Michael Löwy – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ecologia conflittuale e di classe. Da Dario Paccino a Michael Löwy https://www.carmillaonline.com/2024/09/17/ecologia-conflittuale-e-di-classe-da-dario-paccino-a-michael-lowy/ Tue, 17 Sep 2024 19:37:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84405 di Marc Tibaldi

L’ecologia politica di Dario Paccino – Tra l’imbroglio ecologico e le lotte contro il nucleare, a cura di Gennaro Avallone e Sirio Paccino Ombre corte, Verona 2024, 139 pagine, 13 euro

Nel volume collettivo dedicato a Dario Paccino, i due curatori, assieme a Giulia Arrighetti, Angelo Baracca, Lucia Giulia Fassini, Giorgio Ferrari, Vincenzo Miliucci, Alfonso Natella e Roberta Pompili, propongono una serie di contributi che si concentrano su due questioni fondamentali utili per i movimenti sociali ed ecologisti contemporanei. La prima riguarda la centralità del concetto di “imbroglio ecologico”, per comprendere la gestione tecnocratica dall’alto della crisi climatica [...]]]> di Marc Tibaldi

L’ecologia politica di Dario Paccino – Tra l’imbroglio ecologico e le lotte contro il nucleare, a cura di Gennaro Avallone e Sirio Paccino Ombre corte, Verona 2024, 139 pagine, 13 euro

Nel volume collettivo dedicato a Dario Paccino, i due curatori, assieme a Giulia Arrighetti, Angelo Baracca, Lucia Giulia Fassini, Giorgio Ferrari, Vincenzo Miliucci, Alfonso Natella e Roberta Pompili, propongono una serie di contributi che si concentrano su due questioni fondamentali utili per i movimenti sociali ed ecologisti contemporanei. La prima riguarda la centralità del concetto di “imbroglio ecologico”, per comprendere la gestione tecnocratica dall’alto della crisi climatica e ambientale in corso; la seconda è relativa alla rilevanza dell’ecologia politica per capire quanto sia necessario sostenere l’abbandono dell’energia nucleare in ogni sua forma, civile o militare.

Questioni fondamentali affrontate a partire dal metodo di lavoro di Paccino e ripercorrendo le lotte dei movimenti. Ricordiamo che Ombre corte, nel 2023, ha ripubblicato L’imbroglio ecologico, uno dei testi chiave dell’ecologismo internazionale. È in sintonia con questi intenti anche il libro di Löwy. L’ecosocialismo per lui è una corrente di pensiero e di azione ecologica che fa proprie le conquiste fondamentali del marxismo mentre le libera dalle sue scorie produttiviste. La logica capitalista del mercato e del profitto, così come quella dell’autoritarismo burocratico del defunto “socialismo reale”, è incompatibile con le esigenze di salvaguardia dell’ambiente. Ma l’ecosocialismo critica anche gli attuali vicoli ciechi dell’ecologia politica, che non mette in discussione il potere del capitale, e propone una proposta una trasformazione radicale dei rapporti di produzione, dell’apparato produttivo e dei modelli di consumo dominanti, rompendo con i fondamenti della civiltà capitalista/industriale.

Ecosocialismo – Un’alternativa radicale alla catastrofe capitalista, di Michael Löwy, Ombre corte, Verona 2024, 156 pagine, 14 euro

Molto interessante il confronto che Löwy ingaggia con pensatori e movimenti, a iniziare da alcuni saggi di Walter Benjamin, in cui il filosofo – negli anni ’20 del Novecento – precorre le riflessioni degli ecologisti sociali, denunciando l’idea di dominio della natura e proponendo una nuova concezione della tecnica: non più dominio della natura da parte dell’uomo ma “dominio del rapporto tra natura e umanità”. Benjamin riprese anche alcune intuizioni di Charles Fourier, che già a inizio ‘800 aveva sognato un lavoro ben lontano dallo sfruttare la natura.

Nel libro, è dirimente il confronto con il pensiero di Serge Latouche e del movimento della decrescita. Löwy – pur sottolineando che questa corrente è lungi dall’essere omogenea e mettendo in luce la giusta demistificazione dello “sviluppo sostenibile” – attacca il rifiuto in blocco dell’umanesimo e del pensiero illuminista, l’attaccamento etnocentrico territoriale che sconfina nella condanna delle migrazioni e delle ibridazioni, del loro relativismo culturale, etc. Non è un caso che Latouche si sia confrontato con l’ideologo ultradestro Alain de Benoist e che alcuni suoi libri siano stati tradotti anche da editori ambigui.

Altri confronti interessanti sono quelli con il pensiero di André Gorz, di Joel Kovel, di Murray Bookchin. Utilizzando le parole di Löwy: “Questo libro non è un’esposizione sistematica delle idee o delle pratiche ecosocialiste, ma più modestamente il tentativo di esplorarne alcuni aspetti, terreni ed esperienze. Non mira a codificare una nuova dottrina né a fissare una qualche ortodossia. Una delle virtù dell’ecosocialismo è proprio la sua diversità, la sua pluralità, la molteplicità di prospettive e approcci, spesso convergenti o complementari ma anche, a volte, divergenti”, come dimostrano gli interessanti documenti pubblicati in appendice, che provengono da diverse reti ecosocialiste. Per sintetizzare e concludere, possiamo dire che in questo libro Michael Löwy presenta le idee di chi vuole che “il valore di scambio sia sostituito dal valore d’uso”, e “la produzione sia organizzata in funzione dei bisogni sociali e delle esigenze di tutela ambientale”.

Merita un elogio Ombre corte per l’attenzione editoriale ad autori che riflettono sulle questioni ecologiche e ambientali; oltre ai due titoli di cui abbiamo parlato, segnaliamo: Jason W. Moore (Ecologia-mondo e crisi del capitalismo), Dipesh Chakrabarty (La sfida del cambiamento climatico), James O’Connor (La seconda contraddizione del capitalismo), Razmig Keucheyan (La natura è un campo di battaglia), Jacopo Nicola Bergamo (Marxismo ed ecologia).

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Kafka sognatore ribelle https://www.carmillaonline.com/2022/08/04/kafka-sognatore-ribelle/ Thu, 04 Aug 2022 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73168 di Giorgio Fontana

Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, traduzione di Guido Lagomarsino (elèuthera 2022)

[Il filo rosso proposto da Michael Löwy per muoversi nel labirinto kafkiano è la sua passione antiautoritaria, la sua coerente insubordinazione verso qualunque autorità. Una sensibilità, un atteggiamento esistenziale, presente in tutta l’opera narrativa, che consente di cogliere la sua dimensione poeticamente sovversiva. Con la sua analisi, Löwy mostra il nucleo profondo della scrittura di Kafka: una sete infinita di libertà. Ringraziando le edizioni elèutera per la gentile concessione, di seguito si riporta la prefazione alla nuova edizione di [...]]]> di Giorgio Fontana

Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, traduzione di Guido Lagomarsino (elèuthera 2022)

[Il filo rosso proposto da Michael Löwy per muoversi nel labirinto kafkiano è la sua passione antiautoritaria, la sua coerente insubordinazione verso qualunque autorità. Una sensibilità, un atteggiamento esistenziale, presente in tutta l’opera narrativa, che consente di cogliere la sua dimensione poeticamente sovversiva. Con la sua analisi, Löwy mostra il nucleo profondo della scrittura di Kafka: una sete infinita di libertà. Ringraziando le edizioni elèutera per la gentile concessione, di seguito si riporta la prefazione alla nuova edizione di Giorgio Fontana – ght]

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«E se il Castello non fosse il simbolo di qualche cosa d’altro, ma fosse semplicemente un castello, cioè la sede di un potere terrestre e umano?».

Questa frase restituisce subito il tono del saggio che tenete fra le mani: la nettezza espressiva; il rifiuto del facile simbolismo; la suggestione posta in forma di domanda e non di apodittica certezza – una cautela che si riverbera per tutto il libro e che nel caso di Kafka è particolarmente appropriata.

In effetti, una delle difficoltà maggiori con lo scrittore boemo sta nella quantità di preconcetti che anticipano e orientano anche la lettura più volenterosa: fra di essi, in particolare, l’idea che si possa estrarre dai suoi romanzi e racconti un messaggio di ordine religioso, morale o politico1. Ma Löwy è studioso troppo raffinato per cadere nella trappola (la denuncia anzi fin dalle prime pagine): suo obiettivo è piuttosto rintracciare una sensibilità libertaria e una «passione antiautoritaria» che, biografie e testi alla mano, attraversano gran parte della vita e dell’opera di Franz Kafka. Le due righe citate sopra lo esemplificano bene: mettendo da parte – senza perciò rifiutarle in toto – le numerose letture teologiche, Löwy propone di ravvisare in Kafka la descrizione di relazioni tutte umane, con le loro terribili storture: le relazioni di dominio innanzitutto.

Di fatto, niente nel Castello indica che la crudeltà dei funzionari abbia a che vedere con un’altissima istanza divina; e come già osservavano Deleuze e Guattari, il punto dello scrittore non è tanto «quello di costruire questa immagine della legge trascendente e inconoscibile quanto di smontare il meccanismo d’una macchina di ben diverso genere, che ha bisogno soltanto di questa immagine della legge per accordare i suoi ingranaggi»2. Ora, tale macchina si nutre dell’automatismo burocratico ma anche del capriccio di chi detiene una qualsiasi forma di supremazia. Il sistema punitivo kafkiano appare tanto spietato quanto ridicolmente arbitrario: agisce spesso a caso e senza chiari motivi, seguendo vie tortuose, irrappresentabili dalla norma scritta. Nella splendida immagine di Sàdeq Hedàyat: «La legge è come un gatto in agguato, a caccia delle vite che passano inosservate, e all’improvviso attacca, e non si capiscono mai le sue mosse»3.

Attorno alle vittime di tale attacco si crea il vuoto sociale: ma – ed è una delle suggestioni cardine di Löwy – molte fra esse non subiscono passivamente i colpi ricevuti. Il K. del Castello è sia lo straniero per eccellenza (o per dirla in termini più chiari, un immigrato: e dunque trattato con sospetto o condiscendenza), sia un critico fermissimo del villaggio e del Castello, per quanto interessato solo al proprio bene4. «Da questo punto di vista», osserva Löwy, «K. è l’antitesi del ‘campagnolo’ che aspetta invano, tutta la vita, paziente e sottomesso, che gli sia concesso di accedere all’interno delle porte della Legge…».

Il «campagnolo» è naturalmente il protagonista della celebre pagina Davanti alla Legge, pubblicata nel Medico di campagna e contenuta in uno dei capitoli finali del Processo. Secondo Löwy, ancora una volta «riportando a terra» il testo, guardiano, giudici e funzionari

non sono affatto rappresentanti, agli occhi di Kafka, della divinità […]. Sono invece i rappresentanti del mondo della non libertà, della non redenzione, l’universo soffocante da cui Dio si è ritirato. Davanti alla loro autorità arbitraria, meschina e ingiusta, la sola via di salvezza sarebbe quella che indica la propria legge individuale, il rifiuto di sottomettersi, superando le barriere interdette.

In effetti, a un occhio più smaliziato, Davanti alla Legge appare anche un’esemplificazione non tanto del «Potere», soggetto astratto dietro la cui maiuscola si cela una sgradevole semplificazione della realtà specifica, bensì delle relazioni quotidiane fra chi lavora per un’istituzione e chi deve seguirne tutte le complicazioni. Lo sportello di un ufficio pubblico, se vogliamo.

Il guardiano, facendo leva sulla sua pur piccola autorità – è solo il primo della fila, il gradino più basso – intimidisce il poveraccio, l’uomo di campagna terrorizzato dagli ostacoli che gli prospettano per ottenere quanto pure gli spetta di diritto. Chiunque sia stato trattato con arroganza e sufficienza dai professionisti della legge o abbia avuto a che fare con difficoltà burocratiche coglie subito questo aspetto della parabola. Kafka porta certo la situazione all’estremo, e la cala in un’atmosfera religiosa impossibile da ignorare; così com’è impossibile ignorare le ulteriori sfumature del testo, che il prete del Processo sviscera in lungo e in largo discutendone con Josef K.: ma la dinamica relazionale di base resta piuttosto evidente5.

Un altro preconcetto tipico di certa critica è la ricerca di coincidenze fra vita e opera di Kafka: il tentativo di ricondurre Il Verdetto o La Metamorfosi o Il Processo a fatti occorsi allo scrittore, come se ciò potesse illuminarci in automatico su un’entità tanto complessa e indipendente quanto un’opera d’arte. Anche qui Löwy esercita una gradita prudenza, pur evidenziando nella biografia di Kafka autentiche e documentate simpatie per il socialismo libertario, che nel suo caso si declinò in termini essenzialmente emotivi ed etici: un orientamento, più che una posizione politica ben definita.

La prima edizione francese di Kafka sognatore ribelle è del 2004: fra le biografie citate non poteva esserci l’ultimo volume del monumentale lavoro di Reiner Stach, pubblicato in Germania vari anni dopo e dedicato alla giovinezza dello scrittore. Ma alla luce della sua vastissima ricerca, anche Stach rileva l’interesse di Kafka per il movimento anarco-socialista praghese e insieme ne nega la partecipazione attiva alle manifestazioni, come già riconosciuto da Löwy, concludendo che lo scrittore mantenne per tutta la vita una visione lucida e imparziale dei principi guida della sinistra6.

Del resto fin da piccolo egli ebbe modo di sperimentare i metodi autoritari del padre, sia su di sé sia sui commessi dell’emporio di famiglia, con i quali istintivamente si schierava; ma anche nella vita adulta non mancano elementi a supporto del suo vivace istinto di protesta per l’apparato gerarchico e le diseguaglianze sociali. Da impiegato detestava le pastoie della burocrazia e le vacue formule che pure doveva utilizzare, così come i rapporti professionali fondati su un autoritarismo condito di insulti; e lavorando alle campagne di sicurezza sociale per gli operai – dove conobbe direttamente gli effetti materiali dello sfruttamento, al di là di ogni idealismo e semplificazione – si prodigò molto più di quanto non fosse previsto dai suoi compiti d’ufficio7.

Peraltro Löwy non cerca mai di ridurre meccanicamente la letteratura a ideologia; mostra invece come la passione per la libertà e la giustizia sociale trovino uno spazio anche nell’opera letteraria di Kafka: «Anche astraendo dai contatti di Kafka con gli ambienti anarchici praghesi, è perfettamente possibile cogliere la dimensione sovversiva e libertaria della sua opera, grazie a una lettura attenta e sensibile dei testi». Basti pensare alla veemente, benché inefficace, protesta di Josef K. nel Processo8; o allo sdegno e la caparbietà di Karl Rossmann contro lo sfruttamento nel Disperso; o alla straordinaria resistenza nonviolenta di Amalia nel Castello.

Ma la narrativa kafkiana svela con grande finezza come l’autorità offra anche una risposta semplice al bisogno di identità e sicurezza. Essere radicalmente liberi è difficile non solo a causa del dominio imposto dall’esterno; richiede una complessa revisione interiore, riconoscendo innanzitutto la propria disponibilità a infilare la testa nel giogo anche in assenza di minacce concrete o violenza fisica – l’aspetto autopunitivo che Kafka ha raccontato come nessun altro. Il Georg Bendemann del Verdetto è spinto a buttarsi nel fiume tanto dalla condanna paterna quanto dal proprio senso di colpa; e il Josef K. stremato che compare alla fine del Processo sa che la vergogna (di essersi arreso, fra le altre cose) gli sopravviverà9.

E c’è di più. Ricordano Deleuze e Guattari che Josef K. «non si scaglia mai contro la legge e si schiera volentieri dalla parte del carnefice: dà uno spintone a Franz che sta per essere flagellato, terrorizza un imputato prendendolo per un braccio, si prende gioco di Block dall’avvocato»10; e pure il K. del Castello non brilla certo per umanità o comprensione, nella sua indomita ma privatissima battaglia contro i funzionari. Libertà, del resto, può essere anche libertà di imitare il dominio che opprime nel tentativo di rovesciarlo: un’altra sfida cruciale per un’organizzazione sociale più giusta. Da vero artista e non da semplice «critico del potere», Kafka non chiude mai gli occhi davanti a tali ambivalenze e chiaroscuri – un antidoto prezioso all’anarchismo più ingenuo. Eppure – ed è la tesi fondamentale di Löwy – nelle sue pagine emerge comunque un’utopia che si manifesta paradossalmente «attraverso la sua totale assenza»: dalla violenza e dall’arbitrio emerge in negativo un mondo nuovo; più scendiamo nell’abisso della sopraffazione, più intuiamo quali forme possono avere le relazioni liberate.

Ma in che modo rendere giustizia a tale utopia? Con un uso attento e quasi sacrale della parola, innanzitutto. Con uno stile antilirico, estremamente preciso quanto sobrio, che rivolga contro il mondo reale le sue stesse armi: «Il tedesco di cancelleria diventa così la più grossa possibilità offerta al suo genio»11, suggerisce acutamente Marthe Robert. Attraverso tale lingua – praticando la più alta devozione alla letteratura, alla scrittura «come forma di preghiera»12 – Kafka si impegna in una lotta per la verità e indica, forse, anche un ideale comunitario13.

Certo tutto ciò non dovrebbe farci adorare nuovi idoli: gli scritti di Kafka sono talmente variegati e complessi – pieni non solo di figure dominanti e individui schiacciati ma anche di animali parlanti, motivi fiabeschi, momenti erotici, enigmi irrisolvibili, scene meravigliosamente comiche e così via – che ogni lettura unilaterale li svilisce, anche quando è ben radicata nel testo come certo lo è l’esperienza dell’umiliazione e della solitudine14. Lo stesso Löwy, del resto, si premura di precisarlo; e uno degli aspetti più encomiabili del suo lavoro è proprio una fedeltà filologica che non sempre anima le letture di carattere politico, unita alla grande attenzione nel suggerire tesi interessanti e feconde. Insomma: Kafka sognatore ribelle è un testo che ancora oggi apre orizzonti critici tutti da esplorare, dando al contempo un’altra salutare picconata all’immagine dell’opera kafkiana quale mera descrizione di un potere passivamente subìto, e rivalutandone invece il carattere libertario.

In tal senso, fra i numi tutelari del testo mi pare esserci Elias Canetti; e con Canetti vorrei chiudere, lasciando infine la parola a questo libro appassionato e per molti versi rivoluzionario:

Bisogna procedere con lui a piccoli passi e si diventerà modesti. Nella letteratura moderna non c’è nulla che renda così modesti. Egli riduce la presunzione di ogni vita. Mentre lo si legge si diviene buoni, ma senza esserne orgogliosi. Le prediche rendono orgogliosi coloro che ne sono commossi, Kafka rinuncia alla predica. Non trasmette ad altri i comandamenti di suo padre; una straordinaria ostinazione, la sua dote principale, gli permette di spezzare l’ingranaggio di catene dei comandamenti che continuano a tramandarsi dai padri ai figli. Egli si sottrae alla loro violenza; la loro energia, quanto in essi vi è di animalesco, manca su di lui il suo effetto. Tanto più lo occupa il loro contenuto. Per lui i comandamenti divengono altrettanti dubbi 15.


  1. Difficile dirlo più nettamente di Adorno: «Una prima regola per evitare un trapasso immediato al significato troppo ovvio, già inteso dall’opera, potrebbe essere questa: prendere tutto alla lettera, non sovrapporre al testo concetti dall’alto. L’autorità di Kafka è l’autorità dei testi. Soltanto la fedeltà alla lettera, e non la comprensione con fini già prefissati, potrà prima o poi aiutare»; Theodor W. Adorno, «Appunti su Kafka» in Note per la letteratura, traduzione di E. Filippini, Einaudi, Torino, 2012, p. 238. 

  2. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, traduzione di A. Serra, Quodlibet, Macerata, 2010, p. 77. 

  3. Sàdeq Hedàyat, Il messaggio di Kafka, a cura di F. Favelli e M. Pistoso, Hestia, Milano, 2001, p. 73. 

  4. La forza di Kafka sta anche nell’aver trattato con la massima radicalità questa figura di esule, dandole un valore universale al di là delle ascendenze ebraiche. Commentando i passi dei Diari del 28 e 29 gennaio 1922, Maurice Blanchot suggerisce che «per Kafka essere escluso dal mondo significa essere escluso da Canaan, significa errare nel deserto, ed è proprio questa situazione che rende patetica la sua lotta e disperata la sua speranza, come se, proiettato fuori dal mondo nell’errore della migrazione infinita, dovesse lottare senza tregua per trasformare quel fuori dal mondo in un mondo altro e quell’errore nel principio, nell’origine di una libertà nuova»; M. Blanchot, Lo spazio letterario, traduzione di F. Ardenghi, il Saggiatore, Milano, 2018, p. 67. Un’osservazione che ben si attaglia anche allo spirito del saggio di Löwy. 

  5. La discussione della parabola nel romanzo si chiude con l’invito del sacerdote a non prendere tutto per vero, ma soltanto per necessario: una tremenda giustificazione dell’autorità sopra la giustizia, cui Josef K. replica con la famosa frase: «Malinconica opinione. Della menzogna si fa una regola universale»; Franz Kafka, Il Processo, a cura di G. Zampa, Adelphi, Milano, 1973, p. 225. Per la presenza di elementi ebraici nella parabola vedi Karl E. Grözinger, Kafka e la Cabbalà, P. Buscaglione e C. Candela (a cura di), Giuntina, Firenze, 1993. 

  6. Vedi Reiner Stach, Kafka: The Early Years, Princeton University Press, Princeton, 2017, pp. 191-192. Nel suo interessante Kafka en colère, Pascale Casanova indica nel socialismo ebraico, giunto a Kafka tramite il teatro yiddish di Yitzhak Löwy, l’opzione concreta che sostituì le più vaghe pulsioni precedenti: per l’autrice il disinteresse progressivo di Kafka verso l’anarchismo a partire dal 1912 non è un segno di mero ripiegamento nella letteratura, ma una scoperta di tale nuova ed esaltante prospettiva – benché vissuta sempre con un’adesione di principio e mai di azione diretta. Vedi la seconda parte di P. Casanova, Kafka en colère, Seuil, Paris, 2011. 

  7. Vedi ad esempio Michael Müller, «L’impiegato Franz Kafka» in Franz Kafka, Relazioni, Einaudi, Torino, 1988, pp. vii-lix; di nuovo la seconda parte di P. Casanova, Kafka en colère, cit.; e R. Stach, Kafka: The Early Years, cit., pp. 315-324. 

  8. Per inciso, il romanzo contiene una delle frasi kafkiane più taglienti in senso anarchico, e che ovviamente Löwy riporta: «K. viveva pure in uno Stato di diritto, la pace regnava dappertutto, tutte le leggi erano in vigore, chi osava aggredirlo in casa sua?»; Franz Kafka, Il Processo, cit., p. 6. La tragedia che si abbatte sul protagonista non necessita di un sistema totalitario; può accadere, e di fatto accade, anche in uno Stato il cui potere è circoscritto e dove le libertà formali sono garantite. 

  9. Posto che tale «vergogna» conserva un’ambiguità semantica, nei Testamenti traditi Milan Kundera ha svolto un’analisi impeccabile di come la colpevolizzazione e il senso d’umiliazione di Josef K. si evolvano dall’energica lotta per la dignità perduta al lasciarsi uccidere; M. Kundera, I testamenti traditi, traduzione di E. Marchi, Adelphi, Milano, 1994. Vedi anche, più in generale, Walter H. Sokel, Freedom and Authority in the Fiction of Franz Kafka, in The Myth of Power and the Self. Essays on Franz Kafka, Wayne State University Press, Detroit, 2002, pp. 311-324. 

  10. Gilles Deleuze e Félix Guattari, op. cit., p. 82. 

  11. Marthe Robert, Solo come Kafka, Editori Riuniti, Roma, 1982, p. 169. 

  12. Franz Kafka, Confessioni e diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano, 1972, p. 935. 

  13. Così Sokel: «Language for Kafka should be the proper adaequatio for the activities and emotions that bind the members of the community together. Only in such a cohesive community can the speaker of the language be one with himself and with the partners of his discourse»; W.H. Sokel, op. cit., p. 88. 

  14. Sviluppando lungo altre vie questi temi, Howard Caygill ha proposto ad esempio di invertire i termini del problema e identificare in Kafka i modi in cui il dominio reagisce alla provocazione, imprevedibile o anche del tutto accidentale, uscendo così dalla polarità sottomissione/vana resistenza, per concentrarsi sull’aspetto della sfida al potere. Vedi H. Caygill, Kafka. In Light of the Accident, Bloomsbury Academic, London, 2017. 

  15. Elias Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972, Adelphi, Milano, 1978, pp. 136-137. 

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Benjamin, un marxista meravigliosamente arbitrario https://www.carmillaonline.com/2020/12/18/benjamin-un-marxista-meravigliosamente-arbitrario/ Thu, 17 Dec 2020 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63852 di Fabio Ciabatti

Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, pp. 136, € 13,30.

C’è un modo abituale di intendere la politica che rimanda all’azione degli stati, al ruolo delle istituzioni, alle elezioni, al parlamento e così via. C’è poi un altro modo che chiama in causa “la memoria storica delle lotte e delle sconfitte e il richiamo all’azione redentrice degli oppressi, un’azione inseparabilmente sociale politica, culturale, morale, spirituale e teologica”. È questa seconda via che contraddistingue il pensiero di Walter Benjamin e che rende [...]]]> di Fabio Ciabatti

Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, pp. 136, € 13,30.

C’è un modo abituale di intendere la politica che rimanda all’azione degli stati, al ruolo delle istituzioni, alle elezioni, al parlamento e così via. C’è poi un altro modo che chiama in causa “la memoria storica delle lotte e delle sconfitte e il richiamo all’azione redentrice degli oppressi, un’azione inseparabilmente sociale politica, culturale, morale, spirituale e teologica”. È questa seconda via che contraddistingue il pensiero di Walter Benjamin e che rende possibile leggere la sua opera in chiave politica, come fa Michael Löwy in una breve raccolta di saggi recentemente pubblicata in italiano, dal titolo La rivoluzione è il freno di emergenza. Filo conduttore di questo testo, secondo il suo stesso autore, è l’idea di rivoluzione in Benjamin perché è convinzione di Löwy che se si espunge dal pensiero del filosofo berlinese “la dimensione sovversiva, rivoluzionaria, insurrezionale perfino, come purtroppo capita spesso nei lavori accademici, si perde qualcosa di essenziale, di prezioso, di inestimabile”.1 Questo tipo di lettura chiama in causa direttamente il rapporto peculiare che Benjamin intrattiene con Marx. Una peculiarità che consiste, tra l’altro, nel mantenere come parte integrante del suo pensiero quelle componenti filosofico-teologiche maturate prima dell’incontro con il marxismo: l’anarchismo, il romanticismo e il messianesimo ebraico. 

Con il titolo del suo testo Löwy richiama l’attenzione su una delle poche prese di distanza esplicite da Marx da parte del filosofo berlinese: la definizione della rivoluzione come “freno d’emergenza” piuttosto che, marxianamente, “locomotiva della storia”. Questa affermazione può essere legata al fatto che Benjamin è “il primo marxista ad aver rotto radicalmente con l’ideologia del progresso”.2 Per Benjamin, infatti, “la rivoluzione proletaria non è il risultato ‘naturale’ o ‘inevitabile’ del progresso economico e tecnico, ma l’interruzione critica di un’evoluzione che porta direttamente al disastro”.3
Attraverso la lettura di Löwy possiamo capire che questa rottura per Benjamin ha due obiettivi: da una parte, mira a distinguere nettamente il materialismo storico dalle forme tradizionali del pensiero borghese, come lo storicismo tedesco che conferisce alle classi dirigenti lo status di eredi della storia vedendo nelle vicende passate solo una gloriosa successione di successi politici e militari;  dall’altra, vuole criticare la coeva ideologia socialdemocratica che aveva commesso il grande errore di considerare lo sviluppo tecnologico solo dal punto di vista del progresso delle scienze naturali e non del regresso sociale, fino al punto di idealizzare il lavoro di fabbrica, dando luogo alla risurrezione, tra gli operai,  della vecchia morale protestante del lavoro in forma secolarizzata.
La convinzione socialdemocratica di nuotare a favore di corrente è un elemento di forte corruzione degli operai tedeschi. A questo ottimismo ideologico Benjamin contrappone il suo comunismo inteso come organizzazione del pessimismo. Contro la riduzione della società senza classi a puro ideale, compito infinito che predispone all’attesa di una situazione rivoluzionaria che non arriva mai, Benjamin propone l’ipotesi secondo la quale anche il più piccolo istante nasconde un potenziale rivoluzionario, un’ipotesi che presuppone una concezione aperta della storia come prassi umana, ricca di possibilità inattese e inaudite.
Possibilità che, per esempio, emergono tra le barricate parigine del 1830, del 1848 e del 1871 nei confronti delle quali, sostiene Löwy, Benjamin  subisce una vera e propria fascinazione. Le barricate, al di là della loro effettiva efficacia, rappresentano una sorta di luogo utopico, un’anticipazione dei rapporti sociali del futuro, costruito attraverso l’uso da parte dei dominati della geografia urbana nella sua materialità (strade strette, altezza delle case, pavimentazione urbana) in cui un ruolo di primo piano spetta alle donne. La ristrutturazione della città ad opera di Haussmann tra  il 1860 e il 1870 vorrebbe cancellare la memoria collettiva di questa esperienza. Ennesima conferma del fatto che ciò che appare patrimonio culturale, se visto con gli occhi dei vincitori,  rappresenta un documento della barbarie, se ci mettiamo dalla parte dei perdenti della storia. L’abbattimento dei quartieri popolari di Parigi avviene con il pretesto della loro bruttezza e insalubrità, ma il vero obiettivo è fare spazio agli ampi boulevard in cui i cannoni possono più facilmente colpire gli insorti. Un atto di guerra preventiva, diremmo oggi, contro la possibilità stessa del verificarsi di quella sorta di “illuminazione profana” che, secondo Benjamin, si può affacciare sul proscenio della storia con la rivolta degli oppressi.

L’interpretazione della rivoluzione in termini di illuminazione rimanda al messianesimo che Benjamin considera la dimensione più importante della spiritualità ebraica. Nella teologia benjaminiana, però, non esiste un Messia inviato dal cielo. “Il solo messia possibile è collettivo … l’umanità oppressa”.4 Ogni generazione ha un pezzo di potere messianico che deve cercare di esercitare perché le generazioni passate gli hanno assegnato il compito della redenzione: il sacrificio delle generazioni sconfitte, la memoria dei martiri del passato ispirano le lotte di liberazione del presente. Il compito messianico corrisponde allora con la rivoluzione, con l’interruzione di un continuum storico che, con il suo accumulare macerie su macerie, preannuncia l’imminenza di nuovi disastri. Benjamin parla comunque di un potere messianico “debole” perché la redenzione, l’avverarsi dell’utopia rivoluzionaria è soltanto un’incerta possibilità.
Questa utopia, i sogni di un futuro diverso, nascono, secondo Benjamin, in intima associazione con elementi provenienti da una storia arcaica depositati nell’inconscio collettivo. Si tratta della rammemorazione, altro elemento essenziale della teologia secondo Benjamin, che ha per oggetto il matriarcato, il comunismo primitivo, una società senza classi né stato. E si tratta anche del ricordo di un rapporto più armonico con la natura che non sia contrassegnato dall’avidità distruttrice della società borghese, dalla concezione “imperialista” del dominio dell’uomo sull’ambiente naturale. Löwy evoca il rischio che in base a tali concezioni si possa sacrificare l’utopia sull’altare del mito. Ma afferma anche che, a scongiurare questo pericolo, entra in gioco una “dialettica propria del romanticismo rivoluzionario” perché Benjamin sostiene “un ritorno al passato verso un nuovo avvenire, che include tutte le conquiste della modernità dal 1789”.5
In modo simile Benjamin afferma, seguendo i surrealisti, che occorre conquistare per la rivoluzione le forze dell’ebbrezza, il rapporto magico con il mondo, ma aggiunge che mettere l’accento solo su questo lato significherebbe trascurare la preparazione metodica e disciplinare della rivoluzione. In altri termini, secondo Benjamin, occorre ridare spessore sensibile alla rivoluzione senza toglierle la sua virtù emancipatrice. È necessario, per dirla ancora in un altro modo, cambiare la vita, come sostiene Rimbaud, e insieme cambiare il mondo, come afferma Marx. Se venisse meno la tensione dialettica tra questi poli apparentemente inconciliabili scivoleremmo verso un romanticismo reazionario che nutre il sogno impossibile di un ritorno al passato. 

Non a caso la commistione tra arcaico e moderno è anche il tratto caratteristico del nazismo, per Benjamin vero e proprio Anticristo, cioè falso Messia che scimmiotta il vero redentore rappresentato dal socialismo. Sebbene utilizzi un discorso magico, il fascismo è profondamente radicato nello sviluppo moderno. Non si tratta di una parentesi storica che scomparirà con il procedere del progresso. Per vincere fascismo, occorre perciò produrre “il vero stato di eccezione”, vale a dire l’abolizione del dominio, la realizzazione della società senza classi. Il vero Messia trionfa solo quando sconfigge l’Anticristo. Anche “in un momento di pericolo supremo si presenta una costellazione salvifica che unisce il presente al passato”:6 tra le folle asservite dai dittatori Benjamin non dispera di scorgere i nuclei di resistenza formati dalle masse rivoluzionarie del Quarantotto e dai Comunardi.
Di fronte alla minaccia del nazismo, Benjamin, in una lettera del 1938 a Horkeimer, esprime la speranza che l’Unione Sovietica si possa considerare “l’agente dei nostri interessi in una guerra futura” sebbene sia consapevole che si tratti di “una dittatura personale con tutto il suo terrore” che finirà per far pagare un conto salato ai lavoratori. In una lettera precedente, scritta nel 1926 al suo amico Scholem, annuncia di voler aderire al partito comunista tedesco, sebbene non darà mai seguito a questa intenzione. Rimarrà, come egli stesso sostiene, un “osservatore tedesco” in una posizione “estremamente scoperta tra fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria”. Da una parte, dunque, c’è il suo anarchismo mai abiurato, il suo spirito libertario e romantico, dall’altra, come scrive in un’altra lettera a Scholem del 1924, la sua profonda attrazione per la prassi politica del comunismo intesa “come contegno normativo”. Egli stesso si descrive come un Giano Bifronte, con un volto rivolto a Gerusalemme e l’altro a Mosca sebbene il patto Molotov-Ribbentrop oscurerà definitivamente ai suoi occhi la luce della stella moscovita.

Si può considerare tutto ciò come un atteggiamento ondivago e contraddittorio. Oppure, come fa Michael Löwy, si può sostenere che Giano avrà pure due volti, ma possiede una testa sola. Se questo è vero si può considerare il pensiero di Benjamin come una “variante eretica del materialismo storico” che presta “un’attenzione sistematica e preoccupata per lo scontro di classe dal punto di vista dei vinti – a danno di altri topoi classici del marxismo, come la contraddizione tra forze e rapporti di produzione, o la determinazione della sovrastruttura attraverso l’infrastruttura economica”.7 Quella di Benjamin, in sintesi, è un’“alchimia filosofica” con una “componente esplosiva”8 che mette capo a una reinterpretazione del marxismo “assolutamente eterodossa, fortemente selettiva e talvolta meravigliosamente arbitraria”.9


  1. Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, p 9. Per la la precedente citazione vedi p. 8 del testo di Löwy. 

  2. Ivi. p. 31. 

  3. Ivi. p. 33. 

  4. Ivi. p. 112. 

  5. Ivi p. 66. 

  6. Ivi, p. 106. 

  7. Ivi p. 80. 

  8. Ivi p. 10. 

  9. Ivi p. 8. 

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Romanticismo e comunità umana https://www.carmillaonline.com/2017/10/18/romanticismo-comunita-umana/ Wed, 18 Oct 2017 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41067 di Sandro Moiso

Michael Löwy – Robert Sayre, RIVOLTA E MALINCONIA. Il Romanticismo contro la modernità, Neri Pozza Editore, Vicenza 2017, pp. 350, € 25,00

“E’ compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale” (Amadeo Bordiga)

Tra i tanti autori citati ed utilizzati da Löwy e Sayre nel testo, recentemente [...]]]> di Sandro Moiso

Michael Löwy – Robert Sayre, RIVOLTA E MALINCONIA. Il Romanticismo contro la modernità, Neri Pozza Editore, Vicenza 2017, pp. 350, € 25,00

“E’ compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale” (Amadeo Bordiga)

Tra i tanti autori citati ed utilizzati da Löwy e Sayre nel testo, recentemente pubblicato da Neri Pozza, volto a ricostruire, in chiave dinamica ancor più che storiografica, le vicende e le contraddizioni del pensiero e della cultura romantica dal suo apparire fino all’alba del XXI secolo, Amadeo Bordiga non appare. Eppure la frase appena citata, tratta da uno scritto del 1965, potrebbe ben riassumere quella che si può a ragione ritenere la tesi centrale espressa nel loro lavoro.

Sintetizzandola all’estremo si potrebbe infatti così riassumere: i rivoluzionari moderni, compresi quelli di tendenza marxista, a partire dalla metà dell’Ottocento e fino a tutto il XX secolo si sono ispirati al Romanticismo più radicale nella critica della modernità capitalistica e nel fare ciò hanno riscoperto la comunità umana che caratterizzava la specie nell’antichità. Un’affermazione forte che coinvolge personaggi del calibro di Karl Marx. Friedrich Engels, Rosa Luxemburg, Ernst Bloch, Raoul Vaneigem. Solo per citarne alcuni.

Michael Löwy , sociologo e filosofo francese di ispirazione marxista , e Robert Sayre (1933 – 2014), sociologo e professore emerito di Inglese presso l’Università dello Iowa, affrontano nel testo, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1992, le contraddizioni e la vitalità del Romanticismo dando soprattutto risalto a quelle componenti filosofiche, artistiche e politiche che ne sottolinearono fortemente la componete di rivolta contro la modernità.

Rivolta contro la modernità che se da un lato fini col caratterizzarne anche gli aspetti più retrogradi e di maggior rimpianto nei confronti di società feudali ferreamente divise in caste e caratterizzate da un peso insopportabile della religione cristiana e delle sue gerarchie ecclesiastiche, dall’altro servì a contenere e ridimensionare una concezione illuministica del progresso tesa ad esaltare il razionalismo borghese, soprattutto nei suoi aspetti economici, e l’individualismo egoistico che ne derivava.

Non è certo un caso dunque che, all’interno del libro, il capitolo dedicato all’excursus su Marxismo e Romanticismo sia centrale e che, allo stesso tempo, nel capitolo intitolato “Il fuoco arde ancora: il Romanticismo dopo il 1900” uno spazio non secondario sia dedicato al Maggio ’68.
D’altra parte nel suo lungo percorso di studioso Michael Löwy, discendente di ebrei viennesi e nato in Brasile, si stabilì definitivamente a Parigi dopo un periodo trascorso a Tel Aviv dove le sue idee politiche gli causarono non poche difficoltà con il mondo accademico.

Tra le sue opere vanno infatti segnalati diversi testi dedicati all’indagine sul giovane Marx e su altri rivoluzionari e movimenti di opposizione al modo di produzione capitalistico, 1 mentre Robert Sayre si è distinto durante la sua vita sia per l’azione a favore dell’inclusione nella letteratura americana degli scritti dei Nativi Americani e della relazione esistente tra gli scrittori del canone letterario nord-americano e la cultura dei Nativi, sia per la sua azione pubblica contro la guerra in Vietnam nel corso degli anni Sessanta e Settanta e successivamente per quella ecologista e in difesa dell’ambiente.

Con percorsi intellettuali di questo tipo, era dunque impossibile che i due autori non cogliessero nel discorso romantico sulla Natura e nel rimpianto della comunità perduta2 un fattore straordinario di rottura con il modo di pensare e di interpretare il mondo del moderno capitalismo, della sua cultura e dei suoi rappresentanti intellettuali.
Discorso che vale la pena di riscoprire ancor di più oggi, nel momento in cui ogni forma di resistenza alla distruttività dell’ordine economico e sociale basato sulla produzione di merci e sull’estrazione di plusvalore viene definito antiquato, superato, ignorante e passatista.3

“Apparentemente Marx non aveva nulla in comune con il romanticismo […] Nel Manifesto del Partito comunista (1848) rifiuta come «reazionario» qualunque sogno di tornare all’artigianato o ad altri modi di produzione precapitalistici e celebra il ruolo storicamente progressista del capitalismo industriale […] Elogia il capitalismo anche perché ha lacerato i veli che nascondevano lo sfruttamento nelle società precapitalistiche, ma è un elogio che comporta una punta di ironia […] Marx non ignora il rovescio di questa medaglia «civilizzatrice»; con un procedimento tipicamente dialettico considera il capitalismo un sistema che «trasforma ogni progresso economico in una pubblica calamità». E’ appunto nell’analisi delle calamità sociali causate dalla civiltà capitalistica – nonché nell’interesse per le comunità precapitalistiche – che Marx si ricollega, almeno in una certa misura, alla tradizione romantica”.4

A parte l’apprezzamento per autori come Balzac, Dickens, Charlotte Brontë ed Elizabeth Gaskell, di cui Marx giungerà a dire nel 1854:

“La splendida confraternita degli attuali romanzieri inglesi, le cui pagine vivide ed eloquenti hanno consegnato al mondo più verità politiche e sociali di quante non ne abbiano pronunciate i politici i professione, i pubblicisti e i moralisti messi insieme”.5

I due autori furono particolarmente attratti dai primi studi etnologici, sulle comunità antiche o primitive, fatti da autori come Morgan e Maurer.

In particolare Engels trasse dagli studi di Maurer sulla comunità rurale germanica (Mark) spunti per il suo scritto sulla Marca che avrebbe dovuto funzionare come proposta per il programma socialista per le campagne. Andando oltre Maurer che gli sembrava ancora troppo influenzato dall’evoluzionismo di stampo illuministico.

“In una lettera a Marx del 1882 lamenta che in Maurer persista il «pregiudizio illuministico che dopo l’oscuro Medioevo debba ver avuto luogo un costante progresso al meglio.Ciò gli impedisce di vedere il carattere antagonistico del progresso reale, ma anche le singole ripercussioni». Questo passo ci sembra una sintesi alquanto precisa della posizione fondamentale di Engels e Marx su tale problematica: 1. rifiuto del «progressismo» lineare e ingenuo, quando non apologetico, che considera la società borghese universalmente superiore alle forme sociali precedenti; 2. insistenza sul carattere contraddittorio del progresso che il capitalismo ha indiscutibilmente comportato; 3. giudizio critico sulla civiltà industriale-capitalistica in quanto rappresenta per certi versi un passo indietro, dal punto di vista umano, rispetto alle comunità del passato […] Engels insiste sul regresso che la «civiltà» rappresenta, in una certa misura, rispetto alla comunità primitiva”.6

Marx in particolare non avrebbe smesso, fino alla fine dei suoi giorni, di occuparsi sia delle società indigene pre-coloniali (soprattutto in India) sia della comunità contadina in Russia (obščina), mettendole sempre a confronto con i disastri causati dal colonialismo e dall’avanzare del modo di produzione capitalistico in quelle aree e augurandosi, addirittura, nel caso dell’obščina che questa potesse sopravvivere a seguito di una rivoluzione in Occidente.

Sarà soltanto

“nella lotta contro il populismo russo che nascerà, verso la fine del XIX secolo, in particolare con gli scritti di Georgij Valentinovič Plechanov, un marxismo radicalmente antiromantico, modernizzatore, evoluzionista e pieno di incondizionata ammirazione per il progresso capitalistico-industriale”.7

Che vedrà poi il suo pieno sviluppo nelle socialdemocrazie della Seconda Internazionale e dello stalinismo.

Anche in Rosa Luxemburg è possibile trova la stessa passione per le comunità primitive, che non esita a definire società comuniste primitive, e per la loro contrapposizione alla società mercantile capitalistica.

“Da una parte appare chiaro che Rosa Luxemburg vede nell’esistenza di queste antiche società comuniste un modo per mettere in crisi e addirittura distruggere «la vecchia concezione del carattere eterno della proprietà privata e della sua esistenza dall’inizio del mondo». E’ per incapacità di concepire la proprietà comune e per incapacità di comprendere tutto ciò che non assomiglia alla civiltà capitalistica che gli economisti borghesi hanno rifiutato con ostinazione di riconoscere il fatto storico della comunità. D’altra parte il comunismo primitivo è ai suoi occhi un punto di riferimento storico prezioso per criticare il capitalismo, svelare il suo carattere irrazionale, reificato, anarchico ed evidenziare la contrapposizione radicale fra valore d’uso e valore di scambio. Si tratta quindi di trovare e «salvare», del passato primitivo, tutto ciò che può, almeno fino ad un certo punto, prefigurare il socialismo moderno: un atteggiamento tipico della visione romantica (rivoluzionaria).”8

Nella sua interpretazione, ispirata dagli scritti di Lewis Morgan che già avevano affascinato Marx ed Engels,

“la civiltà attuale «con la sua proprietà privata,la sua dominazione di classe, la sua dominazione maschile, il suo Stato e il suo matrimonio obbligatorio» appare come una semplice parentesi, una transizione fra la società comunista primitiva e la società comunista del futuro […] In questa prospettiva la colonizzazione europea dei popoli del terzo Mondo le sembra per essenza un’impresa socialmente distruttiva e disumana […] «Per tutti i popoli primitivi dei paesi coloniali il passaggio dallo stato comunista primitivo al capitalismo moderno è intervenuto come una catastrofe improvvisa, come una sventura indicibile piena delle più spaventose sofferenze». A suo avviso, la lotta indigena nelle colonie contro la madrepatria imperiale è una resistenza tenace e degna di ammirazione, di vecchie tradizioni comuniste contro la ricerca del profitto e l’«europeizzazione» capitalistica”.9

Riflessione che sarà poi sintetizzata da Amadeo Bordiga quando affermerà che per tutto quanto riguarda la questione coloniale i rivoluzionari devono sempre schierarsi dalla parte della «zagaglia barbara».

L’ultimo autore, tra i tanti trattati nel testo di Löwy e Sayre, a svolgere una funzione importante per comprendere le sopravvivenze del Romanticismo all’interno delle teorie rivoluzionarie moderne è Ernst Bloch.

“L’opera di Bloch illustra in modo significativo un paradosso che sta al cuore di tutto il romanticismo rivoluzionario: come può un pensiero che si vuole totalmente orientato verso il futuro utopico attingere dal passato il nocciolo della sua ispirazione? […] Bloch non guarda in via prioritaria ai modi di vita e alle condizioni sociali premoderni; i punti di riferimento del suo progetto utopistico sono soprattutto i sogni ad occhi aperti, le aspirazioni anticipatrici e le promesse non realizzate trasmesse dalle culture del passato”.10

E nel fare ciò si spinge molto avanti nella critica dell’immaginario moderno e dell’uso che ne è stato fatto dalla sinistra degenerata e dalla destra fascista e nazista. La critica di Bloch al «marxismo volgare» del KPD (Kommunistische Partei Deutschlands) e, implicitamente ai sovietici, parte dal presupposto che :

“«Il progresso del socialismo dall’utopia alla scienza è andato troppo lontano» abbandonando al nemico il mondo dell’immaginazione. Troppo astratti, di un razionalismo troppo angusto e volgarmente libero pensatore, fautori di un materialismo non abbastanza distante dal miserabile «materialismo» degli imprenditori capitalisti, la sinistra tedesca e il KPD in particolare non sono stati in grado di sconfiggere il fascismo nella lotta per la conquista politica e culturale dei ceti «non contemporanei». Il loro economicismo ha permesso al romanticismo retrogrado di far accettare da queste classi l’«assurdità di non vedere nel liberalismo e nel marxismo se non «le due facce della stessa medaglia» […] Così il millenarismo, dimensione autentica di numerose utopie rivoluzionarie – poiché «il desiderio di felicità non si è mai ritratto,in un futuro vuoto e totalmente nuovo», ma implica spesso il sogno di un paradiso perduto (costruito con i ricordi della comunità primitiva) ritrovato nel futuro millenario – non può essere confuso con la miserabile caricatura del «Terzo Reich» hitleriano”.11

Una visione, quella di Bloch, che si oppone non solo all’idea di ordine dell’estrema destra, ma anche

“al produttivismo burocratico dissennato, al culto dell’industria pesante e al materialismo volgare che caratterizzano tanto la pratica quanto l’ideologia del regime sovietico”.12

Visione produttivistica e modernista che sarà ripresa invece, come ben dimostra l’ultima parte del libro, da molti intellettuali di sinistra che scoprono

“molto dopo gli ideologi americani della Guerra Fredda, che il paradiso esiste già, hic et nunc, e cominciano a cantare le lodi della modernità in tutti i suoi aspetti, il liberalismo, comprese le sue forme più «avanzate» (il tatcherismo-reaganismo), la logica del diritto e della politica dei paesi occidentali, l’industrialismo, il postindustrialismo (il regno dell’alta tecnologia), la società dei consumi ecc.”13

Motivo per cui questo testo, per quanto concepito e scritto ormai da un quarto di secolo, si rivela ancora estremamente utile per la comprensione e la critica radicale delle contraddizioni del presente.


  1. Solo per citarne alcuni, con relative traduzioni in lingua italiana cfr:
    La Pensée de «Che» Guevara, 1970 (Feltrinelli 1969)
    La théorie de la révolution chez le jeune Marx, 1970 (Massari 2001)
    Dialectique et révolution: essais de sociologie et d’histoire du marxisme, 1974
    Pour une sociologie des intellectuels révolutionnaires: l’évolution politique de György Lukacs, 1909-1929, 1976 (Salamandra 1978)
    Marxisme et romantisme révolutionnaire, 1979
    Rédemption et utopie: le judaïsme libertaire en Europe centrale: une étude d’affinité élective, 1986 ( Bollati Boringhieri 1992)
    L’insurrection des “Misérables”: révolution et romantisme en juin 1832, (con Robert Sayre), 1992
    Patries ou Planète? Nationalismes et internationalismes de Marx à nos jours, Lausanne, 1997
    L’Étoile du matin: surréalisme et marxisme, 2000 ( Massari 2001)
    Walter Benjamin: avertissement d’incendie. Une lecture des thèses sur le concept d’histoire, 2001 ( Bollati Boringhieri 2004)
    Franz Kafka, rêveur insoumis, 2004 (Eleuthera 2007)  

  2. Si pensi, anche se non viene esplicitamente citato nel testo, il discorso leopardiano, contenuto nell’ultima poesia dell’autore di Recanati La ginestra o il fiore del deserto, sulla necessità per gli uomini del secolo superbo e sciocco (l’Ottocento) di tornare ad unirsi in social catena come erano stati costretti a fare i loro antenati preistorici  

  3. Basti pensare ai termini in cui, ancora troppo spesso, viene trattata dai media la resistenza No Tav oppure di chi difende la coltura “tradizionale” degli ulivi in Puglia  

  4. pp.141-143  

  5. pp. 144-145  

  6. pp. 147-148  

  7. pag. 148  

  8. pag. 157  

  9. pp. 159-161  

  10. pp.293-294  

  11. pp. 305-306  

  12. pag. 317  

  13. pag. 325  

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