meridione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 23 Apr 2025 19:20:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Decostruire e ricostruire il Mezzogiorno a partire da “Il rovescio della nazione” https://www.carmillaonline.com/2023/03/10/decostruire-e-ricostruire-il-mezzogiorno-a-partire-da-il-rovescio-della-nazione/ Fri, 10 Mar 2023 21:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76458 di Francesco Festa

Carmine Conelli, Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Tamu Edizioni, Napoli, 2023, pp. 237, € 15,20

C’è una nota affermazione di Jacques Derrida dove il pensatore francese sosteneva che nel parlare del margine in realtà parliamo del centro, ossia, tocchiamo il cuore del problema, anzi, decostruiamo il centro a partire dal suo margine, laddove questo, obliquamente, ci mette nella condizione di osservare il centro in tutta la sua limitatezza. Il libro di Carmine Conelli ci restituisce questo effetto, cioè, di parlare di un tema posto ai [...]]]> di Francesco Festa

Carmine Conelli, Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Tamu Edizioni, Napoli, 2023, pp. 237, € 15,20

C’è una nota affermazione di Jacques Derrida dove il pensatore francese sosteneva che nel parlare del margine in realtà parliamo del centro, ossia, tocchiamo il cuore del problema, anzi, decostruiamo il centro a partire dal suo margine, laddove questo, obliquamente, ci mette nella condizione di osservare il centro in tutta la sua limitatezza.
Il libro di Carmine Conelli ci restituisce questo effetto, cioè, di parlare di un tema posto ai margini, situato icasticamente alla periferia della storia, ciò nondimeno, così potente da essere la spina nel fianco di questa “nazione”, la cruna dell’ago da cui, chiunque si confronti con esso, debba giocoforza passare.

In effetti un libro che parli del Mezzogiorno d’Italia ha poche alternative: o è un libro scomodo, che punta dritto al cuore sferrando l’attacco dalle retrovie, da dove non ti aspetti e va a colpire un fianco aperto, oppure è un deja vu, qualcosa di già letto. Se è quest’ultima la china, il discorso procederà con le lamentele e le recriminazioni, sulla “questione meridionale”, su ciò che è stato fatto, o non fatto, i soldi investiti e quelli sperperati o spariti, quanto sia responsabilità della classe dirigente oppure sulla responsabilità della cultura dei meridionali. Un testo del genere condurrà il lettore al cul-de-sac dove sono esposte la responsabilità, l’assenza di senso civico e di cultura della modernità dei meridionali.

Il rovescio della nazione, per fortuna, fa piazza pulita di questi discorsi depotenzianti, dei cliché e degli stereotipi, anzi, se ne tiene ben distante. È un libro scomodo, innanzitutto, che partendo dal margine meridionale cerca di indagare su ciò che può essere un punto di vista autonomo, altro, sul Meridione. È stato volutamente scritto per una facile divulgazione, superando gli specialismi, tralasciando – a ragione – l’infrastruttura bibliografica che sorregge l’impianto teorico delle categorie in esso utilizzato e che ha lavorato, almeno negli ultimi venti anni, come una talpa per decostruire e ricostruire l’idea di Mezzogiorno.

Sbrogliata la matassa dei discorsi depotenzianti, nel libro si coglie una stratificazione bibliografica, composta di saggi, articoli e libri pregressi i cui echi sono percepibili solo da chi ne conosce i rimandi; infatti, al lettore comune Il rovescio della nazione appare come un’opera straordinariamente originale, poiché ne elude la genealogia.

Vale la pena però qui ripercorrere la stratificazione bibliografica e risalire a quanto nel “presente storico” del Meridione, per dirla con Marx, vi sia il frutto di un lavoro di rovesciamento di paradigma, ciò non solo per ripercorrere la genealogia de Il rovescio della nazione ma tutta l’opera di studiosi e di collettivi che negli ultimi vent’anni hanno lavorato per smontare il regime di verità costruito sul Meridione, segnalando il rimosso, il non detto, il forcluso della storia italiana, ciò che Miguel Mellino chiama l’“inconscio coloniale delle strutture del sentire nazionale”.

Occorre riandare agli anni Novata, all’avanzata del leghismo e all’emergere di una “questione settentrionale”, violentemente impostasi – e nei discorsi e nelle pratiche – contro la “questione meridionale”. Alla fine di quel decennio è incominciato a nascere come una sorta di revisionismo della storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia. La cifra stilistica di chi ne sosteneva movimenti culturali e politici ruotava sull’assunto che sotto i Borbone si stava meglio: Napoli capitale di un regno, la prima linea ferroviaria e le prime industrie erano al Sud, e via discorrendo, ignorando come tali primati corrispondessero solo ai capricci e agli interessi della casa reale e della borghesia proprietaria, la quale sotto il Regno Sabaudo cambiarono casacca garantendosi le medesime proprietà. I sostenitori di tali tesi si appoggiarono in seguito anche a libri, sempre di fattura revisionistica, scritti da giornalisti o presunti storici, con una debolezza disarmante di fonti storiografiche, ciò nondimeno ebbero una larghissima diffusione fra discount e autogrill. E gli effetti sono stati devastanti. Hanno suscitato un’eterogenesi di reazioni: da una parte, libri di taglio opposto ma dalla stessa fattura, dall’altra, in ambiti accademici, si sono intensificati gli studi a sostegno di tesi per lo più di matrice crociana e storicista, che hanno cercato di giustificare il processo unitario come necessario e ignorato sans phrase la “questione coloniale interna”, adoperando una categoria di Nicola Zitara. In altre parole, quelle reazioni hanno messo all’angolo all’interno della “costruzione della nazione” alcuni campi d’indagine afferenti al processo di unificazione e a quanto avvenuto a cavallo tra Otto e Novecento. Ne citiamo alcuni: il tema della colonialità, la struttura dell’accumulazione capitalistica, la politica delle differenze e i processi di razzializzazione. Tali temi forclusi si sono stratificati, non sono scomparsi, anzi, hanno continuano ad agire nel senso comune, tuttavia non sono stati studiati organicamente, se non affrontati sporadicamente da qualche studioso illuminato, ma in ogni caso sono rimasti dei temi isolati, assai poco introdotti negli studi sul Mezzogiorno, i quali sono rimasti ostaggio dell’economia politica, delle astratte cifre dei dati sugli indici di sviluppo o di differenza dalle province settentrionali.

Eppure qualcosa si stava muovendo alla fine degli anni Novanta. Una serie di ricerche, seppur con distinti approcci, andava dischiudendo tramite innovativi metodi di osservazione un altro modo di interpretare il Meridione d’Italia. Che potremmo leggere nella categoria di “pensiero meridiano”, dove “meridiano” addiviene a un altro sentire del Sud: una collocazione geografica quale incontro tra la terra e il mare, una collocazione di confine che simboleggia “la difficoltà di stare in un solo luogo”, la coesistenza di più “patrie” e, dunque, la garanzia di identità complesse e di riscatto da soffocanti campanilismi. Una volta rotta la gabbia della reductio ad unum e interpretato il Sud nella sua multiformità, l’esplosione di senso ha permesso nuove riflessioni sulla sua storia. Ne citiamo alcune: il processo di accumulazione originaria a cavallo fra Otto e Novecento che ha determinato, lungo il piano storico del capitalismo internazionale, la ricerca di nuovi spazi e nuove periferie da colonizzare, instaurando “politiche delle differenze”, cioè, politiche di inclusione differenziale a seconda della composizione lavorativa richiesta in particolare nelle province meridionali; il che, in decenni in cui infieriva il “romanzo antropologico” della scuola positivista, la razzializzazione quale dispositivo di controllo della popolazione e delle forze produttive è divenuto un modello di governo nel corso del Novecento, così a determinati rapporti di produzione è corrisposto un determinato ordine del discorso razzista.

In quest’ambito di studi una menzione particolare va fatta per “Meridiana”, una rivista nata all’interno dei dipartimenti di storia di alcune università meridionali, con la collaborazione anche di storici inglesi e americani. “Meridiana” ha certo gettato luce sul Mezzogiorno da altre prospettive. Innanzitutto, nella ricchezza e multiformità delle sue province, rifuggendo dalla tediosa “questione meridionale”, a causa della quale l’osservazione è stata curvata esclusivamente verso la dimensione dell’arretratezza, non solo economica e politica, ma anche sociale, civile e culturale, contrapponendo il Sud, nel suo complesso, al Nord prospero e progredito, centro reale della storia. “Meridiana” ha di fatto messo in dubbio il meridionalismo tradizionale come unica prospettiva possibile. Dello stesso tenore è il libro del 1999, Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d’Italia, curato dagli statunitensi Robert Lumley e Jonathan Morris, che affronta argomenti classici come l’economia del latifondo, la criminalità organizzata o la struttura del potere locale, e temi in quel tempo ancora insondati come, ad esempio, la nascita degli stereotipi sul Sud.

Nello stesso periodo, gli studi si sono intensificati e, soprattutto, si è andata arricchendo la cassetta degli attrezzi del pensiero meridiano. Passaggio fondamentale è stato il 1996, con l’uscita de Il pensiero meridiano del filosofo Franco Cassano, senza dubbio un attrezzo apripista per un punto di vista autonomo sul Meridione e sulla molteplicità dello stesso, rivalutando quelle caratteristiche del Sud, stigmatizzate dal meridionalismo classico e viste come patologie alla sua crescita e alla sua modernizzazione. Il pensiero meridiano muove da tre idee principali e promuove due metodi di azione. Partendo da una critica agli interventi imposti sul Sud, finalizzati a ridurre lo scarto con il Nord, ma che anziché agire da cura ne hanno aggravato le patologie – in certi casi le avrebbero persino create – e promosso il sottosviluppo, viene proposto come primo assunto un Sud soggetto di pensiero, che pensi da sé e per sé, capace di riconquistare la propria autonomia; per operare un’inversione di marcia la prima azione è quella di abbandonare la corsa allo sviluppo inteso come tecnicizzazione, industrializzazione e accumulo capitalistico, sviluppo che si è cercato di realizzare, senza successo, “prostituendo il territorio e l’ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni” e ricorrendo ad attività criminali, quando poi sono falliti metodi e forme legali. La seconda azione è aspirare a un diverso ideale di modernità e di sviluppo e creare questo ideale attingendo al proprio patrimonio culturale e al proprio deposito di risorse e valori, quelle risorse e quei valori che sono stati finora visti come “vincoli, limiti e vizi” dai sostenitori della modernità e che oggi esistono solo in forme disperse o malate.

Sono seguiti altri studi che hanno proseguito lo scavo inaugurato da Il pensiero meridiano tuttavia ognuno di essi ha dovuto confrontarsi col suo punto di vista sul Sud. In tal senso, come già fatto da Cassano, si può considerare l’utilizzo dell’“orientalismo” alla storia culturale italiana. Un concetto d’ispirazione gramsciana, elaborato poi da Edward Said negli anni Settanta per interpretare il rapporto Oriente/Occidente tramite la lente dell’egemonia culturale: il “materialismo geografico” che caratterizza i processi di accumulazione a seconda dei differenti contesti territoriali, visibile anche e soprattutto della rappresentazione culturale che la parte egemone costruisce sulla parte subalterna. Nel 1998 esce a cura di Jane Schneider, Italy’s ‘Southern Question’ Orientalism in One Country, un libro che raccoglie studi storici e antropologici, promosso da università statunitensi e indiscutibilmente debitore di Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente di Said. Un altro passo fondamentale è stato compiuto, sempre nel ’98, con la pubblicazione di Come il Meridione divenne una questione. Rappresentazione del Sud prima e dopo il ’48 di Marta Petrusewicz e a seguire da Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea di Mario Alcaro.

