materialismo storico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Marx e la narrazione storica tra necessità e contingenza https://www.carmillaonline.com/2023/03/13/marx-e-la-narrazione-storica-tra-necessita-e-contingenza/ Mon, 13 Mar 2023 05:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76352 di Fabio Ciabatti

George Garcia-Quesada, Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces, Haymarket Books, Chicago 2022, pp. 190, € 27,42.

Brancaccio, Giammetti e Lucarelli nel loro recente testo La guerra capitalista “si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista”. Così sintetizza Sandro Moiso su Carmilla nella sua recensione (qui) che si chiude con alcune domande suscitate dalla lettura del libro: “quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà [...]]]> di Fabio Ciabatti

George Garcia-Quesada, Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces, Haymarket Books, Chicago 2022, pp. 190, € 27,42.

Brancaccio, Giammetti e Lucarelli nel loro recente testo La guerra capitalista si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista”. Così sintetizza Sandro Moiso su Carmilla nella sua recensione (qui) che si chiude con alcune domande suscitate dalla lettura del libro: “quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà davvero ancora la forza militare per farlo, come ai tempi delle cannoniere e delle operazioni di polizia internazionale?” Per rispondere a questioni di tale portata l’analisi econometrica portata avanti dai tre autori è senza dubbio necessaria. Ma si può anche affermare che sia sufficiente? L’economista Roberto Romano, in un’altra recensione, dà una risposta negativa. Pur apprezzando l’analisi dei tre autori citati sulla centralizzazione, Romano sostiene la superiorità della concreta analisi storica quando si devono spiegare dinamiche complesse che non sono riconducibili ad una mera analisi economico-quantitativa, ma devono tenere conto di livelli differenti come la politica, la politica economica, la geopolitica e la geografia economica (qui). Menziono questa discussione senza voler entrare nel merito, ma solo per richiamare l’attenzione sul fatto che alcuni nodi teorici, da sempre al centro della riflessione storica di ispirazione marxiana (e non solo), non rappresentano meri arzigogoli intellettuali. Essi, infatti, riemergono con forza quando si cerca di comprendere questioni di estