memoria collettiva – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Italiani… cattiva gente o popolo di giusti? https://www.carmillaonline.com/2016/09/02/32918/ Fri, 02 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32918 di Armando Lancellotti

cover carnefici italianiSimon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 2016, pp. 147, € 8,50

«Io ho fatto questo», dice la mia memoria. «Io non posso aver fatto questo» – dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine – è la memoria ad arrendersi. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 68

Alla fine è la memoria ad arrendersi, dinanzi alla protervia dell’orgoglio, ovvero – potremmo aggiungere – ai calcoli del tornaconto, all’ansia e al peso del senso di colpa [...]]]> di Armando Lancellotti

cover carnefici italianiSimon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 2016, pp. 147, € 8,50

«Io ho fatto questo», dice la mia memoria.
«Io non posso aver fatto questo»
– dice il mio orgoglio e resta irremovibile.
Alla fine – è la memoria ad arrendersi.
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 68

Alla fine è la memoria ad arrendersi, dinanzi alla protervia dell’orgoglio, ovvero – potremmo aggiungere – ai calcoli del tornaconto, all’ansia e al peso del senso di colpa o alla volontà di sfuggire alle proprie responsabilità.
La memoria è fatta di materia facilmente modellabile, ha una natura cangiante, dinamica e sfuggente; può allo stesso tempo essere pietra angolare od ostacolo nel processo di costruzione della coscienza di sé, tanto individuale quanto collettiva, tanto personale ed esistenziale quanto sociale e storica.
Ed è della coscienza collettiva e della memoria storica italiane che, come in altre occasioni, [su Carmilla 1 e 2] torniamo a parlare, proponendo la lettura del libro di Simon Levis Sullam, uscito per la prima volta nella collana Storie di Feltrinelli nel 2015 e nell’Universale Economica nel 2016, in cui lo storico dell’Università Ca’ Foscari di Venezia affronta il tema, ancora oggi (e non a caso!) poco noto all’opinione pubblica, della partecipazione italiana al processo di sterminio degli ebrei italiani nel biennio 1943-’45.

Un libro che può dare un prezioso contributo alla correzione dello strabismo e della miopia della memoria collettiva del nostro paese a patto che i dati, le riflessioni e le conclusioni qui contenute oltrepassino i confini del ristretto ambito di lavoro degli storici, i quali – come è avvenuto anche per altre pagine decisive e controverse della nostra storia/memoria, come il colonialismo e il razzismo africani, i crimini di guerra e le stragi tanto in Africa quanto sui fronti del secondo conflitto mondiale ed in particolare in Jugoslavia e in Grecia – hanno ormai condotto molto avanti la ricerca e gli studi sulla Shoah italiana e di conseguenza anche quelli sull’antisemitismo fascista e sulle responsabilità e complicità dell’Italia fascista, prima e dopo l’8 settembre 1943, nell’azione genocida intrapresa e condotta a fianco dell’alleato nazista.

Ma – ed è questo il punto decisivo – il moltiplicarsi delle ricerche e l’articolarsi sempre più complesso e completo degli studi ancora non sono riusciti a scalfire la corazza di quella falsa coscienza, così radicata e diffusa da essere un vero e proprio abito nazionale, che rappresenta gli italiani come brava gente, incapaci di commettere atrocità o crimini efferati, in quanto per indole, storia e tradizione portati alla mitezza d’animo e all’umanità del comportamento. Una autorappresentazione collettiva, tanto fuorviante quanto autoassolutoria, che immediatamente si riproduce, censurando, rimuovendo, edulcorando e minimizzando, ogniqualvolta venga avanzata la richiesta, resa ormai ineludibile dalla ricerca storica, di riconoscimento delle responsabilità della società e del popolo italiani proprio in quella azione genocida che più di ogni altra ha segnato il secolo da poco trascorso.

E allora di “carnefici italiani” si può, si deve parlare; sebbene – precisa Levis Sullam – «l’atto finale dello sterminio generalmente non avvenne su suolo e per mano italiana – anche gli italiani presero l’iniziativa, al centro e alla periferia del rinato Stato fascista, partecipando al progetto e al processo di annientamento degli ebrei, con decisioni, accordi, atti, che li resero attori e complici dell’Olocausto, seppur con diversi gradi e modalità di coinvolgimento, secondo i differenti ruoli, contributi pratici e forme di partecipazione» (p.11).

