metropoli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta https://www.carmillaonline.com/2024/06/25/viaggio-al-termine-della-citta-per-rilanciare-il-principio-speranza-di-unutopia-concreta/ Tue, 25 Jun 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82782 di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield , città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).


  1. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021. 

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Estetiche inquiete. Dalla “K” alla “X”, dall’estremo all’eXtremo https://www.carmillaonline.com/2021/05/04/estetiche-inquiete-dalla-k-alla-x-dallestremo-allextremo/ Tue, 04 May 2021 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66117 di Gioacchino Toni

A distanza di un paio di decenni dalla sua prima uscita, torna in libreria, in una nuova edizione ampliata e corretta, il volume di Massimo Canevacci, Culture eXtreme. Mutazioni giovanili tra i corpi della metropoli (DeriveApprodi 2020). Entrando nel vivo dei rapporti tra giovani e metropoli, media, scena artistica e musicale, l’autore si sofferma su alcuni ambiti delle culture giovanili degli anni Novanta del secolo scorso che hanno fatto ricorso con una certa frequenza a modalità comunicative caratterizzate da un uso insistito della lettera “X”. Una costellazione sociale ed un immaginario espressioni di un mutamento radicale delle forme [...]]]> di Gioacchino Toni

A distanza di un paio di decenni dalla sua prima uscita, torna in libreria, in una nuova edizione ampliata e corretta, il volume di Massimo Canevacci, Culture eXtreme. Mutazioni giovanili tra i corpi della metropoli (DeriveApprodi 2020). Entrando nel vivo dei rapporti tra giovani e metropoli, media, scena artistica e musicale, l’autore si sofferma su alcuni ambiti delle culture giovanili degli anni Novanta del secolo scorso che hanno fatto ricorso con una certa frequenza a modalità comunicative caratterizzate da un uso insistito della lettera “X”. Una costellazione sociale ed un immaginario espressioni di un mutamento radicale delle forme di vita di un periodo segnato dalla trasformazione del sistema produttivo, dalla scomparsa del Muro, dal dissolversi delle grandi narrazioni e delle strutture politiche tradizionali. Forme embrionali di una trasformazione che, in alcuni suoi tratti, sembra anticipare quell’intrecciarsi di materiale e immateriale che è tra i tratti caratterizzanti l’attualità.

Il contesto attuale si basa su una compenetrazione – ubiqua, sincretica, polifonica e metafeticista – tra materiale e immateriale, tra metropoli comunicazionale e tecnologie digitali che è stato intravisto e in gran parte anticipato in quegli anni, purtroppo senza poter affermare una visione altra rispetto a quella che successivamente sarà dominante (p. 5).

Canevacci affronta la trasformazione della “città industriale”, con le sue specifiche modalità produttive e conflittuali, nella recente “metropoli comunicazionale” attraversata da «soggettività mutanti, culture digitali, movimenti tra asfalto lacerato e social purificato, migrazioni diasporiche» (p. 5). Un nuovo panorama composto da «soggettività connettive», più che collettive, in cui l’impossibilità di distinguere nettamente uno spazio pubblico da uno privato ha sicuramente inciso sulla costruzione delle nuove identità.

Canevacci dichiara esplicitamente di essersi voluto tenere alla larga da quelle sistematizzazioni, classificazioni e comparazioni con cui molti sociologi, antropologi e giornalisti tendono a incasellare “i giovani” in quanto si dice convinto che le culture giovanili restano liquidi frammenti refrattari alle rigide catalogazioni.

Nella prima parte del volume l’autore intende ridefinire gli scenari entro cui si collocano i frammenti giovanili contemporanei e lo fa a partire dalla presa d’atto dell’obsolescenza dei concetti di «controcultura» e di «subcultura». Nato sul finire degli anni Sessanta, esplicitando un intento oppositivo e alternativo nei confronti dell’esistente, il termine “controcultura”, sostiene l’autore, esaurisce la sua parabola vitale all’inizio degli Ottanta quando le culture giovanili non sono più “contro” una cultura dominante che nel frattempo sembra essersi frammentata in una pluralità di poteri, né a favore di una “cultura contro”. «Non esiste più una controcultura perché è morta la politica come utopia che trasforma il mondo impegnando il futuro prossimo» (p. 17). Con la scomparsa dell’ideologia e della politica tradizionali scompare anche il concetto di “contro”. È proprio da tali dissolvimenti che, sostiene Canevacci, si sono liberate le culture giovanili «eXtreme».

Anche il concetto di subcultura, secondo l’autore, ha fatto il suo tempo. Se il termine controcultura ha una matrice politico-alternativa, quello di subcultura indicare invece un sottoinsieme di una cultura più generale di cui è pur sempre parte integrante e, nella sua parzialità, non manca di ereditare i limiti del più generale concetto di “cultura”.

Se non è affatto detto che le culture giovanili siano per forza eXtreme, mette in guardia Canevacci, nemmeno tutte le subculture hanno carattere antagonista.

Lungo i flussi mobili delle culture giovanili contemporanee – plurali, frammentarie, disgiuntive – le identità non sono più unitarie, ugualitarie, compatte, legate a un sistema produttivo di tipo industrialista, a uno riproduttivo di tipo familista, a uno sessuale di tipo mono-sessista, a uno razziale di tipo purista, a uno generazionale di tipo biologista. Quindi, rispetto alle culture giovanili, una subcultura non è per sua natura una controcultura, perché può essere anche una cultura pacificata, ordinata, mistica, ecc. (p. 21)

L’obsolescenza del termine subcultura deriva dalla mancanza di una cultura generale unitaria di cui una parzialità farebbe dunque parte. «Se fin dall’inizio era già difficile definire i punk un’espressione sottoculturale (Hebdige), ora la morte del carattere nazionale – che ordinava una scala gerarchica piramidale da una punta egemonica fino a una base subalterna, sui cui dislivelli si ordinavano queste “culture-sotto” – trascina con sé anche la morte delle subculture» (p. 22).

Canevacci coglie in alcune trasformazioni della comunicazione dei giovani più irrequieti i segni di importanti cambiamenti epocali. «Per un transito multi-narrativo attraverso le interzone delle culture giovanili, si potrebbero assumere come indicatori due lettere: “k” e “x”» (p. 47). La prima rimanda alle controculture giovanili di tipo antagonista degli anni Settanta: in quella “K” «si concentravano grappoli di significati che caratterizzavano il soggetto come portatore di dominio. Così “Kultura” significava che la cultura – come forma libera ed espressiva del sapere – si era trasformata in qualcosa di opposto: in trasmissione di valori autoritari» (pp. 47-48).

