Metal Hurlant – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 21 Apr 2025 22:01:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “…Tre cose belle ha il mondo”: Love, Death & Robots. https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/tre-cose-belle-ha-il-mondo-love-death-robots/ Fri, 18 Jun 2021 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66778 di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad [...]]]> di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad – ebbe, mai dimenticato quasi due decenni dopo, un meno riuscito e meno fortunato seguito, Heavy Metal 2000 – almeno la colonna sonora restava notevole comprendendo Voivod, Pantera, Bauhaus e affini – che però aveva offuscato l’immagine ancora vivida del predecessore, lasciando un po’ d’amaro in bocca  ai fan e molta voglia di un remake degno.

L’idea solleticava da anni la fertile mente di David Fincher, regista di video di gruppi appropriati come Aerosmith e Nine Inch Nails, passato poi al cinema con il terzo episodio della saga di Alien e il fortunato noir Seven, consacrato nel 1999 da Fight Club, adattamento dell’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, e confermato autore interessante soprattutto da film personali e provocatori come Zodiac (2007), ispirato alla vera storia del Killer dello Zodiaco, e  L’amore bugiardo – Gone Girl (2014), dal best-seller di Gillian Flynn. A lui si era poi affiancato Tim Miller, regista e sceneggiatore proveniente da un cinema più leggero e disimpegnato come quello dei Marvel Comics con Deadpool (2016) o della saga di Terminator, con l’ultimo episodio Dark Fate (2019). Il progetto, supervisionato da un’esperta di animazione, la Jennifer Yuh Nelson di Kung Fu Panda 2 e 3, e prodotto e distribuito da Netflix, si è trasformato nel 2019 nell’ottima serie, già giunta al momento attuale alla seconda stagione, che prende il titolo di Love, Death & Robots.

Il piccolo miracolo di cui si diceva all’inizio consiste nell’aver saputo – come già fu per l’illustre antecedente – coniugare perizia tecnica, innovazione visuale e consistenza tematica in un percorso grafico attraverso numerosi classici della short-story fantascientifica, spazianti dall’avventuroso-action al riflessivo-sociologico, dallo splatter all’erotico. La serie sa cogliere perfettamente quella dimensione del testo breve e brevissimo che è una piacevole consuetudine della migliore tradizione fantastica, in cui il racconto – esauribile in una singola seduta di lettura – emerge, da Poe in poi, assai maggiormente del romanzo, come espressione più tipica e meglio realizzata del weird&eerie, del sense of wonder, della sospensione dell’incredulità necessaria perché il meccanismo fantastico e speculativo funzioni davvero. L’efficacia di questa formula è confermata da altre recenti e riuscitissime serie antologiche di film a episodi tenute insieme da una coerenza di carattere tematico, come Black Mirror, letterario come Philip K. Dick’s Electric Dreams, o atmosferico-scenografico come Tales from the Loop.

Gli episodi di Love, Death & Robots, dalla durata variabile compresa fra un minimo di sei minuti e un massimo di una ventina, spaziano oltre che attraverso le diverse declinazioni tematiche della fantascienza, anche attraverso tutte le possibilità dell’immaginario visuale dei comics e dei cartoni animati. Dal disegno caricaturale e umoristico, a quello astratto e stilizzato, fino al realistico e all’iperrealistico del live-action, derivato dal full motion video tipico di molti videogiochi, che utilizza foto di attori reali per trasformarle in disegni in movimento. I risultati sono piacevolmente variegati ed efficaci.

I diciotto cortometraggi della prima stagione più gli altri otto della seconda attingono ai testi dei più significativi autori, classici e recenti, della fantascienza angloamericana. Fanno decisamente la parte del leone con numerose short-stories i più prolifici e famosi John Scalzi e Joe R. Lansdale, ma si piazzano bene anche i britannici Alastair Reynolds, autore di Hard SF e di Space opera, e il sodale, anche lui britannico e space operistico, Peter F. Hamilton, il sino-americano Ken Liu, l’ex cyberpunk statunitense Michael Swanwick, l’italo-americano premio Locus e Nebula Paolo Bacigalupi. Si segnalano storie che spaziano dall’umoristico-elegiaco (Three Robots), al surreal-demenziale (When the Yogurt Took Over), al cyberpunk (The Witness), alla parabola femminista più o meno scontata (Sonnie’s Edge o Good Hunting), all’ucronia (Alternate Histories o The Secret War), all’horror erotico (Beyond the Aquila Rift), al dark-fairy-tale natalizio (All Through the House), al SF noir in stile Blade Runner (Pop Squad).

Fra i classici non si staglia particolarmente Harlan Ellison con Life Hutch, racconto del 1956 – come spesso Ellison, piuttosto sadico e iperviolento – su un prevedibile malfunzionamento robotico all’interno di una cabina di salvataggio che crea grossi problemi ad un naufrago aereospaziale su un pianeta alieno. Il problema più che nella storia in sé sta nella realizzazione grafica piuttosto piatta e priva di suspense del regista Alex Beaty. Un vero capolavoro invece l’altro classico, The Drowned Giant, l’episodio in assoluto migliore della serie, diretto dallo stesso Tim Miller e tratto da un assiomatico racconto di uno dei più grandi autori postmoderni che abbiano onorato la fantascienza: James G. Ballard, scrittore spesso, ma non in questo caso, ampiamente sacrificato o edulcorato nella larga maggioranza delle trasposizioni cinematografiche dalle sue opere. Pare che Miller abbia perseguitato praticamente per anni le figlie di Ballard riuscendo finalmente ad ottenere da loro l’autorizzazione all’adattamento del famoso racconto: non se ne saranno certo pentite.

A differenza dei lungometraggi tratti dai suoi principali romanzi, nessuno dei quali rigorosamente fedele allo spirito ballardiano – vuoi il troppo patinato Crash di David Cronenberg (1996), vuoi l’irresoluto High Rise, La rivolta di Ben Wheatley (2015), vuoi il caotico The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss (2000), vuoi, anche al di fuori della fantascienza, il caramellato L’impero del sole (Empire of the sun) di Steven Spielberg (1987) – la trasposizione animata del racconto breve scritto nel 1964 cattura senza infingimenti l’immaginario drastico del Bardo di Shepperton e lo riporta correttamente alle sue radici simboliste e surrealiste con un gusto figurativo, un ritmo letargico e un’atmosfera rarefatta davvero rari.

Tim Miller ha già confermato l’avvio di una terza stagione che vedrà anche il ritorno del trio di simpatici robot apparsi al debutto della serie (Three Robots: l’eredità di Robbie de Il pianeta proibito o della coppia R2-D2 e C3PO dello Star Wars originale sembra infinita…) e che, riprendendo la struttura molto più coesa della seconda stagione rispetto alla prima, sarà ancora composta da otto puntate. Su questo punto la critica non è concorde: chi sostiene che la prima stagione era più innovativa e varia per stile e argomenti e considera la seconda un passo indietro verso un maggiore conformismo visivo e tematico, chi al contrario la accusa di dispersività e di eccessiva disparità fra episodi efficaci e mediocri e preferisce la seconda stagione più sintetica, organica e compatta. In realtà, considerando lo show nel suo complesso, si può affermare con obbiettività che il livello medio di entrambe le stagioni è, come si è già detto, più che soddisfacente e la risonanza acquisita da Love, Death & Robots, con tanto di logo stilizzato divenuto iconico tra i fan, sembrerebbe suffragarlo..

L’unico appunto possibile, almeno rispetto alla gloriosa tradizione da cui la serie deriva, riguarda la colonna sonora che tradisce quasi totalmente quell’Heavy Metal da cui avrebbe dovuto originarsi, attestandosi invece su una neutralità estremamente spuria ed eterogenea (country-blues, elettronica, disco, perfino l’immancabile Walkiria di Wagner, lo Star Spangled Banner e la Kalinka del Coro dell’Armata Rossa): un soundtrack di puro commento intradiegetico quindi, o al massimo di sottofondo atmosferico privo di particolari connotazioni. Questo si che è davvero un passo indietro, almeno per chi, come me, appartiene alla vecchia generazione, assuefatta ad associare l’overdrive delle chitarre distorte con quello dei motori delle astronavi…

 

 

 

 

 

 

 

 

]]>
Raised by Wolves: da Emesa alle stelle https://www.carmillaonline.com/2021/03/08/raised-by-wolves-da-emesa-alle-stelle/ Sun, 07 Mar 2021 23:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65213 di Walter Catalano

Dopo aver determinato fin dagli anni ‘80 l’immaginario visuale della fantascienza a venire con film come Alien e Blade Runner, Ridley Scott, si è da decenni cristallizzato in una carriera fatta di alti e bassi, di colpi di genio e di banalità kitsch, spaziando un po’ attraverso tutti i generi – dal neon noir  di Black Rain al neo-peplum de Il gladiatore, dal clito-esistenzialismo di Thelma & Louise al fascio-femminismo di Soldato Jane – per riemergere recentemente in modo saltuario e poco convinto nel campo SF [...]]]> di Walter Catalano

Dopo aver determinato fin dagli anni ‘80 l’immaginario visuale della fantascienza a venire con film come Alien e Blade Runner, Ridley Scott, si è da decenni cristallizzato in una carriera fatta di alti e bassi, di colpi di genio e di banalità kitsch, spaziando un po’ attraverso tutti i generi – dal neon noir  di Black Rain al neo-peplum de Il gladiatore, dal clito-esistenzialismo di Thelma & Louise al fascio-femminismo di Soldato Jane – per riemergere recentemente in modo saltuario e poco convinto nel campo SF con le tutt’altro che entusiasmanti prove di Prometheus  e Alien:Covenant.

