Max Horkheimer – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il fascismo prima e dopo il fascismo https://www.carmillaonline.com/2024/02/06/il-fascismo-prima-e-dopo-il-fascismo/ Mon, 05 Feb 2024 23:30:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80898 di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico? In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori [...]]]> di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36.

Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico?
In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori tempo” dato il loro intimo legame con la crisi capitalistica successiva alla Prima guerra mondiale, con l’era del lavoro manuale di massa, della coscrizione universale maschile in vista della guerra totale e dell’imperialismo esplicitamente razzista. Possiamo allora dormire sonni sereni, fiduciosi nel carattere straordinario dei regimi fascisti?
Non proprio, sostiene sempre Toscano, perché il quadro cambia se abbandoniamo una concettualizzazione meramente analogica del fascismo. In altri termini, se lasciamo da parte l’idea che per parlare di questo fenomeno politico la cosa essenziale sia raffrontare gli epigoni contemporanei con il loro modello originale, stilando una sorta di checklist dei sintomi in grado di diagnosticare lo stato di avanzamento della malattia.
Abbandonare il piano analogico significa concepire il fascismo come un fenomeno di lunga durata e storicamente mutevole. Vuol dire intenderlo come una dinamica che precede la sua stessa denominazione, sempre strettamente legata ai prerequisiti della dominazione capitalistica, anch’essa diversificata nel tempo. Utilizzando la definizione di W. E. B. Du Bois, si può parlare di “controrivoluzione della proprietà”.

Sviluppando questo approccio, Toscano mette in luce quattro dimensioni del fascismo. In primo luogo, bisogna riconoscere che le pratiche e le ideologie che si sono cristallizzate tra le due guerre mondiali sono state anticipate e preparate dall’espropriazione e dallo sfruttamento delle “razze minori senza legge”, perpetrati attraverso il colonialismo, la schiavitù e il capitalismo razziale intra-europeo. Una sorta di “fascismo senza fascismo” che ha contraddistinto l’espansione imperialistica su scala mondiale.
In secondo luogo, i sistemi politici considerati liberaldemocratici possono ospitare al loro interno istituzioni che operano come regimi di dominio e terrore per ampi settori della loro popolazione, soprattutto nei confronti dei soggetti razzializzati, come ha messo bene in evidenza il pensiero nero radicale negli Stati Uniti (George Jackson e Angela Davis sono alcuni tra gli autori citati da Toscano). Occorre dunque superare l’idea che si possano proiettare univocamente gli idealtipi sulla storia: il liberalismo, la socialdemocrazia, il neoliberismo e lo stesso fascismo non sono ordini politici che operano in spazi e tempi mutuamente esclusivi, ma ideologie e pratiche, anche istituzionali, che possono coesistere e intrecciarsi.
In terzo luogo, il fascismo si fonda su una controviolenza preventiva, su un desiderio di rinascita etno-nazionalista alimentato dal fantasma di un’imminente e potenzialmente catastrofica minaccia di natura culturale, demografica ed esistenziale. Il panico epocale generato dalla “marea crescente di colore” e dalla “rivoluzione mondiale di colore”, che ha favorito l’ascesa del fascismo dopo la Prima guerra mondiale, si è mutato nelle narrazioni tossiche sulla sostituzione etnica e sul suicidio culturale che sono oggi condivise sia dai mass shooter sia da molti rispettabili politici. Paure cui si aggiunge una sorta di “gender panic”, derivante da un presunto disordine sessuale figlio del femminismo, funzionale a un tentativo di restaurazione dell’autorità patriarcale. Questa tendenza reazionaria può risultare tanto più efficace quanto più è capace di offrire anche alle donne, ovviamente solo a quelle bianche, una pseudo-spiegazione della loro infelicità e un’arena affettiva per esprimere la loro malintesa rabbia, dando luogo, tra l’altro, a una forma “anti-femminismo femminile” che ha come bersaglio preferito il femminismo neoliberale, facilmente criticato per il suo carattere elitario ma pretestuosamente identificato con il femminismo tour court.

In quarto luogo, il fascismo richiede la produzione di soggettività che, di certo, prevedono obbedienza a un potere statale dispotico, ma attingono anche a un’idea sui generis di libertà e di uguaglianza. La partecipazione allo squadrismo fascista o alle SS naziste ha infatti concesso a un gran numero di individui il potere di uccidere, di violentare e di derubare il proprio vicino. Si tratta, in breve, di una reinvenzione della logica coloniale della piccola sovranità, di una “liberalizzazione” e “privatizzazione” del monopolio della violenza, sicuramente circoscritte, ma molto reale. Allo stesso tempo il fascismo promuove un “egualitarismo repressivo”, basato su un’identità nella sottomissione e una fraternità nell’odio che, ovviamente, non ha carattere universalistico ma esclusivistico, essendo riservato a coloro che appartengono alla razza e alla nazione eletta.
Parlando di libertà e uguaglianza fascista si può comprendere, secondo Toscano, come la rinascita contemporanea dell’estrema destra non si basa sul rovesciamento dell’individualismo competitivo di stampo neoliberale, ma su un suo particolare compimento. L’autore ci ricorda che, storicamente, il fascismo non nasce con l’intenzione totalitaria di fondere politica ed economia, ma come un “virulento antistatalismo guidato dallo stato”, finalizzato a risolvere la crisi postbellica attraverso la restaurazione dell’egemonia liberale sul terreno economico. Tornando ai nostri giorni, vediamo come si facciano sempre più porosi i confini tra la concezione neoliberista della libertà (libertà di mercato e di possedere, assenza di interferenze con la sovranità individuale) e quella fascista (libertà di dominare e di governare). Una convergenza resa possibile dalla condivisione di un immaginario incentrato sulla competizione e sulla sopravvivenza del più forte, e sull’avversione nei confronti della solidarietà, della cura e della vulnerabilità. Il neoliberismo, in breve, deve essere autoritario e populista perché non può essere autenticamente democratico e popolare, preparando così il terreno al tardo fascismo.

Ma cosa dire dell’iperindividualismo contemporaneo che sembra segnare uno scarto decisivo rispetto alle masse compatte mobilitate dal fascismo storico? In realtà le cose sono ben più complesse. Seguendo Adorno, Toscano sostiene che, anche nei movimenti tra le due guerre, gli individui non si identificano realmente con i rispettivi leader, ma partecipano alle loro performance, mettendo in scena un’entusiastica adesione alla causa collettiva. Fermandosi anche per un secondo, l’intera performance è a rischio di andare in pezzi lasciando gli individui nel panico.
Utilizzando le categorie di Sartre, si può anche sostenere che i movimenti fascisti, pur agendo realmente, non si trasformano mai in un gruppo in fusione, rimanendo sempre allo status di massa eterodiretta, dispersa e connotata dalla serialità. Il fatto che per Sartre proprio la serialità sia una determinazione cruciale per la costituzione della sovranità statuale moderna suggerisce come i confini tra l’eterodirezione fascista e quella non fascista potrebbero essere più porosi di quanto pretenderebbe il buon senso liberale. Anche se, aggiunge Toscano, il fascismo eccelle nella manipolazione delle serialità generate dalla vita sociale capitalista, con la sua capacità di plasmare pseudo-unità e false totalità attraverso discorsi di supremazia razziale, etno-nazionalista e religiosa.

Il carattere per certi versi farsesco dell’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump nel 2021 non deve trarre in inganno. Anche la farsa è una forma di performance che, al pari delle messe in scena più seriose, è in grado di tenere insieme differenti e incompatibili immaginari autoritari, coinvolgendo una composizione sociale e di classe quanto mai eterogenea. I molteplici vettori di comunicazione e di aggregazione che oggi contraddistinguono l’estrema destra americana (e non solo), amplificano il carattere “pluralistico” e contraddittorio del fascismo tradizionale. Ma questa è tutt’altro che una debolezza, sostiene Toscano, come l’approccio razionalistico della sinistra sembra spesso ritenere.
Questo perché il “tempo per il fascismo” è il tempo della crisi, nella sua dimensione oggettivamente socioeconomica. La sfida per ogni risoluzione fascista della crisi è di realizzare una mediazione tra due tipi di temporalità divergenti: da una parte, il tempo del risentimento e del revanchismo (il tempo dell’identità e della razza), dall’altra quello dell’accumulazione (il tempo del valore). O, meglio ancora, la vera sfida è di subordinare il primo tipo di temporalità al secondo. La soluzione viene allora trovata attingendo a un archivio disordinato di immaginari ed esperienze sedimentate nel tempo grazie al quale il futuribile e l’arcaico, il nuovo e la ripetizione, la rivoluzione e il ritorno all’origine, la decisione e il destino possono convivere in una miscela instabile ed esplosiva.
Tutto ciò richiama la dimensione della “non-contemporaneità” che Bloch, citato da Toscano, ha per primo messo in luce sottolineando la presenza nella Germania degli anni Trenta di strati sociali fuori sincrono rispetto ai ritmi dell’accumulazione capitalistica (contadini, piccolo borghesi, aristocratici, sottoproletari ecc.). Strati sociali cui appartengono fantasie irrealizzate di una vita migliore, memorie di modi di vita precapitalistici, desideri improduttivi e in eccesso che sono stati deviati e irreggimentati dal fascismo. Allo stesso tempo, prosegue Bloch, abbiamo a che fare  con frammenti di un immaginario che possono rivelarsi rivoluzionari qualora riescano entrare in risonanza con la contraddizione “sincronica”, quella tra capitale e lavoro. 

Ma nelle società dei nostri giorni, si chiede Toscano, possiamo ancora parlare di non-contemporaneità? Il capitalismo attuale, con la sua capacità senza precedenti di modellare e omogeneizzare i desideri e la vita quotidiana, soprattutto sotto l’apparenza di differenza, scelta e libertà, ha portato con sé il prosciugamento delle differenze culturali e temporali dall’esperienza vissuta, insieme a tutte le loro potenzialità utopiche. Insomma, secondo l’autore di Late Fascism, non ci sarebbe più alcun passato da salvare. Quantomeno nulla di antico. Quando Trump parla di fare di nuovo grande l’America, infatti, non fa riferimento ad alcunché di  arcaico, ma a un fordismo post-bellico con tratti fortemente idealizzati, soprattutto per quanto riguarda il benessere diffuso e il compromesso patriottico tra grande capitale e lavoro.
Eppure, possiamo commentare, la sussunzione di modi di vita, culture e tradizioni non capitalistiche sotto il segno della mercificazione universale, non significa necessariamente la scomparsa di tutto ciò che viene dal passato e/o dal mondo non occidentale. Il capitale ha interesse a distruggere solo ciò che è incompatibile con le leggi della sua valorizzazione. Tutto il resto lo può rifunzionalizzare, mettere a valore o lasciar vivacchiare ai suoi margini. Il passato può sopravvivere come preferenza individuale per il consumo di merci e valori vintage, privato della sua profondità storica. Potremmo allora ipotizzare che il postmoderno, a modo suo, generalizzi il rapporto con la storia proprio della cultura di destra per la quale, sostiene Furio Jesi citato da Toscano, “il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile”. La non-contemporaneità è dunque salvata, ma al tempo stesso superata al punto di essere resa difficilmente riconoscibile. 

Similmente deformati, secondo Toscano, appaiono i lineamenti della classe operaia cui si appella il tardo fascismo, poco o nulla definita dal suo rapporto con i mezzi di produzione. Il suo tratto caratteristico è invece quello di essere di pelle bianca e di genere maschile. La connotazione razziale (e di genere) riempie una nozione politicamente vuota o spettrale della classe operaia permettendo a una soggettività pseudo-collettiva di aggregarsi per mezzo di un investimento emotivo caratterizzato da una rancorosa volontà di escludere l’alterità più che da un sentimento di vicinanza con il proprio simile. Per questo, a differenza di quello che pensa un certo populismo di sinistra a rischio di colorarsi di tinte rossobrune,  

non esiste alcun percorso che conduca dalla falsa totalità di una classe razzializzata ed eterodiretta a una rinascita della politica di classe, non esiste alcun modo per trasformare le statistiche elettorali o gli studi mal progettati sul “soggetto populista” e sugli “uomini e donne dimenticati”, in punti di partenza per ripensare una sfida al capitale o per analizzare e mettere in discussione i fondamenti stessi del discorso fascista.1

Questo pallido simulacro del proletariato è solo un ostacolo. Ma ciò non significa buttarsi dalla parte opposta per contrastare le tendenze autoritarie del nostro periodo, annacquando l’antifascismo in un “fronte (im)popolare con liberali e conservatori”. Anche il neoliberismo presuntamente progressista, quello che sta alla base della maggior parte delle denunce tradizionali del fascismo, è contraddistinto dalla continua produzione di disuguaglianze ed esclusioni infiocchettate da impegni formali e stereotipati a favore dei diritti, della diversità culturali e delle differenze di genere. Facendo causa comune con esso, ammonisce Toscano, ci si allea con la causa per scongiurarne gli effetti. Di conseguenza, riecheggiando le parole del francofortese Max Horkheimer, non si può che giungere a una conclusione:

Chi non è disposto a parlare di anticapitalismo dovrebbe anche tacere sull’antifascismo. Quest’ultimo, inteso in senso ampio, non è solo una questione di resistenza al peggio, ma sarà sempre inseparabile dalla costruzione collettiva di modi di vivere che possono annullare le narrazioni letali di identità, gerarchia e dominio che la crisi capitalista ripropone con così cupa regolarità.2

In estrema sintesi, il fascismo di cui ci parla Alberto Toscano non è l’alterità mostruosa che si oppone al capitalismo, come vorrebbe il pensiero liberale che spesso immagina l’affermazione di questo altro da sé come un evento storico aberrante ed eccezionale. E’ piuttosto il suo lato oscuro, il suo doppio che vive costantemente ai margini (interni ed esterni, sociali e geopolitici) di quello che la cattiva coscienza liberale percepisce come il suo mondo ordinario (che è normalmente assai più limitato dell’intera realtà). Un lato oscuro che è pronto a proiettare la sua fetida ombra sull’intera società quando erompe il tempo della crisi. 

I margini in cui allignano le tenebre, aggiungiamo da parte nostra, possono anche essere concepiti, con l’aiuto di Marx, come ciò che si trova al limite dell’arco visivo dell’ideologia dominante. Quest’ultima fissa di preferenza il suo sguardo sulla sfera della circolazione delle merci, vero Eden dei diritti dell’uomo dove regnano libertà e uguaglianza per tutti i possessori di merci e, per estensione, per tutti i cittadini. Da questo punto di vista, ciò che rimane ai margini è, paradossalmente, il cuore di tenebra del mondo capitalistico, dove domina tutt’altra logica. Nel “segreto laboratorio della produzione”, infatti,

il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema rappresentativo che le è ancor più caro.3

Ed è proprio questo dispotismo, connaturato al rapporto tra capitale e lavoro nella sfera della produzione, che tende a prevalere anche nell’ambito politico, investendo le relazioni tra governanti e governati fino nel centro dell’impero, quando la silenziosa coazione dei rapporti economici non è più sufficiente ad assicurare la riproduzione del sistema capitalistico, cioè in tempi di crisi. Tempi che, oggi come in passato, ci portano verso scenari bellici sempre più allargati, lasciando spazi di libertà sempre più ristretti per chiunque non si voglia schierare tra le file delle armate patrie. 


  1. Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Vereso, London-New York 2023, p. 21, ed. Kindle. 

  2. Ivi, p. 158. 

  3. K. Marx, Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti, 1980, pp. 468-69. 

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Scorci di apocalisse nel cinema di Tarkovskij https://www.carmillaonline.com/2023/08/16/scorci-di-apocalisse-nel-cinema-di-tarkovskij/ Wed, 16 Aug 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78601 di Paolo Lago

Spesso, nel cinema di Tarkovskij, si spalancano come baratri degli scorci di apocalisse che lasciano intravedere lembi di distruzione e di autodistruzione dell’umanità. Le immagini e i suoni, in tali occasioni, riescono ad aprire dei varchi verso territori indistinti, segnati da un disastro e da un annichilimento emergenti come un flusso magmatico che si spande in sonorità dalle connotazioni oniriche ed inquietanti. È lo spettro della guerra, e di conseguenza un annientamento pressoché totale dell’umanità, a rappresentare, in diverse occasioni, una possibile caduta nel vuoto di un’apocalisse annunciata.

Pensiamo a [...]]]> di Paolo Lago

Spesso, nel cinema di Tarkovskij, si spalancano come baratri degli scorci di apocalisse che lasciano intravedere lembi di distruzione e di autodistruzione dell’umanità. Le immagini e i suoni, in tali occasioni, riescono ad aprire dei varchi verso territori indistinti, segnati da un disastro e da un annichilimento emergenti come un flusso magmatico che si spande in sonorità dalle connotazioni oniriche ed inquietanti. È lo spettro della guerra, e di conseguenza un annientamento pressoché totale dell’umanità, a rappresentare, in diverse occasioni, una possibile caduta nel vuoto di un’apocalisse annunciata.

Pensiamo a Lo specchio (Zerkalo, 1974), in cui dietro le ambigue e vampiresche parvenze dell’arte di Leonardo da Vinci si celano baratri che spalancano orrori. Una vera e propria esplosione, anche musicale, accompagna in questo film l’improvvisa apparizione dell’immagine del leonardesco ritratto di Ginevra Benci dietro al quale si cela l’orrore della guerra che ha inghiottito nelle sue spire di morte il personaggio del padre. D’altra parte, lo spettro della guerra compare sullo schermo anche sotto la forma di immagini di repertorio che mostrano i soldati dell’Armata Rossa che avanzano nel fango trascinandosi dietro armi e cannoni, strumenti di morte che decreteranno il loro stesso annientamento. Sempre in un contesto di immaginario di guerra compare anche l’inquietante ricordo della fanciulla dai capelli rossi: il protagonista, infatti, rammemora i momenti in cui da ragazzo, in tempo di guerra, era costretto ad esercitarsi col fucile. Nella campagna invernale, fra gli alberi, a un certo punto vede una ragazza segnata da una ferita sanguinante alle labbra, terribile e affascinante apparizione vampiresca. Nel contempo, ecco riemergere di nuovo la presenza inquietante dell’arte sotto le vesti dei Cacciatori nella neve di Pieter Brueghel il Vecchio. La macchina da presa, allora, si esibisce in una carrellata ravvicinata sul quadro mentre in sottofondo sentiamo una musica tagliente dagli accenti metallici che quasi connota il paesaggio del dipinto, i personaggi, gli alberi e gli uccelli presenti in esso come i possibili messi di un’apocalisse incipiente.

In Stalker (1979), l’orrore di una possibile apocalisse compare nella volontà del personaggio dello scienziato di distruggere la Stanza, il luogo della Zona (un territorio misterioso forse provocato dal passaggio di extraterrestri; il film è infatti lontanamente ispirato al romanzo di fantascienza dei fratelli Strugackij, Picnic sul ciglio della strada) dove possono essere esauditi tutti i desideri, mediante un piccolo ordigno nucleare. Nell’immagine dello scienziato che vuole distruggere un luogo onirico e misterioso intravediamo l’orrore di Tarkovskij per una scienza e una tecnologia che appaiono come le basi di una “civiltà che minaccia di distruggere l’umanità” (secondo le parole dell’autore), come leggiamo nel “piccolo dizionario tarkovskijano” posto all’inizio del “Castoro” dedicato al regista1. Di fronte all’insondabile e all’inesplicabile, al mistero forse giunto da altri mondi, l’essere umano tecnologico, l’uomo a una dimensione di marcusiana memoria non conosce altro che la distruzione, spinto verso una irrefrenabile volontà di annientare l’altro da sé. Ciò che non si conosce, che non si comprende – sembra voler affermare il regista – deve essere distrutto. D’altra parte, scorci di distruzione operata dall’industrializzazione e dall’inquinamento indiscriminato sono presenti ovunque nel mondo ‘normale’, al di fuori della Zona. Se quest’ultima, infatti, nell’immaginaria trasposizione tarkovskjiana del romanzo dei fratelli Strugackij, era connotata da un ambiente naturale quasi intatto, sfolgorante di intricata vegetazione, il mondo fuori della Zona è squallidamente rappreso in ambienti spogli e tetri, come il bar in cui si ritrovano i personaggi all’inizio e alla fine del viaggio, o in lande malinconiche e fangose percorse da jeep militari e da soldati armati, emblema dello spettro di un pervasivo controllo e di una guerra che si trovano sempre in agguato. Al di fuori della Zona vi è un mondo squallido e inesorabilmente perduto nei suoi ritmi di quotidianità scontata e allucinante: basti guardare la sequenza in cui lo stalker porta sulle spalle la sua bambina che non riesce a camminare perché nata con una malformazione congenita. Lo sfondo è una grigia periferia industriale, solcata da nebbie e da ciminiere, da tetri treni merci, da fabbriche e industrie che inquinano e devastano l’ambiente. Lo squallore e la devastazione che aleggiano ogni dove sono rimarcati da una musica sinistra e tagliente che accompagna come un lugubre requiem l’incedere peregrino dello stalker.