Importa sottolineare come il risultato più significativo conseguito da questo sforzo di pensiero, da queste ricerche, sia stata la critica all’usurata “questione meridionale” e di tutta quella corrente economico-politica che va sotto il nome di meridionalismo, ovvero la costante demolizione spietata del Sud attraverso una rappresentazione di varia natura e desolazione iniziata e sviluppata a partire dalla fine dell’Ottocento. In realtà, non si è trattato solo di fare i conti con la radice liberal-risorgimentale che ha alimentato il meridionalismo, tanto nella sua versione dorsiana-salveminiana quanto in quella marxista-togliattiana, bensì si tratta, ancor oggi, di individuare la classe politica – e della sinistra riformista e di quella centrista – sparsa anche al di fuori del Mezzogiorno, nella pubblica amministrazione, nelle burocrazie sindacali e di partito, nelle redazioni dei giornali e delle emittenti televisive, che continuano a riprodurre una opinione pubblica accidiosa, svolgendo un pensiero in continuità con quel meridionalismo “sviluppista” in cerca di interventi speciali, che ha in sé il paradigma dell’emergenzialismo, sostenuto da attività di studio e di ricerca, con consolidate risorse accademiche, i cui esiti sono assai caricaturali. La posta di quegli studi meridiani, invece, è stata ben più alta: aprire gli studi sul Sud, sottraendoli ai dati legati al Pil, all’economia politica, alle classifiche dei tassi di crescita, puntando ad altri ambiti: l’antropologia, la sociologia comparata, la storia delle idee, delle passioni comuni, dei desideri, dei movimenti, della comune apprensione del tempo e della natura, della psico-analisi della vita quotidiana, del senso comune e delle forme di rimozione collettiva.

Con gli anni duemila, la cassetta degli attrezzi meridiana si arricchisce notevolmente: appaiono in lingua italiana le traduzioni di alcuni saggi e articoli, in gran parte anglo-sassoni, che vanno sotto il nome di Postcolonial studies, Subaltern studies o anche più genericamente Cultural studies. Per lo più è materiale di studio svolto in riviste collettive indiane o della diaspora coloniale. Stuart Hall, Paul Gilroy, lo stesso Edward Said o gli storici Ranajit Guha e Dipesh Chakrabarty, e la filosofa Gayatri Chakravorty Spivak, sono alcuni riferimenti di questa corrente di studi, i cui strumenti interpretativi si mostrano subito utili, sia agli studi sul Meridione sia al dibattito del movimento noglobal (in quegli anni, in pieno fermento nella critica alla modernità capitalistica e al paradigma della globalizzazione neoliberista), infatti è dei primi anni duemila, un numero speciale della rivista DeriveApprodi, intitolato proprio Movimenti postcoloniali.

Di indubbia importanza, nella stratificazione che stiamo ripercorrendo, è l’originale lettura del pensiero di Gramsci offerta dai subaltern studies. Liberato dalle maglie imposte da Palmiro Togliatti, con la pubblicazione dei Quaderni del carcere nel 1948, Gramsci riacquista quella potenza interpretativa della realtà sociale. Le sue numerose categorie sono così diventate strumenti utili per leggere la produzione del mondo da parte del capitalismo, ma soprattutto leve per disarticolarlo. Oppure l’analisi dei “gruppi subalterni” o l’idea di “egemonia”; il campo dell’“ideologia” e della cultura oppure l’archivio dei “luoghi comuni” che è stato indagato approfonditamente da Gramsci in un rapporto di tensione con il marxismo classico e di abbandono delle semplificazioni del “riduzionismo” e dell’“economicismo”; le “società” o le “formazioni sociale”, ove si combinano in modi differenti istanze economiche, politiche, ideologiche, i costumi, le abitudini e le “tradizioni” nazionali.

A cavallo dei due secoli, Lidia Curti e, poi, il Centro Studi Postcoloniali e di Genere hanno svolto una funzione indispensabile per la traduzione e la diffusione a livello internazionale degli Studi Postcoloniali. Curti insieme a Iain Chambers ha curato il volume La questione postcoloniale nel 1997, da quella pubblicazione in poi vi è stato un crescendo di ricerche con sede presso l’università l’Orientale di Napoli, diffondendo conoscenza critica dei rapporti di sapere e di potere, decostruendo i processi di colonizzazione e subordinazione e focalizzando gli studi lungo la linea della disuguaglianza razziale e di genere. Lo sviluppo del pensiero di Chambers ha certo aperto la strada all’introduzione degli studi postcoloniali nelle ricerche sul Sud e sul Mediterraneo. Qualche anno fa, scriveva Chambers: “Smontare il Sud per permettere che un altro Sud possa emergere, significa cercare un’altra grammatica con cui narrare questo tempo-spazio costruito e costretto a ripetersi nello specchio di una subalternità costante. Insistere sul ruolo determinante del Sud nella riproduzione politica e culturale dell’egemonia del Nord, come parte integrante della sua riproduzione, significa già smantellare la gabbia”.

Emancipato dai fardelli del meridionalismo e arricchito da questi contributi, nel 2008, Franco Piperno cura il volume Vento del meriggio. Insorgenze urbane e postmodernità nel Mezzogiorno. In realtà, Piperno dà forma e parole a riflessioni prodotte un decennio prima in Elogio dello spirito pubblico meridionale: genius loci e individuo sociale, uscito nel 1997; infatti Vento del meriggio raccoglie saggi provenienti da luoghi posti in quel conflittuale margine in lotta contro i modelli di sviluppo capitalistico imposti dallo Stato e dai governi dell’epoca e in contrasto con i desideri delle comunità. Un libro corale che parla delle lotte meridionali e offre loro un apparato teorico. Ritroviamo le lotte contro il nucleare a Scanzano, le rivolte contro l’inceneritore di Acerra o quelle contro la discarica di Serre, per un altro modo di gestione della raccolta dei rifiuti in Campania e per la filosofia di “rifiuti zero”. Sono solo alcuni esempi di un’opera che si presenta come sintesi di pratiche e condotte riconducibili al pensiero meridiano.

Il paradigma meridiano, al giro di boa del 2010, è ormai maturo. Si porta dietro tanto materiale: svariati saggi e interventi, qui brevemente scorsi, e una riflessione complessivamente solida sul Sud, una cassetta degli attrezzi a cui collettivi, centri sociali e organizzazioni di movimento possono attingere. Infatti, la sistematizzazione di questo svariato materiale avviene in un ciclo di seminari, fra il 2011 e il 2013, promossi dall’esperienza di Orizzonti meridiani, una rete che collegava ricercatori ed esperienze militanti. I materiali sono raccolti in Briganti o emigranti: Sud e movimenti tra conricerca e studi subalterni, del 2014, un libro collettivo che getta uno sguardo sulla condizione del Meridione, interrogandone l’esistenza stessa, a partire da una comune, autonoma temporalità, dal sentimento del luogo e del movimento che ne costituisce la specificità. Sono esercizi di decostruzione delle vecchie categorie concettuali sulle quali per anni si è fondata la tradizionale “questione meridionale”: la coppia sviluppo/sottosviluppo, dispositivo di governo che attraversa tutta la storia del Mezzogiorno, sancendone la presunta “arretratezza”; i discorsi di inferiorizzazione, spesso esplicitamente razzisti, che hanno avuto ampia parte nella costruzione della subalternità del Sud; le retoriche dello stato d’eccezione e della perpetua “emergenza”. Allo stesso tempo, sondano le nuove pratiche del comune, della riappropriazione, degli esperimenti di welfare dal basso, che animano le lotte della società meridionale. In quelle pagine trova applicazione il “materialismo geografico”, vale a dire, Gramsci che incontra i Subaltern studies e le prospettive postcoloniali per definire una cartografia delle lotte, delle resistenze, delle insorgenze che, da Sud, tracciano un’alternativa altermoderna, oltre la crisi del modello lineare e omologante di sviluppo imposto dal neoliberismo.

Questa è la genealogia cui attinge Il rovescio della nazione. Ma l’importanza di questo volume, così come ogni ricerca accademica, è quella tensione costituente ad arricchire la bibliografia esistente con ulteriori elementi. Ne consideriamo uno qui, vale a dire la definizione di “colonialità” che Conelli prende in prestito dal sociologo peruviano, Anibal Quijano, il quale la utilizza per denominare lo scarto tra il fenomeno della colonizzazione, intesa come processo militare, politico e culturale limitato nel tempo e nello spazio, e quello della colonialidad che è invece la forma materiale del potere. Se il colonialismo è la pratica di conquista, assoggettamento e sfruttamento, la “colonialità” è molto più duratura e profonda come forma di potere, poiché si fonda sulla giustificazione del ruolo dei colonizzatori – per Quijano gli europei – in qualità di organizzatori razionali del mondo e portatori di un ordine superiore – che in quel caso era l’eurocentrismo. Va aggiunto poi quel surplus, direbbe Étienne Balibar, di differenziazione costituito dall’idea di razza, quale strumento di “codifica e naturalizzazione di presunte differenze biologiche”. A questo punto, Conelli ha in mano una lente assai potente per portare in evidenza la sottile “filigrana della colonialità” mostrando come essa abbia attraversano decenni e decenni giungendo fino all’oggi, mutando la sua finalità, da mera politica economica a stereotipo, insidiandosi nelle categorie del pensiero e nel senso comune, una lente che ci consente anche di scorgere chiaramente la colonialità impregnata nelle politiche dell’“autonomia differenziata” in via di realizzazione dal governo post-fascista. Se ne evince bene la portata nel passaggio qui accluso:

L’espansione coloniale incise fortemente su quel processo di formazione dell’identità nazionale che fino all’unificazione e con la guerra al brigantaggio era avvenuto proiettando su un’alterità «interna» il rovescio della modernità auspicata dalle élite. Esso ora si ridefiniva attraverso il contrasto con l’alterità delle popolazioni colonizzate, che consentiva di ridurre la differenza imperiale con gli altri paesi d’Europa e di riportare all’interno del discorso nazionale gli stessi meridionali. Ci troviamo ora al punto di incontro tra la logica della colonialità che abbiamo individuato nel processo di costruzione del Sud e il fenomeno coloniale in senso proprio. Utilizzare il filtro della colonialità per passare al setaccio il campo discorsivo dell’identità nazionale italiana significa porsi sulla linea di demarcazione esistente tra questione meridionale e questione coloniale, rendendone cristalline le sovrapposizioni e le rotture inaugurate nella sfera pubblica italiana a partire dal periodo risorgimentale (p. 95).

Gli echi di quel catalogo dell’“altro indesiderato” si sentono ancora, come un brusio a volte percepibile talaltre meno, eppure è lì, sullo sfondo: i meridionali, passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e senza cultura razionale, civica, ordinata. Il rovescio della nazione va oltre questo catalogo, anzi, a partire dai frammentari “criteri metodologici” del Quaderno XXV di Gramsci, si pone alcune domande sull’attualità dell’organizzazione dei subalterni. Focalizzando i limiti di esperienze di autorganizzazione negli anni Settanta a Napoli, si concentra su ciò che è l’autonomia di comportamenti delle classi subalterne, quelle “contro-condotte” com’ebbe a dire Michel Foucault, grazie alle quali si possono immaginare e consolidare delle pratiche costituenti. Da qui, Conelli ci mostra la violenza dello Stato e dei suoi lacchè intellettuali nel rapporto con la subalternità o con ciò che è indesiderabile, il che si manifesta in maniera icastica sui bambini, sui corpi inermi, e l’autore dedica ampie riflessioni alla vicenda di Ugo Russo, il quattordicenne ucciso da un carabiniere. Il consiglio, spesso, è di tornare ai classici, in effetti, Vincenzo Cuoco annottando punti sulla sconfitta della Rivoluzione napoletana del 1799, rammentava come “le genti de’ geni, de’ spiriti”, assai spesso sono “incapaci di cogliere le distinzioni”, “di comprendere la molteplicità della realtà effettiva” della diversità.

