Media – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Attenzione e potere nell’era della distrazione digitale di massa https://www.carmillaonline.com/2024/04/09/attenzione-e-potere-nellera-della-distrazione-digitale-di-massa/ Tue, 09 Apr 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81514 di Gioacchino Toni

Emanuele Bevilacqua, Attenzione e potere. Cultura, media e mercato nell’era della distrazione di massa, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 221, € 17,00 edizione cartacea, € 9,99 edizione ebook

Attenzione e potere di Emanuele Bevilacqua offre una panoramica ragionata sul rapporto fra concentrazione umana e media digitali, mostrando come, paradossalmente, mentre da un lato l’universo digitale, con la sua frenesia di riversare “attrazioni” in quantità, tende a diminuire la soglia di attenzione degli utenti indirizzandoli ad una sorta di “superficialità di sopravvivenza”, dall’altro è costretto ad ottenerla, con ogni mezzo necessario, in quanto merce preziosa per i grandi [...]]]> di Gioacchino Toni

Emanuele Bevilacqua, Attenzione e potere. Cultura, media e mercato nell’era della distrazione di massa, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 221, € 17,00 edizione cartacea, € 9,99 edizione ebook

Attenzione e potere di Emanuele Bevilacqua offre una panoramica ragionata sul rapporto fra concentrazione umana e media digitali, mostrando come, paradossalmente, mentre da un lato l’universo digitale, con la sua frenesia di riversare “attrazioni” in quantità, tende a diminuire la soglia di attenzione degli utenti indirizzandoli ad una sorta di “superficialità di sopravvivenza”, dall’altro è costretto ad ottenerla, con ogni mezzo necessario, in quanto merce preziosa per i grandi colossi come Google, Amazon e OpenAi, dunque per i media d’informazione, le inserzioni commerciali, i servizi online e, non ultima, la propaganda politica. Quella tratteggiata dal libro è una vera e propria battaglia per l’attenzione nell’economia e nella politica digitali.

Se da un lato, come ricorda Emanuele Trevi nella postfazione al volume di Bevilacqua, la lentezza rappresenta la più grande alleata dell’attenzione, è pur vero che quest’ultima rischia di non favorire la curiosità. Concentrare in maniera settoriale l’attenzione rischia di vincolare l’individuo all’interno di una “bolla” che lo isola da ciò che vi sta attorno impedendogli di “scoprire” ambiti e punti di vista non ancora esplorati.

Si pensi a come le piattaforme che ricorrono a sistemi algoritmici di raccomandazione automatica tendano a mantenere l’utente all’interno dell’ambito verso cui ha, appunto, concentrato la sua attenzione limitando, di fatto, la possibilità di aprirsi verso l’esterno di quella bolla che finisce per essere vissuta come comfort zone perpetuante i “suoi” convincimenti, interessi, punti di vista e, in definitiva, il suo immaginario sempre più “algoritmico”. Netflix ed Amazon, ad esempio, riescono a indirizzare circa l’80% delle “scelte” degli utenti, pur all’interno di un meccanismo di negoziazione, come spiega Massimo Airoldi1, attuato attraverso un feedback loop tra i sistemi di machine learnign e gli esseri umani.

Del deficit di attenzione con cui ci si rapporta al mondo digitale – il tempo medio di permanenza sui siti e sulle piattaforme spesso si misura nell’ordine dei secondi – si sono presto accorti gli analisti, i produttori di contenuti digitali e, soprattutto, gli inserzionisti pubblicitari che a fronte di numeri elevati di visitatori faticano ad ottenere quella soglia minima di attenzione per cui vale la pena “investire”.

I sofisticati sistemi di profilazione degli utenti digitali hanno mostrato agli operatore del settore dell’informazione – su cui concentra la sua attenzione Bevilacqua – come sia poco spendibile l’elevato numero di visitatori digitali se non si ottiene una soglia di attenzione – di cui il tempo di permanenza è condizione necessaria ma di certo non sufficiente – paragonabile all’esperienza pre-digitale. Quotidiani come il “Guardian” si sono pionieristicamente dotati di sistemi di monitoraggio in tempo reale che permettono ai giornalisti di seguire costantemente come i contenuti vengono presi in esame dagli utenti.

Gli snodi fondamentali che hanno sancito nel corso del primo decennio del nuovo millennio il repentino passaggio all’universo della comunicazione digitale contemporanea secondo lo studioso sono riconducibili: alla centralità assunta dal web nella vita quotidiana delle persone; all’avvio dei processi di datificazione operati dai grandi colossi del web; all’espansione online dei media tradizionali nella convinzione che la pubblicità li avrebbe “automaticamente” seguiti; alla crisi economica e alla bolla dei subprime che hanno toccato anche l’industria dei media determinando ristrutturazioni e ridimensionamenti; all’emergere delle app come alternativa ai siti web ed al massiccio spostamento verso gli smartphone. A modificare il panorama dell’informazione hanno contribuito in maniera rilevante i social che hanno decentrato l’informazione ampliando enormemente gli ambiti di produzione e diffusione delle notizie ponendo, inoltre, problematiche in ordine all’affidabilità delle fonti e delle notizie trasmesse.

Rivelatosi estremamente fragile, il sistema dei media si è trovato a dover fare i conti con il paradosso digitale che, a fronte di un numero esorbitante di utenti, vede però una scarsa propensione al pagamento dei contenuti online ed una superficialità di fruizione scarsamente profittevole se non per i grandi colossi del web.

A fronte di tale stato di crisi, la riduzione dei costi operata da tanti organi di informazione ha inevitabilmente condotto verso un abbassamento della qualità e dell’affidabilità dei contenuti. La transizione al digitale operata dai media è avvenuta in un contesto caratterizzato da: una sovrabbondanza di contenuti digitali di scarsa qualità; una difficoltà di misurazione dell’attenzione degli utenti; un’ossessiva ricerca di attenzione comportante un consumo sempre più superficiale; una personalizzazione logaritmica dell’offerta che ha condotto a una limitazione dell’esposizione diversificata di informazioni; una qualità dell’attenzione sempre più passiva e distratta.

Numerosi studi scientifici hanno dimostrato i limiti della lettura digitale rispetto a quella cartacea in termini di attenzione profonda, di comprensione del testo, dunque di apprendimento. Analisi dettagliate hanno mostrato come come la lettura digitale tenda a ridurre il tempo dedicato a processi come inferenza, analisi critica ed empatia, fondamentali per il processo di apprendimento. D’altra parte, gli studi di Daniel Kahneman e Amos Tversky hanno evidenziato come gli individui nel prendere decisioni – persino in ambito economico – siano sempre più indotti a ricorrere al “pensiero veloce” (Sistema 1), facilmente condizionabile dalle emozioni, che prevede scorciatoie mentali basate su un numero estremamente limitato di informazioni, anziché fare ricorso al “pensiero lento” (Sitema 2) che prevede regole logiche e la presa in esame di tutte le informazioni disponibili.

Al fine di ottenere lettori “più concentrati” sugli articoli, alcuni quotidiani – es. “Guardian”, “News UK”, “Times” e “Le Monde” – hanno deciso di ridurre la produzione online provando a sottoporre ai lettori una offerta meno dispersiva e più curata ottenendo maggiore attenzione, come dimostrano anche i tempi di permanenza sugli articoli decisamente più lunghi ed un incremento degli abbonamenti. Bevilacqua analizza anche le strategie messe in atto da alcune testate esclusivamente digitali – es. “Vox”, “Medium” e “Substrack” – al fine di conquistare una maggiore attenzione da parte degli utenti, inoltre si sofferma sul ricorso sempre più massiccio alle newsletter.

L’ultima parte di Attenzione e potere è dedicata al ruolo dell’intelligenza artificiale nel panorama editoriale contemporaneo ponendo l’accento su alcune questioni di particolare rilievo come il ricorso a sistemi di editing e correzioni automatizzati, l’affinamento della personalizzazione dell’offerta, l’autenticità, la responsabilità e la tendenziale omogeneità dei contenuti generati da IA e, non da ultimo, l’impatto occupazionale che l’introduzione massiccia di sistemi di intelligenza artificiale comporta.

Sebbene il volume di Bevilacqua sia incentrato sul problema dell’attenzione in relazione soprattutto all’ambito informativo-mediatico, offre non pochi spunti di riflessione validi anche per l’universo educativo-scolastico, ambito in cui la problematica dell’abbassamento della soglia di attenzione è quanto mai evidente e lo sarà a maggior ragione man mano che procedono i processi di digitalizzazione e di introduzione di IA generativa nella didattica.


  1. Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024. Si veda a tal proposito Gioacchino Toni, Per una sociologia degli algoritmi. La cultura nel codice e il codice nella cultura, in “Carmilla online”, 7 marzo 2024. 

]]>
Cronaca giudiziaria e diritto all’informazione https://www.carmillaonline.com/2024/03/22/cronaca-giudiziaria-e-diritto-allinformazione/ Fri, 22 Mar 2024 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81522 di Pietro Garbarino

Molto spesso ci capita di assistere a giornali-radio, telegiornali, e notiziari vari, per la verità più simili a bollettini di cronaca giudiziaria che non a rubriche di aggiornamento del pubblico, fatti di carattere giudiziario che si ritiene interessino o riguardino il vasto pubblico.

Anche numerosi programmi di intrattenimento televisivi sono spesso incentrati su discussioni e commenti che riguardano vicende giudiziarie. La stampa, i media, i social si manifestano come avidissimi raccoglitori di casi giudiziari riguardanti fatti o personaggi di pubblica rilevanza, e divengono a loro volta propalatori di notizie che riguardano indagini giudiziarie processi in corso.

Non [...]]]> di Pietro Garbarino

Molto spesso ci capita di assistere a giornali-radio, telegiornali, e notiziari vari, per la verità più simili a bollettini di cronaca giudiziaria che non a rubriche di aggiornamento del pubblico, fatti di carattere giudiziario che si ritiene interessino o riguardino il vasto pubblico.

Anche numerosi programmi di intrattenimento televisivi sono spesso incentrati su discussioni e commenti che riguardano vicende giudiziarie. La stampa, i media, i social si manifestano come avidissimi raccoglitori di casi giudiziari riguardanti fatti o personaggi di pubblica rilevanza, e divengono a loro volta propalatori di notizie che riguardano indagini giudiziarie processi in corso.

Non si tratta certo di una novità che il cosiddetto mondo dell’informazione si occupi di tali argomenti; anche in un lontano passato il caso Bruneri / Cannella (meglio conosciuto come lo “smemorato di Collegno”) il caso Montesi, il delitto Maria Martirano e, per avvicinarci al nostro tempo, numerosi casi di omicidi in famiglia e femminicidi, hanno invaso le pagine dei giornali e i servizi radio televisivi. Ma perché?

Qualcuno potrebbe fornire una lapidaria spiegazione liquidatoria ricorrendo alla famosissima battuta di Humphrey Bogart in un celebre film degli anni ’50 (del ‘900): “E’ la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente!”; ma tuttavia bisogna farsi delle domande.

Perché proprio i processi? Perché tanto crescente interesse? Quale è il motivo di voler conoscere i dettagli di situazioni così particolari? C’è un interesse pubblico qualificato in tutto ciò? Ma, ancor più, esiste una privacy che tutela le persone sotto indagine o sotto processo? Non è scritto nella Costituzione che ciascuno è da ritenersi innocente sino a sentenza definitiva?
Rispondendo a ciascuna di queste domande, o almeno tentando di dare una spiegazione ai quesiti posti, ci si addentra in una materia assai delicata e spinosa, che ci porta subito ad individuare le parti del problema, intese come soggetti attivi, i loro interessi, le loro finalità.

Si tratta dunque di analizzare quelle risposte, quanto meno per tracciare il quadro di una “vexata quaestio” che ormai da lungo tempo coinvolge organi di giustizia e organi di stampa, estendendosi però anche al mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento, alla politica e anche alle discussioni nei luoghi pubblici, bar e parrucchieri compresi.

La curiosità che da tempo alimenta chi lavora nel settore della stampa e dell’informazione confligge tuttavia con chi, sottoposto a indagine o giudizio, auspica che non si parli affatto di lui.

Si tratta dunque di interessi contrapposti che tutti gli ordinamenti giuridici democratici tendono a tutelare in entrambi i sensi.
Ma come, concretamente, sarà ciò possibile?

Per un approccio al tema sarà necessario individuare quali siano i caratteri, i tempi, le modalità di quanto avviene invece nel mondo esterno agli uffici giudiziari, come le radio e le televisioni, i set cinematografici e i teatri di posa, gli studi di registrazione, i teatri, e ogni luogo ove si possa svolgere una pubblica riunione, nei quali si ritenga di parlare di inchieste giudiziarie o di veri e propri procedimenti giudiziari.

Si tratta, in buona sostanza, di mettere a confronto il procedimento giudiziario e quello che, al passo coi tempi, possiamo chiamare “processo mediatico”.

Non è molto il caso di disquisire, in particolare con Avvocati che praticano il diritto penale, di quanto siano definiti, al limite della rigidità, i termini e contorni del processo penale.

Tutti noi sappiamo che vi sono tempi tecnici “morti”, a cominciare dalla iscrizione a ruolo generale del fascicolo e alle sue vicende interne all’Ufficio della Procura della Repubblica. Ma sappiamo anche che vi sono valutazioni da svolgere e conseguenti decisioni da assumere circa gli atti di indagine da espletare. Talvolta tali valutazioni sono semplici e rapide e le successive attività quasi automatiche; però, talvolta, la delicatezza delle circostanze e la labilità degli elementi probatori o indiziari induce a scelte più ponderate e meno tempestive. In simili circostanze appare utile tenere il massimo riserbo da parte di chi indaga.

Tutto ciò determina situazioni di assenza di attività percepibili all’esterno e non conoscibili, per cui ogni notizia in merito è da considerarsi una congettura. Il che, dal punto di vista di chi fa informazione pubblica, può considerarsi come mero pettegolezzo (o gossip, come si dice oggi), se non come falsa notizia. Ma anche il prosieguo delle indagini può essere solo oggetto di notizia circa gli atti da svolgere o da compiere, ma non sui loro contenuti.

Cioè, in teoria, il processo svela le proprie carte al termine delle indagini, allorché quello che potrà, o potrebbe, tradursi in materiale probatorio, viene reso noto alla o alle parti indagate. Ma anche nella fase successiva alla “scopertura delle carte”, possono essere svolti nuovi atti di indagine, e ciò anche da parte della difesa, e non è da escludere che essi vengano giocati solo a dibattimento avviato o nell’udienza preliminare, se prevista e richiesta.

Dunque la prima pubblicità degli atti, intesa come disponibilità delle parti processuali per la loro divulgazione al pubblico, dovrebbe in linea di principio avvenire solo quando inizia il vero e proprio processo.
Va tuttavia tenuto conto che vi possono ostare delle evidenti e notevoli riserve da parte dei protagonisti del processo; infatti mentre l’imputato (divenuto ormai tale, da indagato quale era) non ha certamente piacere di rendere di pubblico dominio le accuse che gli si muovono, anche il Pubblico Ministero può avere interesse a mantenere, per quanto possibile, le proprio carte coperte, onde evitare, ad esempio, che testimoni di accusa possano essere intimiditi, o che prove documentali possano essere alterate o rese meno probanti.

A questo punto, si potrebbe dire che il meccanismo processuale ha già in sé gli elementi per poter tutelare uniformemente sia la solidità dell’ipotesi di accusa e degli elementi a sostegno, sia la doverosa tutela della sfera privata dell’imputato che, ricordiamolo, deve essere considerato innocente sino a sentenza definitiva. Tuttavia, sappiamo bene che, assai spesso, le cose non procedono in tal modo.

Tutto dipende dal fatto che la giurisprudenza, e in particolare quella della giustizia europea, riconosce come alto valore il cosiddetto diritto di cronaca, ritenendo la funzione della stampa come quella di “cane da guardia”, in senso democratico, della funzione giudiziaria.

Il principio è sicuramente nobile, ma è la sua concreta applicazione che lascia perplessi e dubbiosi in quanto, se è vero che la stampa, rendendo pubblici particolari fatti e atti di cronaca giudiziaria, dà alla collettività un servizio di informazione che ha la rilevanza di un interesse pubblico; è altrettanto vero che diritti e libertà fondamentali dell’individuo sono chiaramente enunciati nella Costituzione e che va sempre tutelata la possibilità di poterli concretamente e pienamente esercitare.
Nonostante ciò non si può dire, nella realtà dei fatti, che quella funzione, del tutto legittima e perfino auspicabile, venga realizzata in modo ineccepibile e corretto.