In Nostalghia (1983), l’orrore si cela ancora una volta dietro la forza dirompente dell’arte. Il protagonista Gorçakov, un poeta sovietico giunto in Italia per seguire le orme di un musicista russo del ‘700, rifiuta infatti di recarsi a vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, emblema di quell’arte italiana che contemporaneamente affascinava e inquietava il regista. Secondo un aneddoto riportato da Francesco M. Cataluccio, infatti, il regista, agli Uffizi, riusciva a vedere soltanto le prime sale, la pittura sacra medievale, mentre doveva fermarsi all’inizio della pittura rinascimentale2. La Madonna del Parto irrompe sulla scena quasi come la Ginevra Benci ne Lo specchio, trasmettendo al protagonista orrore ed angoscia. Ma gli scorci di apocalisse, in Nostalghia, affiorano soprattutto nei momenti in cui il poeta si incontra con Domenico, un ex internato che appartiene al mondo ‘acquatico’ della follia e della ‘disragione’, per utilizzare un termine foucaultiano ricalcato sul francese “déraison”. Secondo lo studioso francese, infatti, “la follia è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”3. Egli emerge da un lungo internamento in manicomio ed è attratto dall’acqua, dalle pozze, dagli anfratti acquorei e dalla pioggia che penetra ogni dove nella sua casa, dalla vasca termale della piazza del paese di Bagno Vignoni, luogo al giorno d’oggi oggetto di una folle gentrification e turisticizzazione e che nel film possiamo contemplare ancora silente ed intatto, immerso nei suoi ritmi antichi e medievaleggianti. Il suo internamento manicomiale segue un altro lungo, stavolta volontario, internamento durante il quale aveva tenuta segregata in casa la sua famiglia per sette anni per proteggerla dalla “fine del mondo”, un’apocalisse che sarebbe stata provocata probabilmente da quella “rocciosa ragione” alla quale egli si oppone. Ecco che nella casa del ‘folle’ Domenico si fronteggiano il poeta ed il pazzo, il primo intrappolato nella sua lancinante nostalgia, il secondo impietrito da un’angoscia provocata da un profondo orrore per la ragione in tutti i suoi aspetti, mentre un suono meccanico e ossessionante si fa largo sullo sfondo sonoro come un vitreo ed evanescente fantasma.

Domenico, però, non appare esclusivamente imprigionato nelle dinamiche intime e ‘private’ di una solitaria angoscia ma si fa latore di una possibile via di fuga dall’universo carcerario della follia nel quale era stato relegato da un sistema basato su una presunta ‘normalità’. A Roma, sul Campidoglio, il personaggio organizza una manifestazione alla quale partecipano – sembra – molti altri ‘folli’ come lui, presumibilmente degli ex internati usciti dagli ospedali psichiatrici tra fine anni settanta e inizio anni ottanta (il film è del 1983) in seguito alla legge Basaglia. Domenico grida ai folli ormai liberi – parafrasando una frase di René Char – di esercitare la loro “legittima stranezza”: per scongiurare una catastrofe, una guerra nucleare, forse l’avvento di nuovi campi di sterminio di massa – dice Domenico – è necessario tornare uniti, è necessario che i cosiddetti ‘normali’ si mescolino ai cosiddetti ‘pazzi’, ai ‘diversi’. Pensiamo a come suona significativo l’appello del folle Domenico oggi che sono trascorsi anni in cui sono scoppiate guerre (e ancora scoppiano e sono in corso), in diverse parti del mondo (un mondo – bisogna dire – preda del distruttivo meccanismo capitalistico), a causa dell’odio di matrice etnica, a causa dell’incapacità di non riconoscere come simile il proprio ‘vicino di casa’, abitante di un territorio confinante. I ‘folli’, allora, non sono ‘folli’ ma sono forse gli unici capaci di riconoscere un fratello, un amico, un vicino anche in ciò e in chi appare come totalmente diverso. Se i normali e i folli non si rimescoleranno – dice Domenico – il mondo si autodistruggerà perché è giunto ormai già sull’orlo della catastrofe.

Una catastrofe che, alla fine, avviene davvero in Sacrificio (Offret / Sacrificatio, 1986), testamento cinematografico di Tarkovskij, in cui il protagonista Alexander, interpretato da Erland Josephson, lo stesso attore che impersonava Domenico, muovendosi lungo il baratro dell’apocalisse, verrà internato in manicomio per aver dato fuoco alla sua casa nel tentativo di salvare non soltanto la propria famiglia come Domenico, ma l’umanità intera. Nel giorno del suo compleanno, giunge infatti la notizia dello scoppio di una guerra nucleare che molto probabilmente condurrà all’estinzione totale dell’umanità. Anche Alexander, come Domenico, si oppone alla “rocciosa ragione” e, ergendosi a difensore dei valori umani e naturali (nel film è presente una forte impronta ecologista), riuscirà a scongiurare la distruzione e l’apocalisse mediante il rituale del fuoco. Anche in Sacrificio è l’arte rinascimentale, rappresentata ancora una volta da Leonardo, ad aprire squarci di inquietudine. L’autore, secondo l’aneddoto sopra ricordato, agli Uffizi riusciva a vedere soltanto l’arte medievale mentre il Rinascimento per la prima volta liberava la strada alla “rocciosa ragione”, rappresentata dalla tecnica, dalla precisione, dal mercantilismo e dagli scambi commerciali che si stavano sempre più diffondendo nell’intera Europa, per non parlare degli incontri con i ‘diversi’ al massimo grado, gli abitatori delle nuove terre dove era approdato il conquistatore europeo. Se pensiamo alla frase pronunciata dal personaggio di Harry Lime (Orson Welles) ne Il terzo uomo (The Third Man, 1949) di Carol Reed, l’arte di Leonardo appare inserita in una curiosa – parafrasando Adorno e Horkheimer – “dialettica del Rinascimento”: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Leonardo da Vinci apparirebbe quindi, dialetticamente, come l’altra faccia della guerra, del terrore e dell’omicidio. È L’adorazione dei magi, in Sacrificio, a introdurre lo scenario d’apocalisse; si tratta di un quadro, tra l’altro, menzionato dallo stesso regista nei suoi diari come particolare conduttore di una personale e distruttiva sindrome di Stendhal4. La riproduzione del quadro presente nella casa di Alexander, su cui si muove lentamente la macchina da presa inquadrandola attraverso una sottile membrana vitrea (il vetro della cornice o la superficie della finestra), in modo che appaia come visto ‘dall’esterno’, appare quasi come l’estremo lembo di una terra di nessuno nella quale possono avvenire inenarrabili catastrofi.

Nelle inquadrature iniziali vediamo il personaggio annaffiare un albero secco in compagnia del suo bambino ed esibirsi in un monologo-dialogo con quest’ultimo (simile, per certi aspetti a quello di Domenico) sulla necessità di una comunanza dell’uomo con i suoi simili e, soprattutto, con la natura. Così leggiamo in un racconto dal titolo Sacrificio che riprende diverse frasi e momenti del film (ma che non si può considerare una sceneggiatura): “La prima cosa che l’uomo ha provato nel momento in cui si è sentito un uomo è stata la paura. Aveva paura di tutto – delle belve, della tempesta e del buio. Ma, invece di imparare a vivere con la natura, a condividere con lei la sua sorte, a esserle amico, l’uomo ha preferito difendersi”5. Come già notato, il cinema del regista russo dispiega, in certi momenti, l’apertura a una comunanza con la natura e l’ambiente che possiede alcuni aspetti di matrice ecologista che non sono stati ancora indagati a fondo. Sempre nella parte iniziale del film, in una sequenza onirica che appare ad Alexander, vediamo una strada in preda al disfacimento e un’automobile rovesciata, mentre gruppi di persone si muovono disordinatamente, in fuga. Su un giornale abbandonato per strada è forse possibile leggere la parola “Černobil”, con un probabile riferimento al disastro alla centrale nucleare sovietica avvenuto appunto nel 1986, anno di uscita del film. L’apocalisse affiora dal magma di una “rocciosa ragione” che, illuministicamente, allontana sempre di più l’uomo dalla natura, poiché quest’ultimo si percepisce come un corpo estraneo sia alla natura che all’ambiente i quali vengono progressivamente trasformati in strumenti d’uso e di consumo, fino all’attuale sistema di produzione capitalistico. Anche dall’allontanamento dell’uomo dalla natura emergono le catastrofi, come la guerra nucleare che avviene nel film. Nel momento in cui la televisione, prima di spegnersi del tutto, annuncia l’inizio del conflitto, i personaggi, nel salotto di casa che molto ricorda certi interni ‘teatrali’ di Bergman (tra l’altro il film è stato girato in Svezia), assumono una posa granitica, preda di una ragione che sì è rocciosa ma che anche può trasformare in pietra, può rendere gli esseri umani tetri automi e burattini della paura e dell’angoscia. Nel contempo, il suono di sottofondo assume connotazioni devastanti: sentiamo infatti i rumori dei motori di cacciabombardieri in assetto di guerra che sfrecciano provocando sommovimenti tellurici che ad altro non preludono se non ad un’autodistruzione della società umana.

Di fronte a questa pietrificazione, a quest’orrore annichilente provocato dall’uomo, il personaggio oppone il movimento incessante del fuoco, un fuoco immerso in catartiche volute che distruggono quella stessa casa abitata dall’angoscia e dalla paura, dall’orrore del passato e del presente, da lembi di lancinanti ricordi. Il personaggio effettua in bicicletta un percorso sinuoso e serpentino nelle nordiche e nebbiose lande per recarsi dalla ‘strega’ Maria e scongiurare la catastrofe, come suggerito dal postino Otto. Alexander in bicicletta si muove in bilico su quegli stessi scorci di apocalisse, mentre in sottofondo risuonano cupe sirene di navi, e giunge alfine a compiere un atto erotico con la ‘strega’ che appare come un salvifico ricongiungimento con la natura. Dall’eros al fuoco: è il fuoco a espandersi e a levarsi in alto come in molti film di Tarkovskij. È la catarsi che avviene, una salvezza da un’apocalisse che comunque resta sempre in agguato, coi suoi borborigmi ctonii. E Alexander alfine si consegna alla mostruosa disragione e quindi agli abissi della follia e dell’internamento scegliendo per sempre il silenzio, unica risposta che una società basata sul controllo e sulla punizione può offrire a chi ha danzato sui baratri dell’apocalisse, dell’autodistruzione dell’umanità e, muto, annichilito dalla silente prigionia, adesso non può neppure riferirne l’orrore.


  1. Cfr. T. Masoni, P. Vecchi, Andrej Tarkovskij, Il Castoro Cinema, Milano, 1997, p. 7. 

  2. Cfr. F. M. Cataluccio, Tarkovskij e l’Occidente, il Il fuoco, l’acqua, l’ombra. Andrej Tarkovskij: il cinema tra poesia e profezia, a cura di P. Zamperini, La Casa Usher, Firenze, 1989, pp. 34-35. 

  3. Cfr. M. Foucault, L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 1, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996 p. 74. 

  4. Cfr. A. Tarkovskij, Diari. Martirologio, a cura di A. A. Tarkovskij, Edizioni della Meridiana, Firenze, 2002, p. 274. 

  5. A. Tarkovskij, Racconti cinematografici, Garzanti, Milano, 1994, p. 279. 

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Esperienze estetiche fondamentali / 4: Th.W. Adorno https://www.carmillaonline.com/2023/04/27/esperienze-estetiche-fondamentali-4-th-w-adorno/ Thu, 27 Apr 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76742 di Diego Gabutti

Mai più tornato ad Avellino. Tra la stazione e la caserma c’era un lunghissimo viale. Mi sembra non fosse alberato, anche se non posso giurarlo. Era estate. Ricordo un largo marciapiede percorso da cittadini dall’aspetto rilassato. Avevano l’aria di poter passeggiare avanti e indrè senza fare nient’altro dal mattino alla sera, e senza mai annoiarsi (col tempo, letti molti libri sull’argomento, che interpretai come manuali, e stufo di spostarmi in automobile, avrei imparato anch’io l’arte del flâneur). Ricordo anche d’avere avuto l’impressione, mentre andavo per la prima volta dalla [...]]]> di Diego Gabutti

Mai più tornato ad Avellino. Tra la stazione e la caserma c’era un lunghissimo viale. Mi sembra non fosse alberato, anche se non posso giurarlo. Era estate. Ricordo un largo marciapiede percorso da cittadini dall’aspetto rilassato. Avevano l’aria di poter passeggiare avanti e indrè senza fare nient’altro dal mattino alla sera, e senza mai annoiarsi (col tempo, letti molti libri sull’argomento, che interpretai come manuali, e stufo di spostarmi in automobile, avrei imparato anch’io l’arte del flâneur). Ricordo anche d’avere avuto l’impressione, mentre andavo per la prima volta dalla stazione alla caserma, che Avellino consistesse di quell’unico viale affiancato da due singole file di case, di tre-quattro piani al massimo, oltre le quali, a destra e a sinistra, c’era subito la campagna aperta.

Nei cortili delle case, lungo la strada, ricordo un vasto spentolio di pomodori messi a cuocere in grandi marmitte alimentate a legna, su grandi falò. Altre vaste distese di pomodori se ne stavano al sole a seccare. Era evidentemente la stagione della salsa e dei pomodori secchi. Mai saputo che ce ne fosse una. Gli odori erano intensi, i colori accesi, il rosso una vampa. Mai visto prima niente di simile. Praticamente un altro pianeta. E in fondo al viale, la caserma.

Qui mi consegnarono (attenti, riposo, spall’arm) una divisa estiva da bersagliere, fez e tutto, compreso il cappellone di metallo piumato (anche se dire piumato, di quello sproposito di piume, roba da Ziegfeld Folies, è riduttivo). In libera uscita s’indossava il fez (rosso, il pon-pon blu madonna) che metteva allegria a bambini e burloni. Mi piaceva passeggiare per Avellino, il caffè era ottimo, idem le pastarelle, finché non saltò fuori che giù per il viale, quando capitava d’incrociare un ufficiale o anche solo un maresciallo, si doveva scattare sull’attenti, sbattere i tacchi e portare la mano a visiera sulla fronte. Marescialli e capitani non erano uomini ma caporali: per scacciare lo spleen, e spassarsela a spese delle reclute, non facevano che andare su e giù dalla stazione beandosi dei saluti militari. Personalità autoritarie calzate e vestite, accidenti a loro.

Fortuna che avevo con me il contro-incantesimo: una copia della Dialettica negativa di Theodor Wiesengrund Adorno, il fenomeno filosofico della prima metà della seconda metà del Novecento. Rilegato e con sovraccoperta, era un libro giallo canarino (colore per il quale anch’io, come Nero Wolfe, ho sempre avuto un debole).

Comprata qualche giorno prima, a Milano, alla Feltrinelli di Via Manzoni, dov’ero capitato per caso, sapevo perché mi ero portato in partibus infidelium la Dialettica negativa, summa del pensiero adorniano, appena tradotto da noi ma uscito in Germania sette anni prima, nel 1963. Era per consolarmi in quest’improvvisa curva a gomito della vita, adesso che mi toccava portare il fez come Totò nella parte del Turco Napoletano («Guarda Omar quant’è bello!») Politicamente radical, filosoficamente chic, giallo canarino, Dialettica negativa era un saggio tirabaci.

Cominciava così, con un incipit incantatorio che diceva: «La filosofia, che una volta sembrò superata, si mantiene in vita, perché è stato mancato il momento della sua realizzazione. Il giudizio sommario, che essa abbia semplicemente interpretato il mondo e che per rassegnazione di fronte alla realtà sia diventata monca anche in sé, diventa disfattismo della ragione, dopo che è fallita la trasformazione del mondo».

Monca. In sé. Disfattismo della ragione.

Non si poteva dir meglio – qualunque cosa, però, si volesse dire, e mica era chiaro. Che fosse colpa della traduzione? Delle virgole traballanti? Del tono incravattato e per così dire «animalescamente serioso», come altrove diceva lo stesso Adorno, diffidando forse un po’ anche di se stesso, oltre che d’interpreti e traduttori? O io duro?

Anni dopo, in una sorta di divorzio unilaterale musulmano, le Edizioni Einaudi ripudiarono la prima traduzione di Dialettica negativa, edita nel 1970, per sostituirla con un’altra, che apparve nel 2004. Colpita da un Verboten, della prima traduzione svanì ogni traccia.

Sempre con scarso riguardo per le virgole, lasciamo per un momento il senso da parte, adesso si poteva leggere questo nuovo incipit: «La filosofia, che una volta sembrò superata si mantiene in vita perché è stato mancato il momento della sua realizzazione. Il giudizio sommario, che abbia semplicemente interpretato il mondo e che per rassegnazione di fronte alla realtà sia paralizzata anche internamente, si trasforma in disfattismo della ragione, dopo che la trasformazione del mondo è fallita».

Non cambiava granché. Anzi, da come la vedo adesso, la nuova traduzione era meno sculettante e fascinosa della vecchia. Ma passons. Dopo la prima libera uscita, salutato il mio primo ufficiale e subito rientrato in caserma, ero corso ai ripari.

Giovane e convincente come il demonio, e se non bravo bidonista io allora babbioni loro, chiesi e ottenni di preparare il mio esame sulla Dialettica negativa dal comandante di compagnia (o comunque si dica) evitando l’addestramento. Mostrai il bel tomo, lo sfogliarono, e anche loro rimasero basiti. Non avevo nessun esame da preparare, naturalmente. Non ero neppure iscritto all’università. Furono tutti molto gentili. Mi venne riservato uno stanzone al primo piano, in fondo al cortile delle adunate.

Me ne stavo lì, cinque o sei ore al giorno, tutto solo, senza correre né saltare come gli altri bersaglieri, mai disturbato da nessuno, sonnecchiando e masticando caramelle gommose di liquerizia. C’era uno spaccio sempre aperto, e ogni tanto scendevo per una Coca, o un Buondì Motta. Leggevo la Dialettica, senza capirne una parola ma proprio per questo prendendoci sempre più gusto. Adorno era divertente, certamente malgré lui, ma comunque una vera sagoma, quando liquidava Heidegger per «l’oscurità, in cui nemmeno si formano più mitologemi come quello della realtà delle immagini». Oppure quando spiegava che «la filosofia non è scienza, né poesia di pensieri, come il positivismo con uno stupido ossimoro vorrebbe degradarla, bensì una forma mediata e distinta da ciò che è diverso da essa». Mitologemi! Oscurità! Che meraviglia!

Intendiamoci: vero che leggendola non si capiva granché: argomentazioni oscure, immagini belle e imperscrutabili. Ma la tesi, se non la sostanza, della Dialettica negativa era sotto gli occhi di chiunque si fosse preso il disturbo di dare anche soltanto un’occhiata, non importa quanto distratta, alla copertina del libro. C’era tutto lì nel titolo: «dialettica negativa» era praticamente uno spoiler.

Tesi, antitesi ma niente sintesi: Adorno predicava (anche se questa non è la parola giusta, però un po’ sì) una dialettica celibe, astratta e irriducibilmente teorica, persino un po’ astrattista, come le macchine dei surrealisti, queste e quella improprie all’uso. Negativa, la sua era una dialettica iconoclasta, e ai tempi (in primis) antisessantottesca, senza poster da venerare, tiranni da compiacere, popoli e classi da coglionare.

Era una dialettica che non si proponeva nulla di pratico o di concreto e che anzi si vietava ogni proposito (come diceva egli stesso altrove, proprio parlando d’evasione, dunque anche di queste pagine, a pensarci bene). Non c’era qui una delle sue agili acrobazie linguistiche seguite dall’oplà, come al circo, dopo che si sono esibiti i trapezisti macedoni, dopo la sfilata degli elefanti ballerini e la piramide umana. Niente lancia in resta. Niente «e ora a noi due, fellone». Era una dialettica senza l’elmetto calato sugli occhi. Era cioè una filosofia che negava puramente e semplicemente senso all’ambaradan della rivoluzione per finta (come la chiamava lui: sovietica, cinese, cubana, sessuale o variamente giovanile che fosse). Non potevi piegarla a schiamazzare nei cortei, a proclamare che la lotta continua, che l’utero è mio, che il vento dell’est prevale sul vento dell’ovest e altre bandiere al vento. Forse troppo negativa, la dialettica adorniana si perdeva così, diciamocelo, tutto il divertimento: jazz e rock’roll, cinema, radio, romanzetti, cartoni animati e insomma tutto ciò che, mentre la vita (notoriamente) non vive, almeno un po’ si sforza d’ammazzare il tempo. Adorno, tra le innumerevoli cose che detestava, naturalmente disprezzava in particolar modo che s’ammazzasse il tempo, benché fosse proprio per ammazzare il tempo che si dilettava col freudismo, la musica dodecafonica, l’arte d’avanguardia. Ma proprio questa sua particolare ottusità era la sua forza. Proclamando il primato Über Alles della teoria della Kultur, egli aveva fatto qualcosa, ai miei occhi, di eminentemente pratico: aveva classificato il militantismo e le fanfaronate gosciste in genere, cioè l’identikit nel quale non potevo evitare (ahimè) di riconoscermi, nello stesso repertorio flaubertiano di cui anche la Dialettica negativa, come tutta l’opera d’Adorno, era in qualche modo l’aggiornamento a quello che i marxisti chic avrebbero poi detto «secolo breve» e che lui, più opportunamente, avrebbe definito invece «dopo Auschwitz», l’inizio d’una nuova età del mondo. In Adorno c’era qualcosa di Bartleby, lo scrivano di Melville, e di Amadeo Bordiga, il comunista che non s’unì mai allo spettacolo. Come loro, anche Adorno, «preferiva di no». E così anch’io, che li approvavo tutti, per la loro negatività, con una passione da nerd.

Frugando nella biblioteca della caserma trovai Addio, Mr Chips! di James Hilton, una storia strappacore che invece, al contrario della Dialettica, suonava limpida, trasparente, cristallina e immediatamente comprensibile come una rima del Signor Bonaventura o una melodia di Lennon-McCartney, diciamo Penny Lane, o Eleanor Rigby. C’era nel romanzo questo timido professore. Hilton ne raccontava la vita dalla giovinezza all’età veneranda. Gli allievi, il college, l’alpinismo, gli affanni e la pensione, gli esami, la moglie troppo presto scomparsa. Ricordavo il film con Greer Garson e Robert Donat del 1939. Adorno, naturalmente, lo avrebbe detestato, come detestava un po’ tutto, a cominciare, lui musicologo, dal jazz. «Il cinema rende stupidi», diceva. Quanto a me, al film preferivo il romanzo.