Anche nel campo del serial televisivo il cineasta britannico si era finora cimentato come produttore esecutivo, abbastanza defilato, in progetti efficaci come The Man in the High Castle, da P.K. Dick, e la prima stagione di The Terror, da Dan Simmons, o l’interessante ma purtroppo sfortunato Strange Angel ispirato all’omonima biografia dello scienziato-stregone Jack Parsons, sebbene un coinvolgimento più totale anche come showrunner e regista non fosse mai stato concesso. Con Raised by Wolves, serie ideata e sceneggiata da Aaron Guzikowski (già autore di Prisoners per Denis Villeneuve, della serie The Red Road, e del quasi ignorato remake di Papillon) e distribuita da HBO Max, invece si è finalmente messo in campo oltre che come produttore esecutivo, anche come regista dei primi due episodi (affidando i successivi, sotto la sua supervisione, ad altri, compreso suo figlio Luke). E’ un ritorno alla fantascienza a pieno titolo, recuperando tutti o gran parte dei temi affrontati nei suoi primi e più famosi film: gli androidi prima di tutto. Androidi in stile Ash di Alien, più che Roy di Blade Runner, con plasma bianco che scorre loro nelle vene e che schizza fuori al posto del sangue quando è il caso.

La vicenda si svolge su Kepler-22b, pianeta extrasolare (realmente esistente) che orbita attorno a Kepler-22, una nana gialla lievemente più piccola del Sole distante circa 620 anni luce dal sistema solare, situata nella costellazione del Cigno, e appartenente alla categoria delle super Terre, cioè corpi celesti affini per massa al nostro pianeta. Qui gli androidi Madre e Padre sbarcano con un piccolo numero di feti umani e il compito di crescerli per ricostruire in libertà e pace una nuova umanità, essendo quella terrestre sul punto di scomparire dilaniata sul pianeta d’origine da una spietata guerra di religione fra Atei e Credenti, detti Mitraici.

Sottolineiamo a questo proposito un aspetto interessante che pochi hanno notato, dati gli accenni allusivi disseminati lungo tutto il corso delle puntate e che lasciano ampio spazio allo spettatore per ricomporre i frammenti sparsi di un mosaico sfumato ma inequivocabile. Il futuro descritto nella serie non scaturisce da un immaginario arbitrario e casuale ma si origina presumibilmente da un mondo ucronico molto preciso in cui l’Impero romano d’Occidente non è mai crollato e dove la religione di Mitra, rivale del cristianesimo, non è stata soffocata dall’editto di Tessalonica del 380 e dai successivi decreti del 391, con i quali Teodosio imponeva all’Impero come religione di stato il cristianesimo nella forma niceno-costantinopolitana, cioè secondo la formulazione del Concilio di Nicea, mettendo fuori legge ogni altro culto. La fede in Apollo e Mitra, sincretizzati in Sol Invictus, dio sole di Emesa, professata dagli imperatori Eliogabalo, Aureliano e Giuliano, sarebbe dunque sopravvissuta all’alleanza progressivamente sempre più stringente con le gerarchie cristiane voluta da Galerio, Costantino e Teodosio, cancellando definitivamente le dottrine rivali (nel nostro mondo la cancellazione è avvenuta invece all’inverso e, solo per citare un esempio, il 25 dicembre, dies natalis del Sol invictus, solstizio d’inverno, è diventato a forza il Natale cristiano).

Nella serie, la religione del futuro deriverebbe quindi dal mitraismo, divenuto però un culto fanatico, gerarchico e sacerdotale (non meno del cristianesimo) che adora Sol, un dio personale simboleggiato da un sole cucito sulle divise candide degli allo-crociati interplanetari, dai caschi simili ad elmi legionari o medievali e dai nomi propri romani come Marcus, Lucius, Drusus o Cassia. La fazione opposta, e perdente, è rappresentata dagli Atei che ostentano invece nomi anglosassoni e rifiutano ogni imposizione irrazionalistica e liturgica.

Quasi decimati questi pochi superstiti cercano di far sopravvivere i loro ideali illuministici progettando la missione su Kepler-22b. Campion Sturges, il Creatore, ex scienziato mitraico passato dalla parte degli Atei, modifica due androidi, riprogrammandoli secondo modalità umane, soggette quindi ad empatia: Padre, un androide di servizio, efficiente ma non troppo avanzato e Madre, una micidiale macchina bellica, sottratta agli avversari mitraici, una Lamia, versione Negromante, capace – grazie al potere dei suoi occhi estraibili e sostituibili – di assumere forma corazzata e volare rigida con le braccia in forma di croce disintegrando uomini e cose con il suo terrifico grido ultrasonico.

La prima stagione della serie, già riconfermata per una seconda, si sofferma sulle vicissitudini del primo insediamento e il dibattersi delle due creature artificiali fra la loro natura macchinica e l’insorgere di sentimenti e passioni umane: l’affetto reciproco e per i “figli” loro affidati. Tutti i bambini della prima generazione, tranne uno, moriranno (ma la più piccola, scomparsa precipitando in un cratere senza fondo, riapparirà anni più tardi al fratellastro sopravvissuto come inquietante e malevolo revenant) e verranno sostituiti con una seconda generazione di età superiore, rapita al gruppo rivale di Mitraici, anch’essi in fuga, atterrato su un’astronave-arca chiamata Heaven, Paradiso, in un altro punto del pianeta, e in larga parte sterminato da Lamia.

Nel gruppo di Mitraici sopravvissuti sono infiltrati due Atei, marito e moglie, che hanno ucciso i due veri componenti dell’equipaggio assumendone chirurgicamente i tratti somatici: come Padre e Madre, anche loro hanno trovato un “figlio” nel bambino della coppia che hanno assassinato, affezionandosi a lui come veri genitori. Si delinea abbastanza chiaramente il tema portante – e ricorrente in Scott – della Genitorialità e della Maternità in particolare, e la parziale spiegazione del titolo: “cresciuti dai lupi”. Anche un aspetto metafisico e mitologico in questo ambito si svilupperà nella seconda parte dello show: forse è atteso l’avvento di un nuovo Messia, e i due androidi hanno tutta l’aria di nuovi insoliti Adamo ed Eva, generanti senza unione sessuale e in edenica grazia, ma chi sarà il bambino all’origine della nuova umanità? Per scoprirlo Madre,  infrangendo i protocolli del proprio sistema operativo, cercherà di recuperare i suoi blocchi di memoria cancellati e durante progressivi flashback agnitivo-psichedelici incontrerà più volte virtualmente il Creatore nel laboratorio dove è stata riprogrammata, finendo per avere con lui un appassionato amplesso che la lascerà miracolosamente incinta – divertente la scena della reazione offesa e ingelosita di Padre quando lei, ancora eccitata dall’esperienza, gli rivela candidamente l’“adulterio”. Credendosi finalmente madre davvero, Madre partorirà poi un mostruoso incrocio fra una lampreda e un serpente. Il simbolo del serpente potrebbe di nuovo rimandare ai Misteri di Mitra, ma per una spiegazione, speriamo soddisfacente, di questo e dei molti altri enigmi (allegorici?) disseminati nel corso della trama, bisognerà aspettare la prossima stagione.

Se la storia, pur derivativa, trae dalla sua ambiguità e laconicità gran parte del proprio fascino, un forte debito narrativo, oltre che all’inevitabile Philip K. Dick, va assegnato anche e soprattutto ai fumetti di Alejandro Jodorowski – L’Incal, La casta dei Meta-Baroni e I Tecnopadri. Il film progettato e mai realizzato dal maestro cileno, quel Dune – tratto dall’opera di Frank Herbert e passato dopo il siluramento di Jodo e una drastica riduzione del budget ad un poco convinto David Lynch – che avrebbe dovuto essere il massimo kolossal della fantascienza dell’epoca, coinvolgendo Moebius, Philippe Druillet, H.R. Giger, Salvador Dalì e tutta la creatività più lisergica di quegli anni, trasferirà il proprio immaginario visuale, attraverso gli story-board realizzati, oltre che ai fumetti del team di Metal Hurlant, a Dan O’Bannon, coinvolto nel progetto come supervisore agli effetti speciali, che lo riutilizzerà, insieme a Giger, per Alien. Da qui farà presa su Ridley Scott e si riverserà su Blade Runner, diventando la matrice visionaria di tutta la figuratività fantascientifica dagli anni ’80 ad oggi.