Innanzitutto perché spesso la fonte (Magistratura o Forze di Polizia, per lo più) è unilaterale e non ha contraddittorio, almeno nell’immediato, ma anche perché l’interesse dell’operatore della stampa non si appunta sulla sola fondatezza della notizia relativa al procedimento giudiziario, bensì sul clamore che la notizia stessa riscontra nell’opinione pubblica; vale a dire, la qualità della persona coinvolta; la particolarità, spesso truculenta, del fatto; la curiosità pubblica rispetto a persone che rivestono ruoli sociali politici ed economici di elevato rango; i risvolti che la situazione resa nota può avere su altri aspetti e fatti di natura politica ed economica.

Senza contare che, per la natura dell’odierno processo penale, la fase che dà inizio al processo è di mera acquisizione degli elementi di indagine e non dà luogo, salvo alcune eccezioni ben definite, e specifiche situazioni previste, a immediate conseguenze sanzionatorie.

Ma l’esposizione mediatica non è mai una vicenda senza conseguenze, nel senso che chi vi si trova esposto o subisce un giudizio pubblico, molto spesso approssimativo e affrettato, e talvolta perfino reagisce con tutti i mezzi possibili, non esclusi quelli giudiziari. Dunque si crea una non certo utile, né edificante, concorrenza tra il processo giudiziario e quello mediatico, che raramente sono di complemento l’uno all’altro, ma più spesso, diffondendo notizie poco vagliate, non proposte in situazione di neutrale contraddittorio e spesso riferite in modo e con linguaggio non tecnici, tendono a formare un’opinione già definita nel pubblico, ignorando tutti i particolari e gli aspetti dell’indagine, che inevitabilmente creano, in modo anche subdolo, opinioni generalizzate, e spesso anche contrapposte, sulla singola vicenda. Così facendo di certo non si contribuisce né agli accertamenti di giustizia, né alla serenità di chi si trova indagato, o anche imputato.

Dunque la concorrenza di un processo celebrato negli uffici e nelle aule giudiziarie con un processo celebrato pubblicamente su giornali, televisioni, spettacoli di intrattenimento e social forum si traduce, rovinosamente, nella mancanza di una rigida e ben orientata disciplina del cronista, del conduttore o dell’anchor-man, contribuendo invece alla formazione di fronti di opinione non ben informati, e spesso neppure del tutto coscienti di quanto è in gioco.

Di sovente le questioni giuridiche sottese alle vicende trattate dal cronista vengono pretermesse o ignorate (anche perché molto tecniche e spesso noiose e incomprensibili per il pubblico non esperto), trasformandosi in banali argomenti per aprioristiche prese di posizione, anche dipendenti dai profili accattivanti dei protagonisti.

In definitiva, vicende giudiziarie del tutto serie rischiano di diventare oggetto di tifo di stampo calcistico, influenzati da sentimenti superficiali e pulsioni non del tutto razionali, là dove invece razionalità, logica e spirito obiettivo sono essenziali per fare giustizia.

In tali vicende e circostanze non è agevolato neppure l’imputato o indagato, in quanto non solo la sua privatezza, ma anche la sua reputazione vengono inevitabilmente compromesse; e tutto ciò alla faccia della presunzione di innocenza!
Dunque, alla luce di quanto osservato, occorre allineare, in uno sforzo in positivo di rilevanti proporzioni il tema della necessaria riservatezza delle indagini e degli accertamenti processuali con il diritto della opinione pubblica ad essere informati, non tanto e non solo sul fatto che quella nota persona è sotto indagine o giudizio, ma anche sul fatto che la giustizia rispetti i suoi diritti e, specialmente, che lo consideri innocente sino a prova contraria.

Quindi, che fare? Come operare?

Per tentare di arrivare ad un qualche risultato sarà necessario che la cultura e la professionalità degli operatori della giustizia e di quelli della informazione si avvicinino e si omogeneizzino quanto più possibile; il che significa che l’investigatore ed il requirente debbano prendere il considerazione l’ormai ampiamente riconosciuto diritto dell’opinione pubblica di conoscere i fatti relativi a casi di cronaca giudiziaria che possano suscitare l’attenzione di un vasto pubblico; ma anche i giornalisti devono ben conoscere l’entità e lo spessore dei diritti degli inquisiti e la presunzione della loro innocenza, anche di fronte a circostanze apparentemente già chiare e di presumibile facile interpretazione.

Vi deve dunque essere un’area di cultura e professionalità comuni tra l’operatore giudiziario ed il cronista o conduttore o opinionista, in quanto tale territorio comune di professionalità è quello che garantisce il reciproco rispetto, ma anche l’utilità collettiva delle rispettive funzioni.

In altri termini il magistrato e il cronista devono individuare un terreno dove due diverse, ed apparentemente opposte esigente, rappresentative entrambe di interessi rilevanti e giuridicamente qualificati, si incontrino.
E allora, per conseguenza, si devono considerare le seguenti proposte:

a) In primo luogo, occorre che possano essere rese pubbliche e accessibili quelle parti di indagine che si ritengono completate e tali di costituire compiuto materiale probatorio o indiziario da offrire al dibattimento. A tale fine servirebbe anche un front-desk presso Questure, Comandi dell’Arma e Palazzi di Giustizia.

b) Occorre altresì che gli esiti di tali indagini vengano sottoposti a contraddittorio con la parte inquisita, in modo da rendere note altresì le eventuali motivazioni di contrasto.

c) Tutto ciò deve essere svolto da personale che abbia una specifica istruzione professionale sulle regole processuali vigenti, al fine di non confondere situazioni e circostanze che nuocciano alla situazione dell’inquisito o non creino superficiali impressioni fuorvianti nel pubblico.

Insomma, la progressiva “giurisdizionalizzazione” della professione giornalistica, e in generale del settore della comunicazione informativa, e anche talvolta culturale, si deve svolgere tra attori corretti e che parlino lo stesso linguaggio; e ciò al fine di correttamente informare l’opinione pubblica.

Infine, un capitolo a parte lo meriterebbe il cosiddetto “giornalismo d’inchiesta”.
In questo caso però il suo ruolo è di denunzia, ma ciò, più che interessare il processo in senso stretto, riguarda la fase di avvio delle indagini; tuttavia questo è un aspetto che andrebbe sottoposto ad una revisione normativa per quanto concerne la disciplina della tutela delle fonti. Appare però evidente che, in tale evenienza, il rapporto precedentemente descritto si capovolge.
Infatti in tal caso sarà il Magistrato a dovere cogliere gli stimoli e gli spunti investigativi che gli provengono dal mondo dell’informazione assolvendo così lui stesso al ruolo di valorizzazione dell’attività mediatica.

]]>
L’esperienza della vergogna nell’epoca del virtuale https://www.carmillaonline.com/2024/03/21/lesperienza-della-vergogna-nellepoca-del-virtuale/ Thu, 21 Mar 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81123 di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Sguardi che bruciano. Un’estetica della vergogna nell’epoca del virtuale, Meltemi, Milano 2023, pp. 282, € 22,00

Sull’universo tecnolgico-mediale e su quanto questo rimodelli la percezione e, più in generale, la vita degli individui è stato scritto parecchio negli ultimi tempi e in tutte le sfumature possibili comprese tra le visioni apologetiche e quelle apocalittiche. Il volume di Federica Cavaletti esamina una questione scarsamente indagata: l’esperienza della vergogna nell’epoca delle tecnologie mediali contemporanee. Se la vergogna è un’emozione “dello sguardo” di soggetti altri, tale sguardo può “continuare a bruciare”, come suggerisce il titolo del volume, prolungando i [...]]]> di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Sguardi che bruciano. Un’estetica della vergogna nell’epoca del virtuale, Meltemi, Milano 2023, pp. 282, € 22,00

Sull’universo tecnolgico-mediale e su quanto questo rimodelli la percezione e, più in generale, la vita degli individui è stato scritto parecchio negli ultimi tempi e in tutte le sfumature possibili comprese tra le visioni apologetiche e quelle apocalittiche. Il volume di Federica Cavaletti esamina una questione scarsamente indagata: l’esperienza della vergogna nell’epoca delle tecnologie mediali contemporanee. Se la vergogna è un’emozione “dello sguardo” di soggetti altri, tale sguardo può “continuare a bruciare”, come suggerisce il titolo del volume, prolungando i suoi effetti tramite oggetti e contesti. Le tecnologie contemporanee, capaci come sono di procurare appagamento estetico così come sensazioni di disagio, nel loro essere (anche) “tecnologie dello sguardo” non possono che incidere sull’esperienza della vergogna.

Proponendosi di resistere tanto alle sirene tecnofobiche, quanto a quelle tecnottimistiche, Cavaletti affronta dunque l’incidenza di tali tecnologie consapevole di come queste se da un lato accrescono la nostra visibilità agli occhi degli altri, dall’altro potenziano il nostro sguardo su noi stessi, consentendoci di guardarci ed eventualmente modificarci dal di fuori. I social media e le comunità digitali, così come la realtà virtuale, ad esempio, tendono a prestarsi ad entrambe le funzioni: mettono in vetrina la nostra immagine, sottoponendola così a sguardi altrui, ma ci consentono anche di intervenire su tale immagine.

A differenza di quanti sostengono che nell’attuale contesto di vetrinizzazione tecnomediale, l’esperienza della vergogna tenda a disancorarsi dal suo statuto e dal suo significato morale e relazionale per legarsi soprattutto al giudizio sull’apparenza, dunque a perdere di profondità, Cavaletti si dice convinta del fatto che la vergogna resti ancora oggi un’esperienza tutt’altro che depotenziata, palesandosi piuttosto nella sua variante “scopofobica”, determinata dalla presenza di un sguardo altrui, o di un suo surrogato oggettuale, percepito come giudicante ed i media interattivi contemporanei non possono che accentuare tutto ciò.

Nei media interattivi la condizione di trovarsi a essere oggetto dello sguardo altrui è indubbiamente ulteriormente accentuata. Che l’interlocutore sia un essere umano o una macchina, in tutti i modi replica e modifica più o meno palesemente le dinamiche proprie dei rapporti della vita reale. Se da un lato l’interattività tecnologica può accentuare le esperienze di vergogna proprie della vita concreta, dall’altro, sostiene Cavaletti, questa offre opportunità di «resistenza agli attacchi dello sguardo altrui e di affermazione di un senso di sé irrobustito e rinforzato».

Chi elude gli standard di aspetto “conformi” alla collettività facilmente è oggetto di reazioni avverse. L’universo tecnolgico-mediale contemporaneo «offre uno spazio di presentazione di sé alternativo: la società parallela, per così dire, del web, e in particolare delle comunità virtuali. Si tratta di spazi online accessibili a una moltitudine di utenti, che si trovano ad agire in tempo reale mentre svolgono attività di vario tipo».

Chi intende far parte di una comunità virtuale è tenuto a creare una propria rappresentazione virtuale, o avatar, dunque, nel caso «si trovi a possedere nella vita reale un corpo che lo espone a esperienze di vergogna» ha la possibilità «di sperimentare con il proprio aspetto in modo inedito: riproponendolo quale esso è nella realtà, e provando a manifestarlo in un contesto a rischio ridotto (in quanto in grado di escludere, se non altro, l’aggressione fisica); oppure [di alterarlo] radicalmente, per vestire dei panni completamente nuovi».

Insomma, secondo la studiosa le comunità virtuali permettono di rielaborare «il rapporto con il proprio corpo e con sé stessi, e con la vergogna connessa a questo aspetto». Affinché ciò sia possibile, però, ricorda Cavaletti, occorre che le piattaforme tecnologiche permettano di plasmare avatar “non conformi”, e ciò, al momento, non è sempre garantito.

La studiosa si sofferma anche sul «nesso (supposto) tra caratteristiche corporee e caratteristiche della personalità» che inducono alcuni individui ad espandere il senso di vergogna determinato da un tratto fisico “non conforme” alla “non conformità” dell’identità nel suo complesso, dunque a pensare «di potere “correggere” quest’ultima attraverso un intervento di “correzione” del corpo». Esistono tecnologie in grado di andare in questa direzione, come ad esempio quelle indossabili; si pensi agli smartwatch che permettono il monitoraggio di diversi parametri corporei o la stessa realtà virtuale che consente il rispecchiamento e la manipolazione visiva dell’aspetto di un individuo.

Difendersi da forme di aggressione – es, il “body shaming” – attraverso strumenti tecnologici wearables rischia di condurre il soggetto a una sorveglianza autoimposta votata all’assoggettamento a standard di adeguatezza assoluti mortificanti chi non riesce, o non vorrebbe, raggiungerli. «La posta in gioco, nell’utilizzo di tecnologie di questo genere, non è tanto il rapporto delle persone con il loro corpo materiale, quanto quello con la loro immagine corporea». Quanto tali correzioni siano in grado di determinare un beneficio lenitivo reale al senso di inadeguatezza o quanto invece finiscano per «soggiogare gli individui a vincoli ancora più insidiosi» è oggetto di approfondimento da parte di Cavaletti.

La studiosa analizza anche circostanze e modalità di interazione con le tecnologie contemporanee caratterizzate in «senso solidale, prosociale, eventualmente terapeutico». Rispetto al mondo fisico extramediale, la flessibilità del digitale e del virtuale, sostiene Cavaletti,

fornisce opportunità molto più ampie di sperimentazione e di messa in discussione dello stato di cose esistente. Posta questa condizione di base, diventa possibile lavorare alla realizzazione di una società virtuale che sia improntata al concetto di cura […]; che dunque venga incontro all’esigenza delle persone di venire rappresentate per come sono, o per come ambiscono a essere, senza che questo sia intralciato da interfacce o ambienti ostili. Abitare corpi virtuali in linea con i nostri desideri può davvero […] innescare cambiamenti positivi nel rapporto che intratteniamo con il nostro corpo e con la nostra identità concreti. È quindi indispensabile permettere che questo possa accadere, e che possa accadere per tutti.

Affinché ciò sia possibile, sottolinea l’autrice, è però necessaria un’opera di reale alfabetizzazione tecnologica e mediale e una reale accessibilità ai mondi virtuali e agli strumenti che ne consentono la fruizione. Quanto e come si possa incidere attivamente affinché chi detiene le piattaforme e le tecnologie lo consenta è questione che tocca tutti coloro che riescono a sottrarsi tanto alle sirene tecnofobiche, quanto a quelle tecnottimistiche.

]]>
Immersioni quotidiane https://www.carmillaonline.com/2024/01/30/immersioni-quotidiane/ Tue, 30 Jan 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80661 di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Filippo Fimiani, Barbara Grespi, Anna Chiara Sabatino (a cura di), Immersioni quotidiane. Vita ordinaria, cultura visuale e nuovi media, Meltemi, Milano 2023, pp. 330, € 22,00

Immersioni quotidiane esplora l’immersività mediale contemporanea intesa come condizione in cui i media, facendosi pervasivi e naturalizzati, divengono parte integrante della vita ordinaria agendo in maniera importante sulle soggettività e sui loro rapporti con gli altri e con il mondo. Ad essere esplorati sono pertanto alcuni aspetti della vita ordinaria contemporanea riguardanti l’identità, i corpi, i sensi, i luoghi, gli oggetti e le immagini, nel loro costante mutare alla luce [...]]]> di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Filippo Fimiani, Barbara Grespi, Anna Chiara Sabatino (a cura di), Immersioni quotidiane. Vita ordinaria, cultura visuale e nuovi media, Meltemi, Milano 2023, pp. 330, € 22,00

Immersioni quotidiane esplora l’immersività mediale contemporanea intesa come condizione in cui i media, facendosi pervasivi e naturalizzati, divengono parte integrante della vita ordinaria agendo in maniera importante sulle soggettività e sui loro rapporti con gli altri e con il mondo. Ad essere esplorati sono pertanto alcuni aspetti della vita ordinaria contemporanea riguardanti l’identità, i corpi, i sensi, i luoghi, gli oggetti e le immagini, nel loro costante mutare alla luce delle innovazioni tecno-estetiche e visuali prodotte dai nuovi media e dalle loro potenzialità immersive. Il volume si articola dunque in cinque capitoli in cui, attraverso una pluralità e una varietà di sguardi, vengono indagate forme e figure di esperienza della vita ordinaria e delle nuove tecnologie.

Gli interventi raccolti nel Primo capitolo indagano come i media visivi e audiovisivi tendano ad assegnare ruoli e posizioni soprattutto a soggetti marginalizzati ma anche come questi possano, grazie agli usi di tali dispositivi, sottrarsi agli incasellamenti sociali e culturali loro imposti. I saggi di Sofia Pirandello, Margherita Fontana, Alice Cati e Luisella Farinotti affrontano il rapporto delle donne con la fotografia nel suo oscillare tra pratica emancipatava e strumento di mantenimento, se non di rafforzamento, di incasellamento sottomissivo.

Il Secondo capitolo è dedicato alla costituzione della soggettività alla luce del ruolo svolto dai media nel plasmare e riplasmare il modo in cui il soggetto si presenta agli altri. Federica Villa si occupa della rappresentazione del volto e dei filtri digitali, Lorenzo Donghi e Deborah Toschi affrontano la rielaborazione in forma visiva dei dati derivanti dal self-tracking, Paola Lamberti e Clio Nicastro approfondiscono alcune forme di disagio contemporaneo alla luce dei media, dall’ansia giovanile su Tik Tok ai disturbi alimentari messi in scena dal cinema, Imma De Pascale, infine, si occupa della produzione fotografica di Vivian Maier.

Alle forme artistiche ottenute attraverso i dispositivi mediali contemporanei è dedicato il Terzo capitolo. Elena Lazzarini e Augusto Sainati ricostruiscono le tappe principali dell’“immersività” a partire dai sui esempi più remoti, Andrea Mecacci indaga il “Pop diffuso” inteso come processo di estetizzazione della società e della cultura che ha condotto all’esteticità diffusa e post-mediale di oggi, Luca Malavasi si occupa delle forme di espansione dell’universo immaginario e filmico che permettono processi di appropriazione e manipolazione mentre, viceversa, Adriano D’Aloia e Federica Cavaletti indagano casi in cui sono i media a “manipolare” i loro utenti, dal ruolo del selfie nel riorganizzare il rapporto del soggetto con sé stesso all’incidenza della realtà virtuale nel rapporto tra soggetto ed esperienze vissute negativamente come il senso di vergogna.

Il Quarto capitolo presenta una serie di saggi incentrati su come i media mutino tendendo ad adattarsi a determinati requisiti e usi, o abusi. Alessandro Costella ricostruisce la storia che ha condotto all’affermazione della superficie trasparente in varie tipologie di dispositivi visivi, «di quegli schermi cioè che non sono fatti per essere guardati, ma per farsi guardare attraverso», Diego Cavallotti guarda alla “trasparenza” come a una «condizione necessaria per la naturalizzazione o “banalizzazione” dell’uso dei media» esaminando in particolare il ruolo giocato dalle videocamere analogiche, Filippo Fimiani e Anna Chiara si occupano del ruolo delle immagini registrate dalle tante videocamere che riprendono il quotidiano, Max Schleser ragiona attorno al filmmaking portatile intendendolo come un genere cinematografico a sé stante, mentre Emilia Marra si occupa di come la fruizione degli archivi di materiale registrato sul web si rifletta sulle facoltà umane.

L’ultimo capitolo si concentra sui media all’interno del tessuto cittadino e comunitario mettendone in luce le valenze politiche. Ruggero Eugeni guarda all’automobile contemporanea come a un iper-medium, Arianna Vergari riprende le “sinfonie della città” realizzate a partire dagli anni Venti del secolo scorso osservando come queste rappresentino e de-familiarizzino l’esperienza quotidiana dello spazio urbano, Miriam De Rosa indaga come gli artefatti mediali attivino gli spazi in cui sono collocati, delle modalità di costruire spazi si occupa anche Roberto Pisapia esaminando il placemaking, il placetelling e il placedoing, infine Giuseppe Previtali indaga il ricorso ai meccanismi videoludici nella realtà quotidiana, nella comunicazione politica e, in particolare, nella comunicazione della “Guerra al Terrore”.

Nel loro insieme, i contributi raccolti in questo volume forniscono una pluralità e una varietà di sguardi su un fenomeno che oggi sembra tanto più urgente indagare, quanto più a portata di mano e sotto gli occhi di tutti noi. Un fenomeno forse unico, come lo è ogni fenomeno di un certo momento storico, ma né unitario né unificabile, e che anzi chiama a raccolta nuovi punti di vista, nuovamente e diversamente situati, che non potranno che essere seriamente curiosi e arrischiati, cioè davvero interdisciplinari. Perché le immersioni quotidiane nelle nuove tecnologie vanno insieme alle immersioni nel quotidiano grazie ai media e ai loro usi, e alle competenze ermeneutiche e critiche che da tali usi possiamo apprendere e sperimentare. Ogni giorno diversamente.

]]>
Media e costruzione dell’identità nazionale cinese https://www.carmillaonline.com/2023/08/26/media-e-costruzione-dellidentita-nazionale-cinese/ Sat, 26 Aug 2023 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78217 di Gioacchino Toni

Gianluigi Negro, Le voci di Pechino. Come i media hanno costruito l’identità cinese, Luiss University Press, Roma, 2022, € 20,00 cartaceo, € 11,99 ebook

Nell’affrontare il ruolo dei media nella costruzione dell’identità nazionale cinese, Gianluigi Negro procede de-occidentalizzando lo studio storico della comunicazione così da restituire la specificità cinese caratterizzata da una peculiare opera di negoziazione tra politica, economia e società. Oltre a evidenziare come i vari media – stampa, cinema, televisione, Internet – si influenzino reciprocamente, l’autore si preoccupa di mostrare la persistenza dei vecchi mezzi di comunicazione di [...]]]> di Gioacchino Toni

Gianluigi Negro, Le voci di Pechino. Come i media hanno costruito l’identità cinese, Luiss University Press, Roma, 2022, € 20,00 cartaceo, € 11,99 ebook

Nell’affrontare il ruolo dei media nella costruzione dell’identità nazionale cinese, Gianluigi Negro procede de-occidentalizzando lo studio storico della comunicazione così da restituire la specificità cinese caratterizzata da una peculiare opera di negoziazione tra politica, economia e società. Oltre a evidenziare come i vari media – stampa, cinema, televisione, Internet – si influenzino reciprocamente, l’autore si preoccupa di mostrare la persistenza dei vecchi mezzi di comunicazione di massa nei nuovi ambienti mediali.

Negro sottolinea anche come il contesto cinese non consenta una totale sovrapposizione del concetto occidentale di medium o di strumenti tecnologici; la radio, ad esempio, in questo Paese vanta modalità di diffusione e ricezione diverse rispetto a quelle occidentali, visto che, a lungo, anziché ad apparecchiature domestiche si è fatto ricorso ad altoparlanti collocati in luoghi pubblici tanto nelle realtà rurali quanto in quelle urbane.

Lo stesso temine comunicazione ha, in tale Paese, una sua storia del tutto peculiare che ha conosciuto un cambiamento radicale a partire dalla formazione del Partito comunista con le sue specificità propagandistiche. Diversa, rispetto all’Occidente, è anche l’autonomia del sistema mediatico come industria o professione, visto che questo, anche in presenza di un sistema aperto all’economia di mercato, resta in buona parte assoggettato alla politica e all’ideologia pur all’interno di un complesso sistema di relazioni fra Partito e società e tra interno ed esterno del Paese. L’analisi del sistema mediale cinese deve poi fare i conti con un esercizio del potere che, storicamente, si è dispiegato come processo comunicativo costantemente segnato da una retorica nuovista.

Negro affronta dunque la rilevanza dei media nella costruzione dell’identità nazionale cinese prendendo in esame quattro fasi principali: stampa e radio (1949-1977), televisione e cinema (1978-2007), Internet (2008-2014) e convergenza (2015-2022). Tali fasi sono individuate dallo studioso non tanto facendo riferimento all’evoluzione storica dei diversi media, quanto piuttosto al loro specifico contributo alla costruzione dell’identità nazionale.

Se cinema e televisione si sono rivelati mezzi di supporto fondamentali alla transizione verso un sistema indirizzato a dinamiche di mercato, alla formazione di una classe media e all’apertura a immaginari e capitali stranieri, Internet e l’attuale sistema della convergenza si rivelano fondamentali nella costruzione identitaria di quella “nuova Cina” che, a partire dalla metà degli anni Dieci del nuovo millennio, si è posta l’obiettivo di divenire una “forte cyberpotenza”.

Nevralgica per il nuovo corso si è rivelata la riformulazione delle relazioni tra sistema mediatico e finalità ideologiche avvenuta nel corso degli anni Novanta del secolo scorso in un contesto di progressiva apertura alle logiche e agli immaginari di mercato. Tale trasformazione ha sancito, secondo Negro, il passaggio da una comunicazione politica esplicitamente propagandistica a una forma votata piuttosto a un’attività di analisi e persuasione dell’opinione pubblica. A tal proposito lo studioso individua alcuni programmi trasmessi dall’emittente di stato Cctv che, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, hanno segnato importanti punti di svolta in tal senso.

La trasmissione satellitare su base planetaria – in cinese, spagnolo, france e inglese – della prima Serata di Gala del Capodanno Cinese, a partire dal 1983, ha proiettato l’immagine del Paese – esposta come sintesi di tradizione e innovazione tecnologica – su scala internazionale raggiungendo, nel 2014, ben 900 milioni di telespettatori, ottenendo così il record mondiale di ascolti e di valore commerciale.

Il documentario televisivo in sei puntate Elegia del fiume (1988) prodotto e messo in onda dalla Cctv, con i suoi 200 milioni di telespettatori, si è rivelato un importante prodotto transmediale del periodo delle riforme.

La serie propone infatti una storia della Cina alternativa che mette in luce il carattere conservatore, oscurantista e poco incline al cambiamento della civiltà cinese attraverso una serie di metafore. In effetti, il documentario, anziché mettere in risalto i valori patriottici e socialisti, aveva come obiettivo la creazione di un dibattito intellettuale che riflettesse sulla capacitò della nazione di abbracciare un processo di apertura al mondo e di globalizzazione di fatto già in atto in quegli anni (p. 93).

Un terzo evento che ha sancito un punto di svolta importante nel processo di transizione televisiva cinese è individuato dallo studioso nella serie televisiva in cinquanta puntate Speranze andata in onda un anno dopo le manifestazioni e la repressione del 1989 di piazza Tian’anmen. La serie sancisce un evidente cambio di rotta nella strategia statale di promozione dei valori socialisti scegliendo di non focalizzarsi su personaggi-modello ma di seguire le vicende di persone comuni alle prese con i loro problemi sentimentali e professionali in linea con i cambiamenti storici e sociali del paese negli ultimi decenni.

«Speranze può essere considerata a tutti gli effetti la prima soap opera cinese in grado di incarnare l’immaginario di una nazione»; con tale serie «la Cctv sospende il suo ruolo esclusivamente didattico caratterizzato da fini propagandistici per lasciare spazio ad un racconto più attento agli aspetti privati della popolazione». Speranze inaugura una nuova ritualità che vede milioni di telespettatori sintonizzarsi per assistere agli sviluppi delle vicende narrate generando discussioni, dibattiti e scambi di idee sulla quotidianità messa in scena sviluppando nuove forme di socialità, insomma, sostiene Negro, «l’avvento delle soap opera in Cina ha prodotto non solo un nuovo registro narrativo, ma ha anche contribuito alla nascita di nuove espressioni sociali» (p. 95).

Un quarto evento televisivo che ha avuto un ruolo importante nel dare immagine alla “nuova Cina” è ravvisabile nella trasmissione in diretta della formalizzazione del passaggio di Hong Kong da protettorato inglese a regione amministrativa speciale della Repubblica popolare cinese il I° luglio 1997. La portata simbolica dell’evento e il livello tecnologico-mediatico raggiunto, esibito con le 72 ore di trasmissione, si sono rivelati del tutto funzionali a celebrare la potenza cinese all’interno e all’esterno del paese.

Le coperture televisive di eventi come la cerimonia inaugurale della costruzione della diga delle tre gole nel 1997, l’apertura delle olimpiadi di Pechino nel 2008, il lancio della missione spaziale Shenzhou 13 nel 2021, hanno certamente contribuito al processo di costruzione dell’identità cinese.

In effetti, la sceneggiatura, la produzione ma soprattutto la trasmissione di una serie di programmi televisivi hanno contribuito a determinare sia alcuni cambiamenti sociali tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Duemila che i cambiamenti a livello di abitudini nella fruizione degli stessi spettacoli televisivi […] In questo processo, emerge la capacità del nuovo sistema televisivo di sostenere, attraverso i prodotti televisivi qui citati, un particolare modello di modernità basato su un’altrettanta particolare versione di capitalismo capace di assecondare un insieme di valori statali orientati al profitto e alla prosperità tanto da riflettere a pieno la teoria costitutiva del “socialismo con caratteristiche cinesi” sostenuta dalla leadership di Deng Xiaoping (pp. 96-97).

Oltre a ricostruire le tappe che hanno scandito lo sviluppo di Internet in Cina, tanto dal punto di vista infrastrutturale e tecnologico quanto da quello delle strategie politiche di controllo e indirizzo del dibattito sulle piattaforme digitali – si pensi ad esempio al sofisticato sistema di limitazioni tecnologiche “Great Firewall” (palese metafora di una moderna Grande Muraglia posta a difesa del Paese) e alle forme di autocensura messe in campo dagli stessi siti per non incorrere in pesanti sanzioni –, Negro ne evidenzia la centralità nella modernizzazione dei sistemi produttivi, nella spinta al consumo e nel rafforzamento di un immaginario votato a un ruolo egemone della Cina a livello internazionale. Le conseguenze del “nazionalismo digitale” promosso dalla politica cinese ha risvegliato o consolidato valori identitari o nazionalisti, evidenziando il carattere transazionale di Internet.

Celebrata con toni nazionalistici e rivolta a una narrazione interna, la creazione di una “forte cyberpotenza” cinese contribuisce da una parte a rinnovare la propria idea di Stato sviluppista continuando a forgiare una nuova identità nazionale, dall’altro a consolidare la relazione con il sistema economico globale attraverso le proprie connessioni transnazionali, i flussi di informazione globale, il capitale finanziario e umano (p. 118).

Negro si sofferma anche su come lo sviluppo di Internet abbia comportato una difficile dialettica tra forme di “autoritarismo frammentato” e “autoritarismo centralizzato”, in tutti i modi votate al mantenimento della stabilità politica.

Se durante il periodo di transizione delle riforme economiche, con lo sviluppo del sistema televisivo e cinematografico, si è assistito a una funzione che affiancava l’idea di cittadini da formare ideologicamente a quella di audience da monitorare anche dal punto di vista commerciale e pubblicitario, in questa fase la situazione sfocia in una nuova funzione visto che anche i cittadini hanno la possibilità di creare contenuti mediali (p. 123).

La necessità di accentrare la supervisione dei contenuti online e la gestione degli aspetti normativi, amministrativi e tecnici, risponde alla necessità di alimentare attraverso i media una narrazione nazionale forte e credibile sia per i propri cittadini che sul piano internazionale.

Quanto sviluppato da Internet è inevitabilmente confluito nell’attuale sistema della convergenza mediale che ha saputo non solo operare una sintesi contenutistica e tecnologica tra nuovi e vecchi media ma anche modernizzare il processo di nation building.

Gianluigi Negro si è insomma proposto di rendere la Repubblica popolare cinese più comprensibile agli occidentali attraverso lo studio dei suoi mass media, mostrando in particolare come, nel corso della sua storia, tale Paese abbia saputo sperimentato nuove tecnologie e forme di comunicazione con la ferrea intenzione di rafforzare un’identità nazionale in continua evoluzione all’interno di un complesso contesto in cui si intrecciano controllo della popolazione, necessità di mercato, valori socialisti, omologazione e spinte identitarie.

]]>
Politica e videogiochi https://www.carmillaonline.com/2023/01/12/politica-e-videogiochi/ Thu, 12 Jan 2023 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75375 di Gioacchino Toni

Il nuovo volume curato da Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi (Mimesis, 2023), in continuità con il precedente Game over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020) [su Carmilla],  si occupa del rapporto che intercorre tra immaginario videoludico e immaginario politico dei giocatori, delle ideologie del divertimento elettronico e dei loro effetti socio-culturali constatando come, soprattutto tra i più giovani, non solo l’ambito dei videogame e quello reale tendano a sovrapporisi, ma anche come l’impegno politico e il disimpegno videoludico siano sempre più convergenti.

Guardandosi dal suggerire «l’esistenza [...]]]> di Gioacchino Toni

Il nuovo volume curato da Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi (Mimesis, 2023), in continuità con il precedente Game over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020) [su Carmilla],  si occupa del rapporto che intercorre tra immaginario videoludico e immaginario politico dei giocatori, delle ideologie del divertimento elettronico e dei loro effetti socio-culturali constatando come, soprattutto tra i più giovani, non solo l’ambito dei videogame e quello reale tendano a sovrapporisi, ma anche come l’impegno politico e il disimpegno videoludico siano sempre più convergenti.

Guardandosi dal suggerire «l’esistenza di una relazione causale tra la fruizione di videogiochi e i comportamenti sociopatici nel mondo reale», scrive Bittanti, è «importante ricordare che il videogioco non è che un elemento di un complesso ecosistema formato da spazi di consumo, discussione e condivisione che spesso presentano un’elevata tossicità: misoginia, razzismo, omofobia e violenza verbale» (pp. 30-31). Dunque, qualsiasi discussione sui videogiochi non può prescindere dal contesto in cui si vanno ad inserire e da cui sono pensati, prodotti e fruiti.

Se Alex Hochuli, George Hoare e Philip Cunliffe (La fine della fine della storia, Tlon, 2022) sostengono che all’apatia che aveva contraddistinto i decenni precedenti si è ultimamente sostituito un sentimento di rabbia strutturatosi di pari passo alla crescente delegittimazione delle istituzioni tradizionali su cui hanno prosperato diverse forme di populismo, Martin Gurri (The Revolt of The Public and the Crisis of Authority in the New Millennium, Stripe Press, 2014) sostiene invece che, con riferimento a un’attualità che ritiene palesarsi come capolinea della democrazia liberale, complice anche la trasformazione mediale digitale, si debba piuttosto parlare di nichilismo.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto nichilista tratteggiato da Gurri è piuttosto un individuo disilluso e cinico, non di rado inserito socialmente, che non trova felicità nella sua quotidianità, nella way of life imperante, pur non mettendola realmente in discussione, e nel sistema politico che la governa. Un individuo che tende a trovare la propria dimensione all’interno di una comunità strutturatasi, spesso nell’universo online,  su una specifica questione che diventa frequentemente l’unica questione esistenziale. Insomma, nota Bittanti, il nichilista descritto da Gurri ricorda molto da vicino la figura del gamer tanto che diversi giovani gamer statunitensi potrebbero aver guardato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 come a un’occasione spettacolare per estendere il gioco fuori dagli schermi.

«Detto altrimenti, una generazione cresciuta di fronte allo schermo combattendo contro terroristi arabi e draghi sputafuoco, zombie e vampiri nonché social justice warrior sui social media ha temporaneamente lasciato la cameretta illuminata al LED per assediare il Congresso, vandalizzando i simboli della democrazia» (p. 18). Per quanto sbiaditi, si tratta pur sempre di simboli da colpire con lil medesimo odio promosso da tanti videogiochi mainstream che celebrano principi, valori e immaginari indubbiamente di destra.

Attraverso il videogioco, per quanto in forma illusoria, il giocatore – nella stragrande maggioranza dei casi orgogliosamente maschio e bianco – acquisisce “poteri straordinari” «con i quali ritiene legittimo imporre la propria visione di mondo alla realtà in quanto tale, anche (soprattutto) quando tale weltanschauung è barbarica. Il concetto mcluhaniano del medium come estensione delle facoltà umane trova in quella macchina dei desideri e delle gratificazioni dopaminiche altrimenti nota come videogioco la massima espressione. Ergo, per migliaia di gamer, l’arrembaggio al Campidoglio il 6 gennaio 2021 è paragonabile a una partita di Call of Duty IRL» (p. 21).

Risultano evidenti i punti di contatto tra la figura del nichilista tratteggiata da Gurri e quella del gamer di giochi mainstream delineata da Bittanti, tra immaginario videoludico – infarcito di supremazia bianca, patriarcato e violenza – e l’esperienza concreta fuori schermo. Le fondamenta razziste e schiaviste del capitalismo e del consumismo che strutturano tanto le opzioni fasciste quanto quelle neoliberiste, sostiene lo studioso, sono le stesse che informano e alimentano l’immaginario videoludico mainstream.

Bittanti si sofferma anche sulla ludicizzazione delle cosiddette “sparatorie di massa”, fenomeno cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi tempi. Tra gli elementi che accomunano molti degli artefici di questi massacri vi è la giovane età, l’essere maschi e bianchi, l’aver acquistato legalmente fucili semiautomatici non appena l’età lo ha consentito, la propensione a ostentare l’arsenale posseduto sui social media per fini identitari, «l’appropriazione di estetiche e logiche tipiche degli sparatutto in soggettiva durante l’attacco, spesso ripreso in streaming [e] la diffusione di manifesti programmatici sulle medesime piattaforme condivise dai gamer» (p. 28).

Analizzando il massacro del 2019 di Christchurch in Nuova Zelanda, che ha causato cinquantuno vittime, Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka1 hanno notato come l’attentatore, appassionato di giochi di ruolo multiplayer online di tipo “sparatutto in soggettiva” e frequentatore di imageboard infestati dall’estrema destra, abbia architettato l’attentato su una logica e un’estetica di tipo videoludico ricorrendo alla trasmissione in live-streaming dell’attacco nel formato di uno “sparatutto in prima persona” concretizzando uno stile di videogioco proprio, ad esempio, di Call of Duty e Doom, nonché abbia trovato gratificazione nell’esbire una macabra classifica che lo metteva a confronto, in termini di vittime, con precedenti attacchi di estrema destra. Gamification e linguaggio ludicizzato non solo sono stati alla base del piano dell’attentatore ma, segnalano Lakhani e Wiedlitzka, ricorrono anche nei commenti pubblicati da altri utenti degli imageboard su cui l’attentatore aveva annunciato l’intenzione di compiere un massacro.

Se, con riferimento agli Stati Uniti plasmati dalla logica televisiva, Neil Postman (Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Luiss University Press, 2021) ritiene che il divertimento imposto dal medium è divenuto il parametro fondamentale di ogni esperienza sociale, dunque anche della politica, Bittanti invita a chiedersi come cambi quest’ultima nell’era videoludica.

Il rapporto tra la politica e l’universo videoludico non si risolve di certo nell’acquisizione di spazi pubblicitari all’interno dei videogiochi, come aveva fatto pionieristicamente Barack Obama nella campagna presidenziale del 2008; la stretta attualità, scrive Bittanti, palesa piuttosto un fenomeno di ludicizzazione del dibattito sulle piatteforme digitali in cui la discussione politica tende a ridursi a una “partita” «in cui “ottenere punti” e “vincere” la conversazione, sulla base di performance retoriche fondate sull’attrito e sull’effetto, sull’argumentum ad captandum e sull’attacco ad hominem. Questa dinamica puramente antagonistica nella quale un “pubblico” di seguaci “fa il tifo” sta diventando standard: la logica vigente è quella del “noi contro di loro”, del “ti ho fregato” e del “ti ho distrutto”» (p. 55). Si pensi al ricorso insistito dei media italiani più reazionari al termine “asfaltare” per certificare “l’annientamento della controparte” ottenuto dai loro politici di riferimento attraverso qualche espediente retorico, non di rado compiaciutamente politically incorrect.

La congruenza tra la politica e l’intrattenimento su piattaforme informate da una logica iper-capitalistica come Twitch e YouTube, dominate da streamer di destra e di estrema destra, ci spinge ancora una volta a interrogarci sullo specifico del medium. Come hanno spiegato in modo convincente Mark R. Johnson, Mark Carrigan e Tom Brock, l’ecosistema del live streaming è “l’espressione di un’economia morale emergente del capitalismo digitale” che privilegia l’incessante presentazione del sé, l’auto-promozione compulsiva e l’attività auto-imprenditoriale, fondati sulla narrazione del mito Americano e della meritocrazia, dove il trolling è una delle strategie dominanti di comunicazione […] e dove il disturbo di deficit di attenzione è una feature anziché un bug di sistema (pp. 57-58)

Pur evitando di scivolare nel determinismo tecnologico, occorre però, sostiene Bittanti, prendere atto di come e quanto i media abbiano inciso e incidano nel definire il ruolo, la funzione e l’identità del politico.

A partire dalla convinzione che, lungi dall’essere neutrale, “il ludico è politico”, in linea con quanto espresso dal precedente volume, i diversi contributi che strutturano questo nuovo, corposo e prezioso lavoro curato da Bittanti evidenziano come i videogiochi mainstream e l’immaginario gamer che ruota attorno a essi siano intrisi di neoliberismo, criptofascismo e di quella dottrina libertarista anarcocapitalista egemone nell’universo della Silicon Valley statunitense. Di seguito ci si limiterà a tratteggiare sommariamente le questioni dibattute dai diversi interventi con l’intenzione di tornare su alcuni di questi in scritti successivi.

È proprio sulla “non neutralità” dei videogiochi che, in apertura di volume, intervengono tanto Alexander LambrowPrendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica – che Lars Kristensen e Ulf WilhelmssonRoger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies – riperdendo rispettivamente le teorie espresse da pionieri dei game studies come Johan Huizinga (Homo ludens, orig. 1939), la cui incondivisibile enfasi sull’autonomia del gioco viene comunque riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui viene espressa, e Roger Caillois (Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, orig. 1958), la cui ferrea convinzione di come il gioco e i giochi debbano essere improduttivi per potersi distinguere dal lavoro viene messa in relazione con le tesi di Marx circa la funzione e le conseguenze del lavoro nellambito di una società capitalistica.

Della “non neutralità” della tecnologia si occupa invece Luke MunnIl processo di radicalizzazione dell’alt-right – chiarendo come la logica algoritmica di una piattaforma come YouTube, con la sua rete di collegamenti (Cfr. Rebecca Lewis, Alternative Influence: Broadcasting the Reactionary Right on YouTube, in “Data & Society”, settembre 2018), favorisca la radicalizzazione ideologica. L’autore si sofferma in particolare sullascesa della alt-right (alternative-right) evidenziando come la sua diffusione online si fondi su un processo di ricalibrazione del sistema di credenze attuato attraverso una «lenta, ma sistematica colonizzazione del sé, una progressiva infiltrazione che agisce sulla razionalità e sull’emotività» (p. 137). Nella retorica dellalt-right, sostiene Munn, “scegliere la pillola rossa” – riprendendo Matrix – indica la volontà di guardare la realtà con “occhi nuovi” prendendo coscienza dell’ingannevolezza della narrazione dominante, sostituendo a essa contronarrazioni complottiste imperniate sul disprezzo nei confronti di tutti coloro che promuovono «opinioni socialmente progressiste e liberali, tra cui il femminismo, i diritti civili, i diritti dei gay e dei soggetti transgender e il multiculturalismo» (p. 138, nota 15).

L’ingresso nellalt-right, sostiene Munn, è graduale, è il punto di arrivo di un processo di radicalizzazione solitamente costruito attraverso una fase di normalizzazione (in cui l’umorismo e l’ironia giocano un ruolo fondamentale nel normalizzare anche le affermazioni più riprovevoli), dunque una di acclimatazione (che sfrutta la ripetizione incessante per produrre familiarità, assuefazione e desensibilizzazione), infine una fase di disumanizzazione dellalterità nemica, da intendersi come «un processo che pian piano logora, annienta e cancella l’altro, fino a trasformarlo in una non-persona, un personaggio di un videogioco, come uno zombie o un demone, da abbattere senza rimorsi» (p. 154). Non a caso vengono impiegati i videogiochi nelladdestramento dell’esercito statunitense (Cfr.: Matthew Thomas Payne, Playing War: Military Video Games After 9/11,‎ NYU Press, New York, 2016; Gioacchino Toni, Guerrevisioni. Il sangue oltre gli schermi. Uccidere così, come in un videogioco, in “Carmilla”, 22 aprile 2022).

Riprendendo le teorie di Mikhail Bachtin sul carnevalesco, Hans-Joachim BackeCrapa Redneck su torso nazi. Come Wolfenstein II: The New Colossus sovverte la ludonarrazione – indaga la logica con cui è strutturato l’ultimo capitolo, uscito nel 2017, della saga di successo Wolfenstein imperniata attorno alla guerra contro i soldati nazisti. Secondo lo studioso diverse critiche rivolte al videogioco derivano dall’incomprensione di come l’ostentato ricorso al filtro camp e grottesco sia stato delibertamente scelto dai progettisti per portare «in primo piano la natura idiosincratica e contraddittoria delle norme e dell’implicito sistema valoriale dell’FPS [First Person Shooter] in quanto genere, senza tuttavia scardinarle» (p. 210) per sfidare i gamer destabilizzando le loro aspettative.

Il contributo di Soraya MurrayL’America è morta, viva l’America. L’affettività politica in Days Gone – delinea le tensioni che attraversano l’America contemporanea a un passo dalla guerra civile a partire dall’analisi del videogame Days Gone, mentre, alla luce delle teorie formulate da Henri Lefebvre, Jack Denham e Matthew SpokesIl diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world – approfondiscono la percepita antinomia classista tra gli spazi urbani e rurali nei giocatori di Red Dead Redemption 2, mentre Óliver Pérez-Latorre e Mercè OlivaVideogiochi, distopia e neoliberismo: BioShock Infinite, uno studio di caso – evidenziano il messaggio neoliberista che si cela dietro la facciata progressista del videogioco esaminato.

L’apparente antinomia tra gioco e lavoro è invece al centro dell’intervento di Matthew KellyGiocare alla politica. Lavoro, gioco e soggettivazione in Papers, Pleas – focalizzato su uno specifico caso di studio, mentre Stephanie Betz Le vite degli elfi contano? Le dinamiche razziali della politica partecipativa nel fandom prevalentemente Bianco – si cimenta in un’analisi etnografica dei fan del fantasy game Dragon Age illustrando le modalità con cui questi guardano alle nozioni di razza ed etnia.

Riprendendo Stuart Hall e James Gibson, Kristian A. Bjørkelo“Gli elfi sono ebrei con le orecchie a punta e la magia gay”: Come i Nazionalisti Bianchi interpretano The Elder Scrolls V: Skyrim – ricostruisce l’interpretazione di uno specifico videogioco che aleggia nel sito nazista Stormfront, mentre Benjamin AbrahamCos’è un videogioco ecologico? Le politiche ambientali nel genere survival-crafting – critica l’ideologia sottesa a diversi videogame ecologici evidenziandone una matrice concettuale neoliberista.

La progressiva mercificazione dell’esperienza ludica è invece al centro della riflessione di Daniel James JosephCapitalismo Battle Pass – che si sofferma sui videogiochi che ricorrono al meccanismo delle microtransazioni e alla formula del battle pass/event pass introdotta a inizio degli anni Dieci del nuovo millennio in ambito multiplayer online sotto forma di “progressione a pagamento”. Il cosiddetto “capitalismo battle pass”, una variante della platformizzazione della produzione culturale contemporanea, attesta la trasformazione dei videogiochi in “centri commerciali” e, specularmente, la sempre più evidente ludicizzazione dei negozi e del commercio, tanto che non mancano casi in cui si accede alle promozioni soltanto cimentandosi in esperienze videoludiche competitive. Il sistema battle pass impatta pesantemente anche sulle condizioni di lavoro degli sviluppatori, costretti al forsennato aggiornamento dei contenuti. Il modello dei videogame free-to-play, o free-to-start, che permette ai giocatori di fruire gratuitamente dei prodotti base con la possibilità di accedere successivamente a pagamento a contenuti e funzionalità extra, soprattutto nella versione battle royale, si presenta, secondo Joseph, come «un mediatore che mostra come la cultura, i consumatori e i lavoratori siano bloccati in un ciclo “divertente” definito dal circuito digitale dell’accumulazione e del capitale» (p. 484).

A partire dal concetto di countergaming elaborato da Alexander Galloway (Gaming. Essays on Algorithmic Culture, University of Minnesota Press, 2006), Matteo Bittanti e Theo Triantafyllidis – Countergaming tra arte e politica – discutono sulla possibilità dell’arte videoludica di costruire contro-narrazioni efficaci, mentre, in chiusura di volume, Nadine SmithChiamata di servizio –, prendendo spunto da come negli Stati Uniti si possa essere etichettati come “potenziali terroristi” semplicemente per aver dato la caccia in un videogame a un personaggio con il nome di un’importante carica politica2, riflette su come certi tipi di videogiochi tendano a strutturare immaginari violenti sugli utilizzatori. Il fatto che si finisca per essere annoverati tra i “potenziali terroristi” per aver dato la caccia su un videogioco a un personaggio che prende il nome di un politico reale ha pertanto una sua, per quanto perversa, logica.

Diverse ricerche accademiche dimostrano come i videogame “sparatutto in soggettiva” svolgano tanto una funzione propedeutica quanto di supporto alle pratiche militari «legittimandole e inscrivendole in un discorso ideologico multimediale» (p. 519) [su Carmilla]. Call of Duty: Warzone, ad esempio, è strutturato per incoraggiare tanto la cooperazione quanto la competizione tra gruppi e se, al pari di altri multiplayer non per forza di cose di carattere bellico, si è rivelato un ottimo aggregatore sociale, soprattutto durante il distanziamento pandemico, resta il fatto che questo videogioco crea forme di dipendenza gratificando e facendo sentire potente il giocatore. Videogame come questi, sostiene Smith, tendono a manipolare in modo sottile ma efficace persino i giocatori più consapevoli dei meccanismi perversi su cui sono costruiti.

Il genere battle royale ha innestato le marche di riconoscimento dello sparatutto in prima persona sull’open world – un genere che ha trovato in The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Grand Theft Auto due esempi paradigmatici – esplicitandone la sottesa ideologia colonialista. […] Si tratta di aggiornare il mito della frontiera per l’era digitale. Gli ambienti di gioco – anche quelli non violenti e apparentemente benigni – impongono una modalità di socializzazione che si fonda sulla sistematica estrazione delle risorse e una competizione brutale per cui “la mia vittoria presuppone la tua sconfitta” (p. 525).

Smith fa poi riferimento a giochi come Animal Crossing strutturati su una logica di competizione e di accumulo tipicamente capitalista da cui il giocatore non può sottrarsi. «Nel caso dei giochi multiplayer free-to-play così come delle piattaforme di social media free-to-post, le regole di ingaggio sono stabilite ex ante da potenti corporation. Non si scappa» (p. 525).

Attraverso Reset. Politica e videogiochi e il precedente Game over. Critica della ragione videoludica, Matteo Bittanti ha indubbiamente fornito al dibattito italiano sull’universo videoludico un contributo di assoluto valore aggiornandolo e indirizzandolo verso alcune tra le questioni più rilevanti affrontate dai game studies magiormente critici nei confornti di ciò che avviene dentro e fuori gli schermi. Inosomma, la produzione di Bittanti merita assolutamente di essere presa in considerazione da parte di chi si occupa di immaginario e cultura d’opposizione.


  1. Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka, “Press F to Pay Respects”: An Empirical Exploration of the Mechanics of Gamification in Relation to the Christchurch Attack, in “Terrorism and Political Violence”, 31 maggio 2022. 

  2. Nadine Smith è finita tra le persone “attenzionate” dalla Polizia del Campidoglio degli Stati Uniti sul finire del 2020 per aver postato su Twitter uno screenshot contenente il messaggio “BOUNTY: NancyPelosi” “La tua missione, se l’accetti, consiste nell’uccidere Nancy Pelosi” derivato dalla partecipazione insieme ad alcuni amici al celebre videogioco Call of Duty: Warzone, uno spin off multiplayer di una saga di “sparatutto in soggettiva”.  “NancyPelosi” era semplicemente un giocatore-personaggio che doveva essere eliminato da altri concorrenti, ma la pubblicazione di uno screenshot del videogioco su Twitter è bastata a far catalogare chi l’ha inviato tra i potenziali terroristi. 

]]>
Complottismo e narrative egemoniche: sono così diverse? https://www.carmillaonline.com/2022/11/04/complottismo-e-narrative-egemoniche-sono-cosi-diverse/ Thu, 03 Nov 2022 23:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74465 di Stefano Boni

Per certi versi quelle che sono classificate come “teorie del complotto” (quelle che circolano con rabbia principalmente su internet) e le narrative egemoniche (quelle irradiate a reti unificate dai TG, dai quotidiani e dalle agenzie di stampa) sono antitetiche. Le principali divergenze riguardano i contenuti (ciò che si ritiene, se non vero, credibile) e i toni (accesi, a tratti furiosi in quello che viene denominato complottismo; ingessati e rassicuranti nella informazione legata ai – se non prodotta dai – poteri istituzionali). Questa frattura epistemologica sempre più profonda tra chi [...]]]> di Stefano Boni

Per certi versi quelle che sono classificate come “teorie del complotto” (quelle che circolano con rabbia principalmente su internet) e le narrative egemoniche (quelle irradiate a reti unificate dai TG, dai quotidiani e dalle agenzie di stampa) sono antitetiche. Le principali divergenze riguardano i contenuti (ciò che si ritiene, se non vero, credibile) e i toni (accesi, a tratti furiosi in quello che viene denominato complottismo; ingessati e rassicuranti nella informazione legata ai – se non prodotta dai – poteri istituzionali). Questa frattura epistemologica sempre più profonda tra chi è convinto che le istituzioni, nel loro complesso, siano credibili e chi invece le vede come organi di manipolazione di massa, è ormai evidente.
Quello su cui non ci si sofferma è ciò che accomuna questi due filoni narrativi: le loro similitudini riguardano fondamentalmente i processi cognitivi di costruzione di quello che Foucault chiamava i regimi di verità ovvero “l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere”. A Foucault non interessa stabilire cosa sia vero o falso ma la costruzione di regimi, culturalmente specifici, in cui certe affermazioni appaiono a certi gruppi come tali: ciò che viene socialmente ritenuto autentico o fraudolento è prodotto e produttore delle dinamiche di potere prevalenti.

… credo che il problema non sia di fare delle divisioni tra ciò che, in un discorso, dipende dalla scientificità e dalla verità e ciò che dipende da altro, ma di vedere storicamente come si producano degli effetti di verità all’interno di discorsi che non sono in sé né veri né falsi (Foucault 1977: 25-27, 13).

Questo approccio ci permette un’operazione antropologica, finalizzata non tanto a giudicare la veridicità delle credenze proposte da diversi contesti ma piuttosto cercare il senso di ciò che le narrazioni esprimono per chi le formula e le ascolta. Questo è stato lo sguardo usato dall’antropologia per comprendere l’effetto sociale di miti, cosmologie, rituali, pratiche occulte; si può applicarlo anche a quelle che vengono denominate “teorie del complotto” e alle narrazioni istituzionali contemporanee.
Quello che accomuna “teorie del complotto” e narrative egemoniche è la costruzione di regimi di verità fondati su drastici meccanismi di semplificazione. Queste non sono chiaramente dinamiche inedite (la storia ne è piena sia tra i dominanti che i dominati) ma mi pare innegabile un’accentuazione di processi di decisa riduzione della complessità negli ultimi due decenni. Di seguito illustro alcuni di questi meccanismi di semplificazione, facendo notare come siano cruciali in entrambi i lati della contesa contemporanea su ciò che sia da ritenere vero.

1. Linguaggio post-ideologico. Chi viene denominato complottista così come le narrazioni egemoniche sono concordi nel constatare che siamo in una fase di transizione: i principali media insistono sullo stato di “crisi” o “emergenze”; le teorie del complottano hanno una visione più millenarista che sostiene l’approssimarsi della fine di un mondo corrotto e insostenibile. Per entrambi i campi, le categorie novecentesche sono ormai desuete. Le parole, gli schemi, le interpretazioni, i temi trattati da entrambi i filoni narrativi hanno ormai abbandonato l’ambito di quello che è stata la politica novecentesca, centrata sulla razionale valutazione del sistema migliore di gestione del bene pubblico. Nel racconto egemonico gli atti di governo sono sempre più ricondotti all’inevitabilità, alla necessità tecnica, fondata su pseudo-spiegazioni algoritmiche-numeriche (Boni 2022). Nelle cosiddette teorie del complotto si propongono letture che non si accontentano di proporre un aggiustamento dell’arte del governo ma chiedono una radicale palingenesi legata a profonde discontinuità etiche e spirituali; le affiliazioni e le diatribe politiche novecentesche vengono spesso ritenute vetuste e inutili. Il linguaggio di entrambi i generi narrativi più che finalizzato a ricostruire una descrizione affidabile e proporre una convincente strategia di gestione mira a suscitare emozioni riconducibili a dicotomie: giusto/ sbagliato oppure buono/ malefico. L’enfasi morale richiede di direzionare il messaggio alle viscere di chi ascolta piuttosto che fare affidamento sulla complessa negoziazione di soluzioni in contesti eterogenei.

2. L’enorme potere esplicativo del dettaglio. I processi odierni di semplificazione analitica si nutrono di spiegazioni fondate sull’attribuzione di un enorme capacità esplicativa a frammenti di documentazione piuttosto che ad un vaglio complessivo della serietà delle “prove” a sostegno della narrazione. Innanzitutto si elimina la profondità storica fino a neutralizzarla: la narrazione rimane sul presente (significativa ad esempio la capacità di far iniziare il conflitto russo-ucraino nel 2022 o la sostanziale accettazione degli USA come credibili paladini democratici, cancellando decenni di imperialismo e appoggio a dittatori sanguinari). In secondo luogo ci si affida a schegge di informazione: un’immagine, una frase, un video, un singolo evento possono essere usati come chiavi di lettura risolutive per farsi un’idea su dinamiche stratificate, sfaccettate, complesse. In questo modo alcune teorie complottiste riducono il capitalismo al piano diabolico di una setta (i miliardari ebrei), di una famiglia (ad esempio i Rothschild), di un fondo di investimento (ad esempio Blackwater) o di un economista (ad esempio Klaus Schwab) piuttosto che esaminare il complesso di forze in atto. Allo stesso modo i movimenti noGP possono essere etichettati come fascisti con un processo di estensione su un movimento variegato di una (piccola) parte attentamente amplificata attraverso la pubblicizzazione di certi eventi (l’assalto alla CGIL) attentamente selezionati se non proprio generati ad arte. In questo processo analitico fondato su frammenti di documentazione la cui valenza esplicativa viene generalizzata, la tendenza a personificare, ovvero a spiegare facendo riferimento non a dinamiche sociali o strutturali, ma a singoli individui (spesso portatori di piani diabolici), diventa comune: “la guerra di Putin” o “i divieti di Draghi”.

3. Assolutismo. Si tratta essenzialmente di non lasciare alcun spazio al dubbio, all’ambivalenza, alla contraddizione, alla eterogenesi dei fini. La narrazione si presenta come un monoblocco solido e inattaccabile fondato su una spiegazione lineare: obiettivo-azione-effetto previsto. L’impianto narrativo, spesso improntato sullo svelamento di un arcano, spiega tutto in modo convincente ed esaustivo. Di conseguenza le narrazioni richiedono un’adesione fideistica, un allineamento integrale piuttosto che una valutazione o interpretazione. Ne consegue una dicotomizzazione delle verità, senza la possibilità di percorrere interpretazioni ibride o di soffermarsi sulle sfumature. Il filone narrativo concorrente infatti non risulta solo meno convincente ma insensato, falso, mistificatorio. I media egemonici deridono “i complottismi” come fake news, espressione di credenze patologiche. L’affermarsi della convinzione (poco problematizzata) che esistano fake news presuppone che invece i canali legittimi irradino true news. Attraverso questa brutale semplificazione un modello epistemologico irriducibilmente dicotomico è servito: se non si propongono notizie catalogabili dai media egemonici come vere, si cade automaticamente nella categoria, stigmatizzabile a piacimento, dei diffusori di falsità. Diventa così sempre più complicato formulare critiche radicali popolari perché si corre il rischio di essere sbrigativamente catalogati come chi sostiene un assurdo complotto. D’altro lato le critiche popolari etichettate come complottiste tendono a fondarsi su sentimenti di delusione e rabbia; queste portano all’individuazione di nuclei di verità critica occultati dalla narrazione egemonica; l’espressione pubblica di queste letture sovversive prevede una palingenesi epistemica produttrice di interpretazioni eretiche, incompatibili con le letture istituzionali.

4. L’abbandono della dialettica. Le credenze si costruiscono e rimangono sempre più bolle auto-referenziali, sia quelle mediatiche sia quelle diffuse su blog e social network proponenti teorie riconducibili al complottismo, nel senso che non vengono sottoposte al vaglio di chi la pensa diversamente. Ormai è scarsa la volontà – sia da parte di chi irradia ma anche da parte di chi riceve le narrazioni – di costruire la credenza sul confronto argomentato tra una diversità di letture. Il contraddittorio con interpretazioni distanti, anche antitetiche, ci obbliga ad esaminare in maniera attenta una documentazione complessa e ambivalente; consente di aggiustare la propria tesi in base alle obiezioni di chi la pensa diversamente; permette di sondare posizionamenti intermedi o imprevisti; ci costringe a cautele epistemologiche, metodologiche e narrative che l’auto-referenzialità delle narrazioni contemporanee non prevede. La mancanza di confronto, o meglio l’indisponibilità ad ascoltare seriamente la posizione altrui, spinge ad adesione fideistiche e impermeabili oltre che ad una polarizzazione delle credenze. Lo svuotamento della dialettica sul piano narrativo completa l’opera di delegittimazione di qualsiasi forma di conflitto portato dai movimenti sociali, ridotti a problema di ordine pubblico. La volontà di dialogo è stata assente in modo evidente durante la sindemia, fino alla richiesta da parte di un ex-primo ministro di “modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione” finalizzata a ridurre ulteriormente quello che appariva uno spazio di dibattito già praticamente inesistente1 (il fatto che a distanza di due anni ancora non ci siano dibattuti pubblici tesi a confrontare posizioni divergenti sulla gestione pandemica è significativo così come la sostanziale assenza di confronto pubblico acceso di fronte al pericolo nucleare!). In tale contesto, il progressivo ritorno della censura generalizzata sui canali social ma anche televisiva (apparentemente salvata con l’apparizione di sporadiche voci dissenzienti che possono essere comodamente massacrate sia perché minoritarie, sia perché lo spazio per un ragionamento non c’è, sia perché le posizioni presentate come eversive sono già state neutralizzate dalla loro ossessiva derisione). Allo stesso modo le teorie del complotto non prevedono la possibilità di chiedere documentazione complessa, di dissentire in parte, di sollevare obiezioni. Ci si arrabbia sempre meno al bar e si discute sempre meno in strada, ognuno stretto nei suoi regimi di verità.

L’accentuazione di questi processi è riconducibile, tra l’altro, a tre dinamiche. Le prime due sono riferibili ad una crisi della informazione egemonica non più in grado di generare consenso e perlomeno quiescenza in settori ampi, gruppi non riconducibili più al solo mondo dell’attivismo politico “classico”.
Primo, lo spostamento della politica, e quindi del conflitto politico, da un ambito razionale ad uno emotivo, finalizzato a generare sensazioni: i media ultimamente solleticano le emozioni legate all’emergenza (ansia e paura in primis) mentre quelle classificate come teorie del complotto alimentano principalmente la rabbia anti-sistema. I movimenti attuali e futuri sembrano sempre più caratterizzati da una collera indirizzata verso l’alto e una frustrazione livorosa verso gli altri dominati, alimentando una progressiva polarizzazione, fino a scenari di guerra civile.
Secondo, una crisi epistemica della informazione egemonica non più in grado di generare consenso, o perlomeno rassegnazione, in ampi settori sociali che rimanda ad una più profonda crisi del modello politico ormai incapace di garantire le promesse di benessere e rappresentanza. A questa difficoltà i media istituzionali hanno reagito irrigidendo i regimi di verità, ovvero non ammettendo dubbi e sfumature, e negando qualsiasi credibilità a critiche emerse fuori dai meccanismi egemonici di produzione della informazione e della credenza.
Terzo, la trasformazione dei canali tecnologici attraverso cui passano le informazioni, ovvero l’avvento degli smartphone con le caratteristiche dei loro canali, in particolare blog e social network. Il meccanismo del “like”, il linguaggio schematico, i temi rapidi, in breve la richiesta di un’attenzione sfuggente nella ricezione del messaggio rientra appieno in questo processo di digestione delle narrazioni intesa come adesione/rifiuto piuttosto che problematizzazione. Questa tendenza all’auto-referenzialità è rafforzata dalla scelta dei gestori della rete di alimentare le convinzioni soggettive con narrazioni che propongono credenze analoghe, ovvero l’induzione al consumo di informazioni confermative che portano a scoraggiare il confronto con chi la pensa diversamente. Si creano così regimi epistemici settoriali, isolati ed auto-referenziali.
Riconoscere le somiglianze tra critiche popolari etichettate come teorie del complotto e informazione egemonica significa riconoscere il peso di dinamiche culturali trasversali che vanno ad impattare il piano cognitivo della costruzione della credenza. Significa anche evidenziare come la critica popolare – se fatta esclusivamente in termini ipersemplificati – riproduce alcuni meccanismi propri del potere istituzionale, in particolare lo scadimento del livello analitico. Questo scadimento complessivo, polarizzato su posizioni contrapposte, mina la risorsa forse più preziosa dei movimenti sociali, la paziente costruzione della credenza mediante un dibattito polifonico e approfondito, in grado di generare solida consapevolezza e azioni coerenti con questa. Per tornare a Foucault, gli effetti che genera questa convergenza sulla semplificazione della critica popolare del potere (classificata come teoria del complotto dai suoi oppositori) è la creazione di settori fortemente critici ma non in grado di scardinare la visione dei più, anzi non in grado neanche di dialogare con chi è rimasto nelle credenze egemoniche. Si consolida in ampie fasce un senso di profonda estraneità rispetto alle dinamiche egemoniche ma si fa difficoltà ad allargare la base del consenso critico.
Lo scetticismo crescente con cui sono accolte analisi profonde e l’insofferenza verso i “professori” e gli “intellettuali” (anche questa dinamica comune ad entrambi i campi narrativi) acquistano un senso se viste nella lettura qui proposta; ma ciò non ci esime dal, anzi ci dovrebbe spingere ancora di più a contribuire alla costruzione pubblica di regimi di verità complessi, dialoganti, polifonici.

Bibliografia

Boni Stefano (2022) “Postfazione”, Culture e Poteri, seconda edizione, eleuthera, Milano.

Boni Stefano (2022a) “In assoluta sicurezza. Rimozione della morte, onnipotenza tecnica, controllo pandemico e iatrogenesi”, in N. Bertuzzi e E. Lello (a cura di) Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Castelvecchi, Roma.

Boni Stefano (2022b) “Eliminare il virus, schermare i corpi. L’illusione di onnipotenza tecnica e i suoi rischi” in AA.VV. Antropologia di una pandemia, AAM Terranuova.

Foucault Michel, (1976) “Intervista a Michel Foucault”, in Microfisica del Potere. Interventi Politici,Einaudi, Torino 1977.


  1. Boni 2022a, 2022b 

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 5: guerra, informazione e realtà verosimile https://www.carmillaonline.com/2022/03/09/il-nuovo-disordine-mondiale-5-guerra-informazione-e-realta-verosimile/ Wed, 09 Mar 2022 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70791 di Gioacchino Toni

Recentemente circolava sul Web quella che veniva presentata come la registrazione di una telefonata a un redattore del Tg2 incalzato circa il fatto che qualche giorno prima, in un servizio del telegiornale sulla guerra in Ucraina, erano state inserite brevi sequenze del videogame War Thunder come se si trattasse di riprese di fatti reali.

In tale telefonata, nel ribattere all’accusa di disinformazione, il giornalista ha più volte alternato l’ammissione di aver commesso “un errore” nel mandarle in onda come fossero immagini di fatti veri con la scusante che, tutto sommato, [...]]]> di Gioacchino Toni

Recentemente circolava sul Web quella che veniva presentata come la registrazione di una telefonata a un redattore del Tg2 incalzato circa il fatto che qualche giorno prima, in un servizio del telegiornale sulla guerra in Ucraina, erano state inserite brevi sequenze del videogame War Thunder come se si trattasse di riprese di fatti reali.

In tale telefonata, nel ribattere all’accusa di disinformazione, il giornalista ha più volte alternato l’ammissione di aver commesso “un errore” nel mandarle in onda come fossero immagini di fatti veri con la scusante che, tutto sommato, conoscendo bene le guerre contemporanee, quelle sequenze del videogioco erano in fin dei conti del tutto “verosimili”. Insomma, in base a tale ragionamento, se la messa in scena ha caratteristiche di verosimiglianza questa può benissimo essere utilizzata come sequenza di immagini di fatti reali.

Benvenuti nell’era del verosimile, era in cui, il più delle volte, non essendoci il tempo necessario per verificare la veridicità dell’informazione, si finisce per accontentarsi del fatto che ciò che questa riporta risulti verosimile.

Con tali premesse, nulla può essere dato per scontato, dunque, allo stupore indignato derivato dal sentire che erano state spacciate da un telegiornale immagini di un videogioco per fatti di guerra reale dovrebbe accompagnarsi il dubbio circa la veridicità della telefonata. La notizia della presenza di frammenti di War Thunder in un servizio del Tg2 la si ritrova non solo sui social, ove è indubbiamente difficile verificare l’attendibilità delle notizie, ma anche su alcune testate giornalistiche tradizionali che però, al di là di eventuali torsioni volontarie dei fatti riportati, derivando sempre più frequentemente notizie dal Web, potrebbero aver dato credito a una telefonata messa in scena semplicemente per screditare la testata giornalistica televisiva insinuando dubbi su ciò che viene raccontato circa la guerra in corso.

Occorrerebbe pertanto risalire al servizio del Tg2 e verificare la presenza o meno dei frammenti di videogioco – ammesso di conoscerlo – per togliersi i dubbi residui. Nel frattempo altre ondate di informazioni, immagini e notizie rendono obsoleta la questione: risolto il dubbio circa l’autenticità della telefonata e della presenza o meno di frammenti di un videogame tra le immagini reali della guerra, in un modo o nell’altro, sarebbe già troppo tardi anche solo per commentare conoscendo i fatti anziché, come sempre più d’uso, farlo emotivamente, senza verificare nulla.

Intanto sul Web imperversano discussioni  circa la credibilità o meno di notizie e video relativi alla guerra in Ucraina e non mancano, ovviamente, mirabolanti collegamenti smascheranti complotti orditi contro l’umanità credulona e serva, ça va sans dire, che nemmeno una serie distopica giunta alla decima e trascinata stagione si azzarderebbe a propinare, mentre negli studi televisivi e sulle pagine dei quotidiani, tra una pubblicità e l’altra, gli “esperti militari” si sostituiscono ai “virologi” nel dare la linea con cui interpretare l’attualità e prevedere il futuro aggiornandola, per mantenerla verosimile, a ritmi sempre più frenetici.

Diviene difficile dire cosa si conosce davvero (anche) di questa (ennesima) tragica e infame guerra nonostante la valanga di servizi giornalistici e di testimonianze, più o meno dirette, più o meno in favore di telecamera, circolanti tanto sui media tradizionali quanto sul Web.

Non si tratta soltanto dell’estrema facilità con cui vengono create e diffuse fake news e di come queste possano far presa facilmente sulla gente, ma anche di come l’informazione si sia sempre più ibridata con l’intrattenimento divenendo così una sorta di inserto – a suon di ospitate di esperti – che attraversa l’intero palinsesto mediatico modificandolo e restandone a sua volta modificata desumendone le logiche dello spettacolo a caccia di facile audience.

Spalmata all’interno di programmi di cucina o sportivi in tv o tra un selfie-aperitivo e un crazy-video sui social, l’informazione non può che farsi veloce, sloganistica, iperbolica e sufficientemente versosimile. A rendere sostanzialmente inutile la mole di informazione  disponibile concorre anche la mancanza di una solida griglia interpretativa d’insieme: tra gli esiti dell’epocale fine delle grandi narrazioni vi è forse anche questo tipo di informazione postmoderna.

Con l’affermazione di Internet i media informativi tradizionali hanno indubbiamente diminuito la loro capacità di indirizzare i cittadini. Questi ultimi risultano piuttosto attratti delle promesse partecipative dalla Rete, che in realtà, il più delle volte, si risolvono in dibattiti in cui gli interlocutori non entrano nel merito di ciò che commentano, limitandosi a sfruttare l’occasione per ribadire fugacemente punti di vista e credenze già posseduti.

L’utente digitale pare insomma spesso essere alla ricerca di un pretesto per ribadire, frequentemente in maniera iperbolica, le proprie credenze in maniera tangenziale rispetto alla questione specifica su cui dovrebbe ragionare. E di ciò, occorre dirlo, non sono immuni nemmeno i network più critici.

I media tradizionali, gerarchici e unidirezionali, necessitano della fiducia dei fruitori e di una realtà sociale il più possibile omogenea. Al diminuire della loro credibilità e all’aumentare della frammentazione sociale, tali tipi di media faticano a rispondere a interessi e necessità a loro volta frammentate e differenziate.

Secondo una ricerca del Reuters Institute il ricorso ai social come fonte di informazione è passato in Italia dal 27% del 2013 al 50% del 2020 (tra i più giovani la percentuale sale ulteriormente). Negli ultimi due anni, segnati dagli allarmi sindemici, il ricorso ai social come fonte di informazione è aumentato ulteriormente ma questa “emancipazione” dai canali e dalle logiche dell’informazione cosiddetta mainstream lungi dall’essere garanzia di veridicità come tanti desiderano credere sentendosi cooprotagonisti all’interno dei network.

L’informazione via social risulta più attraente rispetto a quella dei media tradizionali perché più in linea con la frammentazione sociale e tende a essere percepita come più credibile rispetto a quella diffusa dai media istituzionali in quanto veicolata da “parigrado”. Nel suo complesso la Rete viene ritenuta capace di rappresentare equamente la pluralità dei punti di vista anche se, in realtà, la percentuale di utenti attivi sul Web nel produrre contenuto è molto bassa rispetto a quella dei semplici fruitori che spesso si limitano a fare da amplificatori/diffusori.

Se in generale la valutazione della veridicità dell’informazione dipende dalla credibilità della fonte di provenienza, nelle reti sociali facilmente si condividono informazioni senza alcuna verifica semplicemente perché si ritiene che lo abbia fatto qualcuno degli altri appartenenti al network di cui si è parte. Più la fonte di informazione è ritenuta “vicina”, maggiore è la credibilità che si è disposti a concederle. Non a caso i principali operatori tecnologici della Rete da tempo operano filtrando il flusso di informazioni ritenute rilevanti per i singoli utenti costringendoli all’interno di vere e proprie bolle in cui circolano quasi esclusivamente informazioni che confermano e rafforzano ciò in cui credono i partecipanti. La bolla, inoltre, tende a rafforzare il ricorso dell’individuo a quelle scorciatoie mentali proprie del cosiddetto “pensiero veloce” fortemente dipendente dalle emozioni.

Diversi studi hanno dimostrato come nei social si condividano materiali senza prestare grande attenzione alla loro veridicità. Contenuti affidabili e inaffidabili hanno la medesima probabilità di essere condivisi sul Web, tanto che la vita media di un’argomentazione scientifica e di una teoria complottista online sono del tutto equivalenti; si concentrano in un arco temporale estremamente breve anche a riprova della limitata capacità di attenzione che contraddistingue l’universo online e dello scarso tempo a disposizione per verificare l’accuratezza delle informazioni condivise.

La comunicazione online tende ad essere vissuta come se si trattasse di una forma di interazione offline: nell’interagire con individui specifici si ha l’impressione di conoscere gli interlocutori e quanto viene diffuso sui social tende ad essere considerato come una rappresentazione genuina della comunità da cui proviene. Rispetto a ciò che avviene con i media tradizionali, le voci veicolate dai social le si considera rappresentative delle opinioni di una intera comunità. Una scarsa fiducia in qualche singolo non intacca la fiducia nel collettivo in quanto ogni membro della comunità online viene considerato come indipendente, dunque non condizionato dai singoli privi di credibilità.

Sulla Rete hanno maggiore possibilità di condivisione contenuti di natura emotiva, umoristica e che toccano interessi e aspetti ritenuti importanti in quel particolare frangente. L’illusione dell’orizzontalità della comunicazione online, ossia che esistano le medesime opportunità per i singoli di diffondere informazioni, si infrange di fronte ai dati che mostrano come mentre pochi individui risultano in grado di raggiungere sui social milioni di soggetti, i più devono accontentarsi di fare da ricettori, da cassa di risonanza o di trasmettere i propri contenuti ad un numero davvero esiguo di altri individui. In altre parole la possibilità che un contenuto diventi “virale” è decisamente più asimmetrica di quel che si crede.

La percezione di autenticità (e democraticità) trasmessa dalla Rete, tende a trasformare qualsiasi notizia in notizia vera almeno finché non viene provato il contrario, ammesso che quando ciò avviene interessi ancora. Nell’universo di Internet, una notizia sembrerebbe corrispondere a un fatto reale solo per il fatto di circolare ed a partire dal suo entrare nei meccanismi della diffusione online, può farsi virale, dunque vera, o almeno verosimile e ciò sembra oggi poter bastare.

L’influenza del Web non si esercita però soltanto sui suoi destinatari diretti; come detto in precedenza, dalla Rete attinge ampiamente anche l’informazione tradizionale. Internet è infatti individuato sia come “luogo”, al pari di altri, in cui accadono eventi che possono diventare notizie sui media tradizionali che come spazio da cui captare gli umori dell’opinione pubblica senza dover affrontare dispendiose inchieste sul campo. Il Web diviene così una sorta di simulacro dell’opinione pubblica su cui si imbastiscono ragionamenti quanto mai campati per aria. É il caso di dire che al nuovo (dis)ordine mondiale pare corrispondere un nuovo (dis)ordine mediale.

In un tale contesto è sempre più diffusa la sensazione che tante cose che sembrano vere possano non esserlo, o almeno non esserlo del tutto. La realtà appare verosimile come quella messa in scena dalla fiction che ambisce a ricreare scenari e situazioni verosimili. Dopo averla introdotta nel suo Magia nera. Il fascino pericoloso della tecnologia (Luiss University Press, 2020) [su Carmilla] la questione del verosimile è al centro del nuovo saggio di Carlo Carboni, La vita verosimile (Luiss University Press, 2022), ruotante attorno alla convinzione che nelle rappresentazioni mentali contemporanee ormai la realtà sia divenuta soltanto una compia del verosimile.

Se è pur vero che il tema del verosimile è antico, di questi tempi, contraddistinti da un’idea di futuro assi incerta in cui evidenza e ragione sembrano collassare, viene a galla, sostiene Carboni, una realtà verosimile ormai fuori controllo. «Nel verosimile ci sono più artefatti che fatti, vero e falso perdono la loro importanza rispetto alla dimensione cruciale narrativa, quella che fa leva sull’emotività dei pubblici e sull’esistenza di un profondo knowledge gap tra gli uomini: è la riprova di come il potere riesca a manipolare le persone» (p. 15).

Secondo l’autore nel verosimile le percezioni degli esseri umani si discostano dalla cosiddetta “realtà dei fatti” soprattutto per tre cause: le culture neoliberiste che hanno determinato un ripiegamento del sociale in senso sempre più individualista-narcisista; i media che hanno reso sempre più indistricabile il confine tra reale e messa in scena; l’irruzione improvvisa del reale (come nel caso della guerra) in quel verosimile vissuto ormai come realtà.

La vita verosimile è il frutto della relazionlaità sociale costruita in ambienti sempre più tecnologici dove scorrazzano percezioni, bias cognitivi e significati di riconoscimento identitario. È il risultato di una disinformazione che, a differenza della censura nel passato, si basa su un effluvio eccessivo quanto intenzionale di informazioni irrilevanti, di bassa qualità e spesso distorte e false: in breve, sembra che l’ignoranza sia intenzionalmente indotta (p. 64).

In una società altamente tecnologizzata come l’attuale,

l’overload informativo che intenzionalmente crea disinformazione e violenza simbolica […] implica la creazione di immagini visuali che amplificano la realtà virtuale, dando un connotato verosimile alla nostra realtà sociale di riferimento. È il regno del non sapere di non sapere, dei bias cognitivi accecanti, uno pseudo-ambiente in cui mancano sempre più conoscenze dirette dei fatti. […] L’era del verosimile è la nuova vita di percezioni della realtà fisica e sociale, che gira, sempre più velocemente con quella virtuale. Tanto veloce e meticcia da ignorare l’incertezza e, in definitiva, la direzione di corsa: anestetizzata da un presentismo tanto programmato razionalmente quanto verosimilmente distorto. Si vive la presente attingendo alla massa enorme di informazioni che ci vengono propinate nelle ventiquattro ore. Questo overload informativo non solo indebolisce la nostra attenzione e la nostra memoria […] ma ci affatica al punto di privarci dell’immaginazione del domani (pp. 66-68).

In tale contesto l’Olimpo di Internet, con il suo “metaverso”, un’idea dei monopoli della conoscenza edificati dal capitalismo della sorveglianza, sostiene Carboni, si fa inventore e garante di un’architettura alternativa alla realtà promettendo attraenti esperienze tridimensionali.

La necessità di non accontentarsi di un surrogato di alternativa artificiale, ma di determinare un cambiamento radicale, inevitabilmente indigesto agli interessi dell’establishment, si fa sempre più urgente. Per certi versi nell’irruzione del reale (sindemico o bellico) nel verosimile contemporaneo potrebbe essere vista un’occasione per tentare almeno di recuperare quelle capacità relazionali senza le quali non è possibile una vita socialmente condivisa. «La verità si manifesta come comunità, una vita altra, un mondo differente [davvero] da reimmaginare» (p. 157).


Sulle caratteristiche dell’informazione online si veda Giuseppe A. Veltri, Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità (Mimesis, 2017) [Su Carmilla].

Circa il rapporto tra immagini e conflitti bellici si veda Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), libro in cui vengono indagate la modalità con cui si guarda alle guerre nell’era della manipolazione domestica delle immagini e delle notizie, della loro produzione e condivisione sui social. A come i media contribuiscono a mutare il modo di guardare gli eventi bellici è dedicata la serie di scritti Guerrevisioni su Carmilla.

]]>
Occidentali’s Karma https://www.carmillaonline.com/2022/02/28/occidentalis-karma/ Mon, 28 Feb 2022 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70671 di Giovanni Iozzoli

E adesso parliamo un pò di sovrastruttura, che tra gas e swift non se ne puo più! (scherzo, eh: senza parlare di gas non si capisce niente dell’Ucraina; l’importante è non fermarsi a quello…)

In ogni teatro di guerra – mai definizione fu più pertinente, perchè ogni conflitto bellico è anche un grande allestimento scenico –, la costruzione retorica dei due campi avversi, quello glorioso e nobile dell’alleato e quello mostruoso e barbaro del nemico, è operazione bellica di primissimo piano. E questo fin dall’antichità – quando narratori, poeti, teologi e artisti venivano arruolati sui due fronti, come [...]]]> di Giovanni Iozzoli

E adesso parliamo un pò di sovrastruttura, che tra gas e swift non se ne puo più! (scherzo, eh: senza parlare di gas non si capisce niente dell’Ucraina; l’importante è non fermarsi a quello…)

In ogni teatro di guerra – mai definizione fu più pertinente, perchè ogni conflitto bellico è anche un grande allestimento scenico –, la costruzione retorica dei due campi avversi, quello glorioso e nobile dell’alleato e quello mostruoso e barbaro del nemico, è operazione bellica di primissimo piano. E questo fin dall’antichità – quando narratori, poeti, teologi e artisti venivano arruolati sui due fronti, come oggi lo sono gli operatori dell’informazione e della “cultura”. Le menzogne e le mitizzazioni diventano un elemento naturale del racconto e gli addetti ai lavori presidiano i rispettivi campi come trincee: è così che il TG2, in un eccesso di zelo, manda in onda la clip di un videogioco spacciandola per i cieli di Kiev; e se qualche eroico “partigiano” del battaglione Azov inalberasse uno stendardo con la svastica, il pudore giornalistico certo si rifiuterebbe di mostrarlo; così come le vittime russe o russofone del Donbass appartengono, dal 2014, ad una umanità minore, non degna di racconto, nè di tutela, automaticamente arruolata d’ufficio nel campo della nemicità.

In questi termini, l’odierna ondata di russofobia, malcelata dietro una semplice ostilità anti-Putin, ha qualcosa a che vedere con l’islamofobia vista all’opera negli ultimi vent’anni per giustificare le guerre americane in medio oriente: il nemico come altro assoluto, infido, dal sistema valoriale assurdo, arcaico, capovolto, sempre pronto a versare l’innocente sangue democratico. Il russo – pur se biondo e cristiano – si adatta oggi a rivestire i panni dell’antagonista perfetto, di cui l’occidente sente un disperato bisogno. Senza nemici il blocco “della civiltà e delle democrazie” deperisce, si sfianca, smarrisce le sue ragioni, travolto dalle proprie crisi materiali e di consenso. E’ nella perenne competizione con l'”altro” – il socialismo, il sovranismo, l’islamismo o qualsiasi altra rappresentazione simbolica del male – che l’occidente sembra recuperare un pò di vitalità.

Curioso, ma nè la Cina nè la Russia, sembrano avvertire questa spasmodica necessità di contrapposizione; quando si muovono lo fanno sempre per reazione a una qualche “rivoluzione colorata”, tipo la maledetta Maidan, che mina i loro confini e sposta sotto il loro muso la minaccia di destabilizzazione. I barbari starebbero bene anche senza guerra. E questa è la storia della Nato post-89: la più straordinaria macchina da guerra mai accumulata dall’umanità – mai sazia, mai appagata del suo potere, sempre in costante espansione e fibrillazione, a caccia di nemici grazie ai quali giustificare la propria stessa esistenza.

Verso i russi c’è però un “di più” di rabbia e rimpianto. I russi hanno profondamente deluso pensatori, politici, intellettuali e strateghi del mondo libero; e questo non sarà mai perdonato loro. Perchè diciamo ciò? Perchè dopo il 26 dicembre 1991, ammainata l’esangue bandiera rossa sul Cremlino, mentre a Washington, Londra, Parigi e Berlino si celebrava la riunificazione dei mercati mondiali e il sogno di un potere imperiale monocratico, enormi aspettative covavano nei confronti del popolo russo, giovane, vitale e affamato di libertà e mercato. I russi tornavano nella comunità dei paesi civili e venivano accolti a braccia aperte, come figliuoli prodighi e necessari. Certo, in cambio avrebbero dovuto accettare la svendita a prezzi di saldo del patrimonio industriale del paese, delle sue immense risorse naturali (allora ancora non pienamente sfruttate), nonchè diventare serbatoio di forza lavoro per l’industria globale che guardava ad est con l’acquolina in gola. Qualche prezzo da pagare c’era: ma vuoi mettere la soddisfazione del Mac Donalds sulla Piazza Rossa e il presidente ubriaco che balla il twist sul palco di un concerto rock?

Ecco, Boris Eltsin era una buona approssimazione di ciò che l’Occidente si aspettava dalla Russia: un simpatico alcolista, un orso bonaccione e ammiccante, pronto a vendere anche sua madre, sbruffone nei modi ma tremendamente realista nella valutazione dei rapporti di forza. Il leader di un paese a pezzi in cui con l’ammainabandiera era bruscamente calata anche l’aspettativa di vita – una grande nazione che si consegnava mani e piedi al “mondo libero” dichiarando la propria bancarotta etica, la fine di ogni alterità, la disponibilità ad una omologazione irreversibile.

E invece cosa ti combinano, questi russi ingrati? Resistono. Resistono a questa azione di conquista. Dapprima in modo passivo, con gli strumenti di cui la gente semplice dispone – tipo la riscoperta della religione o la silenziosa ripulsa verso “la decadenza occidentale”; e poi attivamente, rimettendo in piedi un apparato industriale e militare e ricostituendo uno Stato che nel volgere di un ventennio ridiventa grande e imprescindibile attore gobale. Putin non è il demiurgo di questi processi: ne è il prodotto storico. Putin è il figlio (repellente ma legittimo) della rinascita dello Stato Russo nel ventunesimo secolo. Dargli del pazzoide dittatore è facile, ma lui le elezioni le ha sempre vinte – a differenza di quel che succede nel nostro paese, dove tra l’instaurazione dei governi e il processo democratico, si è da tempo persa ogni connessione.

Lo ricordava la buonanima di Giulietto Chiesa: i russi non sono occidentali, non si sono mai sentiti tali. Hanno una storia e una cultura propria. Basta aver letto qualche buon romanzo, per averne contezza. E’ il primo paese al mondo dove si è realizzata una rivoluzione proletaria, la matrice di un popolo capace di sacrifici inenarrabili per spezzare la schiena della belva nazista. Certo, le sirene del consumismo occidentale hanno avuto un fortissimo impatto sulla gente comune, ma non l’hanno mai pienamente convinta circa la bontà assoluta dell’american way of life.

E qui il discorso diventa complesso e scivoloso e non mi azzardo – si rischia sempre di scivolare nel politicamente scorretto. Ma qual’è il sistema di valori che noi “occidente” rivendichiamo come essenziale, per distinguerci dalla barbarie russa? Che là ci sono gli oligarchi e da noi no? Libere elezioni? Sono poi così libere, le nostre? E se alle prossime presidenziali Ghennadi Zyuganov battesse Putin, il giudizio del “mondo libero” cambierebbe – o diventerebbe ancora più istericamente ostile? I russi alla stregua dei cinesi, degli indiani e della maggior parte dei paesi di cultura musulmana, non hanno mai assimilato integralmente il “pacchetto occidente” – l’offerta speciale dell’estremismo liberale, piena di caramelline, cotillons e veleni. La stragrande maggioranza del mondo si ostina a coltivare un immaginario in cui l’iper-individualismo borghese, l’ideologia dell’apogeo capitalista, riguarda solo alcune ristrette elite economiche o cuturali. Può piacere o meno: ma questa è la cruda verità. In Russia, a trent’anni dalla caduta del muro, il nichilismo d’occidente non è riuscito a far innamorare di sè i 147 milioni di abitanti di questo gigante orgoglioso e malinconico. In qualche recesso della loro anima, sentono di non appartenere del tutto a questo tipo di modernità e recalcitrano al destino a binario unico, che era stato scritto per loro. Non si sono rassegnati ad uscire in buon ordine dalla storia – l’ombra dell’impero che fu, si allunga sul presente e rende pallido e stinto il sogno occidentale.

La faccenda dello “spirito di un popolo” può sembrare una romanticheria vagamente reazionaria. Eppure nel dibattito all’interno del movimento socialista, soprattutto ai suoi albori, era naturale discuterne. Bakunin e Marx si accapigliarono anche su questo. La “educazione spirituale della classe operaia” doveva essere nell’agenda di ogni vero partito socialista: era il riconoscimento che non di solo pane, vive il proletario; il socialismo era una visione del mondo, mica solo una faccenda di forze produttive. Certo, oggi chi accetterebbe di farsi “educare”? Ci crediamo già “educati”, mentre siamo solo formattati. L’occidente ha sparato, nell’ultimo trentennio, tutte le sue cartucce – non solo metaforiche – per convincere i popoli ad aderire alla sua ideologia. Non c’è stato verso. Il mondo non sopporta la riduzione ad uno; così come la vera analisi politica non sopporta la “riduzione ad Hitler”, come argomento di critica alle politiche di questo o quell’avversario dell’atlantismo.

E’ questo che fa impazzire tutti, ad Ovest del Donbass. Solo vent’anni fa si discuteva a Pratica di Mare, di una possibile integrazione della Russia dentro il sistema Nato. Oggi Biden parla della terza guerra mondiale come di uno scenario possibile. E questo in assenza di qualsiasi contraddizione reale basata su modi di produzione alternativi. Il capitalismo ha fallito la sua missione universalista, la folle pretesa di rendere gli uomini e le donne del ventunesimo secolo una massa amorfa di consumatori soddisfatti. Il nazionalismo riemerge ovunque come sottoprodotto della crisi. Il mondo è ferocemente ingovernabile, visto dalle stanze ovattate degli strateghi geo-politici. Certo, mancano all’appello gli “strateghi del popolo”, quelle intelligenze – collettive – che dovrebbero dire alla povera gente tutta – da est a ovest – che le guerre vanno sabotate e le baionette vanno rivolte contro il nemico interno. Ma tutto ciò, al momento, appare ancora molto lontano, guardando gli 800 km, desolati e infuocati, che separano Kiev da Mosca. Oggi, siamo ancora immersi nello scontro fittizio Oriente/Occidente, l’ultima droga che può suscitare un pò di adrenalina nel corpo esausto del capitalismo gobale.

P.S. I nostri giornalisti sono riusciti ad esaltarsi anche per quella specie di corso popolare di costruzione delle molotov, tenuto in una piazza ucraina e trasmesso in pompa magna da tutti i tg. Prudenza, amici dell’informazione: la gioventù vi guarda…

]]>
Culture e pratiche di sorveglianza. Il nuovo ordine mediale delle piattaforme-mondo https://www.carmillaonline.com/2022/01/12/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-il-nuovo-ordine-mediale-delle-piattaforme-mondo/ Wed, 12 Jan 2022 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70009 di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio è emersa con forza l’importanza che nell’odierna economia globale sta assumendo il cosiddetto Platform Capitalism – analizzato pionieristicamente da studiosi come Nick Srnicek1 –, cioè quella particolare forma di business ruotante attorno al modello delle piattaforme web rivelatosi il paradigma organizzativo emergente dell’industria e del mercato grazie alla sua abilità nello sfruttare pienamente le potenzialità della cosiddetta quarta rivoluzione industriale.

[...]]]>
di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio è emersa con forza l’importanza che nell’odierna economia globale sta assumendo il cosiddetto Platform Capitalism – analizzato pionieristicamente da studiosi come Nick Srnicek1 –, cioè quella particolare forma di business ruotante attorno al modello delle piattaforme web rivelatosi il paradigma organizzativo emergente dell’industria e del mercato grazie alla sua abilità nello sfruttare pienamente le potenzialità della cosiddetta quarta rivoluzione industriale.

Se c’è un settore in cui emerge con chiarezza l’importanza assunta da tale modello questo è il comparto dei media ed è proprio a questo che si riferisce il volume di Luca Balestrieri, Le piattaforme mondo. L’egemonia dei nuovi signori dei media (Luiss University Press, 2021), in cui vengono descritte le trasformazioni culturali e industriali dei media che il “centro del mondo” – che, attenzione, significa certo Stati Uniti ma anche Cina – sta imponendo alle sue periferie.

In generale, quando si parala di “piattaforma” si fa riferimento a «uno spazio per transizioni o interazioni digitali che crea valore attraverso l’effetto network, il quale si manifesta tramite la produzione di esternalità positive» (p. 14). Visto che la creazione di valore deriva soprattutto dalla conoscenza dei clienti e del mercato, diventa fondamentale la capacità di estrazione e di interpretazione dei dati comportamentali dei consumatori.

Essendo la piattaforma a organizzare i flussi di informazione all’interno del network, la sua forza risiede proprio in questa sua capacità di connettere e ottimizzare gli scambi di informazioni tra gli elementi che coinvolge che prima erano invece disseminati lungo una filiera lineare. Si tratta pertanto di una forma organizzativa meglio capace di sfruttare le potenzialità offerte dall’intrecciarsi di intelligenza artificiale, cloud computing e connessioni ultraveloci e che, strada facendo, ha dato luogo a quelle che l’autore definisce come vere e proprie “piattaforme-mondo”:

ecosistemi che organizzano in rete produzione e consumi, sviluppano e gestiscono la tecnologia con cui governano i mercati e tendono a espandersi attraverso il controllo dei dati. La piattaforma diventa mondo, tende a dilatare sena limiti i suoi servizi e le opportunità che offre. È la versione dell’one stop shop sviluppata, con il massimo di rigore e coerenza, per le prime dalle grandi piattaforme cinesi. Una sorta di paese dei balocchi nel quale il consumatore, idealmente, non deve cercare altrove per soddisfare digitalmente ogni suo bisogno (p. 19).

Si sta parlando di colossi statunitensi come Alphabet (gruppo Google), Amazon, Facebook, Apple e Microsoft e cinesi come Baidu, Alibaba e Tencent. A un livello inferiore in questa gerarchia di potenza si collocano invece piattaforme come Netflix e Spotify in quanto impegnate in un segmento di mercato limitato, audiovisivo la prima e musicale la seconda. Per dare un’idea della potenza di fuoco di cui dispongono tali colossi si pensi che nel 2021 tra le dieci imprese a maggior capitalizzazione mondiale figuravano ben sette piattaforme-mondo.

Per comprendere come le piattaforme si siano evolute da semplici sistemi informatici nell’infrastruttura chiave dell’economia globale in grado di erodere le sovranità nazionali, sfruttando la capacità di ottenere ed elaborare dati, lo studioso ritiene sia necessario partire dalle “guerre dello streaming” per il controllo dell’industria audiovisiva statunitense che si sono scatenate negli anni Dieci del nuovo millennio. A una prima fase in cui le piattaforme S-VOD (sevizi video-on-demand richiedenti un abbonamento per una visione senza limiti dei contenuti) sferrano il loro attacco alla televisione multicanale uscendone vincitrici, succede una seconda fase in cui queste piattaforme si scontrano tra di loro per il dominio del mercato in una competizione giocata sul volume di dati raccolti e sull’ampiezza dei servizi che tali dati permettono di proporre in maniera profilata ai consumatori.