C’era un gran caldo. Mai mangiato sbobbe più schifose; il profumo violento e speziato delle salse di pomodoro dava alla testa più del vino e del limoncello che la sera giravano nelle camerate torride. Mentre le altre reclute, per salire dal primo al secondo e al terzo piano, dovevano issarsi su per una corda, come fachiri, io usavo le scale.

Non li avevo con me, ma da tempo ero un fan dei Minima Moralia e della Dialettica dell’illuminismo. Quelli erano libri che si capivano, scritti in punta di penna, «poesia di pensieri» purissima, piacesse o spiacesse all’autore, anzi agli autori, visto che la Dialettica dell’illuminismo era firmata, oltre che da Adorno, da Max Horkheimer, del quale si diceva che, ricco sfondato com’era, si fosse comprato, pagando cash, l’Institut für Sozialforschung, poi detto Scuola di Francoforte, di cui era il plenipotenziario.

Chi ha letto da giovane gli aforismi di Adorno e la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer diventa magari un po’ snob ma almeno è vaccinato per sempre contro la volgarità delle ideologie radicali. Non ho orecchio per la musica, a meno che non sia musica pop per massaie e giovinastri (così come non ho orecchio per la narrativa alta, e leggo quasi esclusivamente romanzi in cui c’è minimo una galassia da salvare o il cadavere d’un assassinato dentro una camera chiusa dall’interno). Così non ho mai letto (sfogliato sì, un’occhiata veloce non si nega a nessun libro) i saggi di critica e filosofia musicale di Adorno. Può darsi che siano bellissimi. Anzi, lo saranno senz’altro e prima o poi, avanzandomene tempo, chissà che non mi decida a leggerli davvero. Ma l’Adorno macchinoso, ermetico, inesplicabile, che rimprovera agli altri il ricorso alle oscure trivialità del gergo filosofico, quando lui ne è un campione insuperabile e i suoi traduttori anche peggio, mi piaceva non perché m’impartisse chissà quale lezione di saggezza ma perché mi piaceva l’orrido: il Mulo Francis, Andy Wharol, gli «elseworlds» della DC Comics, La Chinoise di Godard e adesso anche la Negative Dialektic adorniana (tesi, antitesi, ma niente sintesi). In realtà, più che di Adorno, ero un tifoso dei suoi virtuosismi di prosatore, cioè dei Minima Moralia, tra i libri più belli mai scritti. Niente di personale. Erano affari estetici.

Pochi anni dopo – via da Avellino e dal servizio militare, di cui non mi resta neppure un souvenir, e non mi spiacerebbe avere nell’armadio il cappello piumato o almeno il fez, nonché ormai sposato e con figli pargoletti – io e il mio amico e compare Paolo Pianarosa, oggi malauguratamente scomparso, celebrammo i Mimima Moralia con un pamphlet stile Stanlio e Ollio intitolato Adorno sorride. Era un titolo che omaggiava insieme Adorno e William S. Burroughs («Tio Mate Smiles, The Chief Smiles, Old Sarge Smiles», da Wild Boys, apparso da noi nel 1973 come Ragazzi selvaggi). Oltre alla fissa per Adorno ne avevamo una anche per Burroughs. C’erano solo fisse, ai tempi. O gioventù!

Fu Elvio Fachinelli, psicoanalista e grande firma sessantottesca, a chiederci d’intervenire con un libretto satirico sulla polemica divampata nel 1977 a proposito di certi aforismi dei che non erano stati tradotti nell’edizione Einaudi del 1954. Fachinelli, che in quel livido crepuscolo del Sessantotto, dirigeva una rivista chiamata L’erba Voglio e la casa editrice omonima, aveva pubblicato, tradotti da Gianni Carchia, saggista e filosofo molto amico di Paolo, gli aforismi «censurati». Entrerei nei particolari, ma sono noiosi, quindi lasciamoli fuori.

Cesare Cases, pezzo grosso della casa editrice, e Renato Solmi, il traduttore dell’edizione sotto attacco, nonché co-curatore delle Meraviglie del possibile (come abbiamo appena visto) con Franco Lucentini, autori Cases e lui di libri memorabili, non la presero bene. Quale censura, allibirono Solmi e Cases all’uscita delle traduzioni di Cechia? Di che parlano questi qua?

E la presero anche peggio quando gli toccò leggere Adorno sorride, dov’erano spietatamente svillaneggiati, messi in croce e sbertucciati, benché Fachinelli, Carchia, Paolo e io avessimo torto e loro ragione, almeno a proposito degli aforismi soppressi. Magari si meritavano quella gran tempesta di frizzi e lazzi in quanto establishment culturale e icone, ai nostri occhi goscisti, dell’egemonismo stalino-gramsciano-berlingueriano che, sempre ai nostri occhi, ma non soltanto ai nostri, si stava divorando l’Italietta. C’era un che di zdanoviano nel catalogo Einaudi (come avrebbero messo in chiaro, beffeggiatori ben più temibili e puntuti di noi, Carlo Fruttero e Franco Lucentini nel loro cult del 1979, A che punto è la notte, che fece il marxismo-einaudismo a brandelli). Si dice che Giulio Einaudi in persona, nei primi cinquanta, fu dissuaso dal pubblicare le opere complete di Peppone Stalin solo a un pelo dalla firma del contratto. Ma nessun einaudiano aveva censurato i Minima Moralia.

A che scopo censurarli, poi? Gli aforismi soppressi non dicevano niente di diverso da tutti gli altri. Avevamo un bell’inventare, Paolo e io, che fossero stati «sbianchettati» (come allora non si diceva ancora, ma c’eravamo quasi) perché in «aperta contraddizione» con la politica culturale del Pci, quale che fosse (Repubblica e l’Unità? il catalogo degli Editori Riuniti? Linus?) Non era vero. Ed era, anzi, una sciocchezza. Gli aforismi furono verosimilmente tagliati vuoi perché giudicati meno brillanti degli altri vuoi per sfoltire un libro troppo massiccio. Non fu bello, ma non fu neanche un crimine. Adorno, per quanto si dichiarasse ostile al socialismo reale, non era Solženicyn (che Umberto Eco, a proposito d’egemonismo stalino-gramsciano, aveva definito in quegli stessi anni «un Dostoevskij da strapazzo», e ciò proprio mentre l’autore di Arcipelago Gulag era nelle grinfie del KGB). Solmi e la redazione Einaudi non ricorsero alla guida pratica dell’Index Librorum Prohibitorum in versione bolscevica per cancellare con un Fiat Tenebris gli aforismi in eccesso. Ricorsero, più in piccolo e senza far danni, all’ambarabaciccicoccò. Ma Paolo e io trovammo divertente fingere indignazione.

Sul momento non lo capì nessuno, che per il senno di poi ci vuole tempo e pazienza, ma era cominciata l’età del falso sdegno, che presto sarebbe dilagato ovunque, come le armate degli zombie nei serial Netflix: questione morale, morte alla casta, politici ladri, democrazia canaglia, evviva e abbasso Berlusconi, il moralismo da talk show, populisti invasati, magistrati buoni e giusti, il fatto quotidiano. Fu il Sessantotto a cominciare, con le sue stizze da barzelletta, e certo anche Adorno, gran moralista, c’entrò per qualcosa. Un minimum di responsabilità tocca pure ai suoi interpreti e laudatores, tipo Paolo e me.

Non che lodassimo, e tanto meno interpretassimo, proprio Th.W. Adorno, la rock star della filosofia. Avevamo caricato a molla un pupazzo che somigliava al secondo violino dell’Institut für Sozialforschung ma che non era lui. Anche la somiglianza era vaga. Ci eravamo costruiti un Adorno che in parte poteva ricordare Clint Eastwood nei film (altra fissa) di Sergio Leone e in parte era un incrocio tra Bruce Lee e Fred Astaire. Un guerriero e un ballerino. Da come la vedevamo noi, questo particolare Adorno con la mascherina nera e un gran mantello da supereroe non s’occupava di filosofia. Quella era una copertura. Lui s’aggirava nei cataloghi editoriali, il solo campo di battaglia che riuscissimo a concepire, deciso a far piazza pulita dei filistei, come diceva Marx dei suoi e nostri nemici: i comunisti ortodossi, quelli eterodossi, da un lato György Lukács perché s’era venduto (il pidocchio) al realismo socialista, dall’altro Herbert Marcuse perché era un francofortese hippeggiante e New Age, la specie filosofica peggiore. Abusammo di questo Adorno action e immaginario fino a farne contemporaneamente un Pulcinella e un Matamoros.

C’inventammo Adorno, in quello scorcio di secolo popolato di lettori rococò, in cui non c’era libro sacro o profano che non rischiasse la maiuscola, come c’inventammo altri Libri e altre chimere: la Trilogia Nova di Bill Burroughs, l’Ispettore Callaghan e il Giustiziere della notte, i Fili del Tempo di Amadeo Bordiga, il cekista Blumkin, Gloria di John Cassavettes, i Warriors di Walter Hill, Walter Benjamin, Blonde on Blonde di Bob Dylan, Siegfried Kracauer, i manichei, per un po’ persino i Seminari di Lacan. Prima della realtà potenziata, con didascalie e sottotitoli visibili solo a chi indossa un visore o punta la fotocamera dell’iPhone sul QR code del monumento o dell’edificio storico, c’erano le biblioteche di libri (e autori) potenziati. Fu Adorno che pompammo di più, senza mostrare misericordia. Gli attribuimmo virtù ridicole e talenti inverosimili.

Dopo Avellino era stato tutto un crescendo. In una pagina d’Adorno sorride lo disegnammo mentre faceva roteare un randello dietro la schiena. Adorno, un pacifico professore tedesco intimidito dalle studentesse che durante le sue lezioni gli mostravano le tette per beffeggiarlo, era diventato uno squadrista. Me ne vergogno ancora.

Scomparso nel 1969, il poveretto non poteva difendersi dai suoi laudatores come, da vivo, non aveva potuto difendersi dalle studentesse in topless. Con me si prese, però, una rivincita postuma. Se anni prima, da militare, m’ero inventato un esame sulla Dialettica negativa, alla metà dei settanta me ne toccò davvero uno, con Gianni Vattimo, sulla Teoria estetica, di cui era appena uscita una traduzione sempre Einaudi, un testo adorniano se possibile ancora più oscuro dell’altro e altrettanto giallo canarino. Presentai all’esame una relazione. Vattimo la lesse, disse di non averci capito niente, zero, non una parola, e francamente ero perplesso anch’io, ma aggiunse che gli erano piaciute la prosa gaglioffa e le carambole dialettiche, complimenti.

Ebbi un 30 e lode al buio, come a poker. Lì per lì fui contento. Poi realizzai che il vero voto, come in una ghost story, me lo aveva dato Adorno con una randellata ectoplasmica. Mi aveva lanciato la maledizione dell’oscurità. E adesso ero come posseduto: lui avrebbe detto che avevo «introiettato» l’adornismo.

Leggendo i suoi Tre Studi su Hegel capii cos’era successo di preciso. Anche lui era stato posseduto, in giovinezza, da un filosofo che parlava oscuro, G.W.F. Hegel: «Gli ostacoli che le [sue] grandi opere frappongono all’intelligenza del testo, sono qualitativamente diversi da quelli che offrono altri testi famigerati per la loro difficoltà. È il senso stesso che in molta parte è in dubbio ci sia, e fin qui nessun’arte ermeneutica è riuscita a stabilirlo in modo incontrovertibile. Nella cerchia dei grandi filosofi Hegel è l’unico nel cui caso non si sa, alla lettera, e nemmeno si può convincentemente decidere di che cosa mai si stia discorrendo». Contagiato da Hegel, di cui aveva «introiettato» prosa gaglioffa e carambole dialettiche, anche Adorno era caduto sotto l’incantesimo dell’oscurità, che poi aveva trasmesso a me e agli altri suoi tifosi in giro per il mondo, certo pure alle studentesse sberflone di Heidelberg o Francoforte.

Era – inconfondibilmente – il principio del motivetto diabolico enunciato da Mark Twain in un celebre racconto: Oh fattorino dal ciuffo nero / fora il biglietto al… / fora il biglietto al… / al passeggeero! / Foralo bene, con diligenza / fin dal momento del… / fin dal momento del… / della parteeenza! (questa la remota versione Rai del motivetto satanico). Non puoi smettere di canticchiarlo fin quando non lo appiccichi a qualcun altro che comincia a canticchiarlo dopo averlo ascoltato da te. Personalmente non me ne sono mai sbarazzato del tutto. Quanto a Th.W. Adorno, non l’ho praticamente più letto, e non ne sento il bisogno. Ma vent’anni fa, nel 2003, il suo fantasma tornò a battere un colpo.

Su «Repubblica» del 12 febbraio, che lessi in un caffè sulle ramblas, a Barcellona, dov’ero finito con mia moglie per una breve vacanza, Cesare Cases citò Adorno sorride rievocando l’epoca sventurata «in cui si riteneva che la rivoluzione fosse stata mancata per un libro non tradotto». Fu allora che «due giovani sciagurati capirono che Minima Moralia era stato tagliato di circa un terzo (col consenso dell’autore) e menarono grande scalpore». Telefonai a Paolo dall’hotel. Anche lui fu contento d’essere definito uno sciagurato. Alla nostra età, già quasi veneranda, le soddisfazioni erano rare.

Mi ero portato a Barcellona, per svagarmi, gli albi di Cocco Bill pubblicati sul Giorno dei ragazzi nei remoti sessanta. Erano poi usciti, come supplementi del giornale, in otto albi separati, che io avevo smarrito da ragazzino e che avevo ricomprato in una libreria antiquaria, strapagandoli. Avevo lavorato più di dieci anni per il Giorno, ma quando ci arrivai io non era più un gran giornale, come all’epoca degli albi di Cocco Bill, ghiotti come pagine di Carlo Emilio Gadda («La cucaracia, la cucaracia! Cocco Bill è un diavolon! / La cucaracia,la cucaracia! Cocco Bill del corazon!»).

Avevo cominciato a rileggerli, passati quarant’anni, uno o due giorni prima, appena arrivato in Spagna. Tornai a rileggerli in un ristorante di Plaça Reial, sotto i portici, dove Sonia e io, quella sera, sedemmo dopo una lunga flânerie. Sul tavolo briciole di pane, una bottiglia mezza vuota di vino profumato, Repubblica con l’articolo di Cases, i resti d’un baccalà alla catalana e Kamumilla Cocco Bill.

Non c’era poi tutta questa differenza da Avellino, incalcolabili anni prima, quando smanettavo la Dialettica negativa cercando una password per craccare le tenebre della filosofia, inalavo zaffate di salsa al pomodoro, leggevo Addio, Mr Chips! ricacciando i lacrimoni e portavo il fez. A parte Cases, Cocco Bill e il baccalà, era cambiato ben poco.
Sciagurato, sorridevo.

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Nel 1899 naviga un piroscafo lisergico e mostruoso https://www.carmillaonline.com/2023/02/21/nel-1899-naviga-un-piroscafo-lisergico-e-mostruoso/ Tue, 21 Feb 2023 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76222 di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e [...]]]> di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e il progresso si celano il buio e l’orrore. Ecco che, proprio in quegli ultimi lembi di Ottocento, nel 1897 vede la luce “Dracula” di Bram Stoker, in cui il mostruoso vampiro proveniente dai desolati confini dell’“impero” si reca a Londra, nel cuore economico di quello stesso “impero”. Ecco che, spesso, dietro ai viaggi dall’Inghilterra verso Oriente narrati da Joseph Conrad come, ad esempio, in “Il negro del «Narciso»” – romanzo uscito sempre nel 1897 – si celano la malattia e l’orrore.

Questa dicotomia e questa dialettica sono assai presenti anche nella serie TV Netflix, 1899 (2022, otto episodi di un’unica stagione) di Baran Bo Odar e Jantje Friese. L’azione narrativa si svolge su un piroscafo in viaggio tra l’Europa e l’America sul quale i passeggeri, com’era uso all’epoca, sono rigorosamente divisi in classi. Ci sono i ricchi di prima classe e i poveri di terza, prevalentemente migranti. Il piroscafo, emblema del progresso e della velocità del nuovo secolo che sta per arrivare, fin dalle prime puntate, possiede una marcata connotazione mostruosa: oscuro, gigantesco, con enormi fumaioli dai quali esce perennemente fumo nero proveniente dal suo ventre infernale, la sala macchine, dove i fuochisti sono costretti a lavorare in condizioni ai limiti dell’umano. La nave porta un alone di mostruosità anche nel suo stesso nome, “Kerberos”, che rimanda al guardiano infernale presente nella mitologia antica e nell’Inferno dantesco, un mostruoso cane a tre teste. Se nelle prime puntate la narrazione sembra poggiare su un impianto – se così si può dire – ‘tradizionale’, successivamente subentrano degli spunti narrativi che la trasformano in qualcosa che mai ci saremmo aspettati. Senza spoilerare troppo, si potrebbe affermare che 1899 possiede due film in uno: il primo, prevalentemente di carattere storico, horror e thriller; il secondo di carattere fantascientifico. Gli spazi della nave si configurano come un labirinto dalle connotazioni quasi kafkiane: se all’inizio si potrebbe pensare di trovarci sulla nave di Amerika (postumo, 1927) di Franz Kafka, dove il giovane Karl Rossmann non riesce più a ritrovare la via giusta, successivamente quel labirinto kafkiano si trasforma in un universo virtuale in cui i ‘pixel’ iniziano a spostarsi e a decostruirsi distruggendo passaggi o creandone di nuovi.

Perché – e mi si perdonerà questo spoiler, ma è funzionale a quanto voglio dire – nella seconda parte della narrazione i personaggi, lentamente, capiranno di trovarsi in un mondo virtuale. Se, come scrive Franco Moretti, due ‘classici’ del terrore come Frankenstein di Mary Shelley e Dracula, “sono romanzi in cui la realtà funziona spesso secondo le leggi che governano i sogni”1 sembra che in molto cinema e in molti prodotti per la televisione contemporanei, al sogno, si sostituisca la realtà virtuale a partire, diciamo, da Matrix (The Matrix, 1999) di Lana e Lilly Wachowski. Un altro film incentrato sulle doppie realtà, una virtuale e una reale e sulla necessità di ‘svegliarsi’, da parte dei personaggi, per vedere il mondo reale, è anche l’oscuro e intrigante Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, del 1999 come Matrix) di Josef Rusnak. E allora, in molto cinema contemporaneo – parafrasando Moretti – la realtà funziona secondo le leggi che governano i mondi virtuali creati da fantomatici ‘manovratori’, spesso in intricati giochi di scatole cinesi per cui non si capisce fino in fondo quale sia la ‘vera’ realtà. A monte dell’idea degli universi virtuali creati per mezzo di un computer c’è un archetipo classico come il mito della caverna di Platone che, nella serie TV, viene anche direttamente citato.

Ecco che la nave di 1899, da buona eterotopia (secondo Foucault, infatti, la nave è “l’eterotopia per eccellenza”, cioè lo spazio altro per eccellenza)2 può sovrapporre, in un unico luogo reale, spazi che sono anche molto diversi tra loro3. Attraverso misteriosi passaggi dimensionali, i personaggi si ritrovano in luoghi svariati e, comunque, estremamente diversi dallo spazio navigante circondato dall’Oceano: lande ghiacciate, paesaggi montani desolati oppure luoghi legati al loro doloroso passato. D’altra parte, nella serie, incontriamo una presenza iperbolica e francamente eccessiva di questi passaggi dimensionali i quali, talvolta, conducono anche a sviluppi non sempre comprensibili della trama. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che gli autori di 1899 sono anche quelli di Dark (2017-2020, 3 stagioni per 26 episodi), una serie TV incentrata sui viaggi nel tempo che avvengono, appunto, mediante un apposito varco dimensionale localizzato nella misteriosa cittadina tedesca di Winden.

Fra i luoghi che incontriamo una volta imboccate le porte dimensionali, particolarmente interessante è la clinica psichiatrica del padre della protagonista, la dottoressa Maura Franklin, che è anche il proprietario della compagnia di navigazione alla quale appartiene il “Kerberos”. Dietro i muri della clinica, i personaggi scoprono le nere e tetre fiancate della nave: quest’ultima appare perciò strettamente associata all’universo della follia. Allora, non si può non pensare nuovamente a Foucault e alla sua Storia della follia nell’età classica, nel momento in cui lo studioso descrive l’usanza rinascimentale – che molta fortuna avrà nell’arte letteraria e figurativa – tedesca (come gli autori della serie TV) della “nave dei folli”: affidare i folli alla massa oscura dell’acqua4. Tra l’altro, sempre secondo Foucault, la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”5. Chi altri sono quei personaggi intrappolati sul “Kerberos”, in mezzo all’Oceano, se non dei ‘folli’ alla deriva dal mondo roccioso della ragione? Tra l’altro, il racconto mette in gioco anche il tema del doppio: il “Kerberos”, infatti, si imbatterà in un suo inquietante doppio andato alla deriva, il “Prometheus” sul quale, in una lisergica esplosione musicale di White Rabbit dei Jefferson Airplane (e la colonna sonora è indubbiamente un punto a favore di 1899), verrà ritrovato un bambino misterioso in possesso di una piccola scatola a forma di piramide.