Proprio nell’immagine infatti, assai più che nella trama, va cercata l’importanza e la significatività di questa serie. I paesaggi brulli e montagnosi del pianeta, i colori desaturati, il decor archeofuturista degli ambienti e dei costumi, il design brancusiano delle astronavi, l’essenzialità olografica della tecnologia, tutto concorre all’edificazione di una stilizzazione visionaria di grande suggestione. Anche il fisico particolare degli attori è parte di questa estetica estraniante: la bellezza androgina dell’attrice e modella danese Amanda Collin – vera rivelazione della serie come Madre – esageratamente alta e magra, capelli a spazzola, sorriso botticelliano; il nero massiccio e bonario Abubakar Salim, servizievole ma risoluto, Padre, sempre pronto nei momenti meno opportuni a raccontare barzellette che non fanno ridere nessuno; Travis Fimmel – l’ex supermodello Kelvin Klein divenuto famoso come attore nel ruolo di Ragnarr Loðbrók nella serie Vikings – mefistofelico Marcus/Caleb; Niamh Algar – attrice irlandese, occhi di ghiaccio e mascella decisa, conosciuta soprattutto come protagonista femminile nel bel noir dublinese Calm With Horses di  Nick Rowland –  come Sue/Mary compagna di Marcus/Caleb. Infine i molti attori bambini che conferiscono alla serie un’apparenza (ingannevole) di contenuta saga young adult.

 Il risultato finale è decisamente intrigante. Un ritmo rilassato scandito da dialoghi spesso impegnativi che potrebbe risultare lento e pesante ad uno spettatore frettoloso, spezzato però spesso e volentieri da improvvise sequenze d’azione violenta e splatter (l’attacco di Lamia all’Arca dei Mitraici al grido micidiale che spappola gli avversari riducendoli in poltiglia sanguinolenta; gli scontri a fuoco fra Atei e Mitraici sulla Terra; gli androidi uccisi e riattivati più volte, con occhi e cuori espiantati e ritrapiantati tra profluvi di plasma bianchiccio; ecc.). Un ben equilibrato dosaggio tra avventura spaziale e riflessione filosofica (la dialettica fra fede e ragione, la coincidenza degli opposti, la diatriba dickiana fa umano e non-umano, fra naturale e artificiale, la Maternità e il rapporto figlio-genitore, ecc.) e i criptici riferimenti ad una simbolica mistica probabilmente più complessa di quello che lo spettatore medio possa inferire (Mitra, ecc. …e qui l’imprinting esoterico di papà Jodo emerge ancora più evidente), rendono questa serie assai più colta di quanto l’abitudine abbia indotto ad aspettarsi e probabilmente fin troppo ardua e disagevole al gusto comune. Ulteriore stigma di raffinatezza la splendida sigla dei titoli di apertura, con un pezzo composto da Ben Frost, intitolato semplicemente Opening Titles, e cantato dalla svedese Mariam Wallentin, l’immaginifico testo varia tra il secondo e il terzo episodio, la musica è degna di ascoltatori sofisticati.

Il giudizio complessivo sulla serie, a conti fatti, non può essere che positivo. E’ pur vero che gran parte degli interrogativi suscitati restano per ora senza risposta, che un’interpretazione coerente permane al momento dubbiosa e fin troppo problematica e che ben poco ancora può evincersi degli sviluppi futuri di personaggi e situazioni: ogni possibile soluzione è demandata alla o alle stagioni a venire e questa prima appare più che altro una promettente premessa ad un lungo e necessario proseguimento chiarificatore. Speriamo – onde evitare delusioni alla Lost – che giunga  presto e in termini sufficientemente esaurienti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

]]>
Urgenze sovversive. “Perché la pazienza ha un limite, Pazienza no” https://www.carmillaonline.com/2017/09/16/urgenze-sovversive-perche-la-pazienza-ha-un-limite-pazienza-no/ Fri, 15 Sep 2017 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39885 di Gioacchino Toni

Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2017, pp. 214, € 16,00

Stefano Cristante, nel suo saggio dedicato ad Andrea Pazienza, ha sicuramente il merito, tra gli altri, di evitare la trappola della mitizzazione dell’artista da lui indicato come «portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia capace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni, costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata» (p. 172).

Nonostante la tendenza di Pazienza a [...]]]> di Gioacchino Toni

Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2017, pp. 214, € 16,00

Stefano Cristante, nel suo saggio dedicato ad Andrea Pazienza, ha sicuramente il merito, tra gli altri, di evitare la trappola della mitizzazione dell’artista da lui indicato come «portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia capace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni, costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata» (p. 172).

Nonostante la tendenza di Pazienza a definirsi un disegnatore indolente, in realtà in una decina d’anni ha prodotto parecchio materiale. Questa propensione dell’artista a descriversi svogliato deriva forse dall’ambiente di fine anni Settanta entro il quale si trova a vivere, decisamente ostile ad obblighi, contratti, scadenze e più in generale a tutto ciò che odora di lavoro.

Lo studio di Cristante prende il via dalla pubblicazione nell’aprile del 1977 su “Linus” delle tavole che danno vita alla prima storia di Pazienza, Pentothal. Lo stile adottato risulta decisamente caotico e servono quasi quattro anni all’artista per giungere alla tavola conclusiva mostrante la scritta «“Le straordinarie avventure di Pentothal” inserita in un tabellone ferroviario, come annunciasse un treno in partenza. Ma il treno era già partito da un pezzo, e non a caso la fine del viaggio coincide in realtà con la spiegazione magica del talento di Pazienza. La Natura, raffigurata in forma di albero antropomorfo, suona il campanello e consegna al ragazzo Andrea Pazienza una scatola contenente il “regalo del disegno”. Quindi in realtà la storia ha termine con un inizio» (p. 28).

La situazione vissuta da Pazienza è quella del ’77 bolognese, quella della città del Pci che finisce col fronteggiare il movimento con i blindati dell’allora Ministro degli interni Francesco Cossiga. Cristante rintraccia in Pentothal le modalità con cui il giovane di origini pugliesi vive la turbolenta realtà bolognese: «La “definizione della situazione” di Pazienza attraverso Pentothal (che è un doppio dell’artista su carta) è quella del partecipe-isolato. È dentro le cose dei suoi giorni […] e simultaneamente buttato sul suo tavolo da disegno, vinto dal sonno. Allora sogna. Ha incubi. Si sveglia tardi, spesso abbrutito. Legge, cita a memoria i dadaisti, soffre per amore, inventa efferati cinismi onirici, spiega come si possa star dentro a un flusso senza appartenervi. Descrive come la mente di un artista faccia i conti a ogni istante con il bagaglio di conoscenze che è riuscito ad associare al talento naturale» (p. 29).

Nel saggio si sottolinea come Pazienza inizialmente pubblichi non secondo le modalità della serialità narrativa ma, piuttosto, con la logica dell’esemplarità di ogni apparizione che si manifesta come un connubio «tra equilibrismo grafico ed eclettismo stilistico, passando nello spazio di una pagina dalla linea chiara a quella scura» (p. 29). Le tante fonti d’ispirazione vengono per certi versi da lui esasperate a livello esponenziale e le singole tavole finiscono per rappresentare un universo visionario autosufficiente che Cristante definisce efficacemente «Polaroid a fumetti di un proletariato giovanile in cui rientra uno dei profili di Andrea Pazienza» (p. 29).

Nel periodo in cui lavora a Pentothal, Pazienza introduce «una neo-lingua fattona-terrona» (p. 30) che utilizzerà, successivamente anche su “il Male”. Lo stile narrativo e grafico del giovane autore risulta fortemente autobiografico ed esistenziale e ciò lo differenzia da quello del francese Moebius, spesso citato in Pentothal. Pazienza rielabora «il postmodernismo futurologico di Moebius in un presente stralunato» (p. 30); le strampalate automobili del francese vengono riprodotte da Pazienza non per viaggi nello spazio ma per girare in un altrettanto stralunato paesaggio terrestre quotidiano. Mentre i personaggi di Moebius si presentano come creature eteree in ambientazioni future misticheggianti, «quelli di Pazienza corteggiano il fantastico solo per rientrare con l’equilibrismo dei surfisti in una terra presente, dove i dialoghi possono avere riferimenti alla realtà quotidiana o possono prendere le forme di un monologo interiore improvvisamente durissimo oppure, al contrario, audacemente lirico» (p. 31).