A partire dagli anni Ottanta l’equazione K=dominio tende a svanire e si attesta uno slittamento di significati. La “K” non denuncia più l’autoritarismo (la stagione dei “Kossiga”) ma viene fatta propria dagli ambienti antagonisti con finalità per così dire “autocelbrative”, probabilmente per rafforzare la propria immagine di “potenza” (la stagione delle “okkupazioni”). Una transizione semantica che conduce dalla denuncia del potere alla celebrazione della (propria) potenza.

Se la “K” degli anni Ottanta è comunque figlia – cambiata di segno – del sistema politico comunicativo precedente, la “X” degli anni Novanta non sembra derivare dalla conflittualità del passato, salvo il ricorso ad essa in ambito afroamericano – Malcom X – al fine di rimarcare un necessaria riscrittura identitaria. Poi la “X” farà la sua comparsa negli ambienti punk e successivamente in Internet abbinata all’eccesso, all’irregolare, all’alieno, allo scandalo e così via.

Oltre a questa carica semantica di “contro” e di “proibito”, la “X” assume altri concentrati di senso: […] la “X” a poco a poco è divenuta una sorta di ideogramma che, grazie al suono fonetico inglese (x = ecs), ha finito con incorporare il timbro sonoro dell’irregolare. La misura extra-extra-large come incontenibile, la musica hard core come inascoltabile, le immagini-graffiti come insopportabili, il porno XXX come invisibile. Molte forme della comunicazione giovanile oppositiva assumono la “X” come codice (lemma) che salta i confini e che sta contro i confini. E in questo si trovano – e non per la prima volta – vicini, troppo vicini, ai lessici di pubblicitari, serial, siti-web. (pp. 50-51)

Convinto che nel contesto contemporaneo nessun luogo possa essere «una “sezione” di qualcosa di più vasto: un anticipo sull’utopia. Una “prefigurazione”», l’autore decide di abbandonare «metodologie estratte dal sociale per “classificare” queste culture giovanili» preferendo ricorrere a «concetti obliqui, visori-indicatori, moduli sfaccettati che emergono dalla metropoli. Uscire dal sociale ed entrare nella metropoli significa […] percepire le culture eXtreme (X-terminate) in modi mobili, irrequieti, oppositivi». Dunque, Canevacci si prodiga nel «narrare tessuti comunicativi immateriali fatti di frammenti, stili, codici, corpi, techno» (p. 53) dando vita a una ricerca che intende «focalizzare quelle schegge anomiche delle culture giovanili metropolitane che riescono a esprimere conflitti e innovazioni tra i flussi della comunicazione materiale e immateriale. Per questo sono eXtreme» (p. 54). Dunque, l’autore delimita il campo delle culture estreme giovanili

a quelle che si muovono disordinatamente tra gli spazi metropolitani e scelgono di innovare conflittualmente i codici. Di smuovere i significanti statici. Di produrre significati alterati. Di liberare segni fluidi dai simboli solidi. È questo flusso che, per differenziarlo da un generico uso di estremo (sport-sesso-politica-arte), chiamo eXtremo. Culture eXtreme sono quelle che, nel corso della loro autoproduzione, si costruiscono secondo i moduli spaziali dello sterminato. Le culture eXtreme sono sterminate: eX-terminate: nel senso che spingono a non essere terminate, a sentirsi come interminabili, a rifiutare ogni termine alla loro costruzione-diffusione processuale. Culture interminabili in quanto rifiutano di sedersi tra le mura della sintesi e dell’identità, che inquadrano e tranquillizzano. Normalizzano e sedentarizzano. (p. 54)

La parte centrale del volume è dunque dedicata ad un excursus sulle culture giovanili sterminate in un fluire di paragrafi che tratteggiano un’epoca: T.A.Z. – Rewind; Interzone; Merci-tatuate; Fucking Barbies; Fika Futura; Corpi inorganici; Toretta; Torazine; Rave; Fluid Video Crew; Luther Blissett; Cherokee; Anarcociclisti; Decoder; Link; Pirateria di Porta; Brain-Machine; Fin*techlan; Rewind; NDE.

Nella sua parte finale il volume cambia rispetto alla prima edizione: il capitolo “Concetti liquidi” lascia il posto al nuovo “Concetti anomici”: «tensioni che connettono le interzone eXtreme (le correnti differenziate delle culture sterminate) e alcune esplorazioni di senso inconcepite. Culture sterminate, interzone eXtreme, concetti anomici: sullo scorrere di queste tre differenze si articola, innalza e defluisce il testo» (p. 12). Compongono questa nuova stesura i paragrafi: Aporia; Diaspora; E-space; Nonorder; Anomia; Mediascape; Amnesia.

Le ultime pagine sono invece dedicate ad una riflessione dell’autore circa le modalità con cui ha condotto il suo lavoro di ricerca sulle culture eXtreme negli anni Novanta, sul rapporto tra spontaneità e improvvisazione, tra regole e infrazione, liberazione e regressione… sul ricorso ad una «metodologia vagante» nell’ambito della etnografica sulla gioventù contemporanea.

Piacciano o meno, gli anni Novanta hanno lasciato il loro segno sul presente. Si può essere perplessi o dissentire sull’approccio con cui l’autore ha condotto la sua disamina e su alcune sue interpretazioni ma Culture eXtreme resta un testo che a due decenni di distanza dalla sua prima stesura si rivela ancora capace di mostrare risvolti delle culture giovanili degli anni Novanta che tanti sociologi, antropologi e giornalisti non hanno saputo cogliere.


Estetiche inquiete

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I dannati della metropoli https://www.carmillaonline.com/2014/04/23/i-dannati-metropoli/ Tue, 22 Apr 2014 22:00:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14280 I dannati della metropoli STAIDdi Simone Scaffidi Lallaro

Andrea Staid, I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, Le Milieu, 2014, pp. 192, € 13,90

Andrea Staid ritorna con un’opera che parla di corpi in movimento. Corpi che migrano e invecchiano con un sogno nello stomaco; corpi deturpati e mutilati dal potere delle autorità costituite; corpi che partono e non sempre arrivano; corpi che resistono o muoiono. Se per Le nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù (Agenzia X, 2011) – lavoro cronologicamente scritto prima [...]]]> I dannati della metropoli STAIDdi Simone Scaffidi Lallaro

Andrea Staid, I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, Le Milieu, 2014, pp. 192, € 13,90

Andrea Staid ritorna con un’opera che parla di corpi in movimento. Corpi che migrano e invecchiano con un sogno nello stomaco; corpi deturpati e mutilati dal potere delle autorità costituite; corpi che partono e non sempre arrivano; corpi che resistono o muoiono. Se per Le nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù (Agenzia X, 2011) – lavoro cronologicamente scritto prima ma che rappresenta uno dei possibili sequel de I dannati della metropoli – il riferimento alla corporeità era in copertina, qui lo troviamo densamente distribuito nell’arco di tutto il testo. Il titolo di questa nuova pubblicazione richiama invece esplicitamente a I dannati della terra di Frantz Fanon, caposaldo della letteratura anticoloniale, e rappresenta di per sé una premessa importante alle intenzioni dell’autore.