Inutile dire che, anche nel mondo virtuale del piroscafo “Kerberos”, domina la logica spietata del Capitale. I passeggeri di terza classe appaiono come i prigionieri dei più bassi interstizi della nave, solo un gradino più alto della manovalanza maledetta e condannata dei fuochisti. Intrappolati nei loro alloggiamenti separati dal resto della nave da un cancello chiuso a chiave, se solo osano avventurarsi negli eleganti saloni della prima classe, vengono ricacciati dentro il loro inferno in malo modo. Ognuno, sulla nave, sembra condannato a rivestire il suo ruolo in una specie di eterno presente, quello forgiato dalle logiche capitalistiche. D’altra parte, gli stessi ricchi di prima classe, colpiti da una misteriosa epidemia di trance, quasi come zombie si dirigeranno in fila indiana fino sul ponte della nave per poi gettarsi in mare e, come zombie, macchine asservite al Capitale, sono tratteggiati anche i già nominati fuochisti, costretti a gettare incessantemente il carbone nelle caldaie per far correre la nave mostruosa verso un progresso che assomiglia sempre di più ad una prigione. Perché vie d’uscita non ce ne saranno, né nuove sponde e neppure nuovi futuri (e non svelerò davvero l’esplosivo finale): il piroscafo, come un inquieto “Olandese volante” della Rivoluzione industriale, come il vascello dannato del Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe, è solo una truce macchina nomadica lanciata verso gli inferni del mondo irreale nel quale ci stiamo perdendo.


  1. F. Moretti, Dialettica della paura, in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, febbraio 1978, p. 97. 

  2. cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine, 2001, p. 31. 

  3. cfr. ivi, p. 27 

  4. cfr. Id., Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1978, p. 26. 

  5. Id., L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74. 

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Il marxismo secondo Bloch, una mappa del mondo che contiene il paese Utopia https://www.carmillaonline.com/2022/12/31/il-marxismo-secondo-bloch-una-mappa-del-mondo-che-contiene-il-paese-utopia/ Sat, 31 Dec 2022 04:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75132 di Fabio Ciabatti

Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81

“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per [...]]]> di Fabio Ciabatti

Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81

“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per il filosofo tedesco, infatti, il futuro autentico, l’avvenire propriamente utopico, è ciò che non è accaduto mai e in alcun luogo. Allo stesso tempo, “non tutto ciò che è scomparso è ciarpame, perché c’è del futuro nel passato, qualcosa che non è stato liquidato, che ci è dato in eredità”.1
Bisogna fare attenzione, però, perché in questa duplicità si apre anche lo sciagurato spazio per un futuro inautentico, quello rappresentato, per esempio, dalla traboccante retorica del “Führer che ci conduce a nuove imprese”; quello che si spaccia per un nuovo inizio ma risale fino alla notte dei tempi per riscoprire una patria concepita come “sangue e suolo”.  In realtà, la vera patria è un luogo dove nessuno è mai stato, ma che dobbiamo cercare di raggiungere, ammesso che si intenda la categoria di Heimat nella sua vecchia accezione filosofica e mistica: “essere a casa”, trovarsi finalmente in un posto in cui cessa l’alienazione e gli oggetti non sono più estranei, ma prossimi al soggetto. Riappropriarsi del “futuro nel passato” non significa, come per i nazisti, resuscitare una tradizione ancestrale per riutilizzarla bella e pronta, come fosse un antico cimelio recuperato dal mondo dei morti. Significa, piuttosto, cercare dare compimento al canto della guerra dei contadini tedeschi del 500, citato da Bloch: “Battuti torniamo a casa, i nostri nipoti combatteranno meglio”. Questo è il passato che ancora  ci interpella perché ci assegna il compito di portare a compimento ciò che si è manifestato come possibilità nei tempi che furono senza poter giungere a realizzazione. Nulla c’è nella storia di cui possiamo riappropriarci realmente, se la ripresa non è contemporaneamente un’anticipazione sul nostro futuro.

Sono questi alcuni fili che si dipanano dalla lettura di Speranza e utopia, testo che raccoglie le conversazioni intrattenute da Ernst Bloch tra il 1964 e il 1975, gli ultimi dieci anni della sua vita, con vecchi amici, come Lukács e Adorno, e altri intellettuali. Da questo libro, nota il traduttore Eliano Zigiotto nel breve saggio che chiude il volume, “emergono, esposti in modo colloquiale e diretto, a tratti perfino didascalico, i temi principali del pensiero blochiano, che disegnano anche per l’oggi una topografia del pensiero non arreso”.2 Un pensiero ancora utile per tutti coloro che non vogliono unirsi all’ampia schiera dei corifei dello status quo, felici di celebrare ad abundantiam “i funerali dell’utopia”. Ciò non significa, secondo Bloch, abbandonarsi a vuote fantasticherie perché la speranza è il contrario dell’ottimismo ingenuo. “La speranza può essere delusa perché non è fiducia, ma è circondata dal pericolo e da ciò che può anche essere diverso”.3 Non a caso, “Il coraggio di sperare e di disperare” è il titolo del sintetico testo di Laura Boella che precede quello di Zigiotto. In queste poche parole l’autrice esprime un punto fondamentale del pensiero di Bloch il quale afferma:

Io ho cercato – per esempio nel Principio speranza – di esaminare la cenerentola della logica, la possibilità, e di comprenderla come un’eccedenza molto, molto più grande dell’esistente, perché lo abbraccia tanto per il peggio quanto per il meglio, tanto nel segno della sventura, del nulla, dell’invano, della rovina, quanto nel segno del tutto, del buon esito e della luce.4

Per Bloch, in ogni caso, si tratta di fondare la speranza, l’utopia concreta, attraverso il concetto di “possibile oggettivo-reale”. Entra dunque in gioco la “categoria del non-ancora, che si dà in due forme, soggettiva e oggettiva: come non-ancora conscio e non-ancora divenuto. La prima è interiore, la seconda esteriore”.5
Entrambe sono forme del nuovo, del futuro autentico. Partendo dal punto soggettivo, il non-ancora-conscio è una categoria assai diversa dal non-più-conscio, cioè dal rimosso e dall’inconscio di Freud e, a maggior ragione, da quello di Jung con i suoi archetipi dell’era diluviana. Si tratta del “crepuscolo che guarda avanti, ciò che cova nella giovinezza. È l’aria che circola nei tempi di svolta – Rinascimento, Sturm und Drang, 1848, 1917 – quando sta per nascere qualcosa di nuovo”.6 Il non-ancora-conscio non si manifesta prioritariamente nei sogni notturni, regno del rimosso, ma si esprime più facilmente nei sogni ad occhi aperti, sebbene questi abbiano spesso carattere privato, individuale. Dal punto di vista oggettivo occorre analizzare il reale nella sua dinamica, andando oltre il mero dato di fatto che, positivisticamente, trova appagamento in ciò che è, nell’esser-fattuale, innalzato a giudice di ogni pensiero e a criterio del vero. “Tendenza, latenza, processo … sono concetti arci-materialisti che hanno la loro origine in Aristotele, il primo pensatore del processo di sviluppo”.7

E proprio attraverso il filosofo greco, Bloch tenta una delle sue operazioni concettuali più ardite: “tracciare un arco tra il concetto di utopia … e la sostanza dell’accadere, ossia la materia”.8 In particolare, secondo la terza definizione di Aristotele della materia, essa costituisce

il grembo di ogni possibilità in generale, il dynámei ón, l’essere-in-possibilità. La materia stessa è incompiuta ed è pertanto protesa in avanti, aperta, ha dinnanzi a sé un imprevedibile percorso che coinvolge gli esseri umani: è la sostanza del mondo. Il mondo è un esperimento, che la materia, attraverso di noi, mette in atto con sé stessa.9

Con questo tentativo di fondazione materialistica della speranza Bloch sembra quasi rispondere indirettamente alle osservazioni di Horkheimer che criticava Benjamin, in una lettera a lui indirizzata, tacciando di idealismo la sua concezione della storia come “non-compiuta”. Una concezione che ha significativi punti di contatto con quella di Bloch. “Se si prende del tutto sul serio l’incompiutezza – scriveva l’esponente della Scuola di Francoforte nel 1936 – bisogna credere al giudizio universale”.10 Altre analogie tra Bloch e Benjamin si potrebbero rilevare, ma qui ci limitiamo a indicare ciò che probabilmente li separa: l’importanza attribuita all’idea di futuro. L’odio di classe e la volontà di sacrificio, sostiene Benjamin, “si alimentano all’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati”.11 L’angelo della storia ha lo sguardo  rivolto all’indietro perché cerca di allontanarsi dal cumulo di rovine prodotte da ciò che viene chiamato progresso. Per Bloch, invece, occorre porre maggiormente l’accento sul “verso-dove” sul “a-che-scopo”, ciò che gli utopisti hanno provato a fare. Non si tratta di sacrificare i fini prossimi per i fini lontani, ma di riscoprire la presenza dei fini lontani.

Ciò non significa presentare un’immagine di futuro “dipinta alla perfezione” perché ogni volta che lo facciamo “l’utopia si allenta”. Anche un semplice “acconto dell’utopia”, come può essere la sua rappresentazione in un libro, significa darla in qualche modo per raggiunta e ciò non può che portare all’inganno, alla reificazione di ciò che deve essere concepito soltanto come una tendenza. L’utopia, nella sua funzione critica, deve continuamente rimandare a un “non-dover-essere”, a un’insufficienza del reale,  piuttosto che a un essere perfettamente realizzato.
Rimane il fatto che, secondo Bloch, il progresso del socialismo dall’utopia alla scienza di engelsiana memoria è stato forse troppo grande con la conseguenza che il socialismo stesso ha perduto il suo sfondo morale e la sua capacità di catturare la fantasia delle persone.  

La rivoluzione è di per sé morale, a partire dalla spinta che le sta alla base, e non è economica, ma morale: non tollerare più che ci siano due specie di uomini, il servo e il padrone. L’esistenza del servo e del padrone può essere definita esattamente in termini economici, ma con questo non ho ancora cavato un ragno dal buco. Che ciò non debba e non possa essere, che non se ne possa più – ecco il fuoco che accende la rivoluzione.12

Parlare di morale, di fantasia non significa, per il filosofo tedesco, sottovalutare “la grande missione illuministica” del marxismo, quella di far “cadere la benda dagli occhi”. Parlando del ruolo scientifico del marxismo, Bloch ne descrive così gli effetti:

Al posto delle parolone generiche, invece del fumoso idealismo, subentrava la spiegazione materiale a cui si aggiungeva la strana sensazione di scoprire un crimine; quasi che un detective scoprisse il funzionamento, l’ingranaggio entro cui la società si muove con la lotta di classe, con l’oppressione di una classe sull’altra fin dal tempo dell’economia agricola, quindi da molti, forse centinaia di migliaia di anni.13

Ben venga dunque il disincanto legato alla demistificazione della sovrastruttura e, per certi versi, anche il suo essere ridotta a un “niet’altro che”, vale a dire a un’espressione di interessi di classe. Ma con questo il compito del marxismo non è concluso perché il suo vero obiettivo è il salto dal regno della necessità al regno della libertà.

Il sobrio sguardo sul mondo non consente alcun inganno ed è interamente al servizio dell’interesse degli sfruttati e degli oppressi, degli umiliati e offesi, contro quello dell’esiguo ceto padronale. La corrente fredda marxista è questo. Sulla sua scia, però, spesso, troppo spesso è stata ingiustificatamente trascurata la corrente calda del marxismo che si volge alla luce che deve sorgere al cadere dell’inganno.14

La polemica marxiana contro l’utopismo astratto, secondo Bloch, fu probabilmente una medicina necessaria per curare l’intellettualismo dei vari Owen, Fourier, Saint-Simon e per sconfiggere la loro illusione che si dovesse fare appello solo alla coscienza dei ricchi perché cominciassero a segare il ramo sul quale erano seduti. L’astrattezza non esaurisce però l’utopia sociale perché essa contiene un’eccedenza che ancora ci interpella: l’idea della “costruzione di uno Stato in cui non ci siano sfruttati e oppressi”.15 Così come ci riguarda ancora l’altra componente utopica, da sempre colpevolmente trascurata dal marxismo, quella derivante dal diritto naturale che ci parla della “costruzione di uno Stato in cui non ci siano umiliati e offesi”.16 Senza dimenticare neanche la religione che è sempre stata “la più forte esplosione di speranza” perché in  in essa “hanno trovato posto sogni, tempi e spazi del desiderio”.17 Bisogna però precisare che quella di Bloch è una religione “de-teologizzata”, “senza dio”. Solo attraverso un’opera di demistificazione che non si risolva in un cinico disincanto, possiamo distinguere i miti reazionari al servizio dei signori da quelli che sovversivi che stanno dalla parte degli sfruttati e degli umiliati recuperando “tutto ciò che nel mito alza il pugno chiuso del servo”.18

In conclusione,

I fatti possono essere criticati solo a partire dai contenuti della speranza fondata, cioè dalla speranza guidata dal sapere della tendenza, che permette di rettificarla. È impossibile criticare qualcosa dal di fuori, perché da fuori c’è solo imprecazione o quel che si sapeva già prima, a priori.19

Allo stesso tempo,

ogni critica dell’imperfezione, di ciò che è incompiuto, inaccettabile, intollerabile, presuppone la rappresentazione e l’anelito di una perfezione possibile. L’imperfezione non sussisterebbe se nel processo non ci fosse qualcosa che non deve essere, se non s’intravedesse in qualche modo la perfezione, e precisamente come momento critico.20

In estrema sintesi, per agire abbiamo bisogno di una mappa che ci dica con la maggiore precisione possibile dove siamo e dove stiamo andando. Ma, come sostiene Bloch citando Oscar Wilde, “Una carta del mondo non merita neppure uno sguardo, se non riporta il paese di Utopia”.

 


  1. E. Bloch, “Il marxismo come morale”, in Id., Speranza e Utopia, Mimesis, Milano 2022, p. 97. 

  2. E. Zigiotto, “Echi del pensiero blochiano”, in E. Bloch, Speranza e Utopia, cit., p. 136. 

  3. E. Bloch, “Speranza in lutto, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 15. 

  4. E. Bloch, “Utopie dell’uomo comune e altri sogni a occhi aperti”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 36. 

  5. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 11. 

  6. Ibidem. 

  7. E. Bloch, “Ereditare la decadenza”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 27. 

  8. E. Bloch, “La funzione utopica nel materialismo”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 122. 

  9. Ivi, p. 124. 

  10. Cit. in M. Löwy, Segnalatore di incendio, Ombre Corte, Verona 2022, pp. 49-50. 

  11. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 43. 

  12. E. Bloch, “Il marxismo come morale”, cit., p. 102. 

  13. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 13. 

  14. E. Bloch, “La funzione utopica nel materialismo”, cit., p. 126. 

  15. E. Bloch, “Qualcosa manca … sulle contraddizioni dell’anelito utopico”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 50 

  16. Ibidem. 

  17. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 16. 

  18. E. Bloch, “Il significato della Bibbia”, in Id., Speranza e Utopia, cit., pp. 83-84. 

  19. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 15. 

  20. E. Bloch, “Qualcosa manca… sulle contraddizioni dell’anelito utopico”, cit., p. 56. 

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In viaggio verso Francoforte. Intervista a Giorgio Fazio. https://www.carmillaonline.com/2021/07/27/in-viaggio-verso-francoforte-intervista-a-giorgio-fazio/ Mon, 26 Jul 2021 22:01:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67317 di Luca Cangianti

Se stringo gli occhi e guardo lo skyline di Francoforte le torri aliene del capitalismo finanziario svaniscono e il Meno si trasforma in uno specchio d’acqua dorato sul quale riposano vascelli venuti da regioni remote. Immagini simili ricorrono in una poesia di Charles Baudelaire (“Invito al viaggio”). Marcuse ne riprese due versi per descrivere, in Eros e Civiltà, un assetto sociale utopico, ma insito nei potenziali di ragione emergenti: “Tutto, laggiù, è ordine e bellezza, / lusso, calma e voluttà.” Tali visioni sono il frutto della [...]]]> di Luca Cangianti

Se stringo gli occhi e guardo lo skyline di Francoforte le torri aliene del capitalismo finanziario svaniscono e il Meno si trasforma in uno specchio d’acqua dorato sul quale riposano vascelli venuti da regioni remote. Immagini simili ricorrono in una poesia di Charles Baudelaire (“Invito al viaggio”). Marcuse ne riprese due versi per descrivere, in Eros e Civiltà, un assetto sociale utopico, ma insito nei potenziali di ragione emergenti: “Tutto, laggiù, è ordine e bellezza, / lusso, calma e voluttà.”
Tali visioni sono il frutto della lettura dell’ultima opera di Giorgio Fazio (Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica, Castelvecchi, 2021, € 34,00, pp. 413), un’attenta e aggiornata storia della Scuola di Francoforte, la cui chiarezza non sminuisce la complessità delle tematiche affrontate. La ricostruzione si basa su due piani: l’individuazione di alcuni elementi connotanti il profilo teorico di questi pensatori e una loro segmentazione generazionale. Del primo piano fanno parte: la critica immanente come dialettica tra immanenza e trascendenza, il rapporto, anch’esso dialettico, tra teoria critica e prassi politica, il riferimento a un approccio olistico (più o meno temperato) e a contenuti progressivi iscritti nella tradizione filosofica, il rifiuto della filosofia della storia. Questo profilo filosofico, tuttavia, non è risultato indenne da aporie e contraddizioni che fin dall’inizio hanno dato vita a slittamenti teorici, ripensamenti e cambiamenti d’indirizzo influenzati anche dalle vicende storiche del momento. Alla prima generazione dei padri fondatori (Max Horkheimer, Theodor W. Adorno e Herbert Marcuse), succede così Jürgen Habermas e poi una terza generazione rappresentata dai lavori di Axel Honneth e Nancy Fraser. Infine, con un grande sforzo si sintesi, Fazio offre al lettore italiano una panoramica degli autori e delle autrici più recenti: Wolfgang Streeck, Rahel Jaeggi e Hartmut Rosa. Insomma, un lungo viaggio che parte da Francoforte negli anni ’20 del secolo scorso, attraversa le barricate delle rivoluzioni sconfitte, fa tappa negli Stati Uniti nel dopoguerra e nel ’68 per tornare in Europa a confrontarsi con il boom economico e più recentemente con il neoliberismo.

Giorgio Fazio

Le teorie più audaci mi sembrano nottole di Minerva che spiccano il volo da rovine fumanti. Pensi che sia così anche per le autrici e gli autori di cui ti sei occupato?
La Scuola di Francoforte viene fondata nel 1930, quando ormai cominciava a esser chiaro che l’ondata rivoluzionaria aperta con il 1917 russo non aveva portato il comunismo né in Occidente né, al di là della retorica, in Oriente. Da questo punto di vista bisognava fare i conti con le aspettative disattese dalla vulgata marxista della Seconda e della Terza internazionale: lo sviluppo delle forze produttive e la crisi non generavano di per loro la rivoluzione e tantomeno il comunismo, confermando l’insostenibilità di qualsiasi finalismo e determinismo storico. Da questo punto di vista, per lo meno per la prima generazione della teoria critica, quindi, risponderei affermativamente alla tua domanda.

Come affronta il tema della soggettività e della coscienza di classe la prima generazione?
Se lo sviluppo del capitalismo e delle sue contraddizioni non sono sufficienti a generare la rivoluzione, la soggettività antagonista non può costituirsi come mera conseguenza dialettica del suddetto movimento. Anzi, negli anni ’20 e poi negli anni ’30 del secolo scorso si assiste all’emergere di processi di soggettivazione in senso reazionario anche tra le fila proletarie. Per questo motivo Horkheimer e i suoi collaboratori valorizzeranno aspetti “sovrastrutturali” quali la psicanalisi, la socializzazione primaria, l’arte, la religione, lo sport e il divertimento. In mancanza di un’analisi interdisciplinare su questi versanti, secondo i francofortesi, non si potevano spiegare né i processi di soggettivizzazione né la loro inibizione. In questo contesto il ruolo della teoria critica è smascherare i meccanismi ideologici invisibili, mettendo a nudo i rapporti di dominio sociale.

Penso che metafora architettonica presente in Per la critica dell’economia politica sia stata infelice. In quell’opera Karl Marx sostiene che sulla base economica, con la quale vien fatto coincidere il modo di produzione, si erigerebbe una sovrastruttura ideologica. A parer mio, il modo di produzione non può funzionare senza il suo versante immaginario. Quest’ultimo è parte del modo di produzione stesso. Qual era la posizione della teoria critica in merito?
In effetti la prima generazione dei francofortesi cercò di elaborare una teoria della totalità sociale che andasse oltre l’economicismo e ricomprendesse sfere sia economiche che culturali evitando ogni relazione unidirezionale tra elementi cosiddetti strutturali e sovrastrutturali.

Da Habermas in poi, le successive generazioni di teorici francofortesi hanno mosso ai fondatori la critica di paternalismo. Perché?
Fino a un certo punto la prima generazione si concepì in continuità con la sinistra hegeliana per quanto riguarda il tentativo di mantener vivi – indipendentemente dalle contingenze – i potenziali di ragione iscritti nella tradizione filosofica: progresso, autonomia, libertà. Lo sviluppo delle forze produttive e del lavoro sociale, con le loro potenzialità emancipatorie, avrebbe realizzato quelle promesse filosofiche e fatto saltare la gabbia dei vecchi rapporti di produzione. Dagli anni ’40, invece, viene meno questa fiducia. Lo stesso sviluppo delle forze produttive diventa il bersaglio della critica della ragione strumentale. Da questo momento in poi, tuttavia, la riflessione dei francofortesi comincia a concepire gli attori sociali come immersi in una “società totalmente amministrata” nella quale gli eventi si svolgono alle loro spalle. La riflessività critica degli attori è totalmente soggiogata con approcci sia autoritari (nazismo e stalinismo) che democratici (crescita salariale, sviluppo dei consumi, integrazione). In questo modo il filosofo critico saliva su una torre d’avorio e vi si confinava irrimediabilmente.