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Antimitologia del tema Mediterraneo https://www.carmillaonline.com/2018/05/11/antimitologia-del-tema-mediterraneo/ Thu, 10 May 2018 22:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45462 di Neil Novello

Francescomaria Tedesco, Mediterraneismo, Meltemi, 2017, pp. 195, 15.00 euro

Fin dal titolo dell’ultimo libro di Francescomaria Tedesco il lettore incontra una categoria, o meglio si trova dinanzi a un oggetto culturale, il Mediterraneo, osservato da un inedito angolo di visione, una mediterraneologia critica – giusto il duplice innesco dell’Introduzione – volta a rovesciare un paradigma, da un lato determinato da «approcci orientalizzanti», dall’altro da «concilianti visioni estetizzanti». Con il Nietzsche della seconda Inattuale, verrebbe quasi da sospettare che la lettura critica di Tedesco ambisca a cancellare un persistente sedimento ermeneutico, per così dire una vulgata antiquaria. Calabrese [...]]]> di Neil Novello

Francescomaria Tedesco, Mediterraneismo, Meltemi, 2017, pp. 195, 15.00 euro

Fin dal titolo dell’ultimo libro di Francescomaria Tedesco il lettore incontra una categoria, o meglio si trova dinanzi a un oggetto culturale, il Mediterraneo, osservato da un inedito angolo di visione, una mediterraneologia critica – giusto il duplice innesco dell’Introduzione – volta a rovesciare un paradigma, da un lato determinato da «approcci orientalizzanti», dall’altro da «concilianti visioni estetizzanti». Con il Nietzsche della seconda Inattuale, verrebbe quasi da sospettare che la lettura critica di Tedesco ambisca a cancellare un persistente sedimento ermeneutico, per così dire una vulgata antiquaria. Calabrese di origine, e vissuto in Calabria, ma emigrato in seguito in Toscana, Tedesco ha quindi vissuto e tuttora vive il Mediterraneo, e la mediterraneità, secondo due maniere, la prima endogena o propria a chi nasce in un luogo mediterraneo, la seconda esogena o di chi vive altrove ma continua a osservare la propria origine, continua accanitamente a pensare, soprattutto a ri-pensare propriamente il pensato culturale sul luogo della propria Bildung. Un doppio cervello e un doppio sentimento sono dunque in attività, il primo ragiona e costruisce un archivio di pensiero dominante, paradigmatico, il secondo lavora a decostruire, a rileggere, a rimeditare il pensato schiudendo il pensiero stesso ad altro orizzonte epistemologico.

Il pensiero antimeridiano è il sottotitolo dell’opera, qualcosa di paragonabile a una clavis hermeneutica in cui l’antimeridianismo incontra il mediterraneismo, incontra cioè proprio la vulgata, l’immagine dominante, lo stereotipo culturale, con una categoria di Gramsci, il senso comune. Ma il senso comune, appena cristallizzato, diviene senso culturale, in altri termini concorre a formare la cultura dominante, egemonica. Ne consegue di trovarsi dinanzi a un vero e proprio blocco del senso, o meglio il senso stesso è stato incanalato entro una prospettiva rovesciata, un imbuto dal quale risalire verso l’aperto della «decostruzione». Ciò tuttavia non vuole dire rovesciare l’asse del mondo, non vuole dire invertire le assiologie egemoniche (Nord/Sud, centro/periferia, Europa/Mediterraneo), essenzialmente vuole dire domandare al tema del Mediterraneo la sua autentica identità emancipando la stessa domanda da possibili derive astoriche, pregiudiziali o finanche metafisiche. Se è vero che la «stigmatizzazione dell’alterità mediterranea» – così scrive Tedesco – in parte tende a ricavare da un «giudizio assiologicamente negativo un elemento positivo», o meglio a esporre la «rivendicazione di una differenza positiva e contestativa», allora qui è in gioco non l’identità (che pure è l’essenza primaria del gioco dialettico e culturale) ma la sua lettura. Anzi, qui si tratta di imprimere al discorso una perentoria sterzata per affermare l’esigenza di una controlettura, poiché l’imperativo è intus legere, leggere cioè dentro o al di là di ogni sospettoso mito ideologico sul mediterraneismo. E ancora capire che una cosa è la complessità per così dire innominabile del Mediterraneo, un’altra è la nominabilità spesso forviante proprio della parola-cognizione mediterraneismo. La stella polare di Mediterraneismo, la pars construens del discorso è allora «invertire lo stigma», cioè provare a ragionare sullo «stereotipo» culturalista riportando il ragionamento stesso entro un alveo di ridefinizione culturale. La lettura di tipo mediterraneista, spesso non scevra, a livello di senso comune, da qualunquismo intellettuale, è un diffusa ideologia. Essa matura nella fondazione di un vero e proprio patrimonio culturale, se un patrimonio culturale è per esempio il fenomeno dell’«orientalizzazione interna», la mentalità entro il cui ingranaggio appare coinvolta l’identità del meridione in genere e della Calabria (in specie). Orientalizzare è un verbo dell’egemonia, un verbo dell’egemonia che egemonizza partendo proprio dall’intepretazione politica della lingua, della parola. La parola ‘orientalizzare’ pertanto è equiparabile a un organismo vivente, poiché adempie per l’appunto a una funzione di tipo (bio)politico, la funzione dell’egemone in relazione all’alterità. Essa è sempre il prodotto di uno sviluppo culturale, la costruzione a tappe di un immaginario collettivo, la cui prima pietra ritroviamo in un’altra parola, l’«esotizzazione» del Sud e la creazione politica della sua diversità. Nel libro di Tedesco vi è però da cogliere una dimensione controapologica. Mediterraneismo figura anche come j’accuse, poiché esso è il referto, se così si può dire, non soltanto di una realtà del pensiero, soprattutto di un pensiero della realtà, specie nella critica ad autori che nelle loro opere o iniziative culturali forniscono un’interpretazione – così scrive Tedesco – del «pensiero meridiano secondo una chiave che qui abbiamo trattato nei termini del mediterraneismo». In altre parole, rovesciare lo «stigma» potrà significare la caduta in una forra filosofica più insidiosa, affidarsi all’immagine dell’alterità o della diversità senza avvedersi di camminare entro il tracciato di un cosiddetto «mediterraneismo dell’alternativa». Per scansare tale deriva o da essa eventualmente emanciparsi, il pensiero meridiano dovrà allora rovesciarsi non tanto nel suo contrario formale quanto operare nella ricerca di un radicalmente nuovo contenuto di discorso. Qui si cerca un antidoto critico-culturale in grado di sovvertire l’«ipostatizzazione del Sud» neutralizzando in tale maniera l’effetto di anamorfismo artificiale causato dalle cosiddette «lenti deformanti» dell’orientalizzazione. Varrà allora intendere che lo spirito antimeridiano che filigrana il libro potrà essere spiegato nel quadro di una lettura ritrovata – come avrebbe scritto Benjamin – contropelo, a questo punto una controlettura non scevra da pericolose conseguenze epistemologiche, l’unica però foriera di vincenti euresi proprio nel campo della ridefinizione non solo nominale di quella cosa che è – al di là della sua dimensione marina – il Mediterraneo.

Ipostatizzare il Sud, questo è alla fine il mito resistente. Per capire ancora di più il fenomeno, anzi per affinare la teoria critica, Tedesco richiama a dialogo la categoria gramsciana di subalterno. In relazione al problema, le domande sono consequenziali: i «subalterni possono parlare?», «Essi possono conoscere forme di organizzazione politica?», «Che rapporto sussiste tra la subalternità e la coscienza di essa?». Le domande costituiscono la premessa generale a uno sviluppo del discorso, anzi a un superamento delle posizioni analizzate, per compiere uno scatto ulteriore, cioè valicare il confine orient-estetizzante o «lirico e poetico» per «discutere di quelle forze sociali che al Sud cercarono di dare corpo all’alternativa». In altre parole, con l’esempio di un Sud resistente e politico, provare a penetrare nell’organismo vivente del meridione rivelando finalmente un ingranaggio realmente diverso sia dall’immaginario collettivo sia dalla cosa-meridione, ora però dotata di un nome de-orientalizzato e de-estetizzato. Sulla falsariga di spontaneità e coscienza storica, la partita politica del subalterno in Calabria, cioè la lotta dei contadini per la conquista della terra nel decennio 1943-1953, alla fine costituisce un esempio storico teso a scardinare anche le metafisiche letture mediterraneistiche. A tale riguardo, Tedesco scrive:

Quello che interessa è segnalare come quelle rivendicazioni da parte dei contadini meridionali fossero la spia di una coscienza antica, legata a risalenti modalità di vivere il rapporto uomo-terra ben prima che la cultura comunista calasse dal Nord per capeggiare il movimento e guidare le rivolte attraverso un’opera di formazione della coscienza collettiva. E che quel movimento si saldò con rivendicazioni moderne che pretendevano di dar corpo al dettato costituzionale sulla funzione sociale della proprietà.

Chiarire dunque che i «protagonisti di quelle lotte erano in agitazione per la rivendicazione di antichi diritti», al discorso di Tedesco apporta in certa maniera un’autenticazione antimeridiana, o meglio figura il richiamo ad hoc di un evento – citato e spiegato nella sua grande importanza anche “civile” -, diviene cioè utile per rileggere in chiave antimediterraneista questa pagina storica del meridione e in specie della Calabria. Ricercare e trovare nell’esempio storico le ragioni che contraddicono normative linee di pensiero, spesso errori di valutazione culturale dei fenomeni sociali, se per il Meridione e la Calabria costituisce un sovvertimento di visione, anzi un rovesciamento di cognizione meridiana e mediterraneista, nel caso della cosiddetta Primavera araba, da un lato allarga l’orizzonte della tesi, dall’altro addiziona a esso e alla sua spiegazione specifica le «ragioni profonde di dissenso e malcontento che attraversavano da tempo la società in questione». Niente dunque di «mollemente adagiato, femmineo, passivo», «disposto a subire prono e inerte», e nessuna «massa informe relegata a un medioevo di oscurantismo anti-tecnologico, femminicida e liberticida», nel Mediterraneo si sono invece agitate (e ancora si agitano) società e culture mosse da una cosciente idealità e progettualità politica e culturale. Riportare l’esempio delle “primavere” riportando al centro del discorso il significato profondo dell’azione politica subalterna, dalla Libia alla Turchia alla Tunisia (con esempi, nel caso tunisino di Amina, anche eterodossi ma comunque riconducibili al tema dominante), in Mediterraneismo significa anche leggere fuori di mitologia fenomeni, casi, eventi, proteste da includere all’interno di un più ampio orizzonte, il risveglio sociale e culturale, soprattutto però, anche nel caso del risveglio, la comprensione – da parte dell’Occidente che guarda l’Oriente – non di un’identità criticabile, solamente, icasticamente di un’identità (non ascrivibile né rubricabile). Decostruire l’immaginario occidentale significa anzitutto cogliere questa identità, non assegnarne una, non falsificarla costruendo un simulacro culturale.

Sotto tale profilo, la lingua del mediterraneismo e della visione mediterraneista, tra le letture mitologiche e adulterate, nella doppia distinzione di stigma dell’arretratezza e stigma dell’alternativa e del riscatto, nello studio di Tedesco riguardano anche alcune merci librarie come l’orientalizzante Terroni di Giancarlo De Cataldo o una merce cine-televisiva come Il capo dei capi, senza dimenticare un cult iper-mediterraneista come Anime nere, il libro (di Gioacchino Criaco) e il film (di Francesco Munzi), entrambi, anche se a diversi livelli di profondità (e anche di dolo), esiti di una spaventosa e desolante falsificazione culturale. La lettura critica (non antiquaria), la decostruzione del senso comune, la lettura contropelo di questa storia mediterraneista, nel segno ideale di Nietzsche, Gramsci e Benjamin, che segretamente popolano il libro di Tedesco, esibiscono allora una funzione di grimaldello culturale. Mediterraneismo si qualifica pertanto entro il quadro di un’immagine aurorale, insieme un segnavia del pensiero contemporaneo sul Mediterraneo e forse già la costruzione (a futura memoria e uso) di un’eredità culturale.

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Cronache da un Campo di Battaglia, Romanzo di Filippo Violi https://www.carmillaonline.com/2015/08/26/cronache-da-un-campo-di-battaglia-romanzo-di-filippo-violi/ Tue, 25 Aug 2015 22:00:04 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24507 di Fabrizio Lorusso

cronachedauncampodabattagliaFilippo Violi, Cronache da un campo di battaglia, Imprimatur, 2015, € 15 (12,75 on line), pp. 236.