Staid prova infatti a restituire voce ai dannati perché non solo è convinto che attraverso le loro storie si possa comprendere la complessità di un’odissea contemporanea senza eroi, ma anche perché crede fermamente che la ricerca antropologica partecipata sia la strada da condividere per sviluppare narrazioni non egemoniche. Lo esplicita bene nel primo capitolo – una vera e propria messa a nudo degli strumenti metodologici utilizzati dall’autore – che con un linguaggio semplice e diretto imprime alla narrazione uno sguardo orizzontale e dal basso.

Se Fanon indaga la violenza e ne legittima l’azione in virtù di un principio che va oltre il diritto alla ribellione, Staid scandaglia il confine tra legalità e illegalità legittimando il ricorso all’illecito da parte dei dannati sulla base di un dato tanto oggettivo quanto ignorato: se «il rischio di finire in carcere è lo stesso sia per chi decide di delinquere sia per chi invece decide di lavorare per un salario da fame, la scelta di delinquere sembra la scelta più razionale».

Fanon e Staid inseriscono dunque il ricorso alla violenza e all’illegalità in un discorso più complesso legato alla de-oggettivazione del dannato. Che non è soltanto colui che si ribella per reazione a un potere che lo opprime – sia il colonialismo, sia lo Stato nazionale attraverso i suoi apparati di controllo e repressione –, ma è soprattutto colui che agisce per affermare il proprio diritto all’esistenza e all’autodeterminazione.

Andrea Staid Agenzia XViaggio e rivolta sono ingredienti essenziali all’autodeterminazione del migrante e l’autore è bravo – nel secondo e terzo capitolo – a saggiarne gli aspetti più contraddittori e cartografarne gli spazi d’azione. Qui, come in tutto il testo, la sua voce si alterna a quella di chi quel viaggio – o quella rivolta – lo ha vissuto in prima persona, rendendo la narrazione meno asettica e più partecipata. La mappatura delle rotte migratorie e degli ostacoli sul cammino restituisce poi il senso del tempo a un viaggio che nella maggior parte dei casi – se si raggiunge la meta sperata – ha una durata di anni. E quando si arriva a destinazione, quando le gambe hanno macinato migliaia di chilometri di cammino ferrato tra legalità e illecito, le braccia cominciano incessanti a dissodare il terreno per conquistarsi uno spiraglio di libertà.

 Sono i pezzi di carta, oltre al colore della pelle e la nazionalità, a discriminare le sorti di un viaggio. Passaporti, visti e permessi di soggiorno gli strumenti di cui si servono gli Stati nazionali per decretare che esistono donne e uomini di serie A e donne e uomini di serie Z. È sufficiente  compilare i moduli per richiedere un visto per un qualsiasi paese al di fuori dell’Unione Europea per rendersi conto della classificazione delle persone in base alla nazionalità. Più sei in basso nella speciale graduatoria più fogli di carta dovrai procurarti, più soldi dovrai spendere per autenticarli, più garanzie economiche e disciplinari dovrai assicurare per farti accettare alla frontiera.

La legge vale più di migliaia di vite umane. I dannati della metropoli non pretende di illuminare la realtà, ma abitua gli occhi a scrutarne nel buio le contraddizioni più profonde.

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Brasile: cartografie delle disuguaglianze https://www.carmillaonline.com/2013/11/28/brasile-cartografie-delle-disuguaglianze/ Wed, 27 Nov 2013 23:01:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10987 di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia [...]]]> di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia di migliaia di persone, scese per le strade a manifestare. Già, ma a manifestare per cosa? Occorre fare un passo indietro e osservare da una certa distanza gli eventi che hanno portato alle proteste di giugno, per non commettere l’errore di ridurre il tutto a un fuoco di paglia. Se è vero che le dimensioni, le pratiche e la radicalità di questo movimento sono fuori dall’ordinario per il Brasile, questo però va visto in prospettiva rispetto agli eventi che lo hanno anticipato. Qui vogliamo cercare di fornire un quadro sul contesto economico e sociale, sulla geografia urbana dei territori, sugli spazi dove si intersecano gli interessi di stato e capitale e quelli delle classi popolari.

I prodromi di una rivolta

I primi fuochi della protesta nascono a seguito dell’aumento del prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici in diverse città brasiliane, prima fra tutti São Paulo, operati ad inizio giugno 2013. Per molte persone, soprattutto lavoratori e studenti, un aumento di pochi centesimi fa la differenza tra l’accedere o meno al servizio e colpisce quindi in maniera diretta il diritto alla mobilità.

Queste proteste erano state precedute da mobilitazioni analoghe per la diminuzione del costo dei mezzi pubblici nel settembre dell’anno prima a Natal, città da quasi un milione di abitanti nel nordest del paese, nel marzo seguente a Porto Alegre e in maggio a Goiânia.

Per comprendere la viralità e l’estensione di queste proteste, ciò che le lega assieme nel tempo e nello spazio, occorre osservare e analizzare quei fili invisibili che intersecano assieme mobilità e sviluppo urbano: fili che nel contesto brasiliano disegnano la mappa delle disuguaglianze sociali e della divisione di classe.

La questione della mobilità nelle grandi megalopoli brasiliane costituisce un indicatore importante rispetto ai processi di ristrutturazione urbana che si articola sulla direttrice di una triplice esclusione: economica, spaziale e sociale. È evidente, infatti, come la dimensione del trasporto pubblico coinvolga e informi il quadro complessivo della definizione di spazio urbano metropolitano.

Città globali: Rio de Janeiro.

Per iniziare a cogliere questo aspetto è sufficiente fare un esempio concreto e ripercorrere la storia dello sviluppo urbano degli ultimi anni di una delle megalopoli più importanti del Brasile: Rio de Janeiro. La città carioca in tutto il Brasile è seconda solo a São Paulo sia in quanto a popolosità sia per il prodotto interno lordo. A livello economico, il settore manifatturiero ha svolto, almeno fino agli anni ‘80, un ruolo di primo piano e accanto a questo l’estrazione e la raffinazione di petrolio e gas, oltre a costituire una delle principali fonti di approvvigionamento energetico del Brasile, ha attirato diverse multinazionali petrolifere. Essendo stata capitale del Brasile per circa due secoli, la città ha sempre avuto una capacità attrattiva per i capitali nazionali e internazionali e questo ha favorito l’emergere di un polo finanziario, dei servizi e delle telecomunicazioni che negli ultimi decenni è divenuto estremamente rilevante.