Come viene rivalutata l’agency degli attori sociali dalle generazioni successive a quella dei padri fondatori?
Fondamentalmente si sostiene una sorta di olismo moderato che rifugga dalla tentazione di funzionalizzare ogni comparto sociale: ci sono realtà istituzionali che incarnano norme e valori aprendo spiragli nei quali gli attori sociali possono incunearsi e inscenare conflitti. È per questo motivo che Nancy Fraser sostiene che la teoria sociale dev’essere bidimensionale: accanto alla funzionalità sistemica dobbiamo valorizzare il versante etico incarnato dalle convinzioni dei soggetti sociali e dalle loro cristallizzazioni istituzionali.

Un esempio di questo approccio è costituito dagli studi di Axel Honneth.
Questo pensatore parte dagli studi di storia del lavoro e finisce per affermare che i quadri normativi alla base dei conflitti sociali affondano le radici in subculture focalizzate non solo sulla distribuzione della ricchezza, ma anche sull’onore ferito, sulla dignità sociale negata. In questo modo non si nega il versante funzionalistico degli interessi di classe, ma lo si intreccia con le dinamiche morali, “immaginarie”, della richiesta di riconoscimento.

L’alienazione ha un ruolo centrale nella storia della filosofia e in particolare nel filone hegelomarxista, al quale, pur con alcune eccezioni, si può iscrivere la Scuola di Francoforte. In tempi recenti c’è stata una riformulazione critica di questa categoria.
Immagino che ti riferisca a Rahel Jaeggi che esorta a elaborare un concetto di alienazione più raffinato di quello consegnatoci dalla tradizione filosofica. Si tratta di liberarsi dalla falsa rappresentazione secondo cui il superamento dell’alienazione coinciderebbe con riappropriazioni finalistiche di presunte essenze e con la fluidificazione di tutto ciò che è irrigidito, implicito, non trasparente nella nostra vita. Basandosi su studi filosofico-antropologici di autori come Helmuth Plessner, Jaeggi afferma che la soggettività umana è irrimediabilmente affetta da una scissione costitutiva, da un rapporto di estraneità con sé e con il mondo. Si tratta di qualcosa che non può mai essere definitivamente superato. Insomma, i mostri autonomizzatisi dal nostro inconscio, le cristallizzazioni della ricchezza sociale che ci dominano e immiseriscono, sono destinati a risorgere continuamente. Siamo chiamati a una lotta infinita per riappropriarci di ciò che è nostro, ma l’alienazione non è tanto l’estraneo con il quale confliggiamo, quanto l’interruzione di questo processo di appropriazione e quindi del conflitto.

In questi giorni ricorre il ventennale delle giornate del G8 di Genova. Tu prendesti parte a quel movimento. Il pensiero della Scuola di Francoforte è costitutivamente un pensiero del conflitto e della critica del dominio. Studiarne approfonditamente la storia ha aggiunto qualcosa alla riflessione sull’esperienza del 2001?
Il popolo eterogeneo che vent’anni fa confluì a Genova praticava una politica antitetica alla politique politiciènne degli anni ’90. Si andava oltre il mero formalismo elettorale, si sottoponeva a una critica radicale il patriarcato, il ruolo dei mercati finanziari e del debito pubblico, le politiche migratorie ed estrattiviste. Era una politica che voleva ripensare i modelli di civiltà, quelli che Habermas chiamava grammatiche della vita e che Marcuse esortava a scardinare con una rivoluzione culturale creatrice di una nuova sensibilità, una soggettività non amputata, capace di ritessere una trama di relazioni vitali con gli altri umani e con la natura. Tutto il sangue versato e l’orrore di violenza scatenatosi in quei giorni contro i manifestanti non possono cancellare quei bisogni, quelle aspirazioni e quel potenziale di ragione.

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Estetiche del potere. Bisturi e machete. Corpo, identità e consumo-produzione tra bellezza e violenza https://www.carmillaonline.com/2017/07/25/39527/ Mon, 24 Jul 2017 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39527 di Gioacchino Toni

Michael Taussig, La bellezza e la bestia. Il fascino perverso della chirurgia estetica, Meltemi, Milano, 2017, pp. 241, € 18,00

Nel 2012 The University of Chicago Press ha pubblicato il saggio The Beauty and the Beast di Michael Taussig, antropologo che, come ricorda Franco La Cecla nella Prefazione all’edizione italiana, gode di buona fama in ambito anglo-americano ed ispano-americano e decisamente di minor fortuna tra gli antropologi francesi ed italiani che lo accusano di scarsa accademicità. Il volume, che da poco è stato tradotto da Emanuele Fabiano e dato alle [...]]]> di Gioacchino Toni

Michael Taussig, La bellezza e la bestia. Il fascino perverso della chirurgia estetica, Meltemi, Milano, 2017, pp. 241, € 18,00

Nel 2012 The University of Chicago Press ha pubblicato il saggio The Beauty and the Beast di Michael Taussig, antropologo che, come ricorda Franco La Cecla nella Prefazione all’edizione italiana, gode di buona fama in ambito anglo-americano ed ispano-americano e decisamente di minor fortuna tra gli antropologi francesi ed italiani che lo accusano di scarsa accademicità. Il volume, che da poco è stato tradotto da Emanuele Fabiano e dato alle stampe in Italia  dall’editore Meltemi, esamina i tentativi di trasformare il corpo attraverso la chirurgia estetica sia per accrescere la bellezza che per mascherare l’identità.

Autore di opere come The Devil and Commodity. Fetishism in South America (1980), Shamanism, Colonialism, and the Wild Man (1987), Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca (2007), The Corn Wolf (2015), Taussig, in La bellezza e la bestia, stabilisce un interessante collegamento tra la violenza dilagante in Colombia e l’industria della bellezza. A partire dall’analisi di interventi chirurgici che si sono trasformati in veri e propri disastri, l’autore ragiona sulla bellezza del corpo femminile e il consumo, collocando la chirurgia estetica, da lui chiamata “chirurgia cosmica”, tra la dépense di George Bataille e le riflessioni di Max Horkheimer e Theodor Adorno sul dominio della natura.

«La bellezza e la bestia pone la questione della bellezza in relazione alla violenza, si interroga sul perché in Colombia così tanti racconti sulla chirurgia estetica – che qui chiamo “chirurgia cosmica” – si dilettino con la morte o con la sfigurazione del paziente. Nel mondo che oggi ci circonda non è in gioco solo la coesistenza di glamour e terrore, ma la loro sinergia» (p. 19). Le riflessioni si sviluppano a partire dal “caso colombiano” perché, secondo lo studioso, proprio in questo paese il legame tra bellezza e violenza risulta più appariscente ma il ragionamento è da considerarsi estendibile a livello generale.

Siamo sicuri che le interminabili immagini e il fragore della polizia con le maschere antigas, i giubbotti antiproiettile, le mitragliatrici, le tenute antisommossa nero brillante, gli elicotteri, le luci intermittenti, le sirene, i gas lacrimogeni e i cavalli, non stiano lì a testimoniare qualcosa che va oltre la scelta estetica e che potremmo definire “pratico” o “utilitaristico”? Dopotutto, esiste qualcosa di “pratico” che non incorpori un’estetica? A mio avviso, questo ruota intorno al narcolook ispirato nelle giovani donne che appartengono, o vorrebbero appartenere, a narcotrafficanti favolosamente ricchi e godere del loro stile di vita fuori dal comune. La loro imago – tette di silicone, culi giganti, magrezza da liposuzione – ha innescato non solo il boom della moda e dell’abbellimento, assorbendo le fantasie e le energie di uomini e donne ma, in termini più generali, parla del corpo come di un emblema e un veicolo, di una forma d’essere che ha rimpiazzato il lavoro e la disciplina in favore dello stile, della trasgressione e dell’eccesso erotizzato. Questa stessa estetica ora si estende al mondo, fino a includere la guerra, le torture, la mutilazione e la frenesia della nuova economia capitalistica, alla ricerca di respiro in quello che si chiama, fin troppo familiarmente, “consumo” (p. 20).

Taussig si interroga circa la possibilità che sia proprio l’estetica ad innescare il meccanismo della vita e coglie nella tendenza moderna di ridurre tutto a un mezzo per un fine le cause che hanno portato a renderci insensibili di fronte alla forza dell’estetica che scorre nel quotidiano ben al di fuori dei musei e delle gallerie in cui è stata costretta: «i racconti delle baraccopoli agroindustriali della Colombia che ho in mente sono emissioni del lato oscuro della bellezza, racconti di sventura che incontrano una cupa soddisfazione nei tentativi di abbellimento finiti tragicamente» (p. 29). Attraverso questi racconti veniamo catapultati in ingrandimenti del seno che si risolvono in infezioni e mastectomie, in interventi oculari volti ad abbellire lo sguardo che portano all’incapacità di chiudere gli occhi, a lifting al volto che lo trasformano mostruosamente, ad innalzamenti o ingrossamenti del sedere che lo vedono poi lentamente scivolare lungo le gambe ecc.

In passato il capitalismo manifestava «rapporti inquieti con la spesa folle e il lusso, dal momento che sopprimeva la parte più selvaggia della nostra natura in nome di una mentalità utilitaristica e parsimoniosa» (p. 61). L’imperativo era risparmiare per investire, non spendere. La classe lavoratrice, ed ancor più il lumpenproletariat, mancavano di quell’etica del risparmio propria della classe media. «Questi Grandi Spendaccioni e Sperperatori, incapaci di moderazione, che bevevano, giocavano, andavano a puttane e compravano non appena avevano un centesimo o due in tasca, se avevano le tasche, occuparono l’immaginario occidentale fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quando spendere (ovvero “consumare”) diventò qualcosa di meravigliosamente buono e nobilitante, un’aspirazione civilizzatrice simile a una nuova religione» (pp. 61-62).

A partire dalla seconda metà del Novecento il capitalismo sembra barcamenarsi tra il tentativo di imporre una cultura del consumo ed il voler limitare questa cultura «ai soli membri responsabili e meritevoli della società, che lavorano onestamente in onesti posti di lavoro e non succhiano dalla tetta del welfare state, riservato invece al salvataggio dei super-ricchi» (p. 62). Il grande dilemma pare però essersi risolto velocemente. «Quanto intrecciate e comiche siano diventate queste distinzioni oggi è reso ancor più evidente dal crescente deficit degli Stati Uniti e dall’impossibilità di ridurlo senza diminuire i consumi, con il rischio che questo ostacoli la capacità del consumatore di mettere di nuovo in marcia l’economia, attraverso l’uso di ciò che gli esperti chiamano “consumer muscle”. Questa eloquente espressione ci segnala come la rivoluzione sia ora completa. Il consumo è divenuto produzione, o almeno “muscolare”, l’ultimo sospiro dell’etica protestante è incapace di comprendere la grandiosità della spesa fine a se stessa, che è in realtà ciò che sta conducendo al disastro, tanto sui campi di battaglia delle guerre degli Stati Uniti ispirati dalla dépense quanto nei centri commerciali o su eBay» (pp. 62-63).

A partire da tali riflessioni, Taussig si chiede cosa sia allora oggigiorno il “consumatore”.

questa nuova creatura post-Seconda guerra mondiale implica un essere ancora più antico, anzi primordiale, che sembra essere già esistito nel profondo dell’immaginario della società, come i personaggi che l’infaticabile cronista dei poveri di Londra, Henry Mayhew, creò a partire dai vagabondi della metà del XIX secolo. Personaggi che, egli pensava, si sarebbero potuti trovare quasi ovunque e in qualsiasi tempo […] Non c’è da sorprendersi che le chiamasse “le tribù erranti”. Avevano mandibole e zigomi pronunciati con teste piccole; una gran massa muscolare che toglieva sangue al cervello; un linguaggio segreto, cuze-cut o slang; disdegnavano il lavoro regolare e continuo; amavano erbe e radici stupefacenti e liquori intossicanti; erano insensibili al dolore; avevano un amore sfrenato per i giochi d’azzardo e le danze libidinose; traevano piacere dalla vista delle sofferenze delle creature sensibili e delizia dallo sport e la guerra; erano assetati di vendetta; possedevano un concetto vago di proprietà; le donne erano lascive e avevano un incerto senso della religione. Questa lista, a mio modo di vedere, vale più o meno anche per gli aristocratici – la ripugnanza per il lavoro, la passione per il liquore e, ovviamente, l’amore smodato per le scommesse, gli sport e la guerra – tutte testimonianze del dispendio che Bataille chiama dépense. Il primitivo e l’aristocratico sono intimamente legati in quanto sono entrambi conoscitori della dépense, la grande arte dello sperpero (pp. 63-64).

Sulla base di tali riflessioni Taussig giunge alla questione centrale della sua riflessione: l’avvenuto slittamento dal lavoro alla moda, dall’utilità allo stile. Marx sostiene che con il capitalismo moderno la produzione diviene un obiettivo dell’uomo, invertendo così il modello precedente in cui era l’uomo ad essere l’obiettivo della produzione. Secondo Taussig Marx ha ragione circa l’alienazione, «che fa dell’uomo una cifra in una equazione di profitto-efficienza, tuttavia mancava di una teoria del “consumo”, e la sua idea di “uomo” rimanda forzatamente a un’astrazione incapace di contemplare gli aspetti più selvaggi di tale alienazione. L’uomo è ora davvero “lo scopo della produzione”, anche se non si tratta dell’uomo che aveva in mente Marx» (pp. 67-68).

Da tempo i ceti più agiati amano copiare o riprendere la moda dei ceti più bassi e le aziende produttrici di merci non mancano di affidarsi a studi sistematici al fine di mettere a profitto tale tendenza. Negli Stati uniti “L Report” presenta ogni semestre un’indagine accurata delle tendenze di moda tra gli adolescenti del ghetto. Secondo le autrici dell’indagine periodica, i consumatori contemporanei, a prescindere dall’età o dal reddito, come mai prima ambiscono ad avere stile e prestigio. Facendo riferimento ad uno speciale su “L Report” pubblicato da Malcom Gladwell nel 1997 sulle pagine del “New Yorker”, Taussig nota che tale «infiltrazione della moda riguarda solo i ragazzi e non le ragazze del “ghetto”», dunque si chiede se il «fantasma della virilità maschile (sesso e crimine)» non sia per caso intrinseco a tale genere di infiltrazione.

Nelle undici pagine patinate che Gladwell scrive sul cool, pubblicate ad uso del gruppo demografico decisamente non-cool di coloro che leggono il “New Yorker” (si parla tanto di diffusione dal basso, quando poi sono le saghe di John Updike sulle periferie bianche di classe media a connotare la rivista), non compare neppure un accenno – non uno – a una ragazza. Fatta eccezione, ovviamente, per le due donne bionde del Connecticut – alle quali sembra che le cose stiano andando molto bene – , che si immergono nel ghetto per vedere che ne è dello stile, permettendo poi a qualcun altro di copiarlo in fabbriche schiaviste disseminate in tutto il mondo prima di far uscire il catalogo semestrale successivo, che nel 1997 costava ventimila dollari. Se le ragazze compaiono è solo perché i ragazzi se ne approprino, come quando seguiamo Gladwell mentre accompagna una caccia-tendenze nel Bronx […] La donna si avvicina a un giovane membro di una banda e gli dà un paio di scarpe nuove, delle Reebok DMX RXT pensate per ragazze, che il ragazzo adora (p. 70-71).

A corredo dell’articolo-reportage “New Yorker” include un’illustrazione a tutta pagina che mostra la suola della scarpa sprigionare una vera e propria esplosione di colori. Non è difficile intravedere in questa immagine una metafora visiva del meccanismo della moda che deriva dal basso, dalle periferie più degradate; è dalle suole che scaturisce il cool.

Siamo a una nuova resa dei conti, più virtuale che reale, anche se la vecchia realtà, quella del corpo umano che combina il reale con il superreale, continua a persistere mentre la chirurgia cosmica offre una via di salvezza, collegando la carne reale all’immagine reale, la spesa compulsiva alla virtualità. Chiamarla spesa compulsiva non ne coglie il senso […] Il carattere favolistico che riscontro in questo importante cambio nel capitalismo mondiale ha a che vedere con la seduzione degli oggetti inanimati: le scarpe di polvere di diamante, le scarpe da ginnastica Reebok DMX RXT. I nomi la dicono lunga – diamanti e polvere di diamanti a fianco del ruggito da motosega delle scarpe DMX RXT e dell’aspro digrignamento consonantico prodotto da nomi come Reebok, che si svuotano nella vacuità di questo spazio incantato fatto di tutto e di niente. La seduzione esercitata da questo spazio è ciò che giace nel cuore del sempre più frenetico consumo del mondo, e al centro di questo cuore si trovano alcuni degli oggetti più seducenti di tutti – il volto e il corpo umano – che convivono con quella magia dell’apparire che noi chiamiamo cool, pompata fuori dalle periferie degradate. Esiste solo una cosa più seducente della bellezza, ed è la capacità di trasformarsi in bellezza (p. 76)

La seduzione del volto e del corpo umano. Eccoci arrivati al cuore di La bellezza e la bestia. E da qui inizia il viaggio tra le mostruosità della chirurgia estetica, tra infezioni ed effetti collaterali, tra trasformazioni, se non azzeramenti, dell’identità e mutilazioni inferte con violenza inaudita sui corpi altrui come raccontato, ad esempio, nel Capitolo decimo, “Bellezza e mutilazione”, ove viene ricostruita brevemente la storia della mutilazione del corpo (vivo o morto) in Colombia a partire dagli anni Quaranta del Novecento, «quando non era infrequente che i membri di partiti politici opposti – Liberali e Conservatori – lavorassero abilmente gli uni sugli altri con machete e coltello» (p. 111). Un’orgia di sangue fatta di squarci sotto alla mandibola per estrarre la lingua, tagli sul corpo per portarlo alla morte per lento dissanguamento, stupri, mutilazioni genitali, estrazioni di feti dall’utero della madre e via dicendo. «Trent’anni dopo, l’estetica della mutilazione creativa riapparve nella chirurgia praticata dai gruppi paramilitari colombiani, alcuni dei quali, secondo quanto viene riportato, realizzavano veri e propri corsi di mutilazione, che fungevano contemporaneamente anche da iniziazione» (p. 112). Tanta creatività applicata al machete ed al coltello segnala come anche la mutilazione corporale abbia una propria estetica.

Oppure, ancora, colpisce quanto raccontato nel Capitolo settimo, “Sorrisi griffati”, ove le riflessioni dello studioso prendono il via da un articolo intitolato “I chirurghi dei bassifondi”, pubblicato da “El Tiempo” nel 2009 in concomitanza con la cattura del narcotrafficante Chupeta, famoso anche per i tanti interventi di chirurgia estetica a cui si è sottoposto. L’articolo del quotidiano riporta alcune storie riguardanti un dentista di Bogotà che si occupa di conferire un nuovo sorriso ai suoi clienti paramilitari ed a partire da tali racconti Taussig riflette circa il ricorso al termine “disegnare” utilizzato dai chirurghi e dai dentisti estetici. Non “fare”, ma “disegnare”, come per i “jeans griffati”. Il linguaggio sembra tradire come il volto ed il corpo non siano poi considerati così diversi dalle altre merci su cui intervengono i creativi nel tentativo di conferire valori aggiunti.

Questi interventi di chirurgia estetica, o cosmica, come preferisce definirla l’autore, hanno certamente a che fare con le antiche pratiche magiche fondate sulla mimesi e la fisiognomica, come il mascheramento, la pittura del volto e del corpo dedicate alle divinità o attuate confidando di venire a far parte dell’Olimpo. Il viaggio proposto da Taussig, nel suo condurci lungo percorsi in cui si intrecciano bellezza e violenza, non può che lasciare il lettore scosso. È percorrendo questo reticolo catastrofico e maledetto, ove il volto ed il corpo si fanno merce, consumo-produzione, che Taussig giunge alla conclusione che l’uomo è davvero diventato “lo scopo della produzione”, ma, come detto, non si tratta dell’uomo che aveva in mente Marx.

Taussig è sicuramente un antropologo non convenzionale, criticato da diversi studiosi per una conduzione dei suoi studi ritenuta un po’ troppo creativa. Nella preziosa Prefazione al volume scrive di lui Franco La Cecla che la sua lettura della storia coloniale rovescia spesso le letture più banali di ispirazione marxista e terzomondista. «Lo fa usando a piene mani l’approccio di Walter Benjamin alla storia e applicandovi gli strumenti della “invidia mimetica” di René Girard. Di Benjamin, Taussig riprende la fortissima intuizione di una lettura teologica del mito […] Per i sottoproletari che lavorano nelle miniere e nelle piantagioni delle colonie ispaniche del Centro e Sudamerica, il lavoro cui sono forzati in cambio di un misero salario è qualcosa che li lega al “diavolo”. Perché non ha nulla dei connotati del lavoro indio, che è fatto per la comunità e per il benessere. Questo è un lavoro dove ci si lega alla demonicità per essere irretiti nella fantasmagoria delle merci che il salario può insegnare a desiderare. Rovesciando l’ottica coloniale che vede nell’indio l’incarnazione del paganesimo e quindi del Diavolo, gli indios stessi se ne impossessano leggendo nella loro alienazione a causa del colonialismo proprio una presenza diabolica» (p. 10). Da qui prende il via un particolare gioco di specchi in cui colonizzatori e colonizzati ribaltano costantemente la situazione riprendendosi l’un l’altro.

Tornando a La bellezza e la bestia, ed ai rapporti tra estetica e potere, non resta che lasciare la chiusura alle parole dello stesso Taussig: «È perfettamente legittimo chiedersi quanto, in queste storie, ci sia di vero e quanto sia fantasia, a patto che se ne accetti l’intollerabile fusione, ragione in più per essere coscienti di ciò che tutti sapevamo e che però non sapevamo di sapere – che per i duri e per lo Stato l’estetica è tanto cruciale quanto lo è per l’aumento del seno, lo stiramento del volto o la magrezza flessuosa ottenuta con la liposuzione» (pp. 19-20).

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Etica e/del genocidio: i crimini nazisti e la responsabilità morale https://www.carmillaonline.com/2016/08/04/32322/ Thu, 04 Aug 2016 21:30:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32322 di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895). Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia [...]]]> di Armando Lancellotti

NastroBiancoClasse009Alberto Burgio, Marina Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi, Roma, 2016, pp.350, € 20,00

«Non si fa mai il male tanto a fondo e con tanta lietezza come quando lo si fa in coscienza» (Pascal, Pensieri, ed. Brunschvicg, n. 895).
Questa folgorante intuizione pascaliana che Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa citano a pagina 199 del libro che qui presentiamo esprime in estrema sintesi la tesi di fondo dell’interessantissimo saggio recentemente scritto dai due docenti – di Storia della filosofia il primo, di Filosofia del diritto la seconda – dell’Università di Bologna: coloro che nella Germania nazista e nell’Europa da questa occupata perpetrarono il genocidio, o se ne resero complici collaborando in differenti modi, ovvero lo tollerarono assistendo indifferenti ad esso – pertanto si inoltrarono «tanto a fondo» nella pratica del male – lo fecero «in coscienza», cioè sapendo ciò che facevano e scegliendo consapevolmente di agire in quel modo. Ora, la prassi conseguente ad una scelta libera e consapevole pertiene all’ambito dell’etica e il caso di una prassi malvagia e criminale comporta di necessità la questione delle responsabilità morali (oltre a quelle penali, politiche o storiche) degli attori di tale crimine.
Etica e/del genocidio, si diceva: “etica e” genocidio, in quanto lo sterminio degli ebrei d’Europa per essere meglio compreso, nonostante la sua apparente e da alcuni teorizzata incommensurabilità cognitiva, deve essere osservato – secondo Burgio e Costerbosa – dal punto di vista della ragione filosofica (nella fattispecie, morale); “etica del” genocidio, perché, come i due autori spiegano dettagliatamente, il regime hitleriano concepì ed elaborò una (contro)etica, una (anti)etica, un’etica del disumano che servì come quadro di riferimento (a)valoriale dell’azione omicida dei perpetratori dello sterminio di milioni di uomini.

Nelle prime pagine del libro, Burgio e Costerbosa, sulla scorta delle considerazioni di, tra gli altri, Primo Levi e Thomas Mann, constatano come la violenza scatenata dai nazisti sia stata sempre “eccessiva”, “inutilmente sproporzionata”, comunque “ridondante” e come proprio per questi suoi aspetti non possa essere spiegata come mera conseguenza meccanica di una premessa, come «pedissequa esecuzione di ordini superiori» (p. 34), ma debba essere ricondotta alla concatenazione e all’intreccio delle singole iniziative assunte, delle varie scelte compiute, ai diversi livelli della macchina genocida, da tutti coloro che di essa furono gli ingranaggi e che diedero un contributo attivo ed essenziale al perseguimento dell’esito criminale. Attori di una politica di sterminio che – si tratta di una questione ormai da molti decenni oggetto di analisi e studi, soprattutto dopo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) di Hanna Arendt – per lo più erano uomini e donne del tutto “normali”, “comuni”, se non addirittura individui solitamente considerabili come “persone per bene”.

Fatto questo che aggiunge sconcerto all’orrore dinanzi alla vastità senza precedenti e senza pari della violenza scatenata nel dodicennio nazista, da molti interpretata come una cesura assoluta nel corso degli eventi umani e storici, uno scisma che ha prodotto uno iato, una soluzione di continuità non ricomponibile e che ha azzerato le capacità cognitive ed interpretative della ragione, con il conseguente approdo ad una sorta di “ermeneutica negativa” dinanzi alla indicibile incommensurabilità del male. Posizione questa della indicibilità meta-storica della Shoah che ha trovato uno dei più convinti sostenitori nel recentemente scomparso Elie Wiesel, ma che gli autori di Orgoglio e genocidio rifiutano con decisione, assumendo piuttosto un punto di vista che ci sembra riconducibile a quello adorniano della Dialettica negativa. Come diceva il pensatore francofortese, il fatto che Auschwitz sia potuta accadere in mezzo a tutta la tradizione dell’arte, della filosofia, della scienza europee, dimostrando il fallimento della cultura illuministica, non deve però condurre al disarmo della ragione, la quale conserva, anzi amplifica, la propria funzione critica e pratica, nel momento in cui deve abbandonare la pretesa panlogistica di essere riconosciuta come sostanza della realtà. «È hybris il fatto che ci sia l’identità, che la cosa in sé corrisponda al suo concetto. Ma non si dovrebbe semplicemente buttarne via l’ideale: nel rimprovero che la cosa non è identica al concetto, vive anche la speranza che lo possa diventare» (Th.W.Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1982, p. 134). Alla capacità critica della ragione è demandato quindi il compito di comprendere l’assurdo, di analizzare al fine di giudicare. Se infatti, come vogliono i sostenitori della indicibilità meta-storica del genocidio, quest’ultimo permanesse immobile nella sua tetragona incomprensibilità, allora verrebbe meno anche la possibilità del giudizio – il che equivarrebbe ad una paradossale ed ingiustificabile assoluzione dei colpevoli – essendo analisi e comprensione le condizioni ed i presupposti di ogni atto valutativo, anche di quello morale.

copertina BurgioDal punto di vista della metodologia seguita e degli strumenti applicati gli autori intendono fare interagire i contributi della storiografia, della sociologia storica, della psicologia sociale (ma anche della antropologia, della psichiatria e della psicanalisi), rifiutando gli insufficienti approcci monocausali in ragione della complessità dell’argomento affrontato e la compresenza e la convergenza di molteplici chiavi di lettura contribuiscono a rendere il libro ricco e molto articolato, complesso e completo, cioè capace di fornire un quadro d’insieme dettagliato dei risultati raggiunti, nei differenti ambiti disciplinari, nello studio del nazismo, dei suoi crimini e della Shoah e soprattutto della questione della responsabilità e della colpa tedesche.

Ma Burgio e Costerbosa – ed è questo uno dei tanti temi interessanti ed originali del libro – ritengono che spetti propriamente alla filosofia il compito della ricostruzione dell’intero, della sintesi complessiva e della comprensione alla luce di un punto di vista “universale”, superiore a quello delle singole scienze umane, vincolate alla parzialità di uno sguardo che deve attenersi ai limiti “scientifici” della verifica empirica, seppur secondo le modalità proprie delle scienze dello spirito. Questo non vale per la filosofia, sia per l’universalità della sua prospettiva sia perché alla ragione filosofica spetta il compito dell’indagine sul perché, sul senso complessivo sulla «forma della mente o dell’anima degli attori di questa vicenda [per arrivare] al fondo ultimo dei loro pensieri […] dal quale scaturiscono i giudizi, nel quale si strutturano le scelte, le decisioni e le azioni». (p. 10)
L’interesse della filosofia è per l’intero; il suo fine è euristico e conoscitivo; gli strumenti sono polivalenti e la sua natura è “modestamente” aporetica, non pretendendo la ragione filosofica di formulare ipotesi falsificabili, cioè scientificamente oggettive e pertanto è in grado di avventurarsi in un terreno «che né la storiografia né gli altri saperi accettano di percorrere: lo spazio della soggettività […] intesa come ciò che dà logica e senso alla vita conscia e inconscia della mente». (p.10) Spetta quindi alla filosofia tracciare un coerente quadro d’insieme e, soprattutto, disegnare il contorno della forma mentis genocida.

Tra i tanti individuabili all’interno del libro, tre ci sembrano i punti di riferimento teorici che accompagnano costantemente il dipanarsi del ragionamento e del discorso di Burgio e Costerbosa: Raul Hilberg, Hanna Arendt e Immanuel Kant.
Hilberg perché, nonostante – secondo Burgio – il tratto tendenzialmente deterministico del suo approccio prevalentemente funzionalista (determinismo che, come vedremo, gli autori del libro sottopongono a puntuale critica), il suo modello analitico ed interpretativo, per la prima volta proposto nell’ormai lontano 1961, mantiene la sua validità ed affronta il problema delle responsabilità tedesche attribuendole alla società, alle istituzioni e allo stato tedeschi nel loro insieme, evidenziando anche come ogni componente di essi abbia dato un proprio fondamentale contributo attivo, fattivo, se non addirittura solerte, e quindi non solo meramente passivo, alla realizzazione dello sterminio.

Delle riflessioni di Hanna Arendt sul nazismo e la Shoah i due studiosi utilizzano soprattutto La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, considerato da Burgio un lavoro talvolta riduttivamente interpretato, ma ancora insuperato dal punto vista – che è proprio quello che Orgoglio e genocidio ripropone – di un approccio cognitivo di tipo filosofico alla questione del genocidio e della responsabilità morale. Perché è nel campo dell’etica che gli autori collocano la materia del loro discorso ed è all’individuazione delle responsabilità individuali e collettive di coloro che in misura differente parteciparono allo sterminio e alla comprensione delle ragioni e delle dinamiche della loro scelta (im)morale genocida che si indirizzano le finalità del libro.
Autonomia del soggetto morale, consapevolezza della scelta, responsabilità rispetto alle conseguenze e moralità dell’azione: sono questi i “paletti” dentro ai quali dobbiamo collocare l’azione dei carnefici e dei tanti altri che in modi estremamente diversi parteciparono alla politica genocida del Terzo Reich.

Infine, proprio l’attenzione per la questione della “responsabilità” e della “scelta” come istanze imprescindibili per la retta comprensione del genocidio nazista conduce ad un costante riferimento ai principi fondanti dell’etica kantiana (l’autonomia del soggetto morale; la libertà come condizione e sostanza dell’agire; la dignità dell’uomo e il suo rispetto come elementi costitutivi dell’imperativo etico) e alla frequente riproposizione di stilemi di pensiero kantiani.

Il libro si compone di sei capitoli, di cui il primo, il quarto e il sesto scritti da Alberto Burgio, il secondo, il terzo e il quinto da Marina Lalatta Costerbosa.
Nel primo capitolo (Crimini condivisi), il discorso di Burgio prende le mosse dall’intento di sottoporre ad una generale e complessiva critica quelle interpretazioni – soprattutto storiografiche – del nazismo (e dei suoi crimini) che nell’insieme si possono considerare viziate da un comune determinismo. Come è noto, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la storiografia del nazismo si è articolata e divisa nelle due grandi correnti degli intenzionalisti e dei funzionalisti, a loro volta poi internamente articolate in un ventaglio di diverse posizioni a seconda del radicalismo o della moderazione con cui l’idea portante delle rispettive posizioni viene proposta. Impostazioni critiche che, per quanto nel corso degli anni sostituite da altre, costituiscono due contrapposti macro paradigmi interpretativi del regime hitleriano, ma convergenti su un punto fondamentale: una lettura deterministica dei meccanismi e delle modalità di funzionamento del regime, delle sue istituzioni e dell’intera società tedesca e, nella fattispecie che interessa a Burgio, del comportamento dei carnefici e dei loro collaboratori. In queste letture prevale la forza del condizionamento esogeno (di volta in volta il volere del Führer, la catena di comando, il fascino seducente dell’ideologia, la pervasività della propaganda, l’inflessibilità della repressione, gli effetti atomizzanti della società di massa, le dinamiche spersonalizzanti delle pratiche burocratico-amministrative dello Stato moderno, ecc) che si traduce nella equazione totalitarismo = eterodirezione assoluta dell’individuo, attore pressoché inconsapevole di comportamenti prevalentemente indotti, rispetto ai quali, conseguentemente, è da ritenersi scarsamente responsabile.

Fatto salvo l’assunto che a tutti i fattori sopra elencati occorre riconoscere pro quota un ruolo ed un’importanza rilevanti in relazione all’affermazione e al funzionamento di un regime totalitario in generale e di quello nazista nel particolare e che – riteniamo – anche le dinamiche esogene siano da tenere nella giusta considerazione, condividiamo, con Burgio, l’opportunità di indebolire il paradigma eterodirettivo e di riportare al centro dell’attenzione l’analisi delle intenzioni, delle motivazioni, delle scelte libere e consapevoli e quindi responsabili che, comunque e sempre, stanno alla base del comportamento umano, anche di quello più esternamente e strutturalmente condizionato.
A ciò si aggiunga che le letture di tipo deterministico rischiano, ben al di là delle loro intenzioni, di fare propri o di avvallare i teoremi giustificativi o autoassolutori dei carnefici stessi che ricorrono sempre agli argomenti della necessità o inderogabilità degli ordini, della inconsapevolezza circa le conseguenze della loro azione, o della cosiddetta “obbedienza cadaverica”, cioè l’esecuzione di un ordine in quanto ordine (Befehl ist Befehl), argomentazioni nelle quali i principi del determinante condizionamento situazionale e della spersonalizzazione della scelta fanno da denominatore comune.

Burgio si rifà al noto saggio di Hilberg, Carnefici, vittime e spettatori, ma integra la tipizzazione dello storico austro-statunitense inserendo la “zona grigia” dei collaboratori, intermedia tra quella degli spettatori (bystanders) e quella dei carnefici, cioè i “perpetratori immediati”. Per quanto riguarda questi ultimi, si devono considerare innanzi tutto gli uomini delle SS, dei battaglioni di polizia, delle Einsatzgruppen, i soldati e gli ufficiali della Wehrmacht, ai quali poi si aggiungono tutti gli uomini e le donne di quei ministeri, apparati, istituzioni, uffici dello stato tedesco che attivamente e assiduamente presero parte (ancora una volta il riferimento è allo schema hilberghiano di La distruzione degli Ebrei d’Europa) alla identificazione, all’espropriazione, alla ghettizzazione e infine allo sterminio degli ebrei. Un totale di – calcola Burgio – 200/500 mila tra tedeschi, austriaci e Volksdeutsche (tedeschi etnici), per i quali le argomentazione deresponsabilizzanti prima riportate non reggono dinanzi ad una dettagliata analisi dei casi e alla luce dei documenti e delle testimonianze. Ciò che invece sempre emerge è che costoro «seppero e vollero compiere i propri crimini» (p. 40) nei lager o altrove, infierendo sulle loro vittime.
Si trattò di una libera scelta all’interno di un ventaglio di possibili opzioni di comportamento; gli unici che – ricorda Burgio – non avevano scelta, che si trovarono di fronte a “scelte senza scelta” furono le vittime, non certo i carnefici.

L’inconsistenza degli argomenti dell’inconsapevolezza, dell’impossibilità di fare altrimenti et similia si applica anche al caso della “zona grigia” dei “collaboratori”, che Burgio, facendo propria la tesi di Hilberg della consustanzialità e coincidenza di stato e società tedesche e regime nazista, individua nelle élites militari (grate a Hitler per l’eliminazione delle S.A. e per la politica di riarmo); negli esponenti del mondo accademico e universitario (profondamente coinvolto nell’opera di elaborazione e divulgazione della Weltanschauung nazista e razzista) e in particolare nella categoria dei medici (il cui contributo alla criminale politica eugenetica di salute e difesa della razza germanica fu essenziale); nel personale dell’apparato burocratico del Reich («una massa di normali burocrati ambiziosi ed accondiscendenti» (p.47) nonché solerti e competenti); negli imprenditori privati (che non si lasciarono sfuggire l’occasione di fare affari, che fiutarono come conseguenza della politica antisemita del governo); ed infine nei delatori, cioè «quanti permisero alla Polizia politica del regime di invadere ogni spazio […] e di stendere sull’intera società tedesca una pervasiva rete di controllo» (p.50).

Infine gli “spettatori”, cioè coloro che non parteciparono ai crimini, ma che comunque per lo più «condivisero e sostennero. E parteciparono anche evitando di agire quando avrebbero potuto farlo». (p. 57) In questo caso, per spiegare il comportamento dell’”uomo della strada” si rende necessario affrontare – sostiene Burgio – la questione del consenso politico, problematica particolarmente complessa e di difficile analisi soprattutto quando assume la forma del “consenso totalitario”, ma che nella Germania del dodicennio nazista, di fatto, fu raccolto in modo solido e consistente dal regime. Si trattò di una adesione diversamente motivata ed estremamente differenziata per tipologia e grado, ma che produsse l’effetto di una condivisione di massa, da parte di molti milioni di tedeschi, dei programmi e delle azioni politiche del regime e quindi anche delle sue pratiche criminali e genocide, che il popolo tedesco, forse non nei minimi particolari, ma certamente nella sostanza, conosceva e che quindi – ancora una volta – volle, decise liberamente di appoggiare o almeno di non ostacolare.

Se uno degli alibi preferiti dai criminali nazisti o una delle argomentazioni autoassolutorie più frequenti era quella secondo cui “la legge è la legge” e ad essa si deve obbedire comunque, indipendentemente dal contenuto che ordina, allora risulta di cruciale importanza prendere in considerazione – come fa Marina Lalatta Costerbosa nei capitoli secondo (Il cavallo di Troia della legalità) e terzo (Legalità e consenso. I capi e la società) – le modalità e le conseguenze dei processi di ridefinizione dei concetti e dei principi di legalità e giustizia e di stravolgimento del diritto che si verificarono in Germania successivamente alla ascesa al potere del partito nazionalsocialista. Ridefinizione dei fondamentali principi giuridici che agì da supporto alla politica criminale del regime, legittimandone la catena delle norme e dei comandi e rassicurando i destinatari dei medesimi ordini circa la legittimità dell’operato conseguente, anche di quello criminale. Lo studio di queste problematiche e di queste dinamiche può contribuire – secondo la studiosa – alla comprensione della complessa questione del consenso di massa, di milioni di uomini comuni, ai regimi totalitari.

Centrale nella disamina del problema proposta da Costerbosa è la tesi per cui il nazismo adottò, piegandoli alle proprie necessità, i concetti giuspositivistici di legalità e giustizia, che si definiscono sulla base dell’assunto fondamentale del giuspositivismo stesso, che pone una irriducibile differenza tra il diritto e la morale, in quanto quest’ultima è esterna ed estranea al diritto; diritto che ha natura imperativa, coincidendo col comando del potere sovrano a cui si deve obbedienza. Come vuole Kelsen, il diritto è moralmente neutro ed indipendente dal giudizio morale e la giustizia si identifica con la legalità, ovvero l’applicazione di una norma positiva, che non riguarda il contenuto della norma medesima.

Se da un lato non è difficile comprendere come le istanze fondamentali della teoria giuspositivistica del diritto si prestassero ad essere estremizzate e strumentalizzate dal nazismo, dalla sua visione gerarchico-militare della società e dei rapporti sociali, dalla sua idea totalitaria del potere, da quell’essenziale Führerprinzip che considera il Führer fonte di diritto e di giustizia, per diventare infine parte integrante della dottrina nazionalsocialista del diritto; dall’altro è indispensabile riconoscere che il regime fu capace di recuperare, stravolgendoli al punto da capovolgerli, anche principi e idee della dottrina del diritto naturale, per i quali la legalità va messa in relazione alla legittimità, cioè con la giustizia intesa come moralità dei contenuti della norma positiva.
Il nazismo quindi elaborò propri contenuti (a)morali che fecero da fondamento della legittimità delle leggi e delle norme emanate, ma mentre qualsiasi forma di giusnaturalismo si incardina sull’idea essenziale che prioritaria e assoluta sia la difesa dei diritti soggettivi, in quanto per l’appunto naturali, il “giusnaturalismo nazista” considerò “naturali” dei (non)diritti razzisti e disumani che violavano e negavano i diritti soggettivi. «Si pensi che si giunse addirittura a qualificare il Naturrecht (diritto naturale) come völkisch (nazionalistico) oppure nationalethnisch (etnonazionalistico): una palese contraddizione in termini». (p. 111)

Ne conseguì un violento stravolgimento del diritto e della legalità, preparato e permesso anche da quei prodromi negativi che erano presenti nella Costituzione di Weimar: Marina Lalatta Costerbosa si riferisce (p.121) in particolare a quell’articolo n.48 della Costituzione repubblicana che agì da condizione di possibilità della Ermächtigungsgesetz (la Legge dei pieni poteri) del 28 febbraio del 1933, in quanto, consentendo, in condizioni eccezionali, al presidente di sospendere in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, permise al Cancelliere da un mese in carica, Adolf Hitler, di cancellare lo stato di diritto e tra le altre cose di istituire i campi di concentramento. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», aveva scritto nel 1922 Carl Schmitt in Politische Teologie.