Qual è il nostro campo di battaglia quotidiano? L’ufficio, la casa, la strada, la pubblica amministrazione, la privata fabbrica, un romanzo, il nostro ruolo nel mondo. Che vestito indossiamo nella società? Il soggetto che ci è dato interpretare, assoggettato all’ideologia dominante e ai bisogni vitali, sempre più difficili da soddisfare. Catturiamo veramente quel che sta succedendo intorno a noi? Siamo granelli in balia dello sciabordio burocratico, oggetti ed effetti del mercato incontrollato, ingranaggi e carne [...]]]> di Fabrizio Lorusso

cronachedauncampodabattagliaFilippo Violi, Cronache da un campo di battaglia, Imprimatur, 2015, € 15 (12,75 on line), pp. 236.

Qual è il nostro campo di battaglia quotidiano? L’ufficio, la casa, la strada, la pubblica amministrazione, la privata fabbrica, un romanzo, il nostro ruolo nel mondo. Che vestito indossiamo nella società? Il soggetto che ci è dato interpretare, assoggettato all’ideologia dominante e ai bisogni vitali, sempre più difficili da soddisfare. Catturiamo veramente quel che sta succedendo intorno a noi? Siamo granelli in balia dello sciabordio burocratico, oggetti ed effetti del mercato incontrollato, ingranaggi e carne da cannone del capitale globalizzato. Che poi è una massa magmatica i cui fumi finanziari s’espandono verso l’alto, ingigantiti, senza più relazione con la Terra, e ci annebbiano la vista, mentre il substrato reale e produttivo del sistema giace come carbone spento sul fondale della storia. Cronache da un campo di battaglia, romanzo realista e visionario dell’autore calabrese Filippo Violi, è un delirio cosciente e accattivante, così efficace da far rabbrividire.

Sembra finzione, ma non lo è, anzi a tratti il testo diventa un deciso strumento di controinformazione e giornalismo narrativo. Le parole scorrono sotto gli occhi, pungolano gli angoli reconditi della scatolona cranica e turbano le nostre poche certezze in modo febbrile e necessario: è la presa di coscienza che fa male, un risveglio per alcuni, una follia per altri ma pure uno stimolo a costruire alternative per una minoranza agguerrita e non rassegnata.

Le allucinazioni e le suggestioni di un ufficio e di una regione, la Calabria, intesa come specchio ed anticipazione delle dinamiche italiane e continentali, se non proprio di quelle mondiali, giorno dopo giorno interessano l’autore e i suoi pochi compagni di viaggio della resistenza, “la guerriglia”. I sopravvissuti alla lobotomizzazione burocratica, all’omologazione al ribasso dell’uomo.

“La guerriglia è quell’essere estraneo che interviene per rompere il guscio e minare i campi dove risiedono le solide certezze. E’ quel corpo autoimmune che mortifica la vile eloquenza che spesse volte si tramuta in tracotanza, sempre al servizio del governo. E’ il rompere i muri imbrattati di odio e vendetta, costruiti negli artifici ricorrenti del potere. In quelle stanze perpetue, in quei corridoi, in quelle strettoie lunghe e perpetue che sembrano piste da bowling, beatamente asfittiche e ammuffite da continue ombre di passo”.

Grazie alle riflessioni che i “guerriglieri”, compagni di sventure e di lotte contro ogni accezione degenere di burocrazia e privilegio, stendono su carta, può prendere forma un diario di bordo, un giornale che è cronaca e verità ansimante, perché clama a gran voce e si libera dalla carta per trasformarsi in una denuncia, in un veicolo di idee e in uno sfogo, preciso e utile, di pensieri rivoluzionari e paradossi. Fillì de Viol, detto Flix, subcomandante dell’esercito di liberazione burocratica è uno zapatista della punta dello stivale, dal Chiapas a Cirò Marina, e poi ci sono la precaria ed emancipata Franziska la Grec, alias “la volpe bionda”, Pascal le Cicales, detto il “Cica”. “La voglia fissa dei loro sguardi cattura i cervelli e li sbriciola facendoli diventare polvere da sparo”, sintetizza l’autore. Infine, da fuori, alla banda s’unisce spiritualmente e come mentore anche il saggio Generale Pixon, col suo avamposto dal fortino della torre di Sicilia (RC).

Le Cronache spaziano abilmente dal quotidiano navigare dei protagonisti nell’oceano delle corruttele e delle miserie umane, condensate nel “magna magna” di funzionari e di enti provinciali ormai catatonici e depennati, ai flussi globali di droghe, persone e denari e alle guerre mediorientali e nordafricane, così vicine geograficamente e nelle loro logiche intrinseche all’Italia profonda, barcollante e litigiosa rivelata dall’autore. Dal locale si passa al globale con disinvoltura, le vicende della vita sono un pretesto per allargare lo zoom e rivelarci realtà che crediamo lontane ma che ci riguardano, sempre, costantemente. E cosa sono tante città, persone, diritti e territori italiani se non campanili medievali e puntini nello spazio, sbalzati nella postmodernità 2.0 e fermi in balia della svendita coi primi saldi e dei marasmi neoliberisti?

L’approccio anche antropologico, oltre che narrativo e giornalistico, delle Cronache di Violi, prova a renderlo noto, con un linguaggio schietto e originale, al suo pubblico di lettori, alla comunità immaginata che, si spera, possa unire le sue forze per ridisegnare un futuro che, al momento, appare stagnante, becero, ignorante e incapace di biforcare il presente decadente verso cammini più umani e solidali. L’etnografia dolorosa, a tratti ironica e tragicomica, della burocrazia calabrese e italiana rappresenta un affresco dei nostri difetti come persone e società e, nonostante la vena critica e pessimista sulla realtà e sulla storia recente, il romanzo non manca di aprire scorci di resistenza e creativi immaginari che, costruiti mattoncino dopo mattoncino da un’avanguardia cosciente, possono senza dubbio sfidare lo status quo e fungere da esempio.

“Un romanzo surreale e iperrealista allo stesso tempo, un 1984 moderno i cui protagonisti sono costretti a operare come ingranaggi di una macchina burocratica che inghiotte e divora denaro pubblico. Una scrittura ironica e pungente, capace di illuminare tratti reali della nostra società”, recita la quarta di copertina.

Sullo sfondo dello sfascio italiano ed europeo com’è possibile restare a galla? Il gommone è già affondato? Da Atene a Crotone, dalla Cina ai palazzi romani, dalle placide e decrepite decrescite mediterranee all’austerity tedesca, basata sullo sfruttamento del lavoro, tutto indica che così è. Lo sprofondamento è lento, ma è cominciato due o tre decenni fa, dunque boccheggiamo. La sconfitta del lavoro sui profitti, spezzettati in assetti diffusi e incomprensibili, si riflette nel ricatto della precarietà, nella tendenza allo svilimento sociale collettivo e nell’abbassamento di aspettative e speranze, di salari ed emozioni.

Nel testo, a sorpresa, emergono spunti e informazioni per ritornare sulla storia della mafia e della ‘ndrangheta e sui loro legami con la politica, sulle vicende e i personaggi, sugli dei e i semidei, della politica italiana, sulla malasanità e lo smantellamento del welfare, già in fase avanzata nel Meridione, sul lavoro e la geopolitica italo-euro-galattica e sui movimenti, come la Pantera, che hanno segnato profondamente l’esperienza del Filippo Violi universitario fuori sede a Bologna. Nel frattempo, nel nuovo millennio, da dipendente pubblico, rende testimonianza e denuncia le operazioni militari di stormi di avvoltoi, consulenti, progettisti e aspiranti politici che sorvolano le casse statali, regionali e provinciali per disossare il malato semidecomposto:

“Se guardi le loro facce raramente troverai un sorriso, sembrano pieni di preoccupazioni e di paure, di dolore e sofferenza. Sanno nascondersi bene dietro l’apparente tristezza. Hanno la testa grande. Enorme. Piena. Di favole e certezze. Salvo poi metterla beatamente sotto terra come gli struzzi. E poi svolazzano come i pavoni nel grande circo della carriera individuale. Hanno i gomiti consumati a furia di spingere, hanno le piaghe ai piedi a furia di strisciare e se gli offri un cielo stellato da guardare ti chiedono: ‘Cos’è?’”.

L’intreccio di storia, antropologia, narrazione pura, cronaca, flusso di coscienza, diario di viaggio e giornalismo fa delle Cronache da un campo di battaglia un’opera ibrida, inquietante e acuta, attenta e fruibile: questa cronaca guerreggiata e studiata su più fronti non può far altro che instillare gocce e poi fiotti di comprensione e, con esse, barlumi di lotta, tattiche e strategie per compagni di viaggio e di battaglia.

Leggi QUI la sinossi e la intro del libro.

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Orientalismo all’italiana. Una genealogia del razzismo antimeridionale al tempo della crisi – II parte https://www.carmillaonline.com/2013/07/01/orientalismo-allitaliana-una-genealogia-del-razzismo-antimeridionale-al-tempo-della-crisi-ii-parte/ Mon, 01 Jul 2013 21:45:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6850 di Francesco Festa cyopekaf_2009_10-785x588

La prima parte è stata pubblicata qui

…la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo. F. De André, Un giudice

4. Tentiamo di applicare quanto fin qui detto al caso del Mezzogiorno italiano. Occorre anzitutto superare la boa di quei “discorsi biologico-razzisti” incarnati negli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo [...]]]> di Francesco Festa cyopekaf_2009_10-785x588

La prima parte è stata pubblicata qui

…la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo,
fino a dire che un nano è una carogna di sicuro,
perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo.
F. De André, Un giudice

4. Tentiamo di applicare quanto fin qui detto al caso del Mezzogiorno italiano. Occorre anzitutto superare la boa di quei “discorsi biologico-razzisti” incarnati negli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo allievo Alfredo Niceforo. Entrambi situavano la differenza psicologica tra i caratteri delle popolazioni italiane in “due razze”: una del Nord e una del Sud, gli “arii” e i “mediterranei”. La “decadenza” dell’Italia era causata da questa differenza razziale. Dunque la società meridionale non poteva che essere “atavica”, incline al “delitto passionale”, al brigantaggio, alla mafia, alla camorra, ovvero quelle tipiche forme di “delinquenza selvaggia e primitiva”. Invece il carattere antropologico faceva loro buon gioco per la spiegazione del perché nel Sud non esistesse “un’organizzazione del partito socialista”: i mediterranei erano profondamente individualisti, mentre nell’Italia settentrionale, il senso civico e il “sentimento di organizzazione sociale” della “razza degli arii” consentivano il radicamento socialista (Petraccone 2000, pp. 166-173).

A fondamento dei “discorsi biologico-razzisti” vi è una logica dicotomica e binaria dell’orientalismo, che potrebbe essere archiviata dentro una stagione specifica della storia italiana: l’Ottocento delle nazioni e dei nazionalismi, l’Ottocento del “razzismo teorico” che nei crani dei sardi scoprì un “enorme numero di anomalie” e nel teschio del lucano Giovanni Passannante, la ragione della sua anarchia e le cause dell’attentato a Umberto I. Eppure la scorciatoia dell’orientalismo e delle letture pregiudiziali se non apertamente razzistiche è un’opportunità sempre facile da percorrere, fatta di interpretazioni lineari, dicotomiche rappresentazioni dove alla devianza si frappone la normalità, al passatismo la modernità, al sottosviluppo lo sviluppo, dove la bilancia pende su uno dei due termini o a causa del contesto storico e geografico che condiziona la psicologia, comportamenti e condotte di coloro che lo vivono oppure è lo stigma di stratificazioni storiche tradotte in un pot-pourri di osservazioni scontate, di descrizioni paesaggistiche vecchie addirittura di secoli, di luoghi comuni più volte lavorati. «Gli abitanti dell’Italia settentrionale sarebbero profondamente diversi da quelli dell’Italia meridionale» non è l’affermazione di Giuseppe Sergi, antropologo e autore, nel 1900,  de La decadenza delle nazioni latine, bensì del filosofo Gianfranco Miglio, anche noto come l’“ideologo della Lega”: «I primi avrebbero il senso della società, della collettività, dell’interesse pubblico; i secondi, come le altre popolazioni del Mediterraneo, sarebbero individualisti, privi di senso civico, tenderebbero all’ozio. Convinto di tali diversità – osserva Vito Teti – già segnalate dai positivisti, Miglio, come dichiara a molti giornalisti […] è impegnato in un’opera di preparazione e scrittura della Costituzione delle popolazioni dell’Italia meridionale, adatta al loro temperamento e alle loro caratteristiche culturali» (Teti 2011, p. 14). “El profesùr” lombardo esternava queste idee senza alcuna distanza dai positivisti di fine Ottocento, peraltro trovando attento riscontro in molti giornalisti e opinionisti che hanno diffuso il suo credo senza alcun commento critico. Insomma siamo di fronte a un “passato che non passa”? Oppure, con più disincanto, abbiamo a che fare con quell’intreccio di saperi e poteri di cui è composto l’orientalismo come strumento sempre pronto per il controllo e il dominio delle popolazioni.