A questo sviluppo economico, a questa produzione di ricchezza, è corrisposto l’aumento delle disuguaglianze sociali, con una polarizzazione sempre più marcata tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati. Un tipo di sviluppo che, come teorizza Saskia Sassen, ha coinvolto tutte le città globali attraverso la mondializzazione del mercato del lavoro e la finanziarizzazione delle economie, portando alla costituzione di nicchie economiche del terziario avanzato ad altissimo profitto e di vaste aree del settore dei servizi a bassa qualifica e con una mobilità sociale pressoché assente. Un quadro ben rappresentato anche dal punto di vista spaziale: nelle città globali – quindi anche a Rio – il quartiere della Borsa e della finanza è rigidamente diviso da quello dei servizi o dai quartieri-dormitorio.

A Rio de Janeiro questa divisione territoriale è particolarmente evidente: la zona del centro, quella più antica e nucleo originario della città, è caratterizzata oggi dai grandi palazzi della Borsa, delle banche, delle multinazionali e degli uffici dei colossi delle telecomunicazioni; la zona sud è quella delle residenze dei più ricchi, delle località di villeggiatura per turisti e delle attrazioni per i ceti più abbienti, oltre che sede di una delle più costose università private del Brasile: la Pontificia Università Cattolica; la zona nord è quella dove risiede parte del ceto medio ma soprattutto quella con il più alto numero di favelas, immense baraccopoli spesso senza elettricità, gas e acqua potabile dove vive circa un quinto della popolazione di tutta la città, quella che non può permettersi gli affitti troppo alti o che non può acquistare un immobile: le classi popolari – in questa zona si trova anche la sede dell’università pubblica di Rio de Janeiro; la zona ovest è quella dove è possibile osservare lo stridente contrasto tra quartieri ricchi e quartieri poveri, tra slums e zone residenziali ultramoderne: la parte nord per estensione accoglie diverse baraccopoli mentre la parte sud vede quartieri abitati da classi abbienti ma che non possono permettersi la zona sud.

Negli ultimi decenni Rio de Janeiro ha avuto un intenso sviluppo economico, dovuto sia a rinnovate attività estrattive di petrolio e gas, sia ad un mercato finanziario aggressivo e in espansione. L’aumento di alcuni indicatori della ricchezza economica media, danno una visione assolutamente distorta delle reali condizioni materiali: a fronte di un aumento dei profitti e del reddito per i ceti più abbienti, è aumentato il numero delle persone sotto la soglia di povertà. La risposta delle istituzioni non si è fatta attendere e, per tenere sotto controllo il malessere sociale, nel 2008 sono state introdotte le Unidade de Polícia Pacificadora, un’unità speciale di polizia con l’obiettivo ufficiale di pacificare militarmente i quartieri controllati dai trafficanti di droga: in realtà una velleitaria risposta securitaria che vuole ridurre la complessa problematica della disuguaglianza sociale a un problema di ordine pubblico.

Mega eventi

All’interno di questo scenario, possiamo considerare il mega-evento come un dispositivo che viene messo in campo in quanto rete complessa di rapporti di potere che vengono risoggettivati (o desoggettivizzati) secondo un nuovo discorso e nuove retoriche. Per dispositivo intendiamo – nell’articolazione che ne dà Giorgio Agamben nel suo Che cos’è un dispositivo? – quella complessa rete di relazioni di potere che, in forma discorsiva o non-discorsiva, produce o destruttura la soggettività dei viventi; è cioè «un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve; tanto del detto che del non-detto» e si manifesta come «un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati». Parliamo di dispositivo – come elemento disciplinare – perché il mega-evento va a incidere e a ridefinire in maniera conflittuale processi economici, politici, sociali e nondimeno spaziali. Se prendiamo il mega-evento come oggetto di analisi, possiamo riuscire a scorgere, attraverso le sue implicazioni, l’articolazione delle retoriche del potere.

Il grande evento da cui partire sono i Giochi Panamericani del 2007, che vengono ospitati interamente a Rio de Janeiro. In questa occasione, vengono avviati fin dagli anni precedenti diversi progetti di ristrutturazione urbana che riguardano sia la costruzione di nuovi complessi sportivi, stadi, arene, villaggi degli atleti, eccetera, sia interventi di “riqualificazione” di alcuni quartieri e la creazione di nuove infrastrutture. Secondo l’Observatório das Metrópoles, che si occupa da molti anni dell’impatto dei mega-eventi sui tessuti urbani, entrambe le tipologie di progetti hanno portato a processi di gentrification* e sradicamento delle comunità di quartiere in cui venivano messi in atto, a speculazioni nel mercato immobiliare e all’aumento generalizzato del costo della vita. Quello che preme sottolineare è come il discorso politico e la retorica sviluppista, messi in campo dalle istituzioni pubbliche dello stato di Rio de Janeiro (la macroregione di cui la città fa parte) e dall’imprenditoria privata convergano anche sul piano economico con investimenti e speculazioni sia del pubblico che del privato.

Il fatto che mette ancor più in evidenza la natura disciplinare di questa macchina astratta è il tentativo di ricomprendere all’interno dello stesso discorso istituzionale le critiche o i discorsi-altri al mega-evento con la nomina di una commissione speciale (CO-Rio) che monitorasse l’evolversi dei lavori: a questa commissione non ha peraltro partecipato nessun gruppo che si occupa della questione. Tra gli interventi urbani effettuati in questo periodo, il più esemplificativo risulta essere la costruzione dello Stadio Olimpico Engenhão, dal nome del quartiere che lo ospita: Engenho de Dentro, abitato prevalentemente da classe operaia e in misura minore da piccola borghesia. Lo stadio, che è finito per costare circa sei volte di più il prezzo preventivato ad inizio lavori, è stato edificato senza alcuna comunicazione con i residenti, molti dei quali anzi si sono trovati con la casa espropriata e poi demolita (chi la possedeva e non era in affitto).

Se possiamo considerare i Giochi Panamericani del 2007 come la forma ancora embrionale del dispositivo del mega-evento, con la maggior parte delle implicazioni ancora in nuce e non pienamente manifeste, negli anni successivi il tessuto metropolitano diventa sempre più terreno di scontro e disciplinamento. In vista della Confederation Cup del 2013 e del Campionato del Mondo di Calcio, di cui Rio ospiterà diverse partite, e soprattutto delle Olimpiadi di Rio del 2016, si estendono ulteriormente gli interventi securitari e urbanistici con tutto ciò che implicano in termini economici, sociali, spaziali.