Quanto arrogante era stato lo sfregio del diritto nel dodicennio nazista tanto profondi dovettero essere il ripensamento e la riformulazione dei principi giuridici fondamentali dopo il 1945. A tal proposito l’autrice si riferisce in particolare all’opera di Gustav Radbruch che nel 1947 ritenne necessario riproporre con forza la teoria secondo cui vi è un diritto oltre e al di sopra della legge positiva, rispetto al quale quest’ultima può risultare un “torto legale”. Al fine di fissare un criterio sostanziale ed universale che fosse in grado di dirimere tra legge legittima e torto legale, Radbruch – ricorda Costerbosa – definisce il concetto di “equità”, che significa «giustizia essenziale, il requisito minimo di moralità che una norma, una legge, un istituto, una sentenza deve esibire per potersi dire tale. […] Funziona al negativo: tutto rientra nella sfera scarna ma costitutiva dell’equità, salvo ciò che manifesta un grado di ingiustizia, appunto di iniquità, non sopportabile, palese, al di là di ogni ragionevole dubbio, con ogni evidenza, secondo ogni intuizione razionale». (pp. 90-91)
Pertanto Radbruch parlò di “ingiustizia legale” e di “giustizia sovralegale”: la prima sistematicamente perpetrata, la seconda regolarmente ignorata dai nazisti.

Sempre Radbruch scriveva, anticipando – fa notare Lalatta Costerbosa – Hanna Arendt di quindici anni: «Fu grazie a due principi che il nazionalsocialismo seppe incatenare a sé i suoi seguaci, da un lato i soldati, dall’altro i giuristi: “Un ordine è un ordine!” e “La legge è la legge”». (p. 97) E proprio il secondo principio, secondo l’imperante pensiero giuspositivistico, valeva incondizionatamente.
Per Radbruch invece tre sono i valori che conferiscono validità alla legge: in ordine di importanza, la giustizia, la certezza del diritto e l’utilità o conformità allo scopo. Per il filosofo del diritto tedesco, pertanto, «giusta è la legge certa che sancisce l’uguaglianza tra le persone entro la comunità umana». (p. 100) Ma anche alla certezza del diritto, come vuole la tradizione del giuspositivismo, vanno riconosciuti valore ed importanza e pertanto, secondo Radbruch, in caso di conflitto tra giustizia e certezza del diritto occorre individuare un criterio-soglia al di sotto del quale è opportuno far prevalere la certezza anche a fronte di inutilità ed ingiustizia della legge, ma al di sopra del quale la certezza non ha più valore e la legge diventa un torto, o meglio si capovolge nel suo opposto, in non-diritto.

Questo criterio-soglia, questo limite fu violato sistematicamente per tutta la durata del Terzo Reich, che si presenta quindi come un esempio nella storia dei sistemi giuridici di “Stato del non-diritto”.
Osserva infine Costerbosa: «Ma se non erano leggi [quelle naziste], non era scontato il dovere di sottomissione e a decadere sarebbero stati anche gli effetti giuridici da esse generati». (p. 98)
Milioni di tedeschi, invece, assolutizzarono dogmaticamente il precetto giuspositivistico della legge per la legge e nascondendosi dietro questo paravento di immorale ed illegale legalità prestarono al regime la loro disponibilità al male e al crimine genocida.

Nel capitolo quarto (Il problema delle motivazioni) è di nuovo Alberto Burgio a portare avanti l’interessante ed approfondita analisi sull’etica del genocidio nella Germania nazista, affrontando la questione decisiva delle intenzioni e dei motivi, delle convinzioni e dei pensieri che mossero la volontà di tanti tedeschi a seguire e a realizzare i programmi omicidi del governo. La storiografia, pur non potendo eludere completamente il problema, fatica a formulare una risposta e pertanto il discorso si estende ad altri approcci, alla sociologia storica, alla psicologia sociale, ma anche alla antropologia, alla psichiatria e alla psicanalisi.

Secondo Burgio, come è importante tenere conto del fatto che il nazismo ha rappresentato una cesura epocale che ha marcato una discontinuità profonda nella storia contemporanea, così lo è altrettanto cogliere i nessi e le relazioni di continuità con il contesto storico di lungo periodo nel quale si colloca, con la tradizione della storia, della cultura e della mentalità tedesche, cioè considerare la «capacità che il regime ebbe non solo di intercettare bisogni della popolazione, ma anche di porsi in comunicazione con il senso comune del tedesco medio». (p. 164) In queste pagine Burgio si serve soprattutto di Norbert Elias che nel suo I tedeschi definisce «l’”habitus nazionale” tedesco, segnato in modo particolare da due corollari del militarismo: il bisogno di ordine (la deferenza verso l’autorità, la gerarchia, la disciplina e l’obbedienza) e il nazionalismo aggressivo (a sua volta risultante dalla combinazione di comunitarismo e imperialismo)». (p. 165)

nazi0009Il principio dell’autorità e di conseguenza quelli della incondizionata sottomissione, della esecuzione scrupolosa degli ordini, del rispetto delle gerarchie costituite (dallo Stato all’esercito, dalla scuola alla famiglia, ecc) erano componenti essenziali e determinanti della mentalità e del costume medi dei tedeschi nati a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La tipologia di relazione interpersonale e sociale paradigmatica divenne quella gerarchica (in sostanza militare) che si estese a tutti i settori della società. Questo fenomeno da un lato produsse la tendenza dei tedeschi ad affidarsi agli ”ordini superiori”, a delegare al più alto per grado o per ruolo l’onere e la responsabilità della decisione; dall’altro – osserva Burgio – produsse «con ogni probabilità anche l’assunzione feticistica del principio di prestazione, in base al quale non conta cosa l’autorità ordini di fare ma il farlo bene, fino in fondo, soddisfacendo le aspettative dei superiori». (p. 166)
Conseguenza del principio di prestazione, come modalità di approccio al proprio lavoro o alla azione in genere che si è chiamati a svolgere, è da ritenersi anche la «peculiare Gründlichkeit tedesca», ossia la “maniacale scrupolosità”, consistente nel “bisogno” di portare fino in fondo l’incarico assunto, di svolgere a tutti i costi il compito assegnato, quasi identificandosi completamente con quell’incarico. Come fece notare Arendt, per un tedesco «essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce». (p. 95)

Evidentemente una mentalità ed un costume di questo genere conducono alla deresponsabilizzazione, alla rinuncia al dovere di giudicare del valore delle cose, del bene e del male delle azioni compiute; produce – dice Burgio – il passaggio dalla “coscienza” alla “coscienziosità”, dalla consapevolezza critica di sé e del proprio agire alla scrupolosa, ma irresponsabile, esecuzione di un compito.
Il militarismo prussiano, ereditato dalla Germania di Bismarck e di seguito guglielmina, esercitò senza alcun dubbio un ruolo determinante nella modellatura di tale forma mentis, prona dinanzi all’autorità, ligia al dovere, solerte e meticolosa nella esecuzione dei compiti, ma è soprattutto al modello educativo che si rivolge l’attenta analisi di Burgio, sulla scorta delle considerazioni di Elias: «un modello educativo mutuato dall’organizzazione militare e teso a consolidare l’autorità costituita e i sistemi gerarchici di comando, inibendo e delegittimando anche sul piano morale l’esercizio individuale dell’autonomia critica e plasmando, tendenzialmente, personalità per le quali le autocostrizioni imposte dalla coscienza funzionano soltanto se assoggettate a loro volta all’”eterocostrizione” di un potere superiore». (p. 167)

Al bisogno di ordine, al feticismo della disciplina e dell’autorità si collegò poi l’altra istanza portante dell’habitus nazionale tedesco, cioè il nazionalismo aggressivo, che soprattutto in età guglielmina divenne il principio guida della politica estera tedesca (Weltpolitik). Burgio considera le ben note differenze concettuali sottese alle due parole che nella lingua tedesca si usano per esprimere il concetto di patria: Vaterland e Heimat.
Vaterland letteralmente significa “padre-patria”, “terra-padre”, è la patria intesa come nazione che assume i tratti autoritari, duri ed impositivi del padre prepotente che pretende di essere obbedito senza remore; Heimat invece e la “piccola patria”, cioè il luogo di nascita, la “terra-madre”, accogliente e rassicurante in quanto custode dell’identità e dell’animo del Volk.
In realtà, al di là delle differenze, i due concetti sono complementari e si cementarono tra loro, creando un’ideologia organicistica e comunitaria (Gemeinschaft) e popolare (Volk), su cui si innestò poi il mito della omogeneità e della purezza della comunità, che presto divenne mito della purezza del “sangue” e del suo vitale legame con il “suolo” e infine mito della razza, della purezza e superiorità della Volksgemeinschaft ariana.

Il bisogno comunitario di sentirsi parte di un corpo organico, di una comunità coesa tenuta assieme dal feticismo della disciplina, dal principio di prestazione e dell’obbedienza cieca produsse – osserva Burgio – «una paradossale etica della responsabilità che tendeva a risolversi nella sua antitesi: in un’etica della “minorità” (del servilismo e della complicità) che nobilitava la rinuncia all’autonomia e induceva alla delega della responsabilità personale a beneficio dei poteri sovraordinati». (pp. 174-175) Non a caso Burgio usa il temine “minorità” per qualificare questa “paradossale” etica, che sorda all’illuministico e liberatorio appello kantiano di abbandonare lo “stato di minorità”, di esso faceva il proprio habitus.
Il logico corollario di una simile ideologia comunitaria fu un’aggressiva mentalità manichea, portata all’esclusione e alla contrapposizione del gruppo di “noi” al gruppo di “loro”, di chi è fuori dalla comunità o, peggio ancora, è ritenuto un pericolo, una minaccia.

Hitler e il nazismo non si limitarono ad ereditare i caratteri dell’habitus nazionale germanico, ma li portarono alla loro suprema espressione e fornirono un codice di (non)valori tagliato e cucito su misura della forma mentis qui descritta: una autentica etica del disumano che la maggioranza del popolo tedesco non faticò particolarmente ad introiettare. In un contesto oltremodo inquieto e problematico, come quello della sconfitta nella Grande Guerra e dei trattati di Versailles, delle crisi economiche ed in particolare di quella del ’29; in un clima di delusione, disorientamento, di esacerbato rancore e di perdita di fiducia nelle istituzioni della repubblica e nei suoi partiti, il nazismo seppe incanalare le angosce dei tedeschi e Hitler compì un lavoro di emersione, estraniazione e ipostatizzazione dei “demoni” che latenti erano cresciuti ed avevano prosperato nell’animo del popolo. I traumi e le paure furono proiettati fuori dalla coscienza collettiva e oggettivati in una serie di nemici concreti contro i quali combattere per la salvaguardia della comunità. Dinanzi al disordine e al caos politico degli ultimi anni di Weimar, «il desiderio di sicurezza e di ordine divenne impellente, e così la domanda di unità, di appartenenza, di protezione e di rassicurazione. Alle paure […] molti tedeschi reagirono invocando lo spirito della comunità germanica. […] Chiedevano nuove certezze, nuovi miti redentivi. […] sulla scelta di consegnare la Germania ai nazisti influì […] una spasmodica attesa di redenzione e di fusione in una collettività mistica». (pp. 180-181)

E il nazismo ed il suo leader carismatico tutto questo furono in grado di fornirlo al popolo tedesco, ma ad un prezzo altissimo, quello della rinuncia alla coscienza e alla volontà individuali in funzione della fusione con una comunità di uomini “minori”, irresponsabili, che hanno rinunciato alla propria autonomia di individui liberi e consapevoli; uomini che furono pronti ad adottare la “tavola dei valori” di una nuova etica che – Burgio sottolinea con forza come questo sia uno degli aspetti distintivi e più significativi del nazismo – il regime pretese di elaborare attraverso la negazione e il capovolgimento dei precetti etici tradizionali ed in particolare cristiani. Nuovi valori nazisti in cui credere, anche solo parzialmente, o in cui fingere di riporre fiducia al fine di innescare un meccanismo di rassicurante autoinganno assolutorio utile per la gestione di un conflitto morale che non poteva non insorgere, anche nei carnefici più violenti, davanti all’orrore da loro stessi prodotto.

Di grande interesse sono le pagine in cui Burgio redige la tavola di questi valori etici nazisti, partendo dall’assunto per cui, come ogni dottrina etica, anche quella nazista associa il bene alla vita, ma il valore della vita non viene più declinato in termini universalistici, ma in termini particolaristici ed esclusivi, compartimentati. A contare è solo la vita del Volk, la sua salute e quella dei Volksgenossen, non quella degli altri, che, al contrario, diviene ostacolo, pericolo da combattere. Pertanto, con un paradossale rovesciamento dei termini, per garantire la vita di alcuni uomini è buono e moralmente legittimo ucciderne altri (altre razze o le vite “non degne” perché malate, ecc). È una «etica etnocentrica e razzista […] intessuta di “valori” correlati alla superiorità dello Herrenvolk». (p. 200) «Giungiamo così rapidamente al cuore dell’etica nazista, dove la distruzione dell’umanità come universale si connette alla eroicizzazione dei “carnefici” e questa alla produzione di un lessico dell’orgoglio genocida» (p. 204), a cui fa da contraltare – ancora una volta per ribaltamento dei criteri morali tradizionali – la colpevolizzazione delle vittime. Ne consegue che la somma virtù divenne la “durezza” – cioè la spietatezza, il disprezzo per la compassione e per ogni altra forma di sentimento umanitario – a cui associare la più ferrea abnegazione nel portare avanti l’opera di realizzazione di una volontà altrui: quella del Führer.
Ancora una volta – come ci insegna Burgio – decisiva fu la scelta, dei carnefici, dei collaboratori e di buona parte dei tedeschi, di non decidere, di “farsi decidere da altri”; ma si trattò pur sempre di una decisone, che richiede l’assunzione di responsabilità.

E sulla natura e sulle diverse tipologie della responsabilità ragiona il quinto capitolo (La molteplice responsabilità) scritto da Marina Lalatta Costerbosa, che, dopo aver ricostruito il panorama completo delle forme di responsabilità, si concentra su quella più pertinente alla problematica affrontata dal saggio: la “responsabilità morale e personale”, imputabile ai perpetratori diretti del genocidio nazista e ai loro collaboratori, innanzi tutto e al popolo tedesco nel suo complesso, di conseguenza. Si tratta – scrive l’autrice – «della responsabilità riferita ad un soggetto umano capace di intendere e di volere, quella responsabilità che ha a che fare con l’agire dell’uomo. E questo non sotto il profilo giuridico (civile e penale) […] bensì dal punto di vista morale e nelle sue diverse gradazioni, ovvero, a seconda dei differenti livelli di coinvolgimento e di intenzionalità nell’azione e nelle condotte d’azione sotto esame». (p. 230)
Fanno da sfondo generale alle considerazioni di Costerbosa le riflessioni di Hans Jonas e del suo Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica in cui il filosofo tedesco chiarisce come la responsabilità, pur non costituendo di per sé ancora la morale e non ponendo da sé degli scopi all’azione, sia la condizione preliminare della morale stessa. La responsabilità, continua Lalatta Costerbosa, significa «capacità di autocontrollo rispetto ad azioni che fuoriuscirebbero dal perimetro di ciò che è ritenuto moralmente lecito» (p. 232), ciò vuol dire «capacità di impedire a se stessi di compiere un’azione determinata, rispettando la norma che la vieta». (p. 239)

Pertanto, la responsabilità, presupposto e condizione dell’azione morale, a sua volta presuppone la deliberazione autonoma, l’autonomia e l’indipendenza del soggetto morale, come bene ha chiarito nella Critica della Ragion pratica Kant, recisamente contrario a letture deterministiche dell’esperienza etica, oggigiorno rilanciate come conseguenza dello sviluppo delle neuroscienze.
Quattro sono secondo Costerbosa le condizioni di possibilità della responsabilità morale: l’assenza di qualsiasi forma di determinismo etico; la consapevolezza, almeno parziale, delle conseguenze dell’azione intrapresa; l’autocontrollo, come sopra definito; la percezione del sentimento di responsabilità.

Ancora il filosofo di Königsberg ed Agostino, letti attraverso Paul Ricoeur, fanno da punti di riferimento essenziali della breve, ma molto interessante, ricostruzione operata dalla studiosa di un problema annoso della riflessione filosofica (e teologica), quello della natura ed origine del male; il problema della teodicea.
La teoria agostiniana della non sostanzialità del male, interpretato come un nihil privativum, come una privatio boni, a cui fa da contraltare l’equazione tra essere e bontà e da corollario l’incommensurabile distanza ontica tra creatore e creatura, causa dell’imperfezione dell’uomo e condizione di possibilità del peccato, cioè del suo libero allontanamento dalla via maestra del bene di dio, trovava una soluzione (che incontrò molta fortuna) tanto sul piano ontologico della spiegazione della natura del male in relazione all’essere e a dio, quanto sul piano morale dell’origine dell’azione malvagia.
Secondo Costerbosa e come osserva Ricoeur, i termini della riflessione filosofica sul male dopo secoli di riproposizione del paradigma agostiniano mutano grazie a Kant, con il quale viene meno l’impostazione onto-teologica della teodicea e il male riguarda solo la sfera pratica e soggettiva dell’azione e della riflessione morale, non più quella oggettiva dell’ontologia; con Kant «non si può più domandare donde viene il male, ma donde viene che noi lo facciamo». (p. 245)
È un processo di laicizzazione (il male radicale prende il posto del peccato originale) e di soggettivizzazione della questione del male quello che avviene con Kant, che pone al centro dell’esperienza morale l’autonomia del soggetto che avverte in sé la propensione al male a fronte della predisposizione al bene come termini estremi della libera scelta individuale.

E ancora a Kant fa riferimento Marina Lalatta Costerbosa per definire il concetto di dignità umana e per ricondurre il discorso al tema delle responsabilità dei crimini nazisti. Il dovere del rispetto della dignità dell’uomo in se stessi e negli altri è imperativo categorico assoluto per Kant e «l’idea kantiana di dignità riesce a spiegare via negationis l’ottundimento della responsabilità» avvenuto in modo generalizzato nella società tedesca del dodicennio nazista: offende e perde la propria dignità di uomo il burocrate che ottusamente esegue il proprio compito senza farsi domande; nega e violenta la dignità dell’altro il carnefice che scarica la sua furia criminale su vittime precedentemente disumanizzate; e la vittima cerca disperatamente di difendere o di trattenere una minima parte di quella dignità umana che le viene strappata dalla violenza altrui.

Laddove e quando l’universale etico del rispetto della dignità umana lascia il posto al disprezzo della vita si producono le condizioni affinché gli uomini possano compiere l’irresponsabile scelta del male estremo. Questo ci fa pensare alle riflessioni che Karl Jaspers nel 1946 propose nel suo La questione della colpa circa le responsabilità del popolo tedesco. Come è noto il filosofo articolava il concetto di colpa secondo quattro tipologie, tutte imputabili ai tedeschi, individualmente e collettivamente – colpa giuridica, politica, morale ed infine metafisica – e l’ultima, la “colpa metafisica”, consiste nella violazione del principio di solidarietà che dovrebbe unire gli uomini tra loro e che rende ogni individuo corresponsabile in parte delle ingiustizie e dei torti subiti dall’umanità, soprattutto quando questi avvengono in sua presenza o quando ne è a conoscenza e pertanto non ha fatto tutto ciò che avrebbe potuto per impedirli.