Qui non c’è alcuna difesa d’ufficio verso una causa meridionalistica, quanto piuttosto l’indagine di cosa si nasconda dietro questo archivio di rappresentazioni corroborate da studi pluridecorati quando non prodotti di inchieste o scoop di noti giornalisti. Se volgiamo lo sguardo agli anni Cinquanta del secolo scorso, possiamo incrociare alcune ricerche finanziate dall’Università di Harvard sull’arretratezza del Sud d’Italia. Una strana attenzione verso una regione d’Europa che desta non pochi sospetti sulle ragioni che muovono gli allievi del sociologo Talcott Parsons a condurre lunghi periodi di ricerca in sperduti paesini dell’entroterra contadino del Mezzogiorno. Lo struttural-funzionalismo fu l’approccio metodologico: vale a dire, l’individuazione della struttura di fondo della società, mostrando le funzioni assolte dalle sue parti. Nel 1958 Edward Banfield diede alle stampe The Moral Basic of a Backward Society, una ricerca condotta a Chiaromonte, un paesino della Basilicata, in cui propose l’ipotesi di una diretta connessione tra il sottosviluppo economico (secondo misure relative all’incapacità industriale, alla produttività lavorativa e agli standard di vita) e la propensione degli abitanti all’associazione, alla cooperazione e all’azione coordinata per il bene comune. Da questa miscela di dati formulò il celebre concetto del “familismo amorale”, ovvero l’assenza di un etica pubblica in luogo di una difesa di interessi particolaristici o prosaicamente familistici, per «massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo» (Banfield 1958, p. 83). La ricezione di questo studio nella classe dirigente americana fu dirompente: in piena guerra fredda, regioni sottosviluppate, dove la riforma del latifondo aveva sì dato la terra ai contadini, ma senza il necessario capitale fisso per lavorarla, significava lasciare una prateria nelle mani del Partito comunista. La visione meccanica del rapporto tra campi di enunciazione e pratiche di potere riproduce quindi quella retorica paternalistica quando non dicotomica dell’Occidente che per costruire un impero e per realizzarlo, necessita «dell’idea di avere un impero» (Said 1993, p. 36), convinta di essere la parte “buona”, il nord, che protegge la parte debole, “cattiva”, il sud, invadendola della propria idea di sviluppo e civiltà. La compenetrazione del sapere scientifico – infarcito di abbondanti stereotipi e luoghi comuni – con il potere suscita gli effetti desiderati: «La morale di base di una società arretrata di Banfield ha contribuito a convincere i circoli politici nell’America della guerra fredda dell’urgenza di sviluppare e così trasformare l’Italia meridionale» (Schneider 1998, p. 6).

cyopekaf_2010_02-785x588 Quindici anni dopo, nel 1993, un altro scienziato politico americano sempre dell’Università di Harvard, Robert D. Putman, produce una nuova ricerca per interpretare l’arretratezza del Sud d’Italia, Making Democracy Work; Civic Traditions in Modern Italy. Le fonti dello studio sono le osservazioni delle “performance” di sei amministrazioni regionali distribuite su tutta la penisola. Indubbiamente il lavoro di Putman è molto più poderoso, sistematico e comprensivo del suo predecessore; muove da una sostanziale opposizione tra Nord e Sud della penisola; nei governi regionali del Nord riscontra una considerevole abilità all’esecutività e all’implementazione politica rispetto ai governi del Sud, localizzando l’efficienza dei primi in una “tradizione civica” risalente alla storia dei comuni che “da Roma alle Alpi” ne ha segnato il Medio Evo, mentre l’arretratezza dei secondi alligna sempre in quell’epoca e dai secoli successivi contraddistinti da regimi feudali e assolutistici (Putman 1993, p. 123). Il drastico contrasto e la genesi del dualismo fanno leva proprio sul dispositivo binario: un set di suggestioni dove il concetto di “collaborazione orizzontale” collima con quello di “verticalismo gerarchico”. Alla pari della stessa lettura storica, polarizzata su una struttura essenzialista: «dall’inizio del XIV secolo, l’Italia ha prodotto due» (e solo due!) differenti «modelli di governo», due differenti «stili di vita». Con schema adamantino, Putman fa piazza pulita di sette secoli: «Nel Nord, il popolo erano cittadini; nel Sud erano sudditi […] nel Nord la determinante sociale, politica e perfino la lealtà religiosa e le relazioni erano orizzontali, mentre quelle nel Sud erano verticali. Collaborazione, mutua assistenza, obbligazioni civiche […] erano distinguibili caratteristiche nel Nord. La principale virtù nel Sud, per contrasto, era l’imposizione della gerarchia e dell’ordine su una latente anarchia» (Ivi, p. 130). Vale la pena seguire Putman poiché è un sano esercizio di osservazione non tanto dell’assemblaggio quanto della cristallizzazione storica di uno stereotipo, della «stessa modalità con cui il capitale costruisce la sua Storia» (Mezzadra 2008, p. 37): «essa mobilita la massa dei fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto» (Benjamin 1997, p. 80). Qualche secolo dopo, al collasso delle repubbliche comunali e la loro rifeudalizzazione, il Nord anche soccombe al cattivo governo. «Nondimeno, nel Nord erede della tradizione comunale, i regnanti non governavano con autorità ma accettando le responsabilità civiche», invece nel Sud, gli spagnoli, gli Asburgo e i Borbone, «sistematicamente promossero il conflitto tra i loro sudditi, distruggendo le reti di solidarietà con lo scopo di mantenere il verticalismo monarchico, la dipendenza e lo sfruttamento». Alla prova dell’unificazione italiana, il Nord avrebbe giovato di questo lascito, a conferma delle tesi di Putman, la sua industrializzazione è stata il prodotto delle “pratiche di reciprocità”, del “pragmatismo”, della “cooperazione”, della “mutua assistenza”, dell’«associazionismo nel rafforzamento della loro cultura civica». Insomma di tutto quel serbatoio civico custodito per secoli e che al momento giusto aveva dato le proprie fortune. Al contrario, al Sud, dove le “reti di patronato e di clientela” persistevano “come primarie strutture di potere” perfino dopo “la comparsa dei partiti di massa”, i cittadini vivono «l’antica cultura della diffidenza e l’assenza di pratiche di mutua assistenza contrastano i progetti di sviluppo economico, malgrado questi vengano finanziati» (Putman 1993, pp. 135-6).

Dinanzi al linguaggio dicotomico ed essenzialista è buona regola scavare più a fondo indagando il contesto da cui proviene. In questo caso l’orientalismo non lascia attenuanti se non la continuazione di un contesto egemonico e dominante. D’altronde, negli anni di Making Democracy Work; Civic Traditions in Modern Italy, l’attività regionale era oggetto di attenzione per l’introduzione di misure finanziarie internazioni, così che lo studio di Putman diviene sapere a disposizione di “policy-making circles” di vari governi, tanto italiani ed europei quanto americani, e probabilmente anche di agenzie finanziarie internazionali (Tarrow 1996, p. 389; Schneider 1998, p. 7). Senza dubbio, in questa ricerca sociologica va intravista la situazione presente in Italia, il peso politico dell’Italia nel rapporto con gli altri paesi europei, in anni cruciali per l’integrazione monetaria, e innanzitutto le relazioni Europa – Stati Uniti dinanzi alla prova dell’euro contro il dollaro. Il libro di Putman s’inscrive appunto in questo quadro internazionale tanto articolato quanto difforme negli equilibri economici e politici. I ministri delle finanze dei paesi del Nord d’Europa, diffidenti verso l’area mediterranea, dubitavano della stabilità del governo italiano e della sua capacità di abbassare il debito pubblico. Il refrain di tale pessimismo veniva segnalato proprio dal “New York Times” nel 1996: La divisione Nord-Sud in Italia, un problema anche per l’Europa, titolava un articolo del 1996. La corrispondente Celestine Bolen faceva riferimento alla divisione tra il ricco Nord e il passivo e dipendente Sud, come “conseguenza dell’unità italiana”, mettendo in guardia che la rottura era nell’aria “per l’Italia intera”, nel momento in cui quest’ultima avesse tentato “di mettere in ordine i suoi bilanci finanziari” e di entrare a far parte dell’unione monetaria europea (Ivi, p. 8).

Si badi che l’orientalismo è una scorciatoia imboccata con estrema facilità anche da ricercatori e giornalisti navigati. Anche in Italia ci sono degli esempi celebri. Giorgio Bocca, già nel 1990, non esitò a partire lancia in resta contro le regioni meridionali infestate dalle mafie: la divaricazione tra Nord e Sud dei risultati elettorali, spinse il giornalista dell’Espresso a ricondurre le cause alla classe politica trasformista e corrotta, con radici ben solide nella società meridionale, incapace di comprendere il senso della modernità, ma pronta a concedere tutto al proprio pessimo elettorato in cambio di sostegno. Soltanto il titolo del libro, L’Inferno, è saturo di allusioni storiche, rinviando al più famoso adagio, ripreso da Benedetto Croce nel 1923, che ricordava come il Mezzogiorno fosse sì un paradiso, ma popolato da diavoli. A suo dire, Bocca non ha alcuna intenzione di mostrare un atteggiamento antimeridionale o addirittura razzista, anche se la sua inchiesta sul Mezzogiorno è pregna di descrizioni scontate, di cliché, di descrizioni paesaggistiche vecchie di secoli. Insomma tutti stereotipi per sostenere la tesi che la tradizionale classe politica, delegittimata al Nord, al Sud invece aveva ancora acqua in cui nuotare e riprodurre il proprio consenso; e allo stesso tempo, il giornalista navigato voleva riscuotere un senso di indipendenza nel suo giudizio, nonché essere leva morale per risvegliare la società meridionale e “scardinare un sistema politico foriero di tante nequizie” (De Francesco 2012, p. 225). Ritorna nuovamente quella dimensione dicotomica e binaria già osservata in Putman e Banfield: da una parte, gli onesti, i buoni, i capaci, coloro che sono proiettati verso la modernità; dall’altra, le nequizie,  la cattiveria, l’inettitudine; e in questa dialettica, la funzione responsabile dei primi, gli unici in grado di traghettare i diavoli verso il paradiso.

Nondimeno, nell’auspicio che da Nord giungesse a Sud una nuova resistenza, che il secessionismo nordista alleato di una politica del rinascimento meridionale scardinasse la corruzione, la criminalità e le condotte “putrescenti”, Bocca intravedeva un rischio: in questi meccanismi interattivi, come vasi comunicanti, il Mezzogiorno avrebbe potuto infettare il resto dello “stivale” con l’illegalità e l’immoralità. Nel 2006, in Napoli siamo noi, «la sua lettura del Mezzogiorno si faceva ancor più sconfortata, perché l’infezione dell’illegalità gli sembrava avere ormai risalito la penisola e il degrado meridionale, anziché eccezione nel panorama nazionale, gli pareva la mostruosa raffigurazione di una linea di tendenza ormai generalizzata» (Ivi, p. 226).