In Pentothal fanno capolino diversi personaggi e situazioni che si ritroveranno nelle produzioni successive dell’autore. Nel primo episodio si viene proiettati nella quotidianità del movimento bolognese del quale, per certi versi, Pentothal si sente sia parte che estraneo e, sostiene Cristante, a tale “bipolarità situazionale” finisce col rispondere con improvvisi “scarti laterali”. «Beh, sono cambiate molte cose dall’ultima volta, per cominciare il ragazzo si è inserito ed ora è più dentro che mai ai fatti della vita e al movimento degli studenti. Conosce diciassette slogans!» (p. 32).

Pentothal si presenta come una serie di flash improvvisi legati l’uno all’altro soprattutto dalla presenza dell’artista nei diversi frammenti. Nell’atmosfera onirica e alterata messa in scena dalle tavole, il protagonista ha ormai abbandonato ogni velleità eroica. Sulla falsariga di quanto proposto da Moebius, Pazienza ricorre a stralunati riassunti delle puntate precedenti e gioca su molteplici piani narrativi ricorrendo a citazioni colte e reinterpretando l’immaginario proposto da “Métal Hurlant”. «Dopo un paio di tavole moebiusiane (tavv. 72-73), Pentothal cade (forse da un albero) nel vuoto di un balloon che, nella tavola successiva, lo porta a precipitare in una realtà dove lo attendono Filippo Scòzzari – ritratto con il pennino appoggiato all’orecchio, in primo piano rispetto a due suoi tipici personaggi – e Stefano Tamburini, quest’ultimo con la maglietta della rivista “Cannibale” e l’ammissione di essere appena arrivato da Roma e di essere “sconvorto”. Quando la tensione narrativa sembra scemare, Pazienza si tira in piedi da solo attraverso il delirio demenziale: Le straordinarie avventure di Pentothal diventano allora Pentokan, la tigre della malora, un Sandokan che spara con mille armi difendendosi da attacchi totali, ma nella stessa tavola (tav. 118, a poche pagine dalla fine della narrazione) l’artista avvisa che torna a casa, “e nella mia casa tutto risponde ad un ordine preciso, ad un mio desiderio, è soddisfazione del mio desiderio. Qui sono al sicuro” […] “Ma a volte – prosegue –, di notte, si riaffaccia alla memoria l’immagine di quel giovane drogato [Zanardi] e penso: E se, nonostante tutto, fosse un eroe? Non esiste questa possibilità. E allora cerco di immaginare la sua vita, quali possano essere le sue abitudini. Come fa, quando va a qualche festa, se non ha un paio di calze pulite? Scherzo, ma, a ripensarci, come fa?”. “L’immagine del giovane drogato” annuncia narrazioni più ordinate e popolari – è proprio del 1981 la prima sconcertante avventura di Zanardi, Giallo scolastico, pubblicata da “Frigidaire” – ma il marchio del molteplice, la sua lieve e ancora non centrale architettura scritta, lo stesso lettering fantasioso e infantile e la precisione miniaturistica di tante inserzioni infilate nelle tavole, fanno di Pentothal un archivio visivo impareggiabile nella dimensione del “volontariamente incompiuto”» (pp. 34-35).

All’avventura di “Cannibale” ideata da Stefano Tamburini, danno manforte autori come Massimo Mattioli, Filippo Scòzzari, Andrea Pazienza e, successivamente, Tanino Liberatore. Nell’inverno del 1977, nel secondo numero della pubblicazione, quello delle “quattro copertine possibili”, Pazienza pubblica una storia che ha per protagonista una variante fricchettona di Pippo, il celebre personaggio disneyano, ricorrendo ad un tratto grafico che, sottolinea Cristante, cita esplicitamente lo stile di Robert Crumb, uno dei maestri dell’underground americano. «Il Pippo sballato di Pazienza rifiuta il lavoro […] Lo fa immergendosi in un ambiente degradato, una specie di avamposto fricchettone in mezzo al deserto» (p. 38). Toccherà a Topolino riportare a casa Pippo ma, suggerisce Pazienza, nonostante sia rientrato nei ranghi, Pippo non manca di fumarsi spinelli. «Siamo dunque così all’immagine capovolta del giovane hippie che conserverebbe un fondo di buon selvaggio rousseauiano: è quest’ultimo – nella declinazione disneyana del carattere di Pippo – a contenere invece la potenziale degenerazione fricchettona. Ecco infine svelato con questo rovesciamento il mistero dell’irregolarità di Pippo: nell’ultima vignetta appare chiaro “perché Pippo sembra sballato…” “Sembra sballato perché È sballato!”» (p. 40).

Sempre nel secondo numero di “Cannibale” Pazienza pubblica Prixicel!!, una storia in sette tavole di ambientazione fricchettona in cui acidi tagliati con la nitroglicerina fanno esplodere chi ne fa uso. Personaggi strafatti tornano anche nei numeri successivi di “Cannibale”: E per me un Anco Marzio (1978), Ma cosa succede? (1978), Agnus Dei (1979).

Francesco Stella è invece indicato da Cristante come personaggio interstiziale che Pazienza fa comparire in svariate occasioni e sotto diverse vesti. Per la prima volta Stella compare in otto tavole pubblicate su “Cannibale” nel 1979, nelle vesti di un operaio che sogna di esportare i pelati negli Stati Uniti, poi lo si incontra nelle otto tavole della storia rock-fantascientifica Vita e gite (1981) su “Frigidaire”, fino a ritrovarlo nei panni del tenente Francesco Stella, ex-maestro di tennis di Livorno, protagonista delle quarantotto tavole di Aficionados (1981), «una storia piuttosto eccentrica nel pur conclamato eclettismo di Pazienza: l’unità di misura non è la vignetta con i balloon, ma l’illustrazione commentata da una voce narrante, resa con il consueto e inconfondibile stampatello, sotto cui si aprono talvolta dei dialoghi a fumetti. L’incipit rivela una nuova disposizione nel lavoro di Pazienza: il trattamento è da racconto storico» (p. 44).

Su “il Male” del settembre 1979 compare, probabilmente per la prima volta, una vignetta di Pazienza ritraente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Da quel momento, di tanto in tanto, il personaggio viene riproposto dall’artista anche sulle pagine di “Frigidaire”. «Nel caso degli sketch su Pertini, Pazienza si trova di fronte il problema di “serializzare” il Presidente, cioè di rendere un esponente politico – dal grande passato ed eletto alla massima carica dello Stato – un personaggio comico, capace di far ridere il lettore senza smentire il rispetto collettivo nei suoi confronti» (p. 52). Per qualche tempo Pazienza spinge sull’acceleratore del “rincoglionimento senile” del Presidente, dando vita a spassose vignette in cui l’ex-partigiano nel confondere le cose o i ricordi si lascia andare ad affermazioni surreali.

Nell’albo dedicato a Pertini il personaggio cambia e diviene un intransigente e collerico decisionista a cui Pazienza affianca «un altro personaggio, con caratteri contrapposti. Fisicamente è alto e dinoccolato, psicologicamente instabile e ingenuo fino alla demenza, pasticcione, codardo, debole di fronte a ogni minaccia. Questo partigiano si chiama Paz: è il pupazzo con cui si autoritrae l’autore, e che compare fin dalla prima tavola di Pertini. Il ruolo di Pazienza è quello del “luogosergente” di Pertini: un ruolo inesistente e surreale, su cui si addensano le apposite costruzioni del demenziale, fatte di incongruità spazio-temporali, missioni sabotate dall’incompetenza di Paz ed esplosioni di collera di Pertini. Dunque ora il cabaret fumettistico può contare su un duo comico – Pert e Paz – come da tradizione d’avanspettacolo» (p. 55). Su questa base l’artista inserisce una scrittura ricca di svarioni ortografici, giochi di parole e rime.

Nel 1979 Pazienza pubblica su “il Male” Il Partigiano, una surreale storia di resistenza all’invasione comunista nella sua San Severo nel foggiano di un personaggio dagli evidenti tratti autobiografici. Secondo Cristante «Il Partigiano è il transito tra Pentothal e Zanardi. La traboccante fantasia onirica di Pentothal si innesta sulla suggestione resistenziale abbandonando il tratto moebiusiano, preferendogli un eclettico miniaturismo che gioca con le trasformazioni del Partigiano, inseguendolo nella sua evoluzione da goffo improvvisatore a killer lucido e consapevole. Pentothal sogna e delira, il Partigiano gestisce il proprio delirio e Zanardi agisce esclusivamente in modo lucido e premeditato: la zona narrativa dove Pazienza decide di avventurarsi va maneggiata con cura e consapevolezza sempre maggiori» (p. 63).

Nel racconto breve Giallo scolastico (1981), ove appaiono personaggi come Zanardi (Zanna), Colasanti (Colas) e Petrilli (Pietra), l’unità di misura generale, sostiene Cristante, è la tavola, ma è nella vignetta che si ritrova la precisione; «una precisione grafica che consente a Pazienza di addomesticare i suoi pupazzi, a volte rendendoli parte di un mondo coerentemente morbido e infantile, a volte completando nei dettagli la loro fisionomia realistica e inserendoli in un mondo altrettanto realistico» (p. 66). Il racconto è composto da quattordici tavole, ad alto numero di vignette per tavola, in totale sono quasi centosessanta, «anche se alcune sono in qualche modo doppie, perché, senza confini grafici netti tra loro e mettendo insieme due situazioni contemporanee ma diversamente dislocate, ne enfatizzano la portata» (p. 66). La serie prosegue con numerose storie fino all’incompiuta Zanardi medievale (1988).

Zanardi rappresenta un personaggio importante nella produzione di Pazienza. Con esso, l’autore non si accontenta di ritrarre il mondo giovanile dell’epoca all’interno di una cornice noir; Zanardi si trasforma «in una declinazione di stati d’animo estremi, mettendo la sua estrema razionalità al servizio di imprese scaltre e buie […] brand di una devianza che si erge sopra ogni normalità» (p. 87).

Il personaggio Pompeo, un tossicodipendente capace di osservare il mondo in cui vive con un certo distacco, compare su “Alter” nell’aprile del 1985, pubblicazione che però, dopo poche uscite, decide di interromperne la collaborazione con l’autore. Grazie alle edizioni Grifo Pompeo giunge in libreria nel 1987. Gli ultimi giorni di Pompeo (1987) secondo Cristante può essere considerato un graphic novel di 116 tavole in cui a colpire, più che lo stile letterario, è «l’esibizione calligrafica realizzata con il pennarello [capace di creare] un lettering multiforme e attraente: dominante è lo stampatello maiuscolo, ma a tratti interviene con effetti di drammatizzazione un corsivo spigoloso e, quando è il momento di una lunga citazione poetica, si associano stampatello maiuscolo e minuscolo, oltre a un corsivo costruito su lettere di spessore diverso, a comporre una visione di parole graficamente tremolanti e oscure […] Pazienza scarica il suo inchiostro funambolico su foglietti quadrettati, i cui segni sono ben visibili nella stampa finale. L’opzione di mantenere il proprio segno ugualmente sofisticato pur in presenza di una superficie graficamente plebea come il foglio a quadretti amplifica le qualità del disegno stesso, e trasmette una misteriosa intimità al lettore, di nuovo messo a fianco del disegnatore a osservarne l’azione, mentre l’artista sceglie i suoi materiali e fa scelte impreviste, miscelando la guida sapiente del segno con risorse all’apparenza arrangiate e frettolose, figlie di un’urgenza» (p. 91).

Cristante analizza nei dettagli il mondo messo in scena da Pompeo a partire dalla prima pagina dell’opera definita dallo studioso metaletteraria e cross-mediale: metaletteraria perché viene citato un passo letterario all’interno di un’opera letteraria, e cross-mediale in quanto si cita il medium letteratura nel medium fumetto.

Campofame (1987) è invece un’opera, pubblicata in tre puntate da “Comic Art”, che Pazienza deriva da Hungerfield di Robinson Jeffers. Ad attrarre Pazienza, si sostiene nel saggio, è probabilmente il fatto che Jeffers con Hungerfield tenta di elaborare il lutto causato dalla perdita della moglie lo fa «affidandosi a una leggenda inaudita: un uomo, Hawl Hungerfield (Campofame), al capezzale della madre morente, decide di attendere la Morte e di affrontarla» (p.123). Mentre la prima parte di Campofame è potente, le ultime sette tavole risultano un po’ approssimative con un finale affrettato che differisce sostanzialmente da quello di Jeffers.

Nella prima parte del saggio l’autore mette in evidenza soprattutto l’abilità di Pazienza nel concepire e trattare testi e aggiunge: «l’opinione unanime degli esperti è che Pazienza possedesse una gamma di abilità che lo innalza automaticamente all’olimpo dei comics […] Precisione e rapidità di esecuzione sono proverbiali in Pazienza, e le vighnette sono quanto di più immediatamente spettacolare egli abbia realizzato. La fama di Pazienza, prima nel pubblico giovanile e poi anche in quello generalista, è costruita innanzitutto sull’impatto della sua unità di misura più piccola ed esplosiva, la vignetta» (pp. 140-142).

Il penultimo dei venti volumi dedicati all’opera di Pazienza, pubblicati nel 2016 da Repubblica-L’Espresso, intitolato Incompiute, presenta diverse tavole non finite. Tra queste ve ne sono alcune appartenenti ad Astarte, storia restata incompiuta a causa della morte dell’artista. Dalle dieci tavole, contenenti ottantacinque vignette, Cristante segnala l’altissima densità di inquadrature ed espressioni e la cura della lingua utilizzata, priva di strafalcioni ortografici o gramelot. «La conduzione autobiografica e ispirata dalla strada lascia il posto a un’affabulazione ampia e innovativa, condotta con vignette che hanno lo stesso formale principio ispiratore dei suoi precedenti poemi in prosa, come Pompeo e Una estate: testo sovrastante il disegno, rari balloon. In comune con altre opere, oltre a questa scelta di miniaturizzare la grande tavola scritta/illustrata, vi è poi ancora una volta la presenza della morte, annunciata fin dalla prima tavola» (p. 146).

Nella parte finale del saggio viene riproposta per intero una lunga composizione scritta da Pazienza, probabilmente durante il suo primo periodo da studente del Dams, in quanto da essa è possibile derivare numerose informazioni circa la poetica dell’artista: «la smania elencativa, la confusione voluta dei piani del discorso (arte-gusto-cibo-arte), la rapidità nell’afferrare uno scivolamento logico e trasformarlo in un’iperbole delocalizzata (dal pennarello alla lista dei fumettisti preferiti), il ritmo narrativo, la musicalità dei testi, gli accostamenti demenziali» (pp. 152-153). Inoltre, grazie a questo scritto di Pazienza si possono ricavare alcuni tra i numerosissimi riferimenti artistici e culturali che hanno in qualche modo influenzato la sua produzione: Pratt, Wolinski, Pichard, Parker & Hart, Quino, Mordillo, Schultz, Breccia, Claire Bretécher, Tristan Tzara, Marcel e Suzanne Duchamp, Man Ray, Hans Arp, Max Ernst, Arthur Cravan, Hugo Ball, André Breton, Vladimir Tatlin, Lacerba, Papini, Balla, Boccioni, Severini, Carrà, Marinetti, Sironi, Piero Manzoni, Pistoletto, Mondrian…

L’orizzonte espressivo di Pazienza è quello delle grandi trasformazioni che conducono agli anni Ottanta e l’artista testimonia i mutamenti «da una postazione inconsueta: quella del soggetto che si fa personaggio [entrando] nelle tavole a fumetti esibendo se stesso (o comunque un proprio avatar) sulla carta, portando a spasso i lettori in un multiverso spiazzante, letterariamente e graficamente più intenso e visionario di quelli moebiusiani perché costruito sui tasselli di un’identità sociale precisa (giovanile e universitaria) e perché capace di agire sul fronte demenziale della gag e della situazione narrativa, grazie all’assimilazione neo-dadaista e alla tendenza al polimorfismo stilistico, attraverso cui Pazienza rende pubblici i comportamenti di settori minoritari ma vistosi della gioventù» (p. 185).

L’arte di Andrea Pazienza «è stata in grado di imporre linguaggio e comportamenti, cioè immaginario collettivo in atto. Pazienza è arrivato a questo effetto disegnando se stesso e i suoi pensieri e poi infilandosi in un contesto prescelto, prima quello del Dams e di Pentothal, poi quello dell’ambiente fricchettone e fattone, poi quello dell’antropologia zanardesca, poi quello di Pompeo – per seppellire le proprie rovine – e infine quello, erudito e non meno sorprendente, della lavorazione di Campofame e di Astarte. A quest’ultima fase artistica appartiene il periodo trascorso a Montepulciano, caratterizzato dalla presenza rassicurante, intorno a Pazienza, non solo della moglie Marina ma dell’amico-editore Mauro Paganelli e di un gruppo di creativi eclettici, tra cui Moreno Miorelli, con cui prendeva confidenza diretta dell’arte rinascimentale nelle chiese e nei musei toscani» (p. 187). La voglia di sperimentare e sovvertire non è mai venuta meno nel corso della breve vita dell’artista… perché se la pazienza ha un limite, Pazienza di limiti davvero non ne aveva.

]]>
Sulle rotte del disincanto prattiano (e dintorni) https://www.carmillaonline.com/2017/06/09/sulle-rotte-del-disincanto-prattiano-e-dintorni/ Thu, 08 Jun 2017 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38449 di Gioacchino Toni

corto-maltese-0100Boris Battaglia, Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano, Armillaria edizioni, 2017, pp. 200, € 12,00

“Adesso”, “disincanto” e “ambiguità” sono le tre parole chiave con cui Boris Battaglia ci trascina in un affascinante viaggio critico attorno/insieme al personaggio di Corto Maltese creato da Hugo Pratt.

Il saggio parte, apparentemente, da lontano, tanto che si apre con alcune riflessioni sulla geometria euclidea utili allo studioso per sottolineare come i «personaggi dei fumetti non sono che figure geometriche le cui ‘relazioni spaziali’ con altre figure geometriche sono rappresentate nel sistema di riferimento [...]]]> di Gioacchino Toni

corto-maltese-0100Boris Battaglia, Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano, Armillaria edizioni, 2017, pp. 200, € 12,00

“Adesso”, “disincanto” e “ambiguità” sono le tre parole chiave con cui Boris Battaglia ci trascina in un affascinante viaggio critico attorno/insieme al personaggio di Corto Maltese creato da Hugo Pratt.

Il saggio parte, apparentemente, da lontano, tanto che si apre con alcune riflessioni sulla geometria euclidea utili allo studioso per sottolineare come i «personaggi dei fumetti non sono che figure geometriche le cui ‘relazioni spaziali’ con altre figure geometriche sono rappresentate nel sistema di riferimento cartesiano costituito dalla tavola» (p. 8). Visto che un sistema cartesiano è composto da un certo numero di rette ortogonali capaci di rappresentare il modello di realtà preso a riferimento e che al fumetto è concesso di rifarsi anche a realtà inesistenti, quando lo leggiamo «facciamo un esercizio di interpretazione di tutte queste n misure impossibili. In una storia a fumetti non ha particolare rilevanza chi fa cosa e dove la fa, ma quando la fa» (p. 9). Il fumetto, allora, sottolinea Battaglia, non è arte sequenziale ma potenzialità isometrica.

Riprendendo Umberto Eco (I limiti dell’interpretazione, 1990) che distingue tra mondi possibili, impossibili, concepibili ed inconcepibili, Battaglia trattiene per il suo studio la categoria dei mondi inconcepibili mirabilmente concretizzati a livello visivo dalle opere dell’olandese Maurits Cornelis Escher. Ebbene, nel fumetto «l’inconcepibile costruisce continuamente le coordinate della propria possibilità» (p. 10).

A differenza dei linguaggi verbali che non prescindono dalla linearità temporale, nel fumetto una vignetta si offre allo sguardo mostrando i segni tanto a livello spaziale che temporale nello stesso momento; nel fumetto «la mappa è il territorio» (p. 10). Nel fumetto, caratterizzato com’è dal “disordine probabilistico”, dalla mancanza di rigore sequenziale, non è per forza di cose il passato a determinare il futuro. A tal proposito Battaglia riprende le riflessioni di Ludwig Boltzmann (Fisica e probabilità) che vedono nel tempo una linea priva di direzione. «La direzione del tempo è dettata dal racconto che ne facciamo. Il fumetto potrebbe quindi essere un complesso sistema cartesiano di n ‘adesso’ organizzati arbitrariamente dall’autore/lettore» (p. 10).

Dunque, «anche quando una storia a fumetti è raccontata concatenando i suoi eventi in progressione lineare, non c’è nessun vincolo ineluttabile tra quegli eventi […] i segni e i fatti che la raccontano sono irreversibili, ma non c’è nulla di inevitabile nelle storie, né di temporalmente determinato» (pp. 14-15). E in Pratt, come mostra lo studioso, a volte, è il futuro a determinare il passato. «Parafrasando Godard: ogni storia a fumetti non ha un inizio, non ha un centro e non ha una fine, non necessariamente in quest’ordine. Ogni fumetto è un periplo» (p. 15).

Un periplo, dunque una circumnavigazione, ma anche una modalità scientifica di descrizione nautica e geografica che nulla ha a che vedere con la magia, il misticismo ed il romanticismo. È per questo motivo che Battaglia rifiuta l’idea di collocare Corto all’interno di categorie che hanno a che fare con il fantastico ed il romantico. «C’è tanto di immaginario, di ideale e di irrazionale, nell’opera di Pratt, ma non c’è nulla di romantico. Basterebbe leggerli, per rendersi conto che non è l’incantamento la ragione d’essere dei suoi fumetti» (p. 16). I fumetti di Pratt hanno a che fare, piuttosto, sottolinea Battaglia, con l’azione.

A questo punto lo studioso riprende le riflessioni del biologo libertario Henri Laborit in L’elogio della fuga (1976), ove si sostiene che l’unica ragion d’essere di una struttura vivente è essere, vivere. L’essere umano, a differenza di altri esseri viventi, quando si trova impedito all’azione, può rifugiarsi nell’immaginazione e ciò gli «permette, attraverso il moto di deriva della narrazione, di giungere ai limiti estremi di rottura della realtà senza muoversi dal proprio divano» (p. 17). Ed è questo che traspare, secondo Battaglia, dai fumetti di Pratt «persino quando i suoi protagonisti […] sembrano sospesi nei tempi morti delle attese e delle convalescenze, la retorica narrativa prattiana non ci permette mai di dimenticare che quel momento di pausa è possibile solo grazie alla sua causa prima: l’avventura. Accanto al pensiero c’è sempre l’azione» (p. 17).

Anche Corto, come Odisseo, fugge da una Calipso, così come ha la sua Penelope ma non vi è alcuna nostalgia che lo guida nelle diverse avventure; secondo Battaglia è lo stesso sistema narrativo del fumetto ad impedire cedimenti nostalgici. «La nostalgia è legata al senso di mancanza per qualcosa che se n’è andato o da cui si è andati via, collocato in un tempo precedente in cui si desidera tornare. Nel fumetto non esiste un tempo precedente e uno futuro, ma solo una più o meno lunga catena di adesso. Una storia è in continua evoluzione a seconda di come lo sguardo interpreta l’asse temporale» (pp. 115-116).

Viaggiatore, dunque straniero, estraneo, migrante, nemico, diverso, Corto non appartiene, per scelta, a nessuna comunità ed anche quando prova nostalgia non desidera alcun ritorno. «Fin dal suo primo apparire Corto Maltese si colloca in questa linea di ambiguità nomadica, caricata però di un’eccezionalità prometeica a sua volta così assolutamente ambigua da sconfinare in una normalità epimeteica. E sul mito di Prometeo e di Epimeteo ci torniamo per forza, appena cominciamo a parlare della Ballata del mare salato. La messa in crisi del discorso mitologico in Pratt è fondativa di tutta la sua opera» (pp. 21-22).

È da tali riflessioni che Battaglia giunge alle tre parole chiave indicate in apertura: “Adesso”, “disincanto” e “ambiguità”, ed è da queste che inizia il suo viaggio critico all’interno del mondo prattiano.

Il 1967 segna l’uscita di Una ballata del mare salato, si tratta di un momento importante per la storia del fumetto. Nata inizialmente come storia a sé, senza aver previsto una serie, il personaggio di Corto Maltese appare soltanto alla sesta tavola, quando sono già comparsi tutti gli altri personaggi principali, senza che il lettore conosca granché di lui, così come, a dire il vero, degli altri personaggi. Al momento in cui compare Corto questo ha la medesima rilevanza degli altri personaggi ma, sottolinea Battaglia, nelle cinque tavole precedenti si sono poste le basi per gli accadimenti futuri. «La storia si apre con una tavola intera in cui è riportata la lettera di un certo Raul Obregon Carrenza […], sedicente nipote di Cain Groovesnore, che sostiene di avere affidato all’autore i diari di suo zio affinché Pratt ne raccontasse la storia. Un espediente narrativo abusato, da Cervantes passando per Scott fino a Manzoni; solo che Pratt lo usa in modo assolutamente originale rispetto ai suoi modelli» (p. 52).

Qua il manoscritto serve all’autore per neutralizzarsi, per impedirsi commenti di carattere morale. Ciò che c’è da sapere è scritto in quella lettera; non vi sarà una voce narrante giudicante nelle tavole successive. Nel momento in cui la storia prende il via la voce narrante è quella dell’oceano, una voce indifferente.