Hannah-Arendt009Il riferimento a Jaspers è funzionale al passaggio all’analisi del sesto ed ultimo capitolo di Orgoglio e genocidio (Un’ottusità deliberata), in cui Alberto Burgio fa risalire proprio al confronto tra Hanna Arendt e il maestro Karl Jaspers, interrottosi nel 1933 e ripreso nel 1946, il ripensamento compiuto dalla filosofa di Hannover delle posizioni sul nazismo da lei stessa espresse in Le origini del totalitarismo, nonostante il carteggio tra il maestro e l’allieva di un tempo avvenga cinque anni prima della pubblicazione delle Origini (1951) e non nei dodici che separano questa opera dalla Banalità del male (1963), in cui tale ripensamento produce i suoi principali e più importanti effetti.
Nello scritto del 1951, infatti, il discorso della Arendt muove dall’analisi della società di massa, nella sua versione totalitaria e sfocia in conclusioni rigidamente deterministiche, che, applicando il modello eterodirettivo, pongono l’accento sulla «assoluta subordinazione degli individui assoggettati al potere della dirigenza nazista, ridotti a semplici marionette» sedotte dall’ideologia e mosse dalla pervasiva propaganda capace di creare un mondo fittizio «nel quale milioni di tedeschi sarebbero vissuti per dodici anni come prigionieri ignari» (p. 287) e pertanto anche scarsamente responsabili delle loro azioni; «uomini in senso proprio de-menti, privi di volontà e di coscienza». (p. 289)

Ma Burgio mostra come in uno scritto del 1945, Colpa organizzata e responsabilità universale, e nelle comunicazioni con Jaspers, Arendt avesse già iniziato ad elaborare concetti che, dopo un periodo di latenza di più di quindici anni, sarebbero stati poi alla base del saggio sul processo ad Eichmann. In questo scritto, infatti, troviamo un primo abbozzo del concetto di “normalità” di quegli uomini che si trasformarono in carnefici, grazie alla capacità del regime di sfruttare l’antropologia del “bravo cittadino borghese”, «buon lavoratore e rispettabile “pater familias”, preoccupato del benessere del proprio nucleo famigliare e tendenzialmente indifferente verso la sfera pubblica» (p.295), che in cambio di sicurezza e tutela degli interessi privati prestò al regime la propria disponibilità all’azione criminale, rassicurato dal senso di impunità e dalla irresponsabilità prodotti dall’alibi autoassolutorio della catena di comando, degli ordini superiori ricevuti all’intero dell’apparato burocratico dello stato. E – ribadisce con forza l’autore – si trattò «di uno scambio nel quale il regime aveva concesso vantaggi materiali e ottenuto consenso e complicità. Ma uno scambio del genere […] chiamava in causa la libera scelta dei tedeschi di accettare le proposte del regime […]. Da una parte benessere e sicurezza, con in più la garanzia dell’impunità; dall’altra, la violenza nei confronti dei deboli, dei diversi, degli estranei: una scelta sin troppo ragionevole (propria di accorti homines oeconomici) e persino paradossalmente morale, dettata dal senso di responsabilità verso la famiglia». (p.296)

EichmannNe La banalità del male Arendt sviluppa questa linea di pensiero e la applica allo studio di un caso che intende presentare come paradigmatico, il significato del quale cioè trascende la specificità del caso medesimo e si allarga fino a comprendere e a spiegare il comportamento della maggioranza dei tedeschi: il processo svoltosi a Gerusalemme contro Adolf Eichmann. Per rispondere alla domanda essenziale – che, come abbiamo visto, secondo Burgio solo la filosofia è in grado di affrontare in modo pertinente – “perché Eichmann ha voluto essere un carnefice?”, Arendt enuclea e descrive una nuova e desolante configurazione della mente, quella della “ottusità morale”, della “stupidità”, della Banalität, come già l’aveva definita Jaspers.
Si tratta della questione filosofica dell’enigma della libertà dell’uomo, di un uomo consapevole e libero e al tempo stesso “normale”, cioè non affetto da turbe mentali o mentalmente debole, che prende la decisione autonoma di compiere il male, un male criminale ed estremo. Ne consegue che – dice Burgio – quello che «Arendt elabora è un dispositivo filosofico, teoretico, che non si limita a recepire e riformulare problematiche storiografiche o psicosociali ma le integra con l’analisi dello stile cognitivo e riflessivo del soggetto, e della sua prospettiva morale ed etica […] sulla base del presupposto dell’autonomia e della responsabilità personale». (p. 299)

Il male compiuto da uomini come Eichmann è vuoto, privo di senso e di profondità, superficiale, insensatamente eccessivo e in tal senso “banale”; può distruggere il mondo perché – scrive Hanna Arendt – «si espande sulla sua superficie come un fungo» (p. 303), si propaga come un’epidemia ma non ha la “profondità” del “male radicale” kantiano. E chi è colui che pratica questo male “banale” e nella sua banalità estremo e senza limite? La risposta di Arendt è nota: l’attore di questa esperienza è un soggetto “insulso”, “sconsiderato”, un uomo “privo di pensiero”, thoughtlessness.
Ma il pensiero di cui si denuncia l’assenza non è né quello logico, del calcolo e del ragionamento strumentale – di cui Eichmann diede ampiamente ed indiscutibilmente prova – né quello argomentativo, colto o erudito. A mancare è la capacità di riflessione autonoma, critica e disinteressata sul senso delle cose, sul proprio e l’altrui esserci, sul valore e il senso della vita e del mondo. È la razionalità intesa come capacità di discernimento tra ciò che è giusto ed ingiusto, tra il bene ed il male, tra ciò che è umano e ciò che non lo è; è il pensiero inteso come la capacità di giudicare del valore delle cose e delle azioni.

Se – riflette Burgio – tutti, come voleva il Cartesio del Discorso sul metodo, sono in grado di saper ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, in quanto tutti gli uomini posseggono la quantità necessaria e sufficiente di buon senso per tale scopo, allora ne consegue che chi si astiene dall’esercizio della ragione così intesa, dall’applicazione del buon senso, lo fa per scelta, per volontaria decisione di – potremmo dirlo con Max Horkheimer di Eclisse della ragione – identificarsi totalmente con una “razionalità soggettiva”, meramente calcolistica, utilitaristica ed avalutativa, allontanando da sé la “razionalità oggettiva”, critica e valutativa, che guida l’uomo nell’atto della comprensione e del giudizio.

È in questo modo – secondo Arendt – che l’uomo si predispone all’eterodirezione, all’adesione incondizionata alle regole e ai poteri vigenti, astenendosi dal valutare e dal pensare criticamente ed autonomamente. Ma si tratta comunque e sempre di una libera predisposizione alla sottomissione, di una volontaria decisione di abbandonare la propria volontà per identificarsi con quella altrui, fino al punto che tale condizione di “ottusità della mente”, di “assenza di pensiero”, di “annullamento delle capacità di discernimento e giudizio” diventa un vero e proprio abito mentale, una “seconda natura”, con la quale ci si identifica totalmente.
La “seconda natura” dell’”assenza di pensiero” produce una chiusura narcisistica dell’individuo su se stesso; una fissazione manichea sul proprio gruppo di appartenenza che esclude recisamente gli altri, i diversi; un’incapacità sostanziale di immedesimarsi negli altri e di nutrire compassione.
Si produce un effetto di “compartimentazione” della coscienza morale, che include solo il gruppo di “noi” ed esclude quello degli “altri”; un blocco di quel dialogo interiore che imporrebbe ad ogni individuo il confronto con la propria coscienza; infine lo scivolamento in una condizione di “minorità” morale, cioè di esternalizzazione e perdita della propria coscienza e della propria volontà.

Ora, se il ragionamento paradigmatico ed analogico di Hanna Arendt – come ritiene Burgio – è ancora pienamente valido e pertinente, si deve concludere che nella Germania tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento si sia verificato un vero e proprio “crollo morale”, una “pandemia di ottusità morale”, che, seppur con responsabilità differenti e a livelli di coinvolgimento molto diversi tra loro, ha travolto ed “infettato”, come Eichmann, tanti milioni di cittadini “normali” del Terzo Reich.

Per concludere questa lunga presentazione di un libro ricchissimo ed interessantissimo, pensiamo che – proprio per dare maggiore fondatezza all’idea della valenza paradigmatica della “normalità criminale” di Eichmann e per evitare che la spiegazione del passaggio da “uno” a “molti”, dalla minoranza dei casi esemplari dei grandi criminali alla maggioranza degli “uomini della strada” si trasformi, paradossalmente, in una nuova forma di meccanicismo di tipo analogico (come i pochi… così i molti) – sia opportuno, come d’altra parte anche Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa riteniamo sostengano, fare interagire ed integrare maggiormente i due piani dell’autonomia (cioè della scelta soggettiva, libera e responsabile) e dell’eteronomia (cioè del condizionamento, del contesto, dell’intervento esogeno), della libertà soggettiva e della costrizione oggettiva, dell’individuo e della struttura.

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Il reale delle/nelle immagini. L’onda mediale https://www.carmillaonline.com/2016/03/15/il-reale-dellenelle-immagini-londa-mediale/ Tue, 15 Mar 2016 22:30:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28830 di Gioacchino Toni

onda-mediale_coverAndrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 462 pagine, € 25,00

L’onda mediale rappresenta l’ultimo volume della monumentale tetralogia, di circa milleduecento pagine complessive, dedicata da Andrea Rabbito alle illusioni create dalle nuove immagini. Gli studi di Rabbito rappresentano un contributo fondamentale per chi voglia approfondire le peculiarità delle immagini proprie della contemporaneità ed i rapporti che si vengono a creare tra queste e gli spettatori più o meno attivi nei loro confronti. L’ultimo saggio, qua preso in esame, riparte da [...]]]> di Gioacchino Toni

onda-mediale_coverAndrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 462 pagine, € 25,00

L’onda mediale rappresenta l’ultimo volume della monumentale tetralogia, di circa milleduecento pagine complessive, dedicata da Andrea Rabbito alle illusioni create dalle nuove immagini. Gli studi di Rabbito rappresentano un contributo fondamentale per chi voglia approfondire le peculiarità delle immagini proprie della contemporaneità ed i rapporti che si vengono a creare tra queste e gli spettatori più o meno attivi nei loro confronti.
L’ultimo saggio, qua preso in esame, riparte da quel confronto di teorie e prassi artistiche su cui si era concentrato il precedetene volume (Il moderno e la crepa. Dialogo con Mario Missiroli, 2012), che a sua volta rifletteva su questioni analizzate nei primi due saggi (Il cinema è sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità, 2012 – L’illusione e l’inganno. Dal Barocco al cinema, 2010).

Nell’ultimo volume pubblicato, Rabbito sostiene che lo spettatore, di fronte alle nuove immagini, si viene a trovare in una situazione del tutto simile a quella del surfista che deve concentrarsi per mantenere l’equilibrio sull’onda ed al contempo assecondarla. È per questo che l’autore parla, a proposito delle nuove immagini, di un’“onda mediale” che impone allo spettatore «un certo atteggiamento in cui l’essere incantato da ciò che sta vivendo viaggia in parallelo con una particolare attenzione all’onda che lo trascina e lo spinge nell’Oltremondo» (p. 104). Lo spettatore concentrandosi sul film risulterebbe distratto «non solo dall’influenza che riceve dalla connotazione data alla realtà rappresentata, dal suo immedesimarsi con l’apparecchio e con i personaggi, ma anche dal fatto che lo stesso scorrere del flusso non gli offre tempo di riflessione» (pp. 106-107). Inoltre, tendenzialmente, è lo stesso spettatore a non essere interessato a riflettere attentamente su quanto avviene in quanto il suo ruolo richiede di “stare al gioco”.

Il voler stare sull’onda, pertanto, sostiene l’autore, richiederebbe sia la capacità di lasciarsi trasportare dagli avvenimenti che di analizzarli criticamente. Senza un’adeguata formazione, i processi mentali dello spettatore finiscono con l’assecondare il movimento del flusso e le sensazioni provate risultano quelle suggerite dall’onda. «Questo assecondare si traduce così in un’accettazione di ciò che vediamo, della connotazione data al reale, dell’assimilazione del sapere e dei messaggi insiti nell’onda; diventiamo passivi e facili ad assorbire le informazioni offerte mediante le nuove immagini audiovisive» (p. 107). Secondo Rabbito lo spettatore delle nuove immagini audiovisive tende ad accontentarsi di scegliere tra due modalità di visione: una visione incantata, che non gli permette di leggere criticamente i vari aspetti della rappresentazione, ed una visione disinteressata. In entrambi i casi, in assenza di competenze che permettano di gestire adeguatamente l’onda mediale, lo spettatore risulta in balia dell’onda.

Al fine di affrontare adeguatamente L’onda mediale, occorre ricostruire le premesse su cui si basa il lavoro dello studioso che, per analizzare le nuove immagini, parte da lontano, dal ruolo per certi versi anticipatorio svolto dalle poetiche barocche. Già Erwin Panofsky (Tre saggi sullo stile), aveva individuato nel Barocco secentesco l’ingresso nella modernità; quel mutamento nel percepire il reale avrebbe aperto le porte a problematiche ed a modalità di rappresentazione di stretta attualità e di ciò hanno avuto modo di riflettere, tra gli altri, studiosi come Luciano Anceschi, Carlo Argan, Gilles Deleuze, Paul Virilio, Jean Baudrillard e lo stesso André Bazin che giunge ad indicare nella fotografia il compimento del Barocco.

il_moderno_e_la__5139c723c290aSull’onda di tali riflessioni, Rabbito individua il paradosso che vede da un lato il Barocco come fondamento delle nuove immagini mentre, dall’altro, queste sembrano prendere decisamente le distanze dalla logica secentesca. «Questo perché il Barocco, attraverso la sua ricerca per la resa del doppio del reale, cercava di far riflettere sulla fallibilità dei sensi, sull’inganno delle apparenze della realtà, e di conseguenza sulla fallacità delle rappresentazioni e su come queste creino illusioni, ci confondano e ci influenzino. Le nuove immagini invece creano un doppio del reale portando ad un risultato opposto: ovvero quello di affidarci al reale, alla nostre percezioni e alle rappresentazioni, e viene accentuato particolarmente il piacere ludico e spettacolare delle illusioni che queste immagini creano, dimostrando disinteresse verso quelle riflessioni profonde che tali immagini possono far scaturire» (p. 16). L’illusorietà dell’immagine nel Barocco intendeva mettere in discussione la realtà e le rappresentazioni, l’illusione serviva a far riflettere sull’illusione, le nuove immagini tendono invece ad offrirsi come realtà vera e propria. Recuperare la logica barocca, secondo l’autore, risulta utile al fine di strutturare una visione complessa del reale, capace di opporsi alle illusioni.

Al recupero della rappresentazione barocca può essere affiancata una concezione artistica brechtiana che vede nella forma epica un antidoto all’abbandonarsi del pubblico all’illusione messa in scena dalle immagini. Attraverso tale recupero, il regista Mario Missiroli, ad esempio, intende contrastare l’illusione ingannevole prodotta dalle nuove immagini e la loro semplificazione del reale. «La forma barocca e la forma epica brechtiana [sono in grado di] opporsi alle illusioni, a far riflettere il proprio spettatore, e a diffondere una visione complessa e moderna della realtà» (p. 18).
Ad essere indagate in questo saggio, L’onda mediale, sono proprio tali “forme di resistenza” inserite nelle opere cinematografiche. Nel saggio l’analisi si concentra su opere come Otello (1952) ed F for Fake (1973) di Orson Welles, Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher. In tali lungometraggi si evidenziano quelle illusioni, quelle riformulazioni del reale, create dalle immagini (classiche e nuove) che tanta influenza esercitano sullo spettatore.

Se, in generale, tutte le immagini hanno un ruolo importante nello strutturarsi del nostro immaginario, con ciò che ne consegue in termini di modalità con cui ci rapportiamo alla realtà, a maggior ragione ciò vale per le nuove immagini che, capaci come sono di offrirci una sensazione di duplicazione del reale, sembrano quasi in grado di farci percepire la presenza stessa dei soggetti rappresentatati.

Se già Max Horkheimer e Theodor W. Adorno (La dialettica dell’illuminismo) insistono su quanto l’immagine cinematografica influenzi il modo con cui gli spettatori osservano la realtà, le nuove immagini ed i nuovi strumenti di comunicazione non sembrerebbero limitarsi a ad offrire modelli ed interpretazioni del reale ma, secondo studiosi come Marshall McLuhan (La galassia Gutenberg – Gli strumenti del comunicare), Harold Innis (Le tendenze della comunicazione) e Joshua Meyrowitz (Oltre il senso del luogo), questi inciderebbero anche sui processi mentali degli individui, sul loro modo di pensare, comportarsi e riflettere.
Walter Benjamin stesso sostiene (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) che nel rapporto tra nuove immagini e pubblico, si assiste da un lato ad un adeguarsi della realtà delle immagini e dei media alla massa e dall’altro ad un adeguarsi della massa alla realtà delle immagini e dei media.

cinema_sogno_coverLa particolare natura dei prodotti audiovisivi, il loro linguaggio apparentemente così intuitivo, tende a far credere all’osservatore di essere perfettamente in grado di leggerli tanto che, come ha osservato Walter Benjamin, gli individui non percepiscono affatto la necessità di decifrare la stratificazione di messaggi insiti negli audiovisivi. I linguaggi classici (es. pittura e scrittura), sostiene Rabbito, «propongono un tipo di partecipazione diversa da quella che realizzano i mass media e i new media, in quanto l’immagine che offrono i primi linguaggi al loro utente non è immediata e intuitiva come quella fotografica, cinematografica, televisiva, video» (p. 45), dunque, continua lo studioso, «avviene che l’immagine fotografica e cinematografica inducano ad avere l’illusione di presenza dell’oggetto immortalato, differentemente dai linguaggi classici che esplicitano la natura di rappresentazione della loro immagine» (p. 45). Il modello proposto non è “descritto o decantato: è rappresentato!”, sostiene Pier Paolo Pasolini a metà anni ’70 riferendosi alla televisione, a proposito di quella che, non a caso, all’epoca definisce la “rivoluzione antropologica” italiana.

La nuova immagine, nel suo illudere una perfetta duplicazione del reale, non provoca più la sensazione che in essa il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del rappresentante e la percezione di trovarci il rappresentato presente davanti agli occhi. «A partire dalla fotografia, la nuova immagine dimostra la forza suggestiva della sua magia di secondo grado: la costruzione artificiosa scompare, il soggetto ci appare mediante il supporto, e scomparendo tale supporto il soggetto si offre alla nostra vista in maniera apparentemente immediata, e si impone la sua presenza» (p. 55).
Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario) individua nel cinema il soddisfacimento del mito di Narciso di poter vedere la duplicazione del reale e di potervisi perdere in esso. «Volgiamo godere della vertigine del doppio […] vogliamo immetterci in questo simulacro, sottraendoci da quello reale» (p. 58). Indubbiamente il cinema ha portato il livello di illusione a livelli mai raggiunti prima e tale livello sarà consegnato tanto alla televisione quanto al video.

Relativamente alle nuove immagini, Rabbito propone di operare una distinzione tra nuove immagini statiche (fotografia) e nuove immagini audiovisive (cinema, tv e video) e, a proposito di queste ultime, diversi studiosi hanno messo in luce il livello superiore di coinvolgimento rispetto alle immagini statiche. Se Edgar Morin (Lo spirito del tempo) nel riferirsi agli audiovisivi parla di “involucro polifonico di tutti i linguaggi” e Paul Virilio (L’arte dell’accecamento) di “rivelazione multimediatica”, Rabbito sottolinea come già Sergej Michajlovič Ejzenštejn (Il montaggio) ne ha, ben prima, studiato la portata indicando, a tal proposito, la necessità di un “montaggio polifonico” in grado di tener presente i diversi linguaggi che compongono l’arte cinematografica.

Se la “magia di primo grado” rende manifesta la convivenza tra rappresentazione e rappresentato, nella magia di secondo grado, raggiunta da tutte le nuove immagini, tale convivenza scompare; ad apparire è soltanto il rappresentato. Rabbito sostiene che mentre l’illusione secentesca mirava a mettere in crisi le certezze dell’uomo, evidenziando come ogni espressione del mondo possa essere mendace, nelle nuove immagini lo spirito critico dell’illusione viene meno; ora lo spettatore tende a credere a ciò che vede senza mettere in discussione la realtà rappresentata.

Nei precedenti volumi Rabbito ha presentato tre livelli di finzione, ciascuno dei quali analizzato nei suoi tre gradi, minimo, parziale ed intenso. Vale la pena ricapitolare brevemente le differenze principali tra i tre livelli. La finzione primaria rappresenta «il carattere soggettivo, concettuale, relativo e trasformante della nuova immagine che modifica il senso originario del fenomeno immortalato» (p. 77) e la possiamo rintracciare nelle nuove immagini (statiche ed audiovisive) «che dichiarano di voler documentare la realtà in termini oggettivi» (p. 77). La finzione secondaria la ritroviamo nelle nuove immagini che intendono documentare il reale, solo che in questo caso «la trasfigurazione del senso originario che si realizza non è accidentale, ma voluto dall’autore, il quale intende stravolgere intenzionalmente la realtà dei fatti di ciò che registra, senza avvertire il suo spettatore della trasfigurazione, anzi spingendo a far credere che ciò è in immagine sia una documentazione attendibile e oggettiva del reale e non una sua mistificazione» (p. 79). La finzione terziaria si ha quando l’artificiosità delle immagini viene palesata, quando la costruzione fittizia viene dichiarata. Se negli studi precedenti Rabbito ha approfondito i primi due livelli di finzione, in L’onda mediale è il livello terziario ad essere indagato.

illusione_ingannoNei film di finzione, sostiene l’autore, si tende a credere in ciò che si osserva soltanto durante la visione ma, soprattutto se il film è coinvolgente, si può restare coinvolti in quella dimensione fittizia. Rabbito segnala come questa influenza esercitata sullo spettatore ben oltre il momento di visione dell’opera sia dovuta alla capacità degli audiovisivi di creare un forte legame tra influenza e credenza sia nei film di finzione, che comunque rimandano al mondo reale, che nei film ove il mondo rappresentato si discosta nettamente da esso. Nei casi in cui il livello di finzione è particolarmente esplicito (finzione terziaria di grado intenso ), ovviamente lo spettatore tende a prendere le distanze da ciò che viene rappresentato risultandone decisamente meno influenzato.

Riprendendo le analisi di John B. Thompson (Mezzi di comunicazione e modernità), Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca…) e Cesare Musatti (Psicologia degli spettatori al cinema), il saggio evidenzia come lo spettatore delle nuove immagini audiovisive sia «libero dagli attanti, dall’autore e dallo stesso pubblico. La quasi-interazione mediata, offerta dalle nuove immagini, si contraddistingue così per la sua libertà da alcun tipo di contatto, interferenza, con altri: ci permette di farci calare in una dimensione solipsistica e per certi versi ipnotica» (p. 93).
Lo spettatore, attraverso l’audiovisivo, si troverebbe a vivere una coinvolgente “quasi-esperienza” analoga ciò che si prova a livello onirico e, attraverso processi di immedesimazione e di proiezione, lo spettatore risulterebbe decisamente influenzato dalle nuove immagini che, secondo Cesare Musatti (La visone oltre lo schermo) inciderebbero direttamente sul suo inconscio. Dunque, secondo Rabbito, «ciò non può che influire profondamente sulla valutazione che realizza lo spettatore; ha l’illusione di poter essere un giudice competente, ma il più delle volte sarà influenzato dalle dinamiche che mettono in atto le nuove immagini audiovisive, le quali si dimostrano avere una forte incidenza sul giudizio che lo spettatore avrà. Riprendendo le parole di Benjamin possiamo scrivere che l’atteggiamento critico soggiace al piacere, il quale, quest’ultimo, soggiace ai processi che le nuove immagini audiovisive attivano» (p. 103).

A partire da tali premesse, il saggio di Andrea Rabbito passa ad analizzare alcuni esempi di film che dispiegano forme di resistenza all’onda mediale. A tali forme di resistenza daremo presto spazio su Carmilla.

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