Il primo di questi interventi che ci consegna la cifra del discorso pubblico istituzionale è la costituzione, come ricordato in precedenza, di un’unità speciale di polizia di prossimità col compito di pacificare alcuni quartieri più a ridosso dei luoghi in cui si terranno i mega-eventi. Quartieri limitrofi a quelli più ricchi dove la stessa condizione di povertà è elemento da nascondere, da rimuovere, da controllare.

Sul piano degli interventi urbani, la costruzione di infrastrutture, edifici e complessi sportivo/abitativi, oltre ad aver intaccato il tessuto urbano – in misura simile o maggiore a quella descritta prima per lo stadio Engenhão – ha provocato un boom del mercato immobiliare, con un aumento dei prezzi e della rendita che da un lato ha compresso il potere di acquisto degli affittuari e dall’altro ha prodotto una speculazione da parte dei proprietari di case. In molti quartieri è quindi intervenuto un processo di sradicamento duplice: il primo, dove la coazione è diretta e amministrata dall’istituzione pubblica nella sua forma di polizia; la seconda, in cui la coazione appare meno evidente ma ugualmente violenta e che è spinta dalle logiche di mercato che portano gli abitanti del quartiere originari a non avere i mezzi per vivere e sopravvivere.

Un’attenzione particolare meritano gli interventi volti a “migliorare” la mobilità urbana che di fatto si sono rivelati distruttivi per il tessuto urbano in cui sono stati implementati. È il caso di alcuni progetti di costruzione di infrastrutture per i trasporti che passano per diversi quartieri popolari e favelas per congiungere il villaggio olimpico con l’aeroporto e che di fatto implicano dubbi vantaggi per la popolazione locale e anzi rischiano di provocare lo sgombero di alcune migliaia di persone.

A Providência, una delle favela più vecchie di Rio, è in atto, all’interno del progetto Morar Carioca finanziato dal Programa de Aceleração do Crescimento (PAC), un processo di eradicamento di circa un terzo della popolazione per favorire la costruzione di alcune funivie. Lo stesso programma prevede la costruzione di case popolari e l’erogazione di prestiti a basso interesse per i meno abbienti. Anche qui la retorica sviluppista si sposa con pratiche coercitive e di disciplinamento che vedono delocalizzare di fatto le classi popolari per favorire la speculazione immobiliare e la rendita e parallelamente attuare politiche di segregazione – le case popolari si troverebbero a nord-ovest, all’estrema periferia di Rio e scarsamente servite dai mezzi pubblici.

Ecco allora che sotto il velo dello “sviluppo anche per i ceti più disagiati” in occasione dei mega-eventi possiamo scorgere le maglie avviluppanti di nuovi rapporti di potere e disciplinamento che si manifestano nelle varie forme che si sono descritte.

Insorgenze

Ecco allora che le proteste per il trasporto pubblico e la mobilità libera e gratuita acquistano un peso e una qualità differenti se le vediamo legate a quelle durante la Confederation Cup e la Giornata mondiale della gioventù cattolica, e se le inseriamo nel contesto dello trasformazione/trasfigurazione della metropoli attraverso il dispositivo governativo del mega-evento. La radicalità e inclusività con cui si è espresso il movimento in questi ultimi mesi in Brasile e in particolare a Rio, la pluralità di istanze assunte da esso e la capacità di sperimentare differenti pratiche organizzative ci suggeriscono che quanto portato avanti può essere la spinta per la nascita di ulteriori terreni di lotta. Un movimento che emerga con forza dal conflitto tra governo delle cose e dei corpi, che possa rinnovarsi continuamente e trovare nuove forme.

* Descrive un particolare processo metropolitano per cui viene “riqualificato” un quartiere considerato degradato per poi rivendere gli immobili ad un prezzo più alto. Ovviamente facendo in modo che gli abitanti precedenti sloggino. La discriminante è chiaramente la creazione del profitto derivante dalla riqualificazione più che il miglioramento delle condizioni sociali del quartiere.

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Back In Town. Mexico City Imagine & Delirium https://www.carmillaonline.com/2013/08/21/back-in-town-mexico-city-imagine-delirium/ Tue, 20 Aug 2013 22:01:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8339 di Fabrizio Lorusso

PesciDF[Questo testo è stato recuperato dall’archivio di Carmilla. Correva il 2010 e il ritorno a Città del Messico dell’autore, dopo la pausa estiva in Italia, ispirava queste pagine] Immagine. Vita, viaggio e delirio da Città del Messico, la capitale in movimento, come recitano gli slogan apposti sugli emblemi e gli scudi del gran Comune messicano. Lo so, non è la prima volta che lo dico, ma la memoria, come le bugie pubbliche e private, ha le gambe corte. Da solista John dal nord commuoveva e cantava con vena pop [...]]]> di Fabrizio Lorusso

PesciDF[Questo testo è stato recuperato dall’archivio di Carmilla. Correva il 2010 e il ritorno a Città del Messico dell’autore, dopo la pausa estiva in Italia, ispirava queste pagine] Immagine. Vita, viaggio e delirio da Città del Messico, la capitale in movimento, come recitano gli slogan apposti sugli emblemi e gli scudi del gran Comune messicano. Lo so, non è la prima volta che lo dico, ma la memoria, come le bugie pubbliche e private, ha le gambe corte. Da solista John dal nord commuoveva e cantava con vena pop “…imagine all the people, living life in peace”. Ecco, allora non venire qua al sud, per adesso. Qua non ci si annoia mica, al massimo si spara: quasi quasi son 30mila morti nei 4 anni di governo dell’Onorevole Presidente Fecal (abbreviazione giornalistica per “Felipe Calderon”). Qui c’è il disagio giovanile imperante, anche se poi una risata e una dose ragionata di valemadrismo, cioè “menefreghismo” in spagnolo, prevalgono e sconfiggono il male, la guerra e il tedio, tanto per chiarire. Per esempio, immagina un po’ di fotografare un pesce spacciato per fresco e immortalare i suoi occhi intrisi di rosso spento, due perle dei Caraibi che, a guardarle bene, sono una coppia di cadaveriche protuberanze, una a destra e una a sinistra, come in politica. Son simili a quelle dell’onesto e appassionato fumatore di ganja coi capillari eccitabili ma…che dire? Da un pesce non te l’aspetti. Magari fosse un po’ stonato dal fumo anche il huachinango, quella specie di dentice ritratto in esclusiva per voi lettori dall’impavida camera integrata nel mio cellulare: forse lui, pescato mesi fa, così potrebbe sorridere ancora. Invece no.