La prima vignetta, quella in cui l’Oceano Pacifico comincia il suo racconto in prima persona, è costruita in modo da far coincidere il nostro sguardo con quello della voce narrante: guardiamo da lontano con la stessa indifferenza con cui il mare, prima in tempesta, ha spazzato isole e navi, e con cui ora accarezza in tranquillità la carena del catamarano che a quella tempesta è scampato. Guardiamo da lontano e ci sentiamo al sicuro, sia dalla tempesta, sia da qualsiasi responsabilità per ciò che accadrà. E ciò che accade è già nella seconda vignetta. Lo sguardo del mare, sulla cui direttrice ancora ci appoggiamo, ci mostra i marinai del catamarano che avvistano e recuperano un relitto con due naufraghi. Due giovani, maschio e femmina. Ancora vivi.
A questo punto scatta la trappola.
Neanche ce ne accorgiamo, quasi, ma nel giro delle ultime due vignette il nostro sguardo viene ribaltato nella semi-soggettiva del capitano Rasputin. Accompagnati dal movimento dei flutti ci ritroviamo alle sue spalle a guardare ciò che vede lui.
Quando, girata la pagina (nel fumetto è importantissimo il ritmo del girare le pagine), guardiamo la tavola successiva, è come se anche noi ci fossimo girati. Adesso siamo di fronte al capitano Rasputin. Diventiamo oggetto del suo sguardo, e della sua rabbia. La nave si è fermata per raccogliere i naufraghi senza un suo ordine, e questo lo ha fatto infuriare: per lui è una perdita di tempo. Invece, per noi lettori è l’inizio della storia, il motivo per cui non smetteremo di leggere (pp. 54-55).

Così, in poche tavole, lo sguardo del lettore da indifferente diviene implicato. «L’incontro tra il catamarano di Rasputin e la scialuppa dei naufraghi è necessario alla storia che l’Oceano ci sta raccontando. È il nostro sguardo, quindi, in buona sostanza, la causa di quanto accade» (p. 55).
Dunque, sottolinea lo studioso, Pratt in primo luogo ci presenta Rasputin definendo il suo carattere, la sua visione amorale in cui non vi è nulla di giusto ed ingiusto, è l’istinto a suggerire come agire in base all’utilità immediata. In secondo luogo Pratt conduce lo sguardo del lettore in una direzione desiderante; scopriamo ciò che lo sguardo di Rasputin desidera: Pandora Groovesnore.

armillaria_corto_boris_battaglia_cover_Circa i riferimenti al mito di cui è costellata la narrazione prattiana, sostiene lo studioso, occorre dire che esso «non interessa a Pratt in quanto forma definita e particolare di pensiero […] quanto piuttosto quale struttura articolata di organizzazione della casualità. In altre parole, quello che interessa a Pratt dei miti è la loro necessità narrativa, che si manifesta nel continuo tentativo di sottomettere l’hybris all’ethos al fine di dare ordine alla casualità delle vicende umane. Tutta la Ballata non è che la cronaca di questo tentativo reiterato» (p. 59).

Corto compare sulle tavole legato ad una struttura ad X, i rimandi al Cristo in croce ed al Prometo incatenato risultano palesi. «Cristologica vittima sacrificale, salva Pandora e viene salvato da Rasputin. L’eroe non salva la fanciulla in pericolo con un’azione mirabolante ma facendo mostra della propria impotenza» (p. 61). Se il fumetto d’avventura fino a questo momento ci presenta eroi che salvano il mondo, Corto non solo non salva il mondo ma non è nemmeno in grado di salvare se stesso, tanto che, nelle diverse storie, verrà salvato da altri in varie circostanze.

Interessante anche la scelta del nome che Pratt assegna al personaggio. Il nome Corto, secondo Battaglia, ha la medesima ambiguità del Nessuno omerico.

Corto è nessuno, quindi è tutti […] è contemporaneamente Abele, Prometeo e Cristo. Eppure, e qui sta l’ambiguità del personaggio, nonostante la costruzione iconica e l’uso di nomi pronti a farcelo pensare, Corto non è nessuno dei tre. Non può deciderlo. Pratt non glielo concede. Corto è continuamente in balia della narrazione, non la controlla mai; al limite può cercare di mettersi in disparte, ma spesso neppure questo gli è concesso. Non fa ma simboleggia delle possibilità, e in quanto vittima sacrificale e innocente – per quattro volte in qualche modo muore e risorge – non le esercita, le subisce.
Chi invece esercita continuamente opzioni sulla simmetria della narrazione (come causa scatenante, come tentatrice, come assassina, poi come innamorata e alla fine con la rinuncia) è Pandora. Potremmo dire che Pandora viene prometeizzata.
Il suo personaggio è il perno su cui Pratt fa ruotare il più radicale ribaltamento ideologico che mai sia stato realizzato nell’ordinata struttura del fumetto e della narrativa d’avventura (p. 62).

Dunque, secondo lo studioso, è attraverso Pandora che Pratt esplicita la volontà di sottrarre la narrazione alla funzione eroico-simbolica, tipica invece del fumetto italiano.

Pandora è il vettore di senso che permette l’articolazione del testo della Ballata. È attorno al suo corpo, e in particolare attorno al suo volto, che Pratt costruisce il campo figurativo che determina il racconto e l’esistenza degli altri personaggi. Il racconto è la trasformazione di Pandora, il suo personaggio è il luogo della coerenza logica della narrazione. La sua trasformazione grafica è continua, è il personaggio più instabile da questo punto di vista, perché questa instabilità […] è dosata da Pratt per mantenere l’analogia tra la rappresentazione grafica di Pandora e il suo carattere morale. La novità non sta nella trasformazione etica del personaggio, da rampolla viziata di una ricca famiglia a personaggio consapevole del proprio statuto narrativo, ma nel fatto che Pratt di questa consapevolezza ce ne dia certezza grafica usando proprio quella trasformazione grafica come motore delle trasformazioni narrative (p. 66).

In Una ballata del mare salato a compiere realmente il “viaggio dell’eroe” è lo sguardo del lettore.

Se nell’inverno del 1969 la rivista “Sgt. Kirk” pubblica l’ultima puntata della Ballata, storia nata non per aprire una serie, la svolta si ha nella primavera del 1970, quando sulla rivista francese “Pif Gadget” appare Il segreto di Tristan Bantam: con questo racconto Corto Maltese diviene un personaggio seriale. Secondo Battaglia se nella Ballata, la hybris di Corto riprende quella di Prometeo e Odisseo, in questo nuovo racconto viene fatto riferimento ad un personaggio storico. Mentre la Ballata si sviluppa in un tempo sospeso, mitico, ora le vicende vengono inserite all’interno di un tempo storico, che però Corto ha la facoltà di sospendere.

Con le storie brevi di Corto Maltese realizzate tra il 1970 e il 1973, Pratt esegue un’operazione sulla narrazione a fumetti che rivoluziona l’idea di avventura per come la si intendeva prima (e in Italia ancora oggi, purtroppo) nell’editoria a fumetti seriale, e – fatto molto più importante – quasi risolve il problema che toglieva il sonno a Sant’Agostino: la differenza fra il testo visto nella mente e il testo pronunciato dalla voce. In …E riparleremo dei gentiluomini di fortuna, dove la storia viene scandita dalle frasi scritte sulle carte dei quattro assi, Pratt dice una cosa che, come tutte le cose evidenti, è rivoluzionaria: il fumetto è guardare le figure e le parole (pp. 79-80).

È certamente l’ambiguità a farla da padrona in …E riparleremo dei gentiluomini di fortuna, visto che, evidenzia lo studioso, Pratt, oltre a giocare con l’ambiguità tra testo e parole, mantiene l’avventura in bilico tra storia e mito. Non a caso uno dei personaggi del racconto si chiama proprio Ambiguità. Nell’opera successiva, Per colpa di un gabbiano, nonostante il tempo mitico prenda decisamente il sopravvento sul tempo storico, l’ambiguità non accenna ad affievolirsi: la perdita di memoria di Corto lo rende «al contempo il personaggio Corto, per noi che leggiamo […] storicamente collocato, sia il prigioniero di Soledad Lokaarth […], novello Odisseo prigioniero di Calipso» (pp. 81-82).

[Ne La laguna dei bei sogni] il paradosso del ricordo giunge a compiutezza: ricordare qui significa morire. Però, non potendo far morire Corto Maltese, Pratt lo relega a meno che spettatore. Non è nemmeno presente mentre si svolgono i fatti. Toccherà al tenente Stuart affrontare la pazzia per recuperare il proprio passato e cambiare le conseguenze degli errori commessi, della propria vigliaccheria e della propria delusione d’amore. Se Corto aveva usato i funghi allucinogeni per ritrovare la memoria, patendo poi la delusione d’amore causata dalla fuga di Soledad, come nella Ballata l’addio di Pandora, il tenente Stuart entra nel delirio della febbre malarica per recuperare l’amore di Evelyn. Riuscendoci, perderà la memoria del presente e troverà conseguentemente la morte; perché, come afferma l’indio che l’ha assistito per tutto il tempo, “noi non abbiamo il diritto di cambiare l’ordine delle cose” (pp. 84-85).

Il tempo lineare ed irreversibile degli avvenimenti è fatto saltare e Pratt, grazie al fumetto, si permette di ripercorrere la linea temporale nella direzione che preferisce a piacimento.