Per oltre un trentennio, a partire dagli anni Novanta del Novecento, il sistema della tv via cavo statunitense ha regnato sul sistema mondiale dei media grazie soprattutto alla sua indubbia capacità creativa (che ha portato a fare della serialità la narrazione privilegiata della contemporaneità e del suo immaginario) e all’aver messo in piedi un efficace sistema produttivo e di aggregazione di media company capace di integrare il comparto hollywoodiano tanto a livello creativo che organizzativo. Ne corso degli  anni Dieci le piattaforme streaming hanno dunque saputo assimilare e prendere il controllo tanto della creatività seriale che della base produttiva sviluppata nel frattempo dal sistema della tv via cavo.

A risultare vincente, scrive Balestrieri, non è dunque il prodotto in sé (la serialità), che le piattaforme hanno trovato già strutturato dalle cable tv, ma il rapporto con il consumatore, che nello specifico significa la fruizione on demand e la valorizzazione della libertà di scelta. Quando compare Netflix, ad esempio, la cosiddetta complex tv2– la tv della complessità narrativa – era già un dato di fatto così come, almeno parzialmente, le sue innovative modalità produttive. Si potrebbe dire che Netflix arriva quando HBO ha già cambiato la serialità.

Esiste dunque una contiguità ideativa e realizzativa a livello di prodotto; ciò che le piattaforme on demand hanno innovato è la modalità di fruizione e la rapidità con cui il pubblico statunitense si è convertito a questa sembra essere derivata dalla possibilità di controllare autonomamente il tempo di consumo svincolandosi così dal flusso imposto dai palinsesti: «è lo stesso bisogno di differenziare e personalizzare il consumo audiovisivo che, due decenni prima, aveva determinato la rivoluzione creativa e la diversificazione produttiva della tv via cavo e che, negli stessi anni, aveva portato al boom prima dei videoregistratori e poi del Dvr» (pp. 27-28).

A risultare vincenti sono le piattaforme che rinunciano a richiedere il pagamento per ogni singolo atto di consumo – come avveniva nelle prime sperimentazioni on demand – e che propongono invece all’utente, tramite abbonamento, l’esperienza di consumare senza vincoli e senza limiti: «la bulimia di esperienze fictional, di universi narrativi e di immagini che ne deriva è l’atto fondante di un nuovo tipo di consumatore mediale» (p. 29). Nell’offrire allo spettatore immediatamente tutti gli episodi di una serie si sollecita un cambiamento radicale delle abitudini di fruizione allontanandolo ulteriormente dalle proposte delle tv a palinsesto tradizionali, broadcast o cavo/satellite.

Oltre alla possibilità di consumare un’intera serie nei tempi preferiti, il consumatore si trova a poter disporre di una sorta di luna park all’interno del quale può attingere liberamente vivendo un’esperienza di assoluta libertà nella scelta. Si tratta di un’offerta che ha fatto breccia sopratutto tra le generazioni più giovani, e non è forse un caso che gli stessi sistemi educativi, da qualche tempo, siano sempre più inclini a sostituire un’istruzione pianificata in maniera strutturata a “palinsesto”, con una proposta sempre più a “buffet”, ove lo studente vive la sensazione di poter scegliere liberamente tra una molteplicità di offerte formative sempre meno strutturate e bilanciate tra di loro.

Le piattaforme hanno vinto perché, sostiene lo studioso, sono state abili nel creare il consumatore a loro più funzionale.

La piattaforma non mette astrattamente in contatto i soggetti che vi partecipano, ma li plasma e li ridefinisce in funzione dell’ottimizzazione delle loro interdipendenze – in termini di valore per i partecipanti e, soprattutto, per la piattaforma stessa. L’innovazione investe il prodotto, il soggetto che lo offre e il consumatore, educato a scoprire e apprezzare un’esperienza di fruizione diversa. La piattaforma, insomma, è al contempo il legislatore e l’educatore del mondo nuovo che costruisce (pp. 66-67).

Essendo che le piattaforme estraggono valore dall’offerta di servizi regolati dalla profilazione e dall’elaborazione dei dati derivati dal consumatore, quest’ultimo deve essere educato alla fruizione del maggior numero di servizi possibile all’interno di uno spazio digitale unico e alfabetizzato celermente alle regole della piattaforma in maniera che le viva come del tutto naturali inducendolo a comportamenti automatici vissuti come spontanei.

Il consumatore deve essere progressivamente portato a ricercare all’interno di quello spazio il soddisfacimento di bisogni originariamente eterogenei, quali l’informazione e la creazione di comunità, l’esplorazione ludica e l’autoaffermazione, il contratto di vicinanza e lo sguardo sul mondo. I social propongono una user experience facile, immersiva, senza strappi: facilità e immersività apparentemente simili a quelle del flusso televisivo, ma in realtà con un rovesciamento del rapporto tra soggettività e flusso, perché la passività dello spettatore televisivo è trasfigurata in (apparente) protagonismo e l’esperienza sembra ruotare attorno a continue scelte del fruitore attivo (p. 69).

Al di là della percezione del consumatore, modi e forme della partecipazione attiva alla creazione dell’esperienza immersiva sono in buona parte diretti dalle strutture logico-tecnologiche della piattaforma; «quello che sembra un percorso di naturale espansione degli interessi e della socialità del singolo segue un tracciato di messa a valore dei dati estratti e analizzati nell’insieme dello spazio digitale della piattaforma» (pp. 69-70) che lavora incessantemente per ottenere una vera e propria bulimia di contatti e di consumo. Le piattaforme social, in particolare, educano il loro fruitore a una particolare centralità visuale che lo lusinga di essere lui l’oggetto della cultura visiva:

i selfie che intasano i social mostrano i fruitori al centro di spiagge, di montagne, di luoghi di socialità, a riprova che – mentre la televisioni parlava di altro, al più, poteva suggerire un’identificazione con altri, come nei reality – adesso le piattaforme parlano del fruitore stesso, del consumatore che si specchia nell’immagine di sé. Si ottiene così l’effetto network da cui la piattaforma estrae valore. Per questo, l’autoreferenzialità dell’immagine deve essere condivisa e il narcisismo deve diventare contenuto di comunicazione attraverso i like o i retweet (p. 72)

Balestrieri si sofferma particolarmente nell’evidenziare l’asimmetria di potere esistente tra le piattaforme-mondo e i sistemi mediali nazionali.

Il flusso televisivo, nel Novecento e nel passaggio al nuovo secolo, ha svolto una fondamentale funzione costitutiva della socialità e dei percorsi identitari, contribuendo a disegnarne le forme espressive e i valori comunicativi, sostituiti dalle ideologie nella mappatura dello spazio politico e generatrici di rappresentazioni del contemporaneo e del suo significato. Anche nella sua banalità quotidiana, e forse proprio grazie a questa, il flusso televisivo raccontava una grande storia di appartenenza e di identità. Adesso questa capacità di racconto si è logorata, e solo in occasioni eccezionali riesce a trovare nuova potenza emotiva e forza aggregante. La società segue in generale percorsi di soggettività plurime, sempre più estranei alla cultura di massa ereditata dal Novecento, di cui la televisione era elemento costitutivo (pp. 58-59).

Per certi versi, sostiene lo studioso, l’indebolimento della tv broadcasting spodesta la televisione dal ruolo di cerniera e organizzatrice della creatività mediale che aveva assunto; «la crisi della televisione costituisce il segno più evidente della disarticolazione della centralità nazionali della cultura e della creatività» (p. 91). Dunque, il particolare processo di globalizzazione mediale imposto dalle piattaforme-mondo, secondo Balestrieri, pone una pietra tombale sulla «possibilità di esercitare, attraverso un autonomo sistema dei media, una consapevole, trasparente ed efficace gestione dello spazio in cui si forma i discorso pubblico e si producono dinamiche culturali che in una comunità creano identità (al plurale)» (p. 93).

Se le realtà locali non sembrano davvero più in grado di dare forma alla cultura di massa creando o adattando contenuti pensati quasi esclusivamente in funzione di un consumo interno, soppiantate come sono dalle piattaforme-mondo capaci di assimilare tratti culturali locali per poi manipolarli in maniera da renderli appetibili al mercato mondiale, non sono mancati casi di “resistenza” locali che, per qualche tempo, hanno saputo anche oltrepassare i confini nazionali.

Balestrieri ricordata ad esempio la capacità in America Latina di dar vita a un prodotto originale come la telenovela capace di insinuarsi nel mercato internazionale; si pensi a come la telenovela brasiliana negli anni Sessanta abbia saputo trasfigurare in modalità melodrammatiche la quotidianità e il senso di appartenenza e di comunità all’interno di un contesto autoritario sapendo trasformarsi nel corso del decennio successivo al pari della società che stava faticosamente uscendo dalla dittatura.

Nei decenni finali del vecchio millennio e nell’inizio del nuovo permane una certa dialettica tra sistemi nazionali e circuiti internazionali, tra centro e periferie a riprova di ciò si pensi al successo del fenomeno “format” soprattutto negli anni Novanta: «formidabile sintesi di globalizzazione del prodotto audiovisivo e di persistenza del mercato nazionale: si prende un’idea che ha avuto successo da qualche parte nel mondo e la si traduce in un contenuto vicino alla cultura del pubblico di un altro Paese» (p. 107). Ebbene, continua lo studioso, le piattaforme operano in maniera inversa: trasformano contenuti locali in prodotti globali e lo fanno forti dell’incredibile potenza di fuoco economica di cui dispongono nell’operare investimenti.

L’era del trionfo delle piattaforme-mondo ridisegna l’universo mediale riconfigurando anche le modalità di globalizzazione sia a livello di organizzazione industriale delle filiere e dei consumi che delle ibridazioni cultuali. Alla centralità dei flussi internazionali di capitali e prodotti propria della prima fase del processo di globalizzazione si sovrappone l’internazionalizzazione dei servizi al consumatore e delle infrastrutture tecnologiche. Il servizio è venduto direttamente al consumatore di ogni angolo del pianeta «disintermediando le filiere che si articolano nei sistemi nazionali dei media. La raccolta delle risorse e le decisioni strategiche sul loro reimpiego passano di mano e saltano il livello locale, lasciando a quest’ultimo magari il ruolo subalterno di fucina creativa a comando. Benvenuti nella globalizzazione mediale 4.0» (p. 109).

Se è pur vero che l’offerta audiovisiva di colossi come Netflix (che nel 2021 vantava oltre 200 milioni di abbonamenti disseminati in ben 190 paesi) o come Amazon è in buona parte fatta di contenuti statunitensi, sarebbe errato secondo Balestrieri vedere in queste piattaforme una semplice prosecuzione del processo di americanizzazione culturale del mondo iniziato con Hollywood.

Nella fase attuale, nella quale l’internazionalizzazione riguarda i sevizi diretti all’utente, lo scopo di un soggetto che opera globalmente come Netflix o Google non è vendere prodotti statunitensi sugli altri mercati, ma vendere il proprio servizio, che può benissimo prevedere anche la valorizzazione dei prodotti locali. Le piattaforme non vogliono americanizzare il consumatore globale, ma creare una nuova specie di consumatore mediale, impegnato nell’ibridazione dei propri linguaggi, valori estetici, strutture narrative all’interno delle interazioni e transazioni governate dalle piattaforme stesse (p. 124).

Attenzione, avverte lo studioso, ciò non significa affermare che le multinazionali non hanno nazionalità; tutt’altro, rispetto alle piattaforme di inizio millennio, nelle odierne il «governo dello sviluppo industriale e dei flussi culturali è ancora più localizzato negli Stati Uniti» ma non si tratta più di un controllo di tipo novecentesco dei mercati contraddistinto da merci culturali vendute e investimenti per acquisire la proprietà dei media, bensì di un controllo delle piattaforme-mondo che «innovano i flussi culturali e creano i propri consumatori attraverso la vendita diretta di servizi, personalizzati sul profilo di fruizione dei singoli individui» (p. 125). Queste piattaforme non necessitano per forza di acquistare media; spesso è sufficiente svuotarli e riconfigurarli all’interno dei propri ecosistemi reindirizzando le catene di distribuzione economiche e culturali in direzione transazionale.

Gli Stati Uniti non sono soli nella creazione di piattaforme-mondo; ad essi si aggiunge la Cina, Paese che ha saputo sfruttare le economie di scopo offerte dalla datification. Si tenga presente, sostiene Balestrieri, che in Cina le piattaforme-mondo non hanno dovuto ingaggiare una battaglia interna nei confronti del vecchio mercato dei media; in buona parte lo hanno creato. Nel paese asiatico si può dire che il sistema dei media sia nato con la digitalizzazione e l’industria audiovisiva con le piattaforme. In Cina lo streaming è infatti giunto diffusamente alla popolazione prima ancora delle sale cinematografiche: nel 2010 si contavano nel paese di un miliardo e trecento milioni di persone poco più di seimila schermi in duemila sale concentrate nei grandi agglomerati urbani. Il cinema nelle sale è arrivato praticamente insieme alle piattaforme strizzando l’occhio a una popolazione giovane nativa digitale che nel primo decennio del nuovo millennio ha imparato a consumare audiovisivi soprattutto attraverso queste piattaforme.

La densità di servizi offerti dagli ecosistemi delle piattaforme-mondo cinesi si traduce anche in un accelerato sviluppo della base produttiva e delle industrie creative che alimentano questa totalizzante user experience. Senza l’ingombro d un robusto sistema dei media preesistente, le piattaforme hanno potuto costruire secondo le proprie esigenze le fabbriche dei contenuti e i bacini di professionalità necessari, sfruttando al massimo le sinergie offerte dalla crescente complessità e articolazione degli ecosistemi (p. 136).

In generale, statunitensi o cinesi che siano, le piattaforme-mondo vivono della conoscenza del consumatore in modo non solo da poter estendere la gamma di sevizi da offrirgli ma anche di poter anticipare e guidare le decisioni dell’utente sia nell’ambito del consumo/acquisto che nelle connessioni sociali. L’obiettivo è dunque quello di plasmare il consumatore.

In chiusura di volume, Balestrieri si concentra sul potere acquisito dalle piattaforme-mondo a proposito del controllo delle tecnologie che alimentano la quarta rivoluzione industriale. In un panorama in cui la capacità di incidere su economia, società e cultura di queste piattaforme sembrerebbe ormai essere sfuggita al controllo statale, quest’ultimo sembra del tutto intenzionato a rifare capolino dopo decenni di inerzia più o meno pianificata. Si pensi che Amazon fornisce servizi cloud a ben 6500 agenzie governative che vanno dal settore della difesa a quello dell’educazione fino ai tanti apparati governativi.

Le tecnologie che in misura significativa cadono sotto il controllo delle piattaforme-mondo costituiscono il nucleo essenziale della sovranità digitale e politico-istituzionale» (p. 163) e quando ciò si è “improvvisamente” palesato, il potere statuale è sembrato svegliarsi dal torpore con l’intenzione di imporre una rinegoziazione del livello di autonomia concedibile. Insomma, la questione geopolitica è sembrata voler riguadagnare il primato che ritiene le aspetti rispetto alla mera efficienza di mercato. Una delle conseguenze di questa volontà di riallineamento delle piattaforme alle esigenze geopolitiche sembra essere «la fine dell’ideologia della globalizzazione neutrale: le piattaforme sono americane o cinesi, al massimo le prime si vestono del ruolo di campioni dell’occidente, o campioni delle autodefinite tecno-democrazie contro le cosiddette tecno-autocrazie (p. 163).

Se in Cina, dopo un decennio di deregolamentazione che ha riguardato tanto l’ambito finanziario quanto quello delle piattaforme, lo Stato ha potuto ribadire la propria supremazia celermente, negli Stati Uniti, dopo diversi decenni di neoliberismo spinto, il confronto tra piattaforme e Stato appare più travagliato. Resta il fatto che dalla negoziazione anche aspra tra piattaforme-mondo, preoccupate a non perdere competitività sui mercati internazionali, e Stati, con annessi interessi geopolitici, sembrerebbe derivare la presa d’atto che interessi economici e sovranità possono andare di pari passo: i primi hanno necessità di accedere ai dati di cui è in possesso lo Stato (sanità, istruzione ecc.) mentre i secondi necessitano degli efficientissimi oligopoli tecnologici che consentono la sovranità digitale.


Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche di sorveglianza


  1. Cfr. Nick Srnicek, Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web, Luiss University Press, Roma 2017. 

  2. Cfr. Jason Mittel, Complex TV. Teoria e tecnica dello Storytelling televisivo, Minimum fax, Roma 2017. 

]]>