Infatti, come hanno recentemente sostenuto nel loro bel libro, Orgoglio e genocidio, Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa, [su Carmilla] la nota e fortunata tipizzazione proposta da Raul Hilberg nel saggio del 1992, Perpetrators Victims Bystanders: The Jewish Catastrophe, 1933-1945 (Carnefici, vittime e spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, ed. italiana 1994), necessita di una fondamentale integrazione o più specifica articolazione che comprenda anche la “zona grigia” dei collaboratori, intermedia tra quella degli spettatori (Bystanders) e quella dei carnefici, cioè i “perpetratori immediati” (Perpetrators).
Essa comprende quella grande quantità di individui che, pur non commettendo personalmente e direttamente l’atto omicida, collaborarono – più o meno consapevolmente riguardo all’esito finale delle loro azioni, ma di certo volontariamente – al progetto genocida, individuando e schedando le vittime, arrestandole, trasferendole e trasportandole, impossessandosi dei loro averi, imprigionandole e sorvegliandole, denunciandole attraverso ignobili e vigliacchi atti delatori, ecc. E lo fecero per differenti e personali, a seconda di casi e circostanze, motivi e finalità, che andavano dalla convinzione ideologica e dal fanatismo antisemita fino al tornaconto personale in termini di avanzamento di carriera o di arricchimento economico, passando attraverso il conformismo, l’acquiescenza a qualsiasi legge od ordine, la paura, ecc.

Campo di Fossoli - esterno

Campo di Fossoli – esterno

E applicando i modelli di ragionamento hilberghiani al caso italiano, possiamo sostenere, insieme a Levis Sullam, che il coinvolgimento della società e dello stato italiani – in particolare di quello repubblicano di Salò dopo l’8 settembre ’43, ma senza dimenticare quello monarchico dal 1938 in poi – fu globale e complessivo e che diverse istituzioni, vari uffici ed apparati burocratici, numerosi soggetti economici, le forze di polizia e sicurezza nel loro complesso (Carabinieri, Polizia, MVSN e poi GNR e Brigate Nere) e comuni cittadini italiani si accanirono sui loro concittadini ebrei, spianando la strada all’azione di deportazione e sterminio voluta dall’alleato tedesco e in molti casi compiendo in prima persona tutti i concatenati passi dell’azione genocida fino alla spedizione dei prigionieri dal campo di Fossoli, prima e da quello di Bolzano-Gries, poi, verso i campi di sterminio nazisti.

Nel caso italiano e in quello di molti dei paesi occupati dalla Wehrmacht la collaborazione di apparati, istituzioni, forze di polizia, semplici cittadini fu decisiva, come riconobbe – scrive Levis Sullam – un consigliere diplomatico tedesco che, in un appunto per il ministro Ribbentrop, «al principio delle deportazioni del dicembre 1943 […] constatava infatti: “Con le forze che abbiamo a disposizione in Italia non è possibile setacciare tutti i comuni minori, medi e grandi”» (p. 47).
A impartire l’ordine di setacciare, rastrellare, arrestare, imprigionare, sorvegliare e inviare verso la morte ci pensarono solerti prefetti e questori italiani – a seconda dei casi, convinti fascisti antisemiti o cinici carrieristi o meschini esecutori della legge – ad attuare gli ordini provvidero uomini e militi delle forze di sicurezza e polizia della Repubblica sociale italiana, i quali – ed è decisivo ricordarlo – avevano a disposizione le liste anagrafiche dei cittadini ebrei censite a seguito delle leggi razziali del 1938 e alle spalle provvedimenti persecutori quali l’arresto e l’invio verso campi di concentramento di ebrei stranieri, prima ed ebrei italiani “pericolosi”, poi, intrapresi a partire dal 1940 e nel corso dei primi anni di guerra; insomma anteriormente al famigerato «primo ordine italiano di arresto generalizzato, emesso dal ministro Buffarini Guidi come ordine di polizia il 30 novembre 1943 […], subito prima o in parallelo con i provvedimenti di confisca dei beni ebraici già sequestrati (4 gennaio 1944), seguiti poi dallo scioglimento delle comunità ebraiche e di sequestro dei loro beni (28 gennaio 1944)» (p.45). E prima anche del Manifesto di Verona del 14 novembre 1943 che al punto 7 definiva così i cittadini ebrei italiani: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.