Conquistato il successo in terra francese grazie alla pubblicazione di storie brevi, Pratt viene “arruolato” nel 1972 da “Linus” che inizialmente replica le storie pubblicate da “Pif”. Terminato il sodalizio con la rivista francese, Pratt accetta di realizzare per “Linus”, a partire dal 1974, il racconto Corte Sconta detta Arcana che si protrae, a cadenza variabile, addirittura fino all’estate del 1977.

Battaglia, nel soffermarsi sulla rivoluzione espressiva degli anni Settanta, si focalizza sull’uscita, nel 1975, della rivista francese “Metal Hurlant”, pubblicazione che, sovvertendo il fumetto classico, finisce con l’influenzare la generazione di giovani artisti italiani protagonisti della rivista “Cannibale” pubblicata a partire dall’estate del 1977. «Anche il fumetto popolare non sfugge a questa sovversione. La rivoluzione linguistica del decennio, unita alla rivoluzione tematica (e ideologica) di Pratt, che ha messo la disillusione al centro della sua poetica, reagiscono creando il terreno fertile per la nascita di due personaggi che non possiamo assolutamente trascurare per capire lo sviluppo stesso di Corto Maltese nel decennio successivo: Mister No e Lo Sconosciuto» (p. 121).

Mister No arriva in edicola nel 1975 ed il suo successo è dovuto al fatto che è il fumetto adatto all’epoca; il personaggio «coglie una richiesta del pubblico, soprattutto giovane, ancora inespressa ma che già era nell’aria. La necessità di uno spiraglio narrativo nella compressione ideologica e culturale di quegli anni. Prova ne sia che proprio l’anno dopo uno dei più grandi successi editoriali sarà Porci con le ali, in cui Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera mettevano in forma narrativa le istanze più diffuse della vita reale dei giovani del decennio. Invece, il maggior successo del 1979 sarà Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, in cui la formula narrativa prende addirittura il sopravvento sulla realtà» (p. 126).

Secondo Battaglia Mister No riesce ad inserire tematiche libertarie degli anni Settanta, liberate da un certo conformismo ideologico, innestandole su modalità narrative più classiche.

Dal 1975 al 1982 la narrazione di Mister No […] costruisce – incastrando in storie avventurosissime con una struttura tradizionale temi contestatari come l’antimilitarismo, l’antiautoritarismo, l’egualitarismo – una visione del mondo disincantata come quella prattiana, è vero, ma a differenza di questa molto più consolatoria […]
La grande riuscita poetica, e politica, del Mister No di quegli anni è questa precisa commistione tra piacere e dovere, mentre Corto il dovere lo rifugge. Nella lotta per l’utopia, godersela non è un peccato. E nonostante fosse solo un fumetto a raccontarci questa cosa, lo compravamo e lo leggevamo avidamente proprio per questo (p. 127).

Gli anni Ottanta si aprono con Altri libertini (1980) di Pier Vittorio Tondelli, un esempio di ricerca di una via alternativa ad una stagione, quella degli anni Settanta, ormai esaurita ma, sottolinea lo studioso, senza alcuna pretesa di tracciare una mappa. Se il libro di Tondelli testimonia la fine dello scontro frontale con cui prende il via il nuovo decennio, Mister No è ancora profondamente immerso nella realtà sociale del suo mondo; gli Altri libertini, invece, fuggono da quella realtà.

Sono arrivati gli anni Ottanta e con essi, inevitabilmente, anche Mister No inizia ad essere inattuale. Con il nuovo decennio il linguaggio inizia a ripiegare su se stesso tanto da giungere presto a diventare il luogo totalizzante dell’esperienza della verità ed è così che si arriva, nel 1986, a Dylan Dog «in cui è solo il linguaggio a raccontare sé. Nei fumetti di Sclavi il mondo diventa logos. Esclusivamente linguaggio. Ogni possibilità di verifica razionale della realtà come qualcosa che esiste al di là del linguaggio è abolita. L’unica esperienza possibile della verità per Sclavi è quella dell’appartenenza a un linguaggio, ma non del linguaggio che parliamo, bensì di quello che ci parla» (p. 131).

Con l’uscita nel 1982 della rivista “Orient Express” si giunge, secondo Battaglia, ad un punto nodale per comprendere quanto Pratt abbia influenzato il fumetto italiano. È sulle pagine di questa pubblicazione che compare Lo Sconosciuto: L’uomo che uccise Ernesto Che Guevara di Magnus.
In questo fumetto Magnus tende a concedere molto spazio al testo rispetto alle immagini;

Il primo passo verso l’abbandono del classico modo di realizzare fumetti è segnalato da Magnus mettendo da parte Lo Sconosciuto. Egli, pur con tutta la sua peculiarità, può ben simboleggiare l’eroe tipico del fumetto seriale e in questa avventura la sua presenza è poco più che marginale. Però, pur comunicandoci la sua intenzione di cambiare registro, Magnus non vuole rinnegare niente del proprio passato di fumettaro ed è la partecipazione alla storia – in un ruolo non principale, ma comunque chiave – di quella ragazza che Lo Sconosciuto aveva conosciuto a Marrakech, a testimoniarlo. L’esperienza precedente è servita a Magnus per arrivare a questo punto, che è solo la base per costruire una nuova opera (pp. 134-135).

Lo studioso si sofferma sul personaggio detto El Lugubre evidenziando come questo sia un uomo che vive di ricordi ed illusioni artificiali, ossia fuggendo nelle immagini ed il suo riscatto lo si ha nel momento in cui diviene consapevole della vacuità di queste. «Esse cominciano a vacillargli davanti agli occhi, a sfocarsi, finché El Lugubre le rifiuta completamente attraverso un gesto simbolico e liberatorio: strappa il manifestino (Bolivia no serà otra Cuba) dal muro. Da questo momento diviene un altro personaggio, non è più El Lugubre ma diventa il comandante Inti. Rifiutando le immagini comincia ad agire» (p. 135).

Se Mister No e Lo Sconosciuto riportano «l’ambigua forza dell’immagine, e dell’immaginazione, dalla confusione libertaria delle ‘storie a forma di farfalla’ nel canone della narrazione a fumetti classica. In questo canone ciò che ha la supremazia è la parola» (p.136), Pratt prende invece la strada opposta, quella che concede tutto lo spazio del senso alle immagini.

corto-maltese-001Nel 1980 Pratt pubblica la seconda parte di Fort Wheeling su “Metal Hurlant” e l’anno successivo prende il via la pubblicazione sul quotidiano francese “Le Matin” di La Giovinezza, storia incentrata sulla fuga. «Corto, Rasputin, Jack London sono personaggi liberati dalla necessità, propria di quasi tutti gli altri personaggi seriali, di avere illusioni. Per questo fuggono, ognuno a suo modo. Rasputin cambiando continuamente divisa; Corto lasciando continuamente Venezia, la sua Itaca; Jack London navigando sullo Snark e raggiungendo, in altri fumetti realizzati da altri, luoghi in cui in realtà non è mai stato. Cosa che nel fumetto si può» (p. 163).

Ne Le Elvetiche, avventura pubblicata nel 1987 sulla rivista “Corto Maltese”, secondo Battaglia non si tratta di «un’esoterica affermazione dell’immortalità del personaggio Corto, quanto una divertita […] demistificazione del concetto di ‘letteratura disegnata’. In fondo, quando esce questa storia, sono esattamente vent’anni che Pratt non fa altro che affermare, attraverso Corto, la superiorità narrativa dell’immagine rispetto alla parola» (pp. 173-174).

Siamo così giunti, con qualche inevitabile salto rispetto alla puntuale analisi proposta dal libro di Battaglia, a Mu la città perduta, ultima avventura di Corto realizzata tra il 1988 ed il 1991 e pubblicata a puntate sempre su “Corto Maltese”. «Mu è un esperimento complesso in cui Pratt tenta, riprendendo il discorso cominciato con Le Elvetiche, di realizzare con i suoi fumetti un testo filosofico e teorico in cui rimettere in discussione, attraverso la storia del proprio personaggio (col serrato sovrapporsi di tanti personaggi passati e di situazioni topiche dell’intera saga di Corto Maltese), quella di tutta l’ermeneutica occidentale a partire dalle idee di Platone. Ma come lo farebbe ogni rispettabile flâneur, divagando» (p. 180).

Concludendo il volume lo studioso auspica di essere riuscito nell’intento di dimostrare come in Corto non vi siano né desideri di ritorno, né nostalgie per luoghi o tempi perduti. «Corto non è un eroe romantico, non è una rilettura prometeica, perché l’eroe rifiuta di rassegnarsi a circostanze a cui è impossibile rimediare nonostante il coraggio e l’intelligenza; Corto è piuttosto un eroe rassegnato, il cui continuo desiderio di andare è frustrato dal fatto che, nel fumetto, non c’è alcun luogo dove andare perché il fumetto è una struttura fatta di attimi continuamente presenti» (p. 184).

]]>