva. […] Fatti, assenza di fatti, fatti contraddittori: tutto è una prova. Nulla può mettere in crisi la convinzione su cui si basa la teoria»19.

Il successo del genere conspiracy thriller, continua Nichols, deriva anche dal suo eroicizzare l’individuo che trova la forza e il coraggio di combattere contro una grande cospirazione capace di soffocare qualsiasi altro comune mortale. «La cultura americana, in particolare, è attratta dall’idea del dilettante di talento (in contrasto, per esempio, con gli esperti e le élite) che può sfidare interi governi – o organizzazioni addirittura più grandi – e vincere»20. Le teorie del complotto, che oggi sembrano sembrano derivare soprattutto dal disorientamento economico e sociale provocato dalla globalizzazione, risultano particolarmente attrattive per coloro che hanno difficoltà a dare un significato alla complessità e non sono in grado o non intendono compiere lo sforzo necessario per approfondire spiegazioni meno suggestive21. L’alternative right è prosperata online anche grazie a tutto ciò.

Se nel successo di Trump numerosi commentatori hanno visto una sorta di reazione della “gente qualunque” sentitasi abbandonata dallo snobismo liberal, in realtà, secondo Angela Nagle, a darsi è stato piuttosto il passaggio

da una certa forma di elitismo sottoculturale a un improvviso amore per il proletariato, addirittura per il disinteressato sostengo dei meno fortunati, come se la destra sostenesse da sempre argomenti come quelli di Thomas Franck e non, come in effetti era sempre accaduto, tesi favorevoli alla diseguaglianza o altri argomenti misantropici o economicamente elitari a sostegno della gerarchia naturale22.

Ben da prima che la retorica della “gente qualunque” diventasse onnipresente sui siti di destra, personaggi dell’alt-right come Milo Yiannopoulos si facevano fotografare con t-shirt recanti la scritta “Stop Beeing Poor”, riprendendo una maglietta sfoggiata da Paris Hilton. Dopo il successo trumpiano lo stesso Yiannopoulos ha tenuto diverse conferenze sulla “nuova classe operaia bianca”.

A fronte di questo improvviso interesse per la classe operaia bianca, occorre sottolineare come nell’ambito dell’estrema destra statunitense vi fosse la tendenza a rigettare l’idea dei conservatori che voleva la massa come loro “naturale” alleato ritenendo piuttosto ormai irrecuperabile la società massificata e indottrinata dal “multiculturalismo femminista di sinistra”. Nell’universo dell’alt-right sul web prevale da tempo una sottocultura snobistica verso le masse e la cultura di massa; la destra radicale online si vuole ristretta avanguardia altra rispetto alla massa nei cui confronti guarda con diffidenza quando non con ostilità.

Sono state proprio le idee incredibilmente vacue e fraudolente della trasgressione controculturale a creare il vuoto in cui oggi può confluire qualsiasi cosa purché ostenti sdegno dei gusti e dei valori manistream. È proprio questo che ha permesso che una cultura oggi evidente in tutto il suo orrore venisse romanticamente interpretata dai progressisti come una forza di opposizione all’egemonia culturale. La verità che tutto ciò ha svelato, secondo [Angela Nagle], è che sia la cultura vicina alla destra di 4chan, sia quella politicamente ipercorretta dell’accademia, hanno subito il fascino controculturale dello sdegno per tutto ciò che è di massa23.

Angela Nagle sottolinea anche come i Cultural Studies della Scuola di Birmingham abbiano guardato con occhi eccessivamente acritici alle sottoculture esaltandole per la loro carica radicale, trasgressiva e antiegemonista. Tale benevolenza deriverebbe, secondo la studiosa Sarah Thornton24, dal desiderio di trovare nelle sottoculture una sponda utile a contrastare le ideologie dominanti e perché tanto l’oggetto di studio (le sottoculture) che chi le affrontava (studiosi) erano accomunati da una sostanziale ostilità nei confronti della società di massa.

Il limite di approcci come quello di Dick Hebdige25, secondo Thornton, consiste nella tendenza a guardare alle sottoculture come a realtà nude e pure, mentre, a suo avviso, queste si intrecciano inevitabilmente con l’ambito mainstream e ciò risulterà sempre più evidente a partire dagli ultimi decenni del vecchio millennio quando il sistema si è dimostrato perfettamente in grado di riassorbire anche le spinte culturali più provocatorie rendendole profittevoli26:

rispetto alla scena inglese indagata da Hebdige le cose sono cambiate e parecchio, tanto da rendere oggi problematico anche solo ricorrere al termine sottocultura nelle modalità con cui vi si ricorreva qualche decennio fa. Ad essere mutata è anche la capacità della macchina del business di mercificare e di riassorbire fenomeni nati più o meno con intenzioni sottrattive, se non antagoniste, rispetto al sistema stesso. […] Da qualche tempo lo stesso ricorso alla provocazione è divenuto una strategia utilizzata con una certa frequenza dalla cultura e della moda manistream. […] Nella contemporaneità sembra ormai che normalità e devianza, da questo punto di vista, siano due strade, nemmeno così diverse, che conducono all’omologazione della mercificazione. Indipendentemente da quale sia il percorso seguito, le identità faticosamente costruite necessitano comunque di conferme, di una patente ottenuta attraverso una pubblica accettazione e qua fanno capolino i social network, ove i like o altri indicatori di apprezzamento rappresentano l’unità di misura del successo davanti al pubblico27.

Nelle sottoculture geek, sostiene Angela Nagle, l’idea di preservare il proprio ambito da contaminazioni che potrebbero “normalizzarlo” è molto presente. In tali ambienti generano forte disprezzo, ad esempio, le giovani ritenute un po’ superficiali con gusti mainstream che tentano di inserirsi nelle sottoculture alt-right utilizzando scorrettamente gli indicatori di appartenenza al gruppo dimostrano così di non aver compreso lo status elitario dei suoi appartenenti e per questo sono trattate con ostilità.

Come molte sottoculture, anche quelle della galassia alt-right, quasi sempre dominate da nerd maschi e bianchi, guardano con ostilità a tutto ciò che non appartiene alla loro cerchia. Chi, ad esempio, non trova esaltante il ritorno al separatismo razziale o l’idea di porre fine all’emancipazione femminile viene frequentemente accusato in internet, soprattutto se donna, di essere “normie” e “basic bitch”. «Siamo al punto che l’idea di essere figo/controculturale/trasgressivo può mettere un fascista in posizione di superiorità morale rispetto a persone normali», scrive Nagle; occorre dunque «riconsiderare il valore di queste idee di controcultura ormai stantie e logore»28.

Angela Nagle, oltre all’indubbio merito di ricostruire i conflitti culturali online degli ultimi decenni che hanno contribuito a formare l’immaginario di tanti giovani statunitensi che nel frattempo si sono fatti adulti, mostra anche come ribellione, provocazione e logiche controculturali che prendono di mira il sempre più logoro establishment non siano affatto esclusiva di una sinistra che, quando non si palesa essa stessa come establishment, ha saputo esprimere

un progressismo puramente identitario e autoreferenziale, cresciuto a sua volta nelle sottoculture web e arrivato poi nei campus universitari […]. Tutto d’un tratto sembrano lontanissimi i giorni dell’utopia, della rivoluzione digitale senza leader di Internet, quando i progressisti si rallegravano che “il disgusto” fosse “diventato un network” e fosse esploso nella vita reale29.

Quel disgusto fattosi network online non ha fatto che rigurgitare dapprima sullo schermo, poi fuori da esso, i peggiori istinti di esseri umani alienati e incapaci di mettere radicalmente in discussione un modello economico, di vita e di relazioni sociali che rappresenta la causa principale delle loro sofferenze.

Di certo la via di uscita non la si otterrà inseguendo le promesse reticolari-partecipative di un web sempre più indirizzato al controllo comportamentale e predittivo, capace di estrarre profitto anche dalle pretese antisitemiche sullo schermo più radicali, né rincorrendo le logiche della “pillola rossa” rivelatrice di verità il più delle volte coincidenti con semplicistici ribaltamenti di quanto passa il manistream, credendo davvero che le culture dei due ambiti siano nettamente differenziabili.

Le tecnologie della connettività online che stanno facendo la fortuna dell’alterntive right si stanno rivelando inadeguate allo sviluppo di esperienze realmente trasformative della realtà in senso libertario e solidaristico.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, […] non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento30.

In astinenza da piazze e socialità novecentesche, occorrerà  negare sostegno a un establishment impresentabile, non tanto perché “corrotto” ma innanzitutto in quanto espressione di un sistema di per sé indifendibile, e al contempo evitare di farsi prendere dalla frenetica ricerca di facili quanto improbabili scorciatoie ottenute attraverso semplicistici “ribaltamenti” di quanto è mainstream, di guardare a indigeribili alleanze, di indirizzarsi verso logiche complottistiche e parole d’ordine improponibili pensando davvero di poter controllare il mostro anziché farsi dominare da questo.

La pillola rossa dell’alt-right – serie completa


Bibliografia

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  2. Kristin Bezio, Ctrl-Alt-Del: GamerGate as a precursor to the rise of the altright, in “Leadership”, 2018, vol. 14, n. 5. 

  3. Anita Sarkeesian, Anita Sarkeesian Looks Back at GamerGate, in “Polygon”, 23 dicembre 2019 

  4. Michael Salter, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  5. Ivi 142 

  6. Ivi, p. 143. 

  7. Ivi, p. 169. 

  8. Ivi, p. 146. 

  9. Ivi p. 147. 

  10. Ivi, pp. 149-151. 

  11. Ivi, p. 161. 

  12. Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017. 

  13. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 56-57 [su Carmilla]

  14. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, 2017, p. 22 [su Carmilla]

  15. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, op. cit., pp. 73-74. 

  16. The People v. O.J. Simpson: American Crime Story (2016) – prima stagione della serie televisiva American Crime Story prodotta da FX Netwoks – riprende il libro di successo The Run of His Life: The People v. O.J. Simpson (1997) di Jeffrey Toobin. 

  17. Cfr. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto, op. cit. 

  18. Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2023, p. 13. 

  19. Ivi, p. 69. 

  20. Ivi, p. 71. 

  21. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018 

  22. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018,, pp. 143-144. 

  23. Ivi, p. 149. 

  24. Sarah Thornton, Club Cultures. Music, Media and Subcultural Capital, Polity Press, Cambridge, 1995. 

  25. DickHebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano, 2017. Sul volume si veda: Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, in “Il Pickwick”, 18 ottobre 2017. 

  26. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Quando lo street style diventa mainstream, in “Carmilla”, 5 giugno 2022. 

  27. Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, op. cit. 

  28. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, op. cit., p. 152. 

  29. Ivi, p. 168. 

  30. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 126-127 [su Carmilla]

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Guerrevisioni. Il sangue oltre gli schermi. Uccidere così, come in un videogioco https://www.carmillaonline.com/2021/04/22/guerrevisioni-il-sangue-oltre-gli-schermi-uccidere-cosi-come-in-un-videogioco/ Thu, 22 Apr 2021 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65704 di Gioacchino Toni

Ricorrendo alla definizione di videogioco proposta da Marco Accordi Rickards1 che lo vuole “un’opera multimediale interattiva che richiede l’immersione in un mondo simulato e regolato da leggi tecniche ove le azioni del fruitore attivo siano teleologicamente orientate”, è facile comprendere come il suo sviluppo creativo e tecnologico non potesse che sconfinare il territorio del mero intrattenimento per investire ambiti di carattere artistico, scientifico, didattico, divulgativo e militare.proprio ad alcuni sconfinamenti dell’universo videoludico in ambito bellico [...]]]> di Gioacchino Toni

Ricorrendo alla definizione di videogioco proposta da Marco Accordi Rickards1 che lo vuole “un’opera multimediale interattiva che richiede l’immersione in un mondo simulato e regolato da leggi tecniche ove le azioni del fruitore attivo siano teleologicamente orientate”, è facile comprendere come il suo sviluppo creativo e tecnologico non potesse che sconfinare il territorio del mero intrattenimento per investire ambiti di carattere artistico, scientifico, didattico, divulgativo e militare.proprio ad alcuni sconfinamenti dell’universo videoludico in ambito bellico che si intende qua far riferimento dopo aver visto come più che al semplice ricorso dell’apparato militare a tecnologie sviluppate nell’industria dei videogiochi, sembrerebbe essere di fronte, almeno secondo alcune interpretazioni, a uno scambio determinato da un immaginario condiviso.

Matteo Bittanti, nell’introduzione al voluminoso libro da lui curato, Game Over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020), afferma perentoriamente che l’immaginario videoludico contemporaneo risulta dominato da due ideologie solo apparentemente contraddittorie:

il fascismo, che si presenta spesso nella modalità stealth del criptofascismo, e il neoliberismo. Queste due espressioni non sono ravvisabili esclusivamente nei prodotti consumati – i videogiochi – ma anche nei consumatori – i videogiocatori. […] Pur non essendo apertamente fascista, la cultura videoludica manifesta evidenti tendenze totalitariste. Infatti, come spiegano Nick Dyer-Witheford e Greig de Peuter, il videogioco nasce come espressione del complesso militare-industriale nordamericano, a sua volta fondato sull’imperialismo, sullo sciovinismo e sull’iper-mascolinità. Prodotti e consumati in un contesto connotato come essenzialmente maschile, i videogiochi hanno a lungo celebrato le figure del “cittadino-soldato, dell’imprenditore, dell’avventuriero cyborg o del criminale aziendale”.2.

Emblematica in tal senso è la campagna d’odio esplosa in ambito videoludico incentrata sul sessismo e, più in generale, su posizioni fortemente reazionarie denominata Gamergate scatenata tra il 2014 e il 2015 negli Stati Uniti da parte di una galassia identitaria che individua il modello normativo del gamer nel maschio bianco eterosessuale, ciò che Andrea Braithwaite e Michael Salter definiscono “mascolinità geek”3.

Secondo quanto ricostruito a posteriori da Sarah Jeong sul “New York Times”4, il Gamergate è stato il primo evento di rilievo a dimostrare come a partire da una discussione priva di rilevanza pubblica, un gruppo di individui, grazie al web, è riuscito a dare vita a una campagna reazionaria di proporzioni spropositate rispetto alla causa scatenate.

La vicenda prende il via nell’agosto del 2014 quando un giovane pubblica su un blog un’invettiva contro l’ex-fidanzata sviluppatrice di videogiochi tirando in ballo anche un giornalista recensore di produzioni videoludiche. Da quel momento numerosi utenti hanno diffuso sul web – sfruttando soprattutto Twitter, 4chan e 8chan – fantasiose ricostruzioni di favori sessuali elargiti dalla ragazza al fine di ottenere dal giornalista una buona recensione (in realtà inesistente). L’episodio è stato abilmente sfruttato da una nicchia di giovani gamer maschi e bianchi per dare vita a un’incredibile campagna votata a denunciare la “corruzione” del mondo dei videogiochi in buona parte, a loro dire, determinata dalla presenza di alcune donne intenzionate, con le loro produzioni, a stravolgere un mondo, quello videoludico, che doveva continuare a restare maschile.

Charlie Warzel ha scritto a tal proposito sulle pagine del “New York Times” che ormai è l’intero web ad essere divenuto una sorta di grande Gamergate.

C’è un fil rouge che collega la pressione su alcune aziende da parte dei seguaci di Gamergate – che ha spinto Intel a ritirare i propri investimenti pubblicitari da siti come “Gamasutra” – alla campagna di Sean Hannity nel 2017 contro il brand Keurig, che ha convinto centinaia di telespettatori di Fox News a gettare dalla finestra le loro macchinette del caffè, filmare il gesto e condividerlo su Twitter. Si tratta del medesimo filo che lega gli youtuber antifemministi che usano Patreon per finanziare i loro massacri e losche campagne di crowdfunding per “costruire il muro” ai complottisti di Pizzagate e QAnon. […] E, naturalmente, c’è la presunta premessa centrale di Gamergate, il bigottismo mascherato da critica ai media5.

Riprendendo il concetto di “razionalità tecnologica” formulato da Herbert Marcuse per denunciare lo svilupparsi, nel corso del Novecento, di una nuova ideologia totalizzante basata sull’innovazione tecnologica, Michael Salter ritiene che il videogioco sia riconducibile alla medesima matrice disumanizzante, pertanto il fenomeno Gamergate confermerebbe come l’universo dei videogame, insieme a quello dei social media con cui si intreccia, sia attraversato da modalità comunicative incentrate sulla prevaricazione e sull’insulto scatenate da quelli che Ian Williams ha perentoriamente definito “soggetti incompleti” dotati di identità fabbricate da aziende che esortano a consumare determinate merci nelle modalità prescritte6, una galassia di individui che riscattano vere o presunte deficienze personali attraverso il surrogato videoludico, dunque privi di reale autorità. Il gamer, sostiene Bittanti, «si serve delle fantasie elettroniche per conferire significato a un’esistenza che considera vuota, deludente o fallimentare»7. Esisterebbe dunque, secondo lo studioso, una sorta di affinità elettiva, di convergenza culturale, tra un certo tipo di gamer e la galassia politica dell’estrema destra.

Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto consumatore passivo della televisione, del cinema e della letteratura – ciò che preoccupa maggiormente è la convergenza tra l’identità gamer e l’estrema destra8.

A sostengo del proprio convincimento Bittanti ripropone le posizioni di Alfie Bown che ritengono la logica e il tipo di divertimento associati all’attività videoludica come del tutto funzionali alle posizioni politiche di destra per almeno due motivi:

In primo luogo, le ideologie di destra sono pervasive e dominanti nella storia dei videogiochi. Sebbene influenzati dal contesto, i videogiochi hanno a lungo privilegiato temi quali l’espulsione degli “alieni” (da Space Invaders a XCOM), la paura dell’infezione impura (da Half-Life a The Last of Us), il controllo dei confini (da Missile Command a Plants vs. Zombies), la conquista del territorio (da Command & Conquer a Splatoon), la costruzione degli imperi (da Civilization a Tropico), il salvataggio delle principesse (da Mario a Zelda) e la necessità di ripristinare l’armonia naturale (da Sonic a FarmVille). In secondo luogo, i videogiochi spingono l’utente ad agire in modo istintivo, sollecitando un’adesione “spontanea” alle ideologie che essi veicolano. Giocare a Resident Evil non equivale a guardare l’omonimo film, perché il giocatore che impugna il controller percepisce i desideri del videogioco come propri, anziché come i desideri di qualcun altro9.

In un suo recente volume Alessandro Alfieri invita a guardare alla “violenza dell’immaginario” come a una violenza gestita, edulcorata da surrogati utili al mantenimento degli equilibri sociali ma che continua a pulsare sotto la superficie e che, in qualche modo, può farsi violenza agita. «Il web diventa un’ulteriore forma di gestione dell’ira accumulata, che però definisce il passaggio all’azione e perciò stesso alla responsabilità etica: non si tratta più solo di fruire della violenza più o meno palesata nella produzione audiovisiva, ma di partecipare attivamente – anche se “non troppo”»10.

Bittanti ricorda poi come tali derive fascisteggianti non siano tanto diverse da quelle presenti in quel libertarismo estremo che ha definito fin dall’inizio gran parte delle culture videoludiche in rete. Negli ultimi decenni, secondo lo studioso, all’interno della cultura videoludica si è affermata una logica binaria del “noi contro di voi” che si palesa anche nella violenta ostilità che gli hardcore gamer manifestano nei confronti di quanti vengono considerati una minaccia al loro divertimento.

Parafrasando Herbert Marcuse, si potrebbe affermare che il gamer è un uomo a due dimensioni, quelle dello schermo: concepisce infatti la realtà concreta come un’estensione delle fantasie di cui si nutre. Nel momento in cui la realtà smette di conformarsi alle illusioni, le frizioni sono inevitabili. Detto altrimenti, non ci troviamo di fronte a un equivoco epistemologico – la presunta confusione tra reale e virtuale paventata dagli psicologi pop dei talk show televisivi – quanto alla precisa volontà di trasformare dei deliri di onnipotenza in realtà11.

Le parole di Bittanti riferite alla contiguità tra diffusi settori della cultura videoludica e le posizioni politiche dell’estrema destra e della cultura neoliberista sembrano applicabili anche al riversarsi della tecnologia videoludica – intesa non semplicemente come insieme di conoscenze tecnologiche ma, in linea con Michael Salter, come ideologia disumanizzante – direttamente all’interno dell’ambito militare. Vale dunque la pena citare almeno alcuni tra i sempre più numerosi esempi di inquietante sconfinamento videoludico in ambito bellico.

Nel corso di una conferenza internazionale sull’Intelligenza artificiale tenutasi a Melbourne, in Australia, nell’agosto del 2017, più di un centinaio di scienziati ed esperti provenienti da tutto il mondo hanno indirizzato un appello all’ONU per porre fine allo sviluppo dei cosiddetti “robot killer”, sistemi d’arma autonomi in grado di uccidere senza alcun intervento umano. Mentre veniva presa in considerazione l’ipotesi di una moratoria a proposito dello sviluppo di tali armi sia dalle Nazioni Unite che dal Parlamento europeo, che ha votato nel 2018 una risoluzione richiedente la loro messa al bando a livello internazionale12, sono stati diversi gli stati che hanno continuato a sviluppare un arsenale bellico che sembra riprendere quanto introdotto dai videogiochi.

Da tempo l’Israel Aerospace Industries sta sviluppando un particolare tipo di carro armato – denominato Carmel – dotato di sensori, telecamere, completamento privo di finestre visto che l’osservazione dell’ambiente circostante è garantita da uno schermo panoramico che permette di regolare i movimenti e la gestione dell’armamento con i dati che compaiono in costante aggiornamento sul lato dello schermo, proprio come nei videogiochi. Si tratta di un sistema pensato per essere usato da militari giovani che non necessitano di un lungo processo di addestramento essendo abituati alla logica dei videogiochi.

Il Carmel non guarda ai videogiochi solo per l’interfaccia o per quanto riguarda il controllo ma anche per quanto concerne l’implementazione di un’intelligenza artificiale che è stata allenata in larga parte con StarCraft II e che è stata integrata nel carro armato con l’Engine Unity e la piattaforma VBS. StarCraft II viene considerato un allenamento ideale per una IA perché propone situazioni competitive molto varie, in tempo reale e caratterizzate anche da tempi di scontro piuttosto lunghi. Il tutto con informazioni incomplete sui combattenti e con centinaia di variabili. Per migliorare ulteriormente l’IA sono anche stati sfruttati titoli che come DOOM [che] insegnano strategie diverse per gli spostamenti, l’individuazione degli obiettivi, la selezione delle armi e altre capacità autonome. Grazie a queste implementazione si dà vita a un mezzo corazzato che ha modalità completamente autonome, semiautonome e completamente manuali13.

Altro caso di sconfinamento del videogioco in ambito militare riguarda il sistema di gestione dei sottomarini nucleari della US Navy elaborato da Microsoft sull’onda della sua esperienza relativa al controller Xbox dei videogiochi, sistema che è stato preferito al tradizionale joystick realizzato da Lockheed Martin decisamente costoso e non altrettanto intuitivo14. Sempre in ambito statunitense, l’esercito e l’Idaho National Laboratory stanno congiuntamente sviluppando la gestione di robot militari attraverso il controller del popolare sistema di gioco Nintendo Wii (Wiimote) rivelatosi efficace nel ridurre il carico di lavoro dell’operatore e permettere un allargamento dei domini d’impiego.15. In questo caso, attraverso il raggio a infrarossi gestito attraverso un sistema di IA, diviene possibile indirizzare il robot a un luogo specifico ed attendere, al sicuro, che questo svolga il suo compito.

In Cina, oltre ad una riconversione di parte dei tradizionali carri armati in mezzi corazzati controllabili da remoto in grado di fronteggiare il nemico, sono stati sviluppati robot armati e dotati di videocamere di sorveglianza mobili di forma ovoidale denominati Anbot che ricordano R2D2 di Star Wars e Dalek di Doctor Who.16. In Corea del Sud invece è stato progettato per i suoi confini con la Corea del Nord un robot sentinella prodotto da Samsung denominato Techwin SGR-A1 dotato di sensori infrarossi, videocamere termiche, mitragliatrici e lanciagranate con un raggio d’azione di circa tre chilometri. Sebbene al momento tale dispositivo sembri essere ancora controllato da remoto, risulterebbe già in grado di svolgere la maggior parte dei suoi compiti in piena autonomia17. Tra i robot mobili finalizzati al monitoraggio disponibili alle forze armate statunitensi si può invece segnalare Groundbot, un dispositivo a forma di sfera dal diametro di circa 60 cm dotato di telecamere esterne in grado di muoversi con facilità su diversi terreni18.

Sempre nell’ambito dei robot impiegati in ambito militare, l’esercito iracheno si è dotato di una jeep telecomandata denominata Alrobot19, mentre negli Stati Uniti la Carnegie Mellon University ha sviluppato per il corpo dei Marines un veicolo da combattimento denominato Gladiator, disponibile sia in versione a sei ruote che cingolata, dotato di lanciarazzi e mitragliatrici comandato da remoto ma in grado di lavorare in autonomia. Anche MAARS (Modular Advanced Armed Robotic System) progettato da QuinetiQ Nord America è un robot militare comandato a distanza, dotato di batterie, con una capacità visiva di 360°, armato di mitragliatrice, lanciagranate e in grado di mettere in sicurezza i militari feriti20. La stessa Marina militare nordamericana sta sviluppando navi da guerra prive di equipaggio sia in una versione di ricognizione che in una di combattimento dotata di missili.

Numerosi sono poi i paesi che hanno sviluppato “droni kamikaze” di dimensioni estremamente ridotte, difficilmente individuabili ai radar, attivabili tanto in maniera manuale che automatica: una versione russa è realizzata dalla celebre ditta Kalashnikov, mentre negli USA si lavora a micro-droni come PD-100 Black Hornet, dal peso di soli 16 grammi, equipaggiato con foto e termocamera in grado di agire autonomamente una volta attivato21 e RoboBee sviluppato dall’Università di Harvard, vero e proprio drone-insetto di soli 8 grammi in grado di elevata autonomia di azione e pensato per operazioni di ricognizione o soccorso22.

Riprendendo il progetto “Future Soldier” statunitense che sin dagli anni Novanta intendeva sviluppare equipaggiamenti e tecnologie in grado di amplificare le abilità dei militari sul campo di guerra, anche l’Italia ha stanziato importanti finanziamenti per sviluppare il suo “Soldato futuro” ad opera di Selex (Finmeccanica, Beretta, Sistema Compositi e Aerosekur).23.

Nonostante il progetto statunitense sia stato cancellato nel 2016 e quello italiano sembri aver subito una battuta d’arresto, ingenti somme continuano a finanziare l’ambizione di ibridare macchina e soldato, come testimonia il progetto Next Generation Squad Weapons24 portato avanti dagli Stati Uniti che prevede militari iperconnessi, sostenuti da amplificazione sensoriale e dotati di armi con balistica computerizzata in grado di calcolare in autonomia le condizioni ambientali e la posizione del bersaglio, assistendo il soldato attraverso informazioni proiettate sull’ottica o ricorrendo a realtà aumentata o mista in modo da operare senza esporsi al nemico. Sono in fase di sviluppo anche sistemi di monitoraggio della salute del militare attraverso chip sottocutanei impiantati al polso.

Le possibilità di ibridazione tra l’universo videoludico e quello militare sono dunque molteplici ma aldilà degli elementi di coincidenza culturale tra alcuni settori della galassia dei videogiochi, l’estrema destra, le logiche neoliberiste e l’universo militare, quel che è certo, e inquietante, è che il ricorso alla forza e alla sopraffazione, che si tratti di hater da tastiera o di forze armate in divisa, sembra sempre più disincarnarsi e disumanizzarsi in quanto gli attacchi vengono portati da vere e proprie comfort zone che preservano dai rischi di un confronto diretto con il nemico, ormai percepito come un’incorporea immagine sullo schermo. Insomma, con sempre più “naturalezza” si sarebbe indotti ad agire sulla realtà come si trattasse di un videogioco. Massacrare esseri umani non è mai stato così facile.


Guerrevisioni


  1. Marco Accordi Rickards, Storia del videogioco. Dagli anni cinquanta a oggi (Carocci 2020). 

  2. Matteo Bittanti, Introduzione: Make Videogame Great Again, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 7-8. Circa le argomentazioni dei due autori citati si veda Nick Dyer-Witheford, Greig de Peuter, Games of Empire: Global Capitalism and Video Games, University of Minnesota Press, Minneapolis, Minnesota 2009. 

  3. Si vedano a tal proposito i saggi di Andrea Braithwaite, Per un’etica del giornalismo videoludico? #gamergate e la mascolinità geek e di Michael Salter, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, entrambi pubblicati in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  4. Sarah Jeong, When the Internet Chases You From Your Home, “New York Times”, 15 agosto 2019. 

  5. Charlie Warzel, How an Online Mob Created a Playbook for a Culture War, in “The New York Times”, 15 agosto 2019. Riportato in Matto Bittanti, op. cit., pp. 8-9. 

  6. Ian Williams, Death to the Gamer, in “Jacobin”, settembre 2014. 

  7. Matteo Bittanti, op cit., p. 13. 

  8. Matteo Bittanti, op. cit., p. 14. 

  9. Alfie Bown, How video games are fuelling the rise of the far right, in “The Guardian”, 12 marzo 2018. Riportato in Matto Bittanti, op. cit., pp. 17-18. 

  10. Alessandro Alfieri, Video web armi. Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere, Rogas, Roma, 2021, p. 95. 

  11. Matto Bittanti, op. cit., p. 26. 

  12. Risoluzione approvata con 566 voti a favore, 47 contrari e 73 astensioni il 12 settembre 2018: European Parliament resolution of 12 September 2018 on autonomous weapon systems 

  13. Alessandro Baravalle, Xbox controller, StarCraft II e Doom. Non è una console ma Carmel, un carro armatoisraeliano, in “Eurogamer.it”, 31 luglio 2020. Si veda anche Noah Smith, Leore Dayan, A new Israeli tank features Xbox controllers, AI honed by “StarCraft II” and “Doom”, in “The Washington Post”, 28 luglio 2020. 

  14. Si veda, ad esempio, Travis M. Andrews, The Navy’s adding a new piece of equipment to nuclear submarines: Xbox controllers, in “The Washington Post”, 25 settembre 2017. 

  15. Si veda, ad esempio, Eric Bland, Wii-controlled robots made for combat, in “Nbc News”, 19 dicembre 2008. 

  16. Si veda, ad esempio, Jane Wakefield, Tomorrow’s Cities: Dubai and China roll out urban robots, “BBC News” 10 giungo 2018. 

  17. Si veda, ad esempio, Future Tech? Autonomous Killer Robots Are Already Here, in “Nbc News”, 15 maggio 2014. 

  18. Si veda, ad esempio, Rotundus GroundBot spherical surveillance robot broadcasts live in 3D, in “New Atlas”, 24 ottobre 2011. 

  19. Si veda, ad esempio, Mark Frigg, The remote controlled robot tank fighting ISIS: Iraqi military confirms Alrobot has been deployed in Mosul, in “Daily Mail”, 8 novembre 2016. 

  20. Si veda, ad esempio, Heba Soffar, Modular Advanced Armed Robotic System (MAARS robot) features, uses & design, in “Sciences Online”, 19 marzo 2019. 

  21. Si veda, ad esempio, PD-100 Black Hornet Nano Unmanned Air Vehicle, in “Army Technology”. 

  22. Si veda, ad esempio, Giorgio Bellocci, I droni-insetto con laurea a Harvard per situazioni di soccorso, in “Robotica”, 23 maggio 2016. 

  23. Se ne parla anche nel sito dell’Esercito italiano: “Future Soldier” Program, in “Esercito – Ministero della Difesa”. 

  24. Next Generation Squad Weapons (NGSW) – U.S. Army Acquisition Support Center (USAASC). 

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