Qui, nell’ex capitale azteca Tenochtitlan, sputtanata dal conquistatore Hernàn il Cortese nell’anno di Grazia che fu il 1521, l’onnipresente e odiato Wal Mart (la catena di supermercati più mastodontica del pianeta e in assoluto l’impresa con più fatturato, sempre nello stesso pianeta) ama viziare i suoi clienti con le delizie pescherecce degli oceani Atlantico e Pacifico mentre io mi diverto a immortalarle con le foto per non cedere alla tentazione ancestrale e suicida di provarle o anche solo sniffarne l’odore acerrimo. Immag0188.jpg
Credo che potrei fare curriculum per aspirare a un posto come “fotografo del pesce”, un’antica professione che a Napoli era addirittura presente nei registri comunali, ma non chiedetemi di cosa si tratta esattamente.
Niente domande faziose, qua si crea la fuffa buona, mica le balle egiziane sulla figlia illegittima e ribelle di Mubarak. Ma torniamo al pesce. In realtà, si tratta di plasticacce puzzolenti e immangiabili che sanguinano vernice.
“…imagine there’s no countries”. Di male in peggio, spiegatelo voi agli statunitensi che hanno preso in prestito esclusivo, o meglio, hanno patentato internazionalmente, proprio come fa la nota multinazionale Monsanto coi semi e i pezzi di natura libera e selvaggia, il marchio “americano” e il nome di “America”.
Ed è stato così per troppo tempo, per giunta senza chiedere il permesso ai messicani, ai paraguaiani o agli haitiani, per esempio.
Ma sono bazzecole e vecchie storie, ora basta anche con questa. Non facciamo i banalissimi.Immag0225.jpg
Piuttosto il vero dramma della settimana è stato, senz’ombra di dubbio, “l’affaire antitetanica”, un vaccino a cui sono particolarmente affezionato perché mi ricorda l’infanzia felice. E’ come una droga, l’ho cercato, l’ho voluto e non l’ho trovato. Maledizione.
M’han sbattuto violentemente una portiera d’auto sull’indice sinistro e sul corrispondente ginocchio mentre superavo sulla destra, lentamente e imprudentemente, un taxi giallorosso fermo a un semaforo. Cado a zero all’ora per la botta, mi rialzo alla rinfusa, ricevo scuse e riverenze dai passeggeri, infami assassini di motociclisti.
Dopo ringrazio nascondendo l’ira e le parti colpite, non ho nemmeno la ragione dalla mia, ma le ferite sanguinano lo stesso, malgrado la loro superficialità, e sono comunque pezzi di carne sensibile, mica cefali morti, in fin dei conti. Il giorno seguente, per scrupolo, cerco di farmi applicare l’agognata antitetanica, prassi normale in Italia ma più unica che rara in questo bel Messico. Immag0246.jpg
La mia vecchia protezione era appena scaduta e, dunque, ho provato a scaricarne l’aggiornamento nell’ordine: in farmacia (non sanno se c’è, cos’è e perché), al pronto soccorso dell’università (chiuso per ferie), alla clinica dei vaccini di zona o “centro di salute” (chiuso per lutto), all’ospedale pubblico (chiuso per furto), all’ospedale privato, dietro offerta di un lauto compenso a tutti gli operatori disponibili e di una mazzetta golosa per i dottori di turno, ma ecco che anche quest’avamposto del liberismo sanitario non se ne vuole occupare (aperto per scherzo). Il download non è riuscito.
Lasciamo perdere, aspetteremo giorni più magici, meglio non avere urgenze da queste parti, take it easy Fabbrì.
Ripeto mentalmente uno dei miei motti arguti sine qua non (senza il quale non…): “sputa sul tuo destino finché sei ancora in tempo”. Invece sputo sulle ferite, per scaramanzia e igiene, e sulla moto per pulirne gli specchietti e l’anima. “…imagine no possessions, I wonder if u can”, e anche qui, mobbasta, zitto comunista! Cos’è sta roba del “no possessi”? Io dico, la mente segue la parola, cioè “sono immagini dell’altro mondo, quello bello, ancora senza Wal Mart”. Che poi basta una L (elle) in più e diventa “Wall Mart”, il negozio del muro, della parete, ossia: brutta faccenda.Immag0236.jpg
Questa catena di supermercati ha fagocitato le principali aziende messicane del settore come per esempio il caro e celeberrimo Superama e l’infallibile Bodega (bottega) Aurrera (risparmierà) ed è il leader indiscusso della bassa qualità e della precarietà del lavoro nel paese. Esiste anche un documentario coraggioso sulle pratiche poco piacevoli applicate tanto negli USA come nel resto del pianeta da questa multinazionale della distruzione (cioè, scusate, d i s t r i b u z i o n e: qui il documentario masterpiece non plus ultra in inglese “Wal Mart The high cost of low price” LINK).
Sono un incoerente politicante, tante parole e pochi fatti. Come mai? Perché in effetti ci devo spesso andare da Wel Mert, per la forza della fame chimica e per la chimica dell’amore di qualche cassiera, ma soprattutto perché le opzioni alternative scarseggiano, non appaiono più, non son nitide all’orizzonte, chissà, forse a causa dello smog.Immag0255.jpg
Magari dovrei usare qualche stuzzicadenti per raschiare via le scorie di demenza insediatesi durante gli anni bui nelle cavità pulsanti delle circonvoluzioni della mia materia grigia.
Sarà pure una frase barocca e inopportuna, un’intrusione splatter a sangue freddo forse, ma è solo per giustificare un fatto: che i loro ipermercati sono piazzati molto strategicamente nei gangli, come in un campo minato cittadino, stanno sulle grandi avenidas e nelle zone trafficate — è proprio il caso mio, cioè di casuccia mia — e oramai non lasciano più spazio ai negozietti, i famosi abarrotes. Questi si rifugiano nelle viette laterali e nei quartieri popolari, terribilmente fuorimano per chi vive fuorimano.
Ma è un racconto che abbiamo già sentito anche in Italia e non è colpa vostra né mia, è la vita: è il pesce marcio più grande che si mangia il pesce rosso più piccolo. Darwin la sapeva lunga, pace alle teorie sue.
Malgrado tutto, un merito va riconosciuto a questa catena schiavizzante dal nome buffo(ne).
Mi hanno fatto diventare praticamente vegetariano e ho imparato, anno dopo anno, a gestire la mia dieta in modo sano ed equilibrato, senza usare il petrOlio Quore, senza affrontare staccionate da cui cadere ridicolamente per cercare d’imitare uno stupido, uno stupido spot.
Non è un trauma personale dell’autore di questo articolo, ma è vero, tanti giovani solevano farlo negli anni ottanta per evitare le siringhe che crescevano nel fertile terriccio del parchetto di zona oppure per dimenticarsi delle catodiche avventure serali col Drive In e Striscia che, di lì a poco, avrebbero fatto le fortune del Biscione di Berlusconi. Poveri noi, e tutti gli altri filistei.Immag0250.jpg
Non volevo perdere il filo del discorso cadendo così in basso. Rewind e conclusione.
Ho cominciato a valorizzare i coloratissimi mercatini di zona, i cosidetti tianguis, che esploro senza pietà a bordo di una poderosa Suzuki carica di borse e zaini pronti per la spesa.
Son piacevoli fardelli, ansiosi di riempirsi la pancia di frutta tropicale, droghe (nel senso di spezie esotiche ed erbe psichedeliche) e verdure sconosciute come il huitlacoche, il chayote e il huazontle. Infatti il pesce e la carne, cioè i cadaverini esposti sui tristi banconi del super mercante, sono inguardabili, come risulta dalla vera foto-testimonianza apposta in apertura, ed anzi, aggiungo il sempreverde “scripta manent”.
Nessuno, tranne il Dio Web Maestro, potrà mai cancellare questa mia arringa.
Sì, ora il motto latino vale anche su internet. Ho scoperto navigando, parlando e interagendo che ad alcuni connazionali le citazioni nella lingua dei romani in genere suonano vagamente fasciste, ad altri paiono da finto erudito, ma questa volta ci stavano eccome.
In Messico fanno addirittura figo, soprattutto per chi non le capisce, però sarà la Real Academia de la Lengua Española (l’innegabile versione spagnola dell’italiota Accademia della Crusca) a dirimere ogni controversia in merito, come sempre.SantaTianguis.jpg

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Back In Town. Mexico City Smog & Streets https://www.carmillaonline.com/2013/08/15/back-in-town-mexico-city-smog-streets/ Wed, 14 Aug 2013 22:04:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8334 di Fabrizio Lorusso

Mexico2010[Un articolo reload di Carmilla del 2010 ma da rimasticare Back In Town] Messico, anno di grazia 2010. Siamo a cento anni dallo scoppio della Revolución e a 200 dall’inizio della guerra d’indipendenza vinta contro la Spagna decadente. Proprio quella Spagna che all’inizio dell’ottocento non poteva più permettersi di pensare all’America dorata e lontana e si trovava, invece, invasata, invasa e vagamente distratta dalle truppe napoleoniche dilaganti tra vigneti e mulini a vento. Insomma, c’è di che festeggiare per quest’anno. Non è che qui, in generale, manchino le occasioni, anzi, sappiamo [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Mexico2010[Un articolo reload di Carmilla del 2010 ma da rimasticare Back In Town] Messico, anno di grazia 2010. Siamo a cento anni dallo scoppio della Revolución e a 200 dall’inizio della guerra d’indipendenza vinta contro la Spagna decadente. Proprio quella Spagna che all’inizio dell’ottocento non poteva più permettersi di pensare all’America dorata e lontana e si trovava, invece, invasata, invasa e vagamente distratta dalle truppe napoleoniche dilaganti tra vigneti e mulini a vento. Insomma, c’è di che festeggiare per quest’anno. Non è che qui, in generale, manchino le occasioni, anzi, sappiamo che si segue scrupolosamente la regola della festa quotidiana di “non compleanno” per partecipare a sfide alcoliche improvvisate e ad assembramenti casalinghi incontrollabili e feroci.

Sono un sopravvissuto. Prima di tutto da me stesso, come tutti noi in fondo, anche se non lo sappiamo, e poi dalle strade, dalle gare di velocità e dallo smog patrio messicano, un fumo bizzarro generato da vetture ancestrali e inquietanti come i peseros (bus urbani) e i camiones (famigerati tir a doppio rimorchio modello TGV, cioè lunghi come il celebre treno francese): sono mostri grigioverdi, rosso bruni e arrugginiti di noia, con le scritte “Ford Boia” e “Mercedes ya se muriò” stampate in fronte, proprio sul radiatore, alla faccia loro.

Immag0145.jpgLe interminabili avenidas di Città del Messico, affollate ogni giorno da 5-6 milioni di auto libere e pericolanti, possono arrivare ad avere anche una decina di corsie per senso di marcia e fanno sembrare l’Autostrada del Sole una mulattiera provinciale ma non solo per la larghezza cui ho accennato. La ricerca nefasta della velocità, il tasso alcolico stimato del cittadino medio e il grado di competitività neoliberista superano di gran lunga i livelli italiani e danno vita a un sistema perverso di sopravvivenza veicolare che prende spunto dal modello darwinista: la fortuna, le potenzialità del mezzo di trasporto e la bravura del conducente mettono in atto una selezione della specie in un mercato perfetto del rischio che si dispiega lungo i 60 chilometri che si possono percorrere tranquillamente, o meglio, freneticamente, da un capo all’altro della città.

Devo dire che possiedo un veicolo sufficientemente adattabile alle situazioni più disparate e anche piuttosto pulito e distinto, come da foto, ma questo non serve. Si tratta di una moto piccola e agile, una Suzuki GN125 a 5 marce che ogni giorno raccoglie pazientemente l’adrenalina dall’asfalto per spararla fuori all’occorrenza, quando le sorelle maggiori marca Ducati e le jeep scintillanti dei fighetti chilangos (così sono chiamati gli abitanti della capitale) la fanno arrabbiare con le loro pretese di superiorità e con l’arrivismo yankee colato giù dal Rio Bravo.

Immag0206.jpgDelirio da inalazione tossica ripetuta? Sindrome da motociclista frustrato e frustato dal colpo della strega? Senza dubbio, ma anche un po’ di verità. Provare per credere. I tassisti e i choferes, veri e propri piloti professionisti dei minibus, tutti ex formula uno, sanno benissimo di cosa sto parlando, poveri incompresi. Siccome molti autobus sono di proprietà dei conducenti stessi o vengono a questi affittati da un magnaccio, ecco che si scatena una gara mortale per acchiappare più clienti possibile alle fermate ufficiali, pochissime a dir la verità, e all’angolo di qualunque strada ove pascolino persone in attesa.
C’è chi litiga con loro — parlo soprattutto dei tassinari a bordo dei vecchi maggioloni, cioè “gli irriducibili” — tutti i giorni e giustamente gli sputa dentro al finestrino e scappa via. Forse son maleducati tutti e due, ma non possiamo giudicare dall’esterno. “¡Por eso estamos como estamos!” (Per questo stiamo come stiamo!) è solita sentenziare la voce della saggezza popolare e del passante attento a questi casi d’inciviltà.

Comunque stiamo parlando di categorie soggette a stress cronico e al rischio di finire con una ruota in un tombino scoperchiato o in un buco apocalittico di 5 metri per 2 (e uno di profondità, un bel pozzo di petrolio abitato da scarafaggioni espressivi). Se così accade, perdono i guadagni del mese e le blatte sotterranee gli bucano la marmitta in cerca di monossido di carbonio allo stato solido.

Vale la stessa regola anche per i poliziotti che, in caso di sinistro, devono rimborsare di tasca loro i danni alle vetture in dotazione. Perciò le suddette categorie di utenti della strada possono arrivare a difendere le loro verità con le mani nude e incazzate e, all’occorrenza, con una chiave inglese Made in China, alzando ancor di più il livello adrenalinico e testosteronico nell’aria del vituperato Distretto Federale (D.F., noto anche come “Di-Fettoso”).

E’ anche per questo motivo che si respirano smog e tensione nonostante viviamo circondati da belle e invincibili montagne a 2400 metri sul livello del mare e quasi sempre splende il sole “dell’eterna primavera” messicana.
Alla fine, ad ogni modo, dopo i pestaggi da strada e le liti violente, paiono vincere la pace e la patria, basta una bandiera messicana esposta in bella vista a rasserenare gli animi in questi mesi di giubilo istituzionale e sentimentale. E poi non importa se si blocca il traffico e si sospende il gettonatissimo “servizio pubblico di trasporto collettivo” per comprare un po’ di frutta fresca e invitante (vedi foto del mega autobus fermo in seconda fila).

Immag0213.jpgLe oasi di calore umano e gentilezza nella selva cementifera della capitale sono le stazioni di servizio della compagnia petrolifera statale, la Pemex o Petròleos de Mèxico, in cui la broda puzzolente costa appena mezzo euro al litro e funziona. Pericolose macchie d’olio sparpagliate in agguato all’entrata di tutti i benzinai sono la regola e puniscono con uno scivolone anche i più sobri, esperti e devoti centauri.

La Pemex è tra le più grandi imprese al mondo ed è il simbolo della nazione e della sovranità messicana però è ormai sull’orlo del fallimento a causa dell’endemica mancanza di fatturato e di utili. Questi denari servirebbero a effettuare nuove e costose esplorazioni delle riserve nelle profondità oceaniche del Golfo del Messico e a regalare un futuro roseo di idrocarburi freschi alle prossime generazioni, ma forse anche no.
I soldi vengono invece prelevati di default ogni anno dal governo con la legge finanziaria che li destina ai capitoli di spesa più interessanti e creativi come gli interessi sul debito pubblico e l’armamento dell’esercito impegnato nella “guerra al narcotraffico”. Non si spendono solo così, evidentemente. Esistono ancora un’austera politica sociale, una timida istruzione pubblica, la ricerca scientifica e una sanità universale al 50%, ma direi che si sta seguendo anche qui l’esempio del “nuovo miracolo italiano” in tutti questi settori vitali: stringere la cinghia, studiare da soli un po’ d’inglese e d’informatica e infine curarsi con rimedi caserecci, anche questi Made in China.

Imagen088.jpgCome ci ha dimostrato il disastro delle piattaforme per l’estrazione dei gas e dei petroli in acque statunitensi, causato dalla compagnia inglese British Petroleum l’estate scorsa, c’è poco da scherzare con le perforazioni in acque profonde e probabilmente Pemex non è in grado di realizzarle da sola, pertanto il Messico potrebbe dire addio al suo oro nero già a partire dal 2020 secondo le stime più gioiose.
Nella foto che ho scelto il patriottismo raggiunge una punta folcloristica e drammatica dato che lo scatto è dell’epoca dei mondiali di calcio sudafricani, un periodo piovoso e sornione in cui le attività del paese, e quindi anche quelle dei benzinai, si sono ridotte a zero durante le poche partite che il Messico ha potuto disputare (non che alla squadra italiana sia andata tanto meglio come sappiamo).

Saltiamo, ma sempre di fiestas patrias parliamo. A Oaxaca (e c’è anche una foto) per tutto l’anno ha funzionato un contatore gigante che segnava ore, minuti e secondi e che s’è azzerato alla mezzanotte del 15 settembre, la data fatidica del grido dell’indipendenza. Quest’anno il partito dominante di regime, quello della “prima repubblica messicana”, il PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale, famoso per la contraddizione nei termini che lo definiscono) ha perso il governo dello stato di Oaxaca per la prima volta.
Immag0167.jpgE così il repressore governatore Ulises Ruiz verrà rilevato da Gabino Cuè (eletto con una coalizione di partiti che va da destra, con il Pan, a sinistra, con il Prd) che, malgrado i suoi trascorsi nel Pri, non è ancora eccessivamente sputtanato e ci si aspetta, quindi, un cambiamento di visione e gestione della cosa pubblica in una delle regioni più povere ma splendide del paese.

Stavo affogando nel mezcal del tipo “minatore” (una bibita simile alla tequila per chi non bazzicasse la zona mesoamericana) quando tra spari e fuochi d’artificio una ventina di persone hanno accompagnato il bestiale governatore Ulisse nel suo ultimo grido ribadendo le consegne del movimento di protesta del 2006-2007, “ya cayò ya cayò, Ulises ya cayò” (Ormai è caduto, già è caduto, Ulisse ormai è caduto). E’ vero ma, purtroppo, è riuscito a cadere in piedi e con la fedina pulita nonostante le numerose condanne per violazione dei diritti umani ricevute da corti e organizzazioni internazionali.
La domanda (quasi) finale è: che senso ha una manifestazione o un atto pubblico in cui partecipano più poliziotti e funzionari del governo che cittadini comuni? Il pomeriggio e la sera del 15 sono stati una sequela di atti siffatti.

Immag0163.jpgPer finire con un tema più idilliaco, ricordo che in questo giro ho riappreso che l’orgoglio degli abitanti di Oaxaca riguarda anche il loro prodotto tipico distillato, il mezcal, al punto che tutti sostengono che la ben più nota tequila è semplicemente una sottocategoria di questo. Infatti l’agave azzurra, la pianta da cui si ricava la tequila, è un tipo particolare di maguey (o anche agave che è il suo nome scientifico) che, invece, dà origine e vita al favoloso mezcal, che è tale sempre e comunque e non importa che tipo di maguey si voglia utilizzare per ottenerlo (LINK culturale). Il verme sul fondo è solo un optional gradito e temuto. Ma l’importante è brindare e sopravvivere alla follia. Fino alla prossima vittoria. Sempre?

Continua…

Mi permetto di consigliare la lettura di Back In Town. Bovisa City Milano, post estivo che ha in qualche modo ispirato e preceduto degnamente questo primo sfogo autunnale su Città del Messico. Ed è sempre periferia…

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