5. Quelli in cui scriveva Bocca erano gli anni delle rivolte campane contro la gestione commissariale dei rifiuti (la costruzione dell’inceneritore e l’apertura di nuove discariche). Parecchie decine di migliaia di persone, si calcola, in tempi e luoghi diversi, si sollevarono, puntellando di comitati popolari la geografia politica della regione, ove la democrazia autoritaria dell’emergenza divenne variabile radicalmente capovolta per una decisionalità che muoveva dal basso verso l’alto.

In quegli anni, le ragioni della protesta (la questione rifiuti) non avevano molto senso rispetto alla profondità della natura dei manifestanti. I nemici dello stato, da trattare come problema criminogeno e con rimedi militari, divennero i comitati spontanei di cittadini sorti per contestare le scelte del Commissariato straordinario per l’emergenza rifiuti. I comitati spontanei che erano contro l’“interesse generale”. D’altro canto, una volta attivato il dispositivo morale, tramite una prepotente comunicazione (“senso di responsabilità”, “senso dello Stato”, “rispetto delle istituzioni”), il passaggio fu subito fatto verso la riesumazione di stereotipi e modelli inferiorizzanti. Con Antonello Petrillo e il suo gruppo di ricerca, autori di Biopolitica di un rifiuto, rileviamo come l’orientalismo abbia funzionato con una simmetria e un tempismo impeccabili: alle ragioni della protesta vengono contrapposte la naturalizzazione e l’essenzializzazione dei manifestanti mentre alla modernità delle soluzioni l’arretratezza culturale, il passatismo e il localismo. «I fini appaiono anch’essi del tutto differenti da quelli dichiarati (rifiuto della contaminazione, rivendicazione del diritto al controllo del territorio e di ciò che – in forma legale o illegale – viene sversato in esso), ma sono da ricercarsi, piuttosto, nell’oscuro intrico di connivenze e relazioni con interessi speculativi e criminali (i manifestanti occulterebbero le ‘vere’ finalità dell’opposizione, per esempio le mire speculative sulle aree in questione da parte di palazzinari e camorristi)» (Petrillo 2009, p. 19).

Il particolarismo del tipo NIMBY (Not In My Back Yard), stigma attaccato plasticamente dalla stampa ufficiale ai movimenti in difesa dei territori e dei beni comuni esemplarmente incarnati nel No-Tav, viene rapidamente recuperato dentro un ordine discorsivo distinto. Stampa ufficiale e larghe intese destra-sinistra convengono tutti con i caratteri più squisitamente antimeridionali, cui lo stesso Bocca fa da sponda, a conferma che le rivolte sono la prova di una differenza, di una dicotomia presente in Italia: sensatezza/insensatezza, moderno/pre-moderni – ma, più spesso, anti-moderni – trovano spiegazione  in «quello sterile ribellismo capace ogni volta di opporsi alla più benevola e autoevidente delle ragioni».

cyopekaf_2008_19-785x588 La “delegittimazione politica” delle rivolte campane si è avvalsa di un serbatoio di cliché straordinariamente ricco, consolidatosi sui piani lunghi della storia intorno alle “plebi” meridionali. «La ricerca di spiegazioni non economiche, non sociologiche e non politiche delle vicende del Sud Italia costituisce una pratica tanto antica quanto viva presso una parte significativa dell’opinione pubblica nazionale (ivi inclusa quella meridionale), dalla quale non sono affatto esclusi economisti, sociologi e politologi» (Ivi, p. 20). Modelli di fine Ottocento, riemersi e rinnovati in nuove forme di razzismo (il meridionale “inferiore”, “delinquente”, inabile al “self government”), viene affiancata la figura del riottoso, dell’“individualista” e del “fuorilegge”. Essenzializzazione e naturalizzazione senza limite che foraggia l’ordine discorsivo di stampa e alleanze senza colore politico per contrastare a quanto pare l’autolesionismo dei rivoltosi: nella narrazione ufficiale, il “pericolo diossina” sembra provenire essenzialmente dai cumuli d’immondizia dati alle fiamme, non dalla gestione in-controllata dello smaltimento di rifiuti tossici.

Militarizzazione di paesi e di quartieri metropolitani, gestione securitaria della popolazione, tecnologie di controllo del territorio insieme alla aggressiva comunicazione, alla campagna diffamatoria e delegittimante l’azione dei comitati, una sovrapposizione di dispositivi adoperati dalla politica, volti esclusivamente alla difesa dell’interesse generale, alla modernità contro l’arretratezza, all’affermazione della ragion di stato contro lo stato di natura, incarnato da gruppi di cittadini «eterodiretti dalla criminalità organizzata, ignoranti, egoisti, retrogradi, primitivi». Al binomio e alla dicotonomia dell’orientalismo, quei gruppi di cittadini operano un esercizio di reversibilità proprio dei dispositivi dell’ordine discorsivo dominante. Vale a dire che alla modernità e all’“interesse generale” rappresentati dall’inceneritore o dalle discariche si oppongono attraverso una mossa di sottrazione, non solo di resistenza, individuando cioè una o più vie di fuga: un’altra modernità e un altro modello di sviluppo tradotti in un altro tipo di gestione della raccolta dei rifiuti; l’esodo dalla gestione commissariale tramite forme non convenzionali, atti radicali, la resistenza dei corpi, che al contempo diviene produzione di comune: «nel senso di singolarità che si legano in termini biopolitici e danno vita a nuovi legami organizzativi, fondati sulla prossimità e sul fare comunità» (Caruso 2008, pp. 134-149).

Non c’è una scelta della governance straordinaria di localizzazione di un qualsivoglia tipo di impianto per lo smaltimento dei rifiuti che non abbia incontrato le proteste delle popolazioni locali. In ogni paese e quartiere individuato è sorto spontaneamente un comitato popolare che si è opposto all’irrazionalità del governo d’emergenza. La reversibilità dell’orientalismo è stata proprio quella di smontare il dispositivo di rappresentazione, curvandone il senso e segnalando altre scelte di gestione di interessi comuni e di organizzazione dello spazio pubblico. La partecipazione diretta è stata il metodo dell’autorganizzazione e della cooperazione nel “fare comunità” come «tradizione dello spirito pubblico meridionale» (Piperno 1997). Il “divenire-comunità” nel corso delle rivolte (occupazione del Comune, assemblee cittadine, presidi territoriali, blocchi stradali, occupazione dei terreni per la discarica) ha prodotto un senso di appartenenza, di nuova comunità, che non ha nulla a che vedere con il localismo o con l’identità nei termini nazionalistici o razzistici. Mentre la stampa ufficiale, la classe politica, il Commissariato straordinario evocavano l’“effetto NIMBY” per licenziare le istanze dei comitati all’interno della cornice dell’egoismo e dell’individualismo, i comitati si trovavano un passo in avanti, giungendo alla critica complessiva della governance dei rifiuti, del commissariato straordinario, e della politica delle discariche. Il punto teorico e programmatico cui sono giunti i comitati è “Basta discarica. Né qui né altrove”.

Sono micro e macro modelli di sottrazione all’orientalismo, tanto individuali quanto comunitari. Laddove le autorità locali o nazionali decidano sulla vita delle popolazioni con “poteri centralizzati” e “normalizzatori”, tali modelli acquistano forza, in una narrazione che affrancatasi dall’immagine di jacquerie o insorgenza improduttiva assume la dimensione di un’altra politica, di un “fare comunità” sgrossato dai frame del antimeridionalismo (ad es.: il movimento contro la costruzione della centrale biogas nell’alto casertano; i comitati di cittadini per un altro modello di sviluppo per Taranto; il movimento No Mous in Sicilia). Non vi è dubbio che oltre a un esercizio contro-discorsivo è indispensabile la produzione di una proposta politica nei termini di soggettivazione all’altezza dei dispositivi di assoggettamento e di dominio. Quanto avvenuto nella stagione delle rivolte contro la governance autoritaria dei rifiuti è stata una resistenza ferma alle misure militari e alla decretazione speciale, ma allo stesso tempo sono stati attivati anche processi di soggettivazione e di inversione degli stessi dispositivi di dominio, tramite l’individuazione di proposte alternative di soluzione all’emergenza rifiuti e soprattutto tramite la partecipazione e la cooperazione dei comitati popolari e dei singoli cittadini. La classe politica, l’autorità commissariale e la stampa ufficiale, una volta disarmati dell’orientalismo, hanno visto sgonfiarsi il potere deliberativo e le competenze dell’“autoevidenza”. Mentre il potere costituente delle popolazioni insorte si è dispiegato sul piano dell’immanenza, costituendo altre forme di governo del territorio e dei corpi, altri modi di vivere il Sud, producendo spazi di autonomia, partecipazione e cooperazione, con buona pace di Putman e Banfield

Le immagini di questo testo sono di due artisti di strada napoletani, Cyop e Kaf, impegnati nelle lotte ambientali e attivi nelle periferie metropolitane. Il loro sito è www.cyopekaf.org

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Orientalismo all’italiana. Una genealogia del razzismo antimeridionale al tempo della crisi – I parte https://www.carmillaonline.com/2013/06/25/orientalismo-allitaliana-una-genealogia-del-razzismo-antimeridionale-al-tempo-della-crisi-i-parte/ Mon, 24 Jun 2013 22:01:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6792 di Francesco Festa

cyopekaf_cemento_14-785x527Sai molto bene dove abbiamo trovato la nostra lotta di classe: negli storici francesi che raccontavano la lotta delle razze. [Lettera di K. Marx a J. Weydemeyer, 5 marzo 1852]

Dopo il brigantaggio queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni. [C. Levi, Cristo si è [...]]]> di Francesco Festa

cyopekaf_cemento_14-785x527Sai molto bene dove abbiamo trovato la nostra lotta di classe: negli storici francesi che raccontavano la lotta delle razze. [Lettera di K. Marx a J. Weydemeyer, 5 marzo 1852]

Dopo il brigantaggio queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni. [C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli]

1. “Un piano del terrore: la ‘ndrangheta dietro a Prieti?” Questo è il titolo ad effetto di una notizia girata in rete il 13 giugno scorso. Va da sé che il testo segua lo scoop, trovando conferma nelle parole di un “ex ‘ndranghetista di spicco”, che ipotizzi, anzi, ne è certo, che ad armare la mano di Luigi Pietri, ormai noto come l’“attentatore di Palazzo Chigi”, vi sia una “‘ndrina’ di Rosarno”. Seppur non voglia sostituirsi “all’attività investigativa”, da professionista del mestiere sa che “nessuna persona per bene, nessuna persona che non sappia di godere della ‘ndrangheta potrebbe anche solo pensare di partire da Rosarno e fare un atto del genere. Significherebbe condannare a morte non solo se stessi, ma anche la propria famiglia”. E prosegue: “a Rosarno ci sono clan molto propensi a ricorrere alla violenza e ad atti eclatanti”, uno di questi quindi avrebbe adoperato “un disoccupato, magari mentalmente instabile” e con il “vizio della cocaina”, per inaugurare “una stagione di destabilizzazione” o lanciare “un segnale a tutta la politica” (V. Valentini 2013). Lungi dai “luoghi comuni”, l’intervistato indispettito risponde: “Non è assolutamente vero. La Calabria è piena di persone per bene, onesti lavoratori. E lo stesso vale per Rosarno.” Proviamo a porre la cosa in altro modo, cancellando da questo discorso Rosarno e la Calabria, per così dire, il significante dell’articolo. E poi chiediamoci: se Luigi Prieti fosse nato e partito da qualsiasi altra regione d’Italia situata al Nord (secondo le coordinate di quella “geografia immaginaria” di Edward Said), questo sensazionalismo avrebbe avuto senso? La dimensione geografica, culturale, locale, sarebbe stata tirata in ballo?