Insomma, l’antisemitismo fascista, che nella Rsi conobbe il suo apice, già aveva una lunga storia alle spalle e aveva conosciuto una genesi ed uno sviluppo autonomi rispetto a quello nazista, essendosi inizialmente innestato sul tronco del precedente razzismo coloniale africano – che già in Libia, e ancor di più in Etiopia, aveva condotto gli italiani ad introdurre ed applicare leggi razziste e segregazioniste e ad attuare operazioni criminali e stragiste – e dell’antigiudaismo tradizionale di matrice religiosa cattolica.

Lager Bolzano-Gries

Lager Bolzano-Gries

Chiarito quale fosse il quadro complessivo entro il quale si svolsero i fatti che Levis Sullam fa oggetto della sua indagine, occorre precisare che il libro si concentra esclusivamente su quanto accadde nei due anni scarsi di vita della Repubblica sociale italiana e cioè sul momento finale e più tragico della persecuzione degli ebrei italiani ad opera di fascisti ed alleati nazisti. E lo fa in poco più di cento pagine e pertanto in modo sintetico, ma puntuale e comunque esauriente, sviluppando un discorso accuratamente circostanziato e in alcuni casi anche “drammatizzando” con efficacia le situazioni, gli episodi, gli attori – vittime e carnefici – di queste – come recita il sottotitolo del libro – “scene dal genocidio degli ebrei”.
Come, a titolo d’esempio, nelle pagine del Prologo (Una sera del 1943): «La sera di sabato 5 dicembre 1943, alcune ore prima della retata di ebrei che a Venezia avrebbe condotto all’arresto di oltre centosettanta tra uomini, donne e bambini, il giovane pianista Arturo Benedetti Michelangeli teneva un concerto al Teatro La Fenice. L’indomani, poche ore dopo che gli ebrei arrestati fossero stati provvisoriamente consegnati alle carceri locali, la squadra cittadina di calcio disputava un incontro alla stadio di Sant’Elena. Gli arresti erano avvenuti nottetempo, in una città avvolta dall’oscuramento, nel cuore di un inverno piuttosto rigido. Mentre prendeva avvio anche a Venezia il genocidio degli ebrei, le giornate scorrevano come sempre, in un intreccio indissolubile di vita e di morte: forse il prefetto che aveva dato l’ordine di arresto degli ebrei aveva poi assistito al concerto di Benedetti Michelangeli. E qualcuno, tra i poliziotti o tra i volontari fascisti che avevano partecipato agli arresti, poche ore più tardi si era recato allo stadio per assistere alla partita domenicale» (p. 9).

Sul piano dei riferimenti teorico-storiografici il discorso di Levis Sullam esplicitamente richiama le analisi del prevalente funzionalismo di Raul Hilberg, che legge la Shoah come un processo di radicalizzazione cumulativa che si nutrì di molteplici e svariati apporti della società e dello stato tedeschi nel loro insieme (e di quelli alleati e fiancheggiatori, possiamo aggiungere), a cui si sommano le note riflessioni di Zygmunt Bauman riguardo i legami tra il funzionamento della macchina genocida e quello degli apparati burocratico amministrativi degli stati moderni ed infine le altrettanto note e fortunate pagine di Claudio Pavone sulla “guerra civile” italiana, combattuta tra il 1943 e il 1945.

E proprio la “guerra civile”, che comporta definizioni e distinzioni identitarie nette ed assolute tra “amici” e “nemici”, contribuì – pensa Levis Sullam – in maniera decisiva allo sterminio degli ebrei italiani, che per il rinato fascismo di Salò rientravano nella categoria degli “odiati nemici traditori”, insieme ad antifascisti e partigiani, disertori, renitenti alla leva e badogliani. E sempre all’interno della cornice di una guerra fratricida si inscrivono i numerosissimi ed odiosi casi di delazione e denunce, così come i frequenti tradimenti e le imboscate compiuti da guide e “passatori” che consegnavano alla polizia della frontiera italo-svizzera gli ebrei che a loro si erano incautamente affidati, intascando tanto il denaro pattuito con uomini disperati in fuga quanto la taglia fissata per ogni ebreo catturato.

Nelle Conclusioni (Amnistie, rimozioni, oblio), Levis Sullam ricorda che «Nessuno [dei carnefici italiani] fu processato nel dopoguerra per la partecipazione alla politica antiebraica del fascismo: né quella risalente al 1938, né quella della Repubblica sociale italiana […]. Generalmente la persecuzione degli ebrei non venne ritenuta un reato o una colpa specifica, né un’aggravante di altri reati, nel più ampio contesto di una complessiva sottovalutazione delle responsabilità del fascismo italiano del Ventennio e di Salò» (pp. 111-112).
Come ha spiegato – tra gli altri – Claudio Pavone, fu la continuità tra stato monarchico e fascista da un lato e stato postfascista, repubblicano-democratico dall’altro a prevalere sulla discontinuità, come la cosiddetta amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 oppure il comportamento nei processi postbellici della magistratura italiana – a sua volta «rimasta largamente ingiudicata [e] quindi in assoluta continuità con quella fascista» (p. 112) – comprovano.

«Anche volendosi limitare alle politiche razziste del fascismo», fa notare puntualmente Levis Sullam, «risulta evidente come proprio nella magistratura figure direttamente implicate nell’applicazione della legislazione razziale proseguirono nel dopoguerra con onorate carriere […]» (p. 113). Tra i casi considerati dall’autore, ricordiamo come esempio quello di «Gaetano Azzariti che, già presidente del Tribunale della razza dal 1938 al 1943, fu ministro di Grazia e Giustizia di Badoglio, quindi capo dell’ufficio legislativo di Togliatti presso il medesimo ministero, e concluse infine la sua carriera come presidente della Corte Costituzionale negli anni cinquanta» (p. 113).

Pertanto, il mancato riconoscimento delle responsabilità italiane, innanzi tutto sul piano giudiziario, è da considerarsi – ritiene lo storico – il primo passo, a cui se ne aggiunsero poi altri di tipo «politico, militare, diplomatico, memorialistico, storiografico» (p. 114), verso quel «vuoto conoscitivo» (p. 113) riguardo alle responsabilità italiane nello sterminio degli ebrei che ha caratterizzato, dall’immediato dopoguerra e che ancora oggi fatica a tramontare, la memoria e la coscienza collettive del nostro paese.
Un “vuoto di memoria” dentro al quale ha trovato il suo habitat naturale lo stereotipo, di per sé risibile se non fosse così pernicioso e venefico, del bravo italiano, alla cui elaborazione, rispetto a Shoah ed antisemitismo, nell’immediato dopoguerra ha contribuito anche – secondo Levis Sullam – l’atteggiamento della «medesima classe dirigente ebraica italiana. La diminuzione delle responsabilità italiane da parte ebraica rispondeva da un lato ad esigenze di allineamento e riconciliazione degli ebrei con la società italiana che nuovamente li aveva accolti; dall’altro esprimeva la sincera gratitudine da parte di coloro che erano stati salvati dalla deportazione. Vi era, su un altro piano, una cancellazione delle corresponsabilità di molti ebrei nel sostegno al regime fascista fino al 1938, sostanzialmente identiche a quelle della maggioranza degli italiani» (p. 115).