A seguito dell’inaudito omicidio di Fabiana a Corigliano Calabro del 24 maggio scorso, alcuni articoli di commento hanno suscitato un intenso dibattito, in particolare sulla stampa locale e poi su quella nazionale. Due titoli tra i tanti: Calabria, la donna non vale nulla (D. Naso, 2013), Sono nata nella terra dove è stata uccisa Fabiana: io sono scappata, lei non c’è riuscita (F. Chaouqui 2013). E di seguito una serie di considerazioni con un significante geografico ben preciso, la Calabria, che motiva le cause dell’efferatezza, mentre la cultura locale quando non il contesto sociale informano l’immane tragedia. Accludiamo qui alcuni stralci: «questa è la condizione delle donne calabresi. Nessuno stupore, dunque. Ma solo una rassegnazione impotente che nessun discorso di circostanza potrà mai attenuare»; le “donne calabresi” in Calabria valgono “zero”; «ragazzine costrette a ritirarsi da scuola nonostante voti ottimi e menti brillanti, semplicemente perché la ‘famiglia’ aveva scelto per lei»; “le donne” calabresi “oggetti da usare a piacimento” degli uomini; “le impavide eroine che decidono “di ribellarsi e dire no”, subiscono “il ceffone, il pugno, il calcio”; “alcune ragazzine si sono emancipate e osano truccarsi e vestirsi come vogliono”. E ancora: la lettera al “Corriere della Sera” di una “trentenne calabra, direttore delle relazioni esterne di una multinazionale”, che in una confessione vergata di mestizia e di rassegnazione afferma di aver scelto di abbandonare “una terra splendida” in direzione di Bologna o Milano, dove “le mamme e le figlie si baciano, si raccontano tutto”, mentre in Calabra, “terra matriarcale”, dove «la maggior parte degli avventori sono anziani», «se a 16 anni fai l’amore e tua madre, o peggio ancora tuo padre, lo scoprono sei certa di aver dato la peggiore delusione che potevi ai tuoi genitori»; la Calabria, terra in cui si cresce «sentendosi dire cittu ca tu si fimmina, non su cosi pi tia», dove «la violenza è virilità, che fa parte del gioco delle coppie», dove «sono poche quelle che restano, poche quelle che amano liberamente, poche quelle che hanno compagni che le considerano loro pari in ogni cosa»; e infine un’osservazione, forse a voler confermare l’importante ruolo lavorativo da lei ricoperto, un classico quello della “donna in carriera”, ovvero la capacità di affrancarsi dalla saturazione culturale della “mentalità calabrese”, per cui non resta che la fuga: «sono le nostre madri a volerlo, i nostri padri a lavorare per poterci permettere di farlo». Lungi da entrambe le riflessioni il pensiero di mostrare in tal modo atteggiamenti pregiudiziali o addirittura antimeridionali, cosa contro cui, anzi, puntualmente declamano, ribadendo che «chi conosce bene la realtà sociale calabrese non può accusarmi di sputare sulla mia terra». Poco male, poiché l’orrendo omicidio non fa che essere inscritto nel contesto geografico e culturale. E se da questo lo astraessimo? Se togliessimo di mezzo il significante Calabria? Di certo affiorerebbe una macchia nera, infame, incancellabile! Quella della crescente lista della violenza che sul corpo delle donne viene praticata in qualsiasi parte d’Italia, negli interstizi del privato quando non nel mainstream, dove la ricerca delle ragioni eccede tanto in facili banalità quanto in scorciatoie culturali e nei luoghi comuni. Sia chiaro: questa violenza andrebbe letta attraverso i meccanismi e i dispositivi che la generano, cioè allargando la prospettiva al campo di forze che oscilla tra le questioni del genere, della razza e della classe (Curcio, Mellino 2012), indagando i modi in cui il corpo della donna viene rappresentato, le politiche se non le retoriche che su di esso si istituiscono, la saturazione di immaginari di cui si alimenta l’organizzazione capitalistica della forza lavoro e le forme di precarizzazione e di gerarchizzazione che lungo le faglie della classe, del genere e della razza riproducono dispositivi di assoggettamento.

Ancora altri esempi che ci proiettano nella fabbrica delle rappresentazioni inferiorizzanti che hanno come oggetto il Mezzogiorno d’Italia e, a più ampio raggio, il sud dell’Europa. Il 14 giugno 2013, il presidente del consiglio Mario Monti, intervenendo all’inaugurazione della Fiera del Levante, esordiva: «Al Sud occorre cambiare mentalità». Un’esortazione che porta con sé qualcosa di implicito: una retorica che tende a marcare una mentalità superiore rispetto ad una inferiore. Analogamente, il paternalismo montiano prestava il destro a un’altra retorica, ormai scontata: quella di una visione dicotomica dell’Europa, la superiorità del Nord rispetto al Sud dell’Europa. Un Nord, guidato dalla Germania della Bundesbank, che tutto sommato tiene testa alla crisi, e i paesi dell’Europa mediterranea che questa crisi non la stanno solo subendo, ma ne sono considerati responsabili o corresponsabili. Sono i PIGS: Portogallo, Italia, Spagna e Grecia, con quell’assonanza esplicita, più che casuale, con il termine inglese porci: i maiali d’Europa e dunque sporchi, ripugnanti, oziosi. Debito pubblico alle stelle, mancato rispetto dei parametri fiscali e monetari, scarsa produttività e blocco della crescita, tutto all’insegna dello sperpero e della cattiva gestione politico-finanziaria: «questa la sporcizia che si annida in Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna. La causa è da ricondurre all’indolenza mediterranea, al vivere al di sopra delle proprie possibilità, alla corruzione, alla mancanza di regole, all’assenza di quell’etica del rigore e degli affari, della morigeratezza e del lavoro che già Max Weber poneva come condizione sine qua non del capitalismo» (Curcio 2012).

cyopekaf_2010_21-785x588Sempre nel giugno 2013 il ministro del lavoro Elsa Fornero fece sfoggio di altrettanti refrain, un po’ frusti di discorsi essenzializzanti e naturalizzanti. Nel rispondere a una precaria sul tema del salario minimo, del reddito garantito e di altri ammortizzatori sociali, affermò: «L’Italia è un Paese ricco di contraddizioni, che ha il sole per 9 mesi l’anno e che con un reddito base la gente si adagerebbe, si sederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro». Insomma, un’allusione, neanche tanto velata, alla “gente” del sud. Allusione per niente originale, quella di Elsa Fornero, anzi, un’immagine scontata, pittoresca, che si fa beffa di un secolo di storia, riportando alla memoria le stampe dell’Illustrazione Italiana di fine Ottocento, dove le genti del Sud sono rappresentante come “lazzari” e “lazzaroni” (spagnolismi logorati con cui si definisce da sempre il lumperproletariat napoletano) che mangiano con le mani pasta e pomodoro e si dilettano al sole, nella “controra”, adagiandosi nell’ozio (Dickie 1999, pp. 126-133).
Inoltre, all’insieme di questi stereotipi vanno affiancati quelli ormai celebri: il Sud, terra della sporcizia delle clientele, dello sperpero, dell’indolenza e dell’imbroglio. D’altronde anche lo spot pubblicitario contro l’evasione fiscale, ideato dal governo Monti, riproduce un frame su cui innestare un’allusione assai poco esplicita. «La carrellata di parassiti (c’è il parassita dei ruminanti, del legno, del cane, etc.) si conclude con il parassita della società: l’evasore fiscale. L’immagine dell’evasore non è però quella del finanziere che ci saremmo aspettati ma quella di un giovane, verosimilmente un precario, bruno, tarchiato, con folte sopracciglia e basette nere: l’iconografia di un terrone» (Curcio 2012).

Dinanzi al riproporsi ridonante di luoghi comuni da una parte, e, dall’altra parte, la tendenza risentita che suscita la reazione oppure la difesa da qualsiasi accusa di razzismo, crediamo sia estremamente istruttivo prendere le distanze da questi discorsi, interromperne i meccanismi di semplificazione, di essenzializzazione e di naturalizzazione, tentando di oltrepassare la soglia delle rappresentazioni per cercare di capire cosa si nasconda dietro di queste, in quale terreno affondino le proprie radici. Detto altrimenti: interrogare il luogo discorsivo, molteplice e variegato, ricostruire la catena deduttiva attraverso cui si è affermato tenacemente il paradigma di uno stereotipo, spogliandolo tanto dei contenuti descrittivi quanto di quelli scientifici. Adoperando qualche attrezzo della celebre cassetta di Foucault, sappiamo che ogni aspetto della nostra esperienza possiede una storia: anche le cose che consideriamo come salde, al di fuori del tempo, ovvio come uno stereotipo, sono attraversate da una storicità che non è né lineare, né progressiva. Il soggetto, la verità o la razionalità non sono valori universali che ci permettano di valutare, dall’esterno, il progresso della storia, ma elementi che mutano nel tempo, differenti in ogni successiva configurazione (Foucault 2001, pp. 43-64).

Dunque, l’esercizio che proponiamo di seguito è quello di seguire con metodo genealogico:
a. l’origine e l’applicazione dell’orientalismo nel Sud d’Italia, le ragioni che lo informino e che ne favoriscano l’utilizzo;
b. quindi, descrivere l’emergere dell’antimeridionalismo o, per la precisione, del razzismo antimeridionale, intendendo col termine di razza – e del suo farsi verbo, razzializzare – «la costruzione di discorsi e di pratiche, di processi economici e culturali di essenzializzazione e discriminazione che puntano alla subordinazione di un gruppo sociale da parte di un altro» (Fanon 1964; Curcio 2012);
c. le “contro-condotte” e le pratiche di sottrazione al dispositivo dell’orientalismo, allo stesso tempo i processi di soggettivazione che hanno innervato i movimenti e le resistenze popolari contro «il dominio dei modi tipicamente ‘moderni’ di esercitare il potere» (Mezzadra 2012, p. 137) nel Mezzogiorno italiano, la gestione speciale delle popolazioni e l’emergenza come tecnologia di governo, il punto d’innesto qui è lo scontro tra formazioni discorsive e l’esercizio del potere, ovvero retorica della modernità da una parte e democrazia diretta delle comunità locali, dall’altra.

2. Il Sud d’Italia è probabilmente la regione d’Europa più tenacemente avvolta in stereotipi interpretativi da almeno un paio di secoli: luogo per antonomasia dell’arretratezza, della diversità e dell’inferiorità rispetto al resto dell’Italia e dell’Europa. Un tenace catalogo che oscilla lungo l’intersezione tra una diversità antropologica e certe dirette conseguenze in termini economiche, sociali e politici. I meridionali sono passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e, dunque, inabili alla formazione di una cultura razionale, civica, ordinata. Di conseguenza, il contesto sociale ed economico è sottosviluppato a causa del clientelismo politico, delle relazioni gerarchiche e patriarcali, e delle varie forme di manifestazione del crimine organizzato. Con buona approssimazione, la descrizione del Mezzogiorno potrebbe essere qui terminata per divenire cibo delle inchieste giornalistiche, delle fiction o dei documentari televisivi. All’interno di questo frame si inserisce il “dispositivo Saviano”: «a partire da una descrizione del territorio apparentemente accuratissima, pagina dopo pagina si fa descrizione morale di una popolazione preda inguaribile dei suoi incubi atavici, dunque lotta fra Bene e Male, ove il male è tanto assoluto da non potere postulare che un intervento radicale, ossia portato alle radici antropologiche della questione: un intervento dello stato-chirurgo sul cancro-popolazione» (Petrillo 2011, p. 46). Così la realtà romanzata fa buon gioco di stereotipi, corroborandosi in un atto di fede: a ben vedere, non è assai diverso da quanto in precedenza letto dai giornalisti e testimoni “diretti” sulla “realtà” calabrese.

Sebbene non manchi letteratura che faccia giustizia di questi cliché antimeridionali (un titolo fra i tanti: Nelson Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno), la ragione per cui siano ancor oggi in circolazione più prepotentemente di quanto non si voglia credere s’annida forse in quel “senso comune” sorretto dalle verità delle rappresentazioni, da immagini cristallizzate nel tempo e, semmai, corroborato persino da ricerche scientifiche.
Con Gramsci, sappiamo che il “senso comune” è “la concezione della vita”, “la morale più diffusa”, dentro una “sedimentazione” di “folklore” e di “filosofie precedenti”, ma è anche un campo “incessantemente” modificabile, penetrabile dai “luoghi comuni”, quindi ambivalente. Se è vero dunque che “la sfera del ‘buon senso’ o ‘senso comune’” è «l’opinione media di una certa società» in cui “modificare, svecchiare, introdurre nuovi ‘luoghi comuni’» (Gramsci 1977, pp. 65, 75-76), allora vale la pena interrogare come si muova questo “senso comune”, detto altrimenti: le ragioni che mantengano in vita i calchi e i modelli dell’antimeridionalismo.

Che il Settecento sia la stagione in cui tutti gli stereotipi sul carattere meridionale presero forma è ormai noto, così come i riflessi da essi provocati nelle idee e nella stampa dell’Ottocento, durante l’età delle “rivoluzioni borghesi” (1789-1848) e la Restaurazione (Hobsbawm 1963). In quei decenni, la storia si sarebbe incaricata di contenerli e rilanciarli, attutirli e ingigantirli, smorzarli e rinvigorirli, sempre a seconda dei differenti tempi della politica. Così, gli stessi topoi, da un lato sarebbero venuti utili a un mercato editoriale che sulla scoperta dell’esotico avrebbe puntato molto, da un altro avrebbero fatto il gioco di chi, nel Mezzogiorno stesso, aveva interesse a far mostra di tanta arretratezza per approfittarne prontamente, da un altro ancora avrebbero addirittura legittimato opzioni culturali tra loro diverse, quando non contrapposte, accomunando, negli stereotipi impiegati, la resistenza a ogni cambiamento sociale alla drammatica presa d’atto dell’impossibilità invece di riuscire a trasformare un mondo troppo arretrato (De Francesco 2012, p. 21).
Nondimeno, se non si tiene conto dei meccanismi interattivi che danno origine alle immagini è molto difficile comprendere cosa siano e come funzionino gli stereotipi intorno al Mezzogiorno, e più in generale la costruzione storica dell’identità e di cosa ci sia dietro essa. Che l’immagine del Sud si sia plasmata nel dialogo con il Nord del paese sembra un’osservazione ovvia, meno banale è invece scoprire che la sua identità si sia formata in negativo, come mancanza rispetto a un modello ideale. Edward Said con il suo Orientalismo ha offerto un’importante riconsiderazione a partire da come la civiltà europea nel corso del Settecento e dell’Ottocento abbia costruito la sua visione di un Altro, espressione ed esercizio della sua stessa supremazia mondiale, proprio a partire dalle mancanze. L’orientalismo è un esame delle innumerevoli modalità con cui una parte del mondo ne immagina un’altra per dominarla, dando vita a un tipo di analisi culturale in chiave geografica, dove la frammentazione interna dell’Europa (e nel nostro caso dell’Italia) lascia affiorare un significante pienamente coloniale.

cyopekaf_2009_02-785x588Franco Cassano nel suo Pensiero meridiano sostiene che la categoria di Said è necessaria ma non sufficiente a capire la posizione subalterna del Sud, in quanto l’orientalismo aiuta sicuramente a costruire un’immagine dominante del Mezzogiorno italiano al contempo come paradiso turistico e inferno sociale, ma «la soggezione simbolica passa anche e soprattutto attraverso la sua definizione come luogo dell’arretratezza e del sottosviluppo, come forma incompiuta di nord» (Cassano 1996, p. 8). Quindi la costruzione concettuale del Sud da un lato aiuta il Nord europeo a percepirsi nella sua compiutezza di civiltà superiore, dall’altro, e soprattutto, a definire il Sud stesso come una sua copia imperfetta ovvero come una porzione della civiltà occidentale che non segue il ritmo del suo cuore pulsante, collocato lontano dalle rive mediterranee. Il Sud è un Nord “esterno” e “senza”, senza storia, senza progresso, senza la luce della ragione, senza futuro, insomma senza tutte quelle conquiste del Nord moderno. «L’idea di Sud come di non Nord, di un Sud pensato da altri, non più soggetto di pensiero, ma brutta copia di un’altra latitudine, è un processo facilmente percepibile all’interno del territorio italiano» (Cazzato 2012, p. 193). Lungo questa linea interpretativa, Iain Chambers richiama l’idea di una “prerogativa” dell’Europa settentrionale quando sostiene con insistenza che la divisione interna italiana è anche il risultato dell’intervento di forze esterne nel Mediterraneo: come territorio da “condizionare” dalla fine del Seicento, con la presenza della flotta mercantile e militare britannica a difesa degli interessi coloniali britannici nel Mediterraneo, come presidio del «disfacimento organico del rapporto complementare fra il Nord Italia commerciale e industriale e il Sud agricolo […] parimenti trasformati in riserve di materie prime per i mercati e la commercializzazione dell’Europa del nord e del litorale atlantico» (Chambers 2007, p. 119).

3. Questa prerogativa del Nord sarebbe certo comprensibile, in termini storici, se non si assuma come istitutiva l’idea che un territorio sia in grado di produrre delle azioni costituenti, vale a dire che le forme della rappresentazione abbiano effettivamente la capacità di intervenire sul reale, di interpretarlo e anche di costituirlo. Infatti la rappresentazione partecipa della stessa natura del potere, poiché entrambi hanno la capacità di istituire, sono in grado di autorizzare se non di legittimare. «La rappresentazione in generale ha un doppio potere: quello di rendere presente ciò che è assente e di costituire legittimità di questa presenza esibendo qualificazioni, giustificazioni, e titoli. Se la rappresentazione riproduce non soltanto di fatto, ma anche di diritto, le condizioni che rendono possibile la sua riproduzione, si capisce allora l’interesse del potere ad appropriarsene» (Lazzarato 2008, p. 219).

Il campo dell’“ideologia” e l’archivio dei “luoghi comuni” è stato dissodato approfonditamente da Gramsci, in un rapporto di tensione con il marxismo classico e di abbandono delle semplificazioni del “riduzionismo” e dell’“economicismo”, andando oltre cioè quel «preciso orientamento teorico che tende a leggere i fondamenti economici della società come l’unica struttura determinante” e leggendo “gli sviluppi ideologici con un’analisi ben più complessa e differenziata». I luoghi comuni quando non gli stereotipi vanno situati dentro determinate “totalità strutturate in modo complesso”, ovvero le “società” o le “formazioni sociale”. In queste, «differenti livelli di articolazione (le istanze economiche, politiche e ideologiche) si combinano in modi differenti», si «rispecchiano reciprocamente» e, con Althusser, si «surdeterminano reciprocamente» (Hall 2006, pp. 194-195). Oltretutto è proprio Althusser a citare un passo del “vecchio Engels”, che per mettere «le cose al loro posto contro i giovani ‘economicisti’» disse: «La produzione è il fattore determinante, ma solamente ‘in ultima istanza’. ‘Né Marx né io abbiamo affermato qualcosa di più’. Chi dovesse ‘torturare questa frase’ per farle dire che il fattore economico è il solo determinante ‘la renderà una frase vuota, astratta, assurda’». E sempre Althusser, in Per Marx, si chiede chi, dopo Marx e Lenin, abbia veramente esplorato «la teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture» e «anche di altre strutture, politiche, ideologiche, dei costumi, delle abitudini o delle ‘tradizioni’ come la ‘tradizione nazionale’». Risposta secca: «Ne conosco uno solo: Gramsci» (Althusser 2008, pp. 202-205). Dunque è l’approccio gramsciano che ci consente di definire i movimenti e l’uso del campo ideologico: la formazione e la trasformazione dello stesso sono determinati e dalla struttura e dalla sovrastruttura, in una combinazione di discorsi ideologici e meccanismi economici immediatamente produttivi di “senso comune”, immagini, abitudini, frame, luoghi comuni, stereotipi.

D’altro canto, nella storia d’Italia il pregiudizio o il razzismo antimeridionali sono stati sempre adoperati per soddisfare istanze economiche ma anche politiche e ideologiche. A questo punto anche la stessa “questione meridionale” è il prodotto della “surdeterminazione” di differenti istanze. Infatti, in Alcuni temi della quistione meridionale, proprio Gramsci segnala come «l’ideologia diffusa in forma capillare dai protagonisti della borghesia nelle masse del Settentrione» rappresenti “il Mezzogiorno” dentro il refrain di «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia», perché «i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari» (Gramsci, 1930, p. 159).
Celebre questo brano del 1930, esemplare è l’esercizio gramsciano di decostruzione e dell’unificazione italiana e della “questione meridionale”. In quel pregiudizio, o meglio, in quel razzismo antimeridionale, solidificatosi in “senso comune”, Gramsci intravede il riflesso delle istanze economiche e delle istanze ideologiche, in un rispecchiamento “surdeterminato”. In questa sovrapposizione, il pregiudizio in termini di inferiorità biologica, vale a dire di naturalizzazione ed essenzializzazione, non fa che consolidarsi nelle forme del razzismo. Intrecciato alla vicenda storica del nazionalismo, il razzismo è però qualcosa che eccede il nazionalismo. Nel famoso testo Razzismo e nazionalismo, Etienne Balibar infatti sgombera il campo da certi equivoci lungo l’intersezione di nazionalismo e razzismo. Se i due termini si riflettano l’un l’altro, il razzismo è nondimeno qualcosa in più: «un supplemento interno al nazionalismo e sempre in eccesso rispetto ad esso, ma sempre indispensabile alla sua costituzione e tuttavia sempre ancora insufficiente per portare a termine la formazione di una nazione, o il progetto di nazionalizzazione della società» (Balibar 1996, p. 66). Beninteso: il razzismo è “sempre in eccesso rispetto” alle formazioni nazionalistiche e, svolgendo tale pensiero, “in eccesso rispetto” alle rappresentazioni e ai costumi delle identità nazionali.

Nel rileggere le lezioni del corso del 1976, Bisogna difendere la società, possiamo notare l’attenzione che presta Foucault alle mutazioni del discorso del razzismo in tecnologia di governo e gestione delle popolazioni, ovvero nel “bio-potere”. Apparso nel XVII secolo, “il discorso della lotta delle razze” diventerà “discorso del potere centralizzato e centralizzatore”, ovvero «di una razza che detiene il potere ed è titolare della norma, contro quelli che deviano rispetto a questa norma, contro quelli che costituiscono altrettanti pericoli per il patrimonio biologico […] appariranno tutti i discorsi biologici-razzisti sulla degenerazione, ma anche tutte le istituzioni che, all’interno del corpo sociale, faranno funzionare il discorso della lotta delle razze come principio di eliminazione, di segregazione, e infine di normalizzazione della società» (Foucault 2001, p. 58). Dalla genealogia foucaultiana ci appare in filigrana proprio la storia italiana di fine Ottocento, quella della “grande emigrazione” e, mezzo secolo più tardi, dell’emigrazione verso il triangolo industriale.

Tornando all’orientalismo, possiamo notare che sia Said che Foucault pongono in evidenza la visione binaria come dispositivo fondante del dominio sul piano culturale. E non soltanto, poiché con Gramsci abbiamo visto che i piani e le istanze si “surdeterminano”, il piano culturale, si combina con il piano economico e con il piano politico. L’orientalismo è un dispositivo che, da un esame delle modalità con cui una parte del mondo immagina un’altra per dominarla, produce una supremazia complessiva, dell’Occidente sull’Oriente, del Nord sul Sud. E Said, alla pari di Gramsci, è giunto all’orientalismo soltanto liberando «gli studi critici sul colonialismo dall’ipoteca che era stata a lungo esercitata da un’interpretazione rigida dei rapporti tra struttura e sovra-struttura, nonché del concetto di ideologia» (Mezzadra 2012, p. 134).

Le immagini di questo testo sono di due artisti di strada napoletani, Cyop e Kaf, impegnati nelle lotte ambientali e attivi nelle periferie metropolitane. Il loro sito è www.cyopekaf.org

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