Si diffondeva in tal modo una interpretazione riduzionistica e giustificazionistica del ruolo del fascismo e del popolo italiano nella Shoah che di seguito trovò in ambito storiografico l’equivalente nella lettura proposta da De Felice per la prima volta nel 1963 che sosteneva «la tesi di un rifiuto italiano della politica di sterminio» (p. 116). Se sul piano degli studi i lavori dei – per citarne solo alcuni – Sarfatti, Picciotto Fargion, Collotti e tanti altri hanno da alcuni anni fatto luce sui fatti, i contesti, le responsabilità e i diversi aspetti dello sterminio degli ebrei italiani, dal punto di vista dell’opinione e della consapevolezza pubbliche diffuse le cose sono rimaste pressoché immutate.
Negli anni ottanta– scrive l’autore – paradossalmente in corrispondenza con la crescente attenzione a livello internazionale per lo sterminio degli ebrei d’Europa, in Italia si è ulteriormente radicato lo stereotipo riduzionistico ed innocentista dell’italiano “amico dei concittadini ebrei”.
«Gli anni novanta e i primi anni duemila furono poi il periodo di trasmissioni divulgative, libri giornalistici e serie tv come quelli dedicati al Giusto Giorgio Perlasca», che corroborarono il mito collettivo del non coinvolgimento italiano nella “brutta faccenda” del genocidio, che poteva così essere imputato tutto quanto e solamente ai “cattivi tedeschi”.

E per concludere con le parole di Simon Levis Sullam: «Per molti versi l’Italia è passata dall’”era del testimone”, che ha dato centralità all’esperienza e memoria delle vittime, a quella che potremmo chiamare l’”era del salvatore”, che celebra i soccorritori. Senza passare per alcuna “era del carnefice”, che ne esaminasse a fondo i misfatti, su cui è sceso anzi un colpevole oblio» (p. 119).

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Brescia tu sei maledetta! https://www.carmillaonline.com/2016/05/27/brescia-tu-maledetta/ Fri, 27 May 2016 20:50:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30726 di Sandro Moiso

morte in piazzaFascism, wherever it appears, it is the enemy”. Philip K. Dick

Valerio Marchi, LA MORTE IN PIAZZA. Indagini, processi e informazione sulla strage di Brescia, a cura di Silvia Boffelli, Red Star Press, Roma 2015, pp. 355, € 22,00

A Brescia il fascismo sembra non essere mai morto. Ciò non soltanto per la contiguità geografica con i cimeli di Salò, l’ultima capitale del fascismo italiano, ma soprattutto per l’eredità di sangue, intrighi e violenze che quella esperienza aveva portato e ha continuato a portare con sé. Come la strage avvenuta in Piazza della [...]]]> di Sandro Moiso

morte in piazzaFascism, wherever it appears, it is the enemy”. Philip K. Dick

Valerio Marchi, LA MORTE IN PIAZZA. Indagini, processi e informazione sulla strage di Brescia, a cura di Silvia Boffelli, Red Star Press, Roma 2015, pp. 355, € 22,00

A Brescia il fascismo sembra non essere mai morto. Ciò non soltanto per la contiguità geografica con i cimeli di Salò, l’ultima capitale del fascismo italiano, ma soprattutto per l’eredità di sangue, intrighi e violenze che quella esperienza aveva portato e ha continuato a portare con sé. Come la strage avvenuta in Piazza della Loggia il 28 maggio 1974 ben contribuì a dimostrare e che in mille forme sembra essere giunta fino ai giorni nostri.

Proprio per questo motivo la riedizione del testo di Valerio Marchi, pubblicato per la prima volta una decina di anni prima della scomparsa dell’autore,1 si rivela ancora particolarmente utile. Non soltanto per riflettere sulla lunga serie di indagini, depistaggi e processi che da quel vile attentato presero il via ma, e forse soprattutto, per la riflessione che l’accurato lavoro di indagine svolto all’epoca dall’autore, oggi arricchito dalla bella ed aggiornata postfazione curata da Silvia Boffelli, costringe a fare sull’uso che di quella strage e della sua immagine e del suo ricordo è stato fatto non solo per ridisegnare i confini del conflitto politico tra le classi, ma anche della memoria collettiva.

Oggi, in tempi di referendum destinati a modificare pesantemente le garanzie costituzionali, in presenza di riforme del lavoro che riportano agli anni precedenti i conflitti degli anni sessanta e settanta la condizione dei lavoratori e dei giovani disoccupati e di criminalizzazione integrale di qualsiasi forma di dissenso che possa far anche solo balenare lo spettro della lotta di classe, si può tranquillamente affermare che quella strategia, troppo semplicemente definita fin da allora come “strategia della tensione”, ha vinto. Momentaneamente magari, come sempre avviene nel ciclo lungo dello scontro tra capitale e lavoro, ma sicuramente per il momento storico che stiamo attraversando. Non solo in Italia, ma a livello europeo.

Che il fascismo più criminale, dalla guerra civile iniziatasi nel 1921 fino agli anni del terrorismo nero oppure delle ben più recenti aggressioni ai giovani profughi riparati nell’Alta Valle Trompia, sia soltanto e sempre uno strumento al servizio del capitale, un tempo agrario ed industriale ed oggi finanziario, lo si poteva facilmente dedurre seguendone il percorso storico e individuale dei suoi rappresentanti palesi ed occulti oppure cogliendo il significato profondo della mancata applicazione di qualsiasi tipo di epurazione reale nelle file della burocrazia statale e dei rappresentanti più compromessi del mondo politico avvenuta fin dai tempi dell’amnistia Togliatti, promulgata con il decreto presidenziale n.4 del 22 giugno 1946.

Quello che, forse, fino ad ora non è mai stato colto nella sua interezza era, e rimane, costituito dal fatto che le strategie di uso della manovalanza fascista e dei servizi , tutt’altro che deviati, erano e permangono di lungo periodo. Periodo talmente lungo da far sì che anche la memoria collettiva possa essere cancellata e manipolata, fino ad essere rovesciata nel contrario di ciò che all’inizio era stata.

Sotto questo punto di vista l’attenzione prestata da Valerio Marchi e dalla “continuatrice” della sua opera, Silvia Boffelli appunto, al modo in cui gli strumenti di informazione e il mondo politico, fin dal primo giorno dell’attentato di piazza della Loggia, hanno presentato e ricostruito i fatti e le responsabilità effettive costituisce forse la parte più importante del libro. Perché il discorso pubblico portato avanti dai media e dai rappresentanti delle istituzioni, da allora in poi, ha contribuito a ridefinire i percorsi della memoria in una maniera distorta e fuorviante che, nella confusa e interclassista iniziativa delle formelle dedicate a tutte le vittime indistinte della violenza “politica”, ha raggiunto proprio a Brescia la sua concreta e piena formalizzazione.

E se si trattasse soltanto delle formelle sulle quali i bresciani e i turisti pongono distrattamente i piedi mentre passeggiano per il centro storico forse non varrebbe nemmeno la pena di parlarne ancora.2 Piuttosto rimane il problema, già sollevato da un vecchio comunista fin dagli anni del secondo dopoguerra3, di un antifascismo istituzionalizzato che “sarebbe stato il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo”. Questo tipo di antifascismo, che ha definito il fascismo solo in rapporto allo stato liberale e democratico e non in termini di dominio di classe, ha così contribuito, in tempi lunghi quasi quanto gli eoni evocati da Lovecraft nel suoi romanzi dell’orrore, ad assimilare il fascismo a qualsiasi forma di violenza o di azione tesa a spodestare il dominio del capitale sulla specie umana.

In questo modo i morti di piazza della Loggia, quasi tutti militanti politici e/o sindacali, sono stati “affratellati” nelle rievocazioni più recenti ai fascisti caduti per mano della reazione di classe alle loro violenze e agli assassini di Stato dalle mani macchiate di sangue operaio e studentesco. Così l’anarchico Serantini, ucciso dalla polizia a Pisa, è affiancato, nel severo e osceno ordine cronologico del percorso, al commissario Calabresi dalla triste fama. Senza vergogna, impudicamente e con grande strombazzamento di discorsi sentimental-catto-patriottici. Falsi, tutti, come uno spin-off di Beautiful.

L’obiettivo di tale politica del ricordo e dello “strazio” pubblico diventa così quello di piangere gli assassini prezzolati insieme alle loro vittime, accomunando tutti nel grande mare della pietà e dell’interesse della riappacificazione nazionale. Magari quella a cui mirava già l’appello “ai fratelli in camicia nera” rivolta nel 1936 dai vertici del Partito Comunista ai fascisti. E di cui le attuali politiche renziane potrebbero essere il frutto supremo e finale.

Ma non corriamo troppo. Riprendiamo il discorso dal testo, per esempio là dove, sulla base degli studi di De Lutiis e Flamini sui servizi segreti e gli apparati politico-militari dello Stato italiano, Marchi sottolineava come “nell’ambito degli ambienti golpisti italiani, nel 1974 giunge a compimento una sorta di resa dei conti tra due differenti visioni delle strategie eversive da seguire: a confrontarsi sono da un lato quella che Flamini definisce l’«ala golpista radicale», che utilizza massicciamente l’estremismo neo-fascista e opera per instaurare in Italia una dittatura militare,e dall’altro quei settori che, pur utilizzando gli stessi sistemi, considerano questo tipo di regime ormai obsoleto,inadatto a gestire uno Stato a sviluppo industriale avanzato, e che operano attraverso la strategia della tensione per favorire l’avvento di una repubblica presidenziale, autoritaria, saldamente inserita nel modello occidentale non soltanto nel campo delle scelte geo-politiche, ma anche in quello delle forme istituzionali.” (pag.48)

Citando, poi, a conferma un testo di De Lutiis, là dove si afferma, quasi profeticamente, che: “I settori meno rozzi del «golpe invisibile» preparano una soluzione diversa da quella del colpo di stato militare. L’alternativa è un golpe incruento, che dovrà avere caratteristiche di riforma istituzionale e venature «di sinistra». Sarà appoggiato dalla parte più moderna del mondo industriale italiano e tenderà a inserire l’Italia – priva del «pericolo comunista» – in un contesto europeo più efficiente […] E’ il progetto noto come «golpe bianco […] che ha come propugnatori Edgardo Sogno e Luigi Cavallo, ma gode di simpatie in un vasto arco politico […] oltre che l’appoggio determinante della Fiat. Per attuare questo piano è preliminarmente necessario sgombrare il campo dagli ambienti coinvolti nei progetti golpisti più rozzi4 “ (pag.51)

Fin qui, dunque, il discorso sul fascismo e sul suo uso è abbastanza chiaro: manovalanza terroristica buona sia per un golpe un po’demodé, come quello auspicato dai settori più arretrati dell’esercito e delle istituzioni, sia come soggetto su cui scaricare la responsabilità terroristica di una strategia che ha in ambienti più moderni i suoi ideatori che, proprio in nome della difesa della democrazia e dell’interesse nazionale (in realtà sovranazionale e finanziario), chiamano all’union sacrèe tra le classi contro ogni forma di violenza e di opposizione (soprattutto di classe).

Il fatto poi, come i vari processi hanno in seguito dimostrato, che non si sia mai davvero giunti ad una piena resa dei conti “istituzionale”, ma piuttosto ad una sorta di “Patto del Nazareno” ante-litteram e di opportunistica convenienza per le varie parti in causa non cambia di molto il senso del tutto. Se non che “il segreto di Stato” più volte invocato ed utilizzato per impedire, nel corso dei vari processi, di giungere alla piena affermazione della verità e deviarne invece le conclusioni, è oggi ancora estremamente di moda. Una sorta di “per il bene della causa” che tutto deve coprire e giustificare. Confermando così, senza neanche voler troppo stupire i lettori, che il capitalismo non può e non deve processare se stesso. Toccherà ad altri e in altri contesti storici e sociali farlo.

Resta però, sintetizzando forse fin troppo un testo la cui lettura è davvero molto interessante e coinvolgente, un problema in gran parte irrisolto: perché proprio Brescia fu scelta per costituire quasi il centro di una strategia che, comunque, si manifestò e colpì in più parti d’Italia? Come mai il fascismo era, e rimane ancora, così forte in tale realtà? Una realtà in cui lo squadrismo locale (si pensi soltanto al camerata Silvio Ferrari saltato in aria, con la bomba che stava trasportando sul suo scooter, pochi giorni prima della strage) si mescolava, come per certi versi ancora oggi, con le tifoserie calcistiche e gli uomini degli apparati di “sicurezza e disinformazione” oltre che con un tessuto economico ed imprenditoriale che, sia nell’agricoltura che nell’industria, rimpiangevano, e forse rimpiangono ancora, gli anni della repubblica delle camicie nere e del cattolicesimo più retrivo.

via mancini 1 Una realtà, però, fatta anche, all’epoca, di fabbriche e di forti sindacati, di fiducia nella sinistra istituzionale, di un cattolicesimo sociale che costituiva un po’ l’anima della sinistra DC, in cui la presenza della memoria della lotta partigiana, sia di sinistra che cattolica era ancora molto forte e presente. In cui, però, era forse assente un’autonomia di classe che permettesse nella città e nel territorio circostante quelle forme di auto-organizzazione operaia e giovanile che nelle vicina metropoli industriale di Milano non avevano comunque permesso uno sviluppo, in proporzione, altrettanto ampio del fenomeno e della militanza fascista. Costretta, in qualche modo, ad “emigrare” in quel di Brescia dove, evidentemente, si sentiva più sicura e protetta.

Insomma, forse la coscienza sinceramente anti-fascista della città e dei suoi lavoratori aveva trovato nel “semplice” anti-fascismo il suo limite stesso. Antifascismo spontaneo e sincero che si trovò a fare i conti con una delle stragi più odiose della storia d’Italia e, immediatamente, con una reazione delle forze dell’ordine, di una parte delle istituzioni e di alcuni giornali nazionali che miravano a negare da subito le effettive responsabilità. Ma che non seppe andare al di là della denuncia e dell’attesa di una giustizia di Stato e istituzionale che non avrebbe mai potuto soddisfare le aspettative dei famigliari delle vittime e di tutti coloro che al fascismo volevano opporsi. Favorendo così, indirettamente, anche quel progetto di lungo periodo che nelle manifestazioni istituzionali odierne e nelle scelte della Casa della Memoria vede ancora impegnati alcuni dei suoi protagonisti.

Ecco perché, ancora oggi, la maledetta strage di Brescia non può essere trattata soltanto come Storia oppure ridotta a mera vicenda giudiziaria o, ancor peggio, ad innocua memoria della paura e del dolore. Ciò che l’ha prodotta vive ancora oggi. In mezzo a noi e sui nostri schemi televisivi, sui social e nelle campagne forsennate di riforma istituzionale e del lavoro. Vive nel taglio della spesa sociale e nell’uso dei migranti come ricatto o come paravento. Vive nel lavoro sottopagato e nelle violenze impunite delle forze del disordine. Vive nelle aggressioni ai compagni e agli immigrati. Vive e non è ancora affatto morto.francia-scioperi
E se il suo nome è Fascismo, di cognome fa Capitalismo.
Sarà però la specie nel suo insieme a metterli entrambi in definitiva liquidazione.

N.B.
La foto in bianco e nero, sopra riprodotta, riguarda l’assalto di massa alla sede del Movimento Sociale Italiano di via Mancini a Milano, nell’aprile del 1975, quando la stessa fu incendiata e gravemente danneggiata.


  1. Valerio Marchi (Roma 1955 – Polignano a Mare 2006) è stato fondatore della “Libreria Internazionale” di San Lorenzo e interprete del conflitto giovanile oltre che sociologo estremamente attento alle dinamiche attraverso le quali l’informazione mainstream legge e deforma larealtà. Tra le sue opere si vanno ricordate Teppa (Red Star Press), Ultrà. Le culture giovanili negli stadi d’Europa (Hellnation Libri/Red Star Press), La sindrome di Andy Capp. Culture di strada e conflitto giovanile (2004) e Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio (2005 e 2014)  

  2. L’argomento è già stato affrontato su Carmilla in almeno due occasioni: https://www.carmillaonline.com/2016/05/24/le-formelle-della-memoria-corta-manipolata/
    https://www.carmillaonline.com/2015/06/10/formelle-di-stato/  

  3. Amadeo Bordiga  

  4. G. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Roma, editori Riuniti 1991, pag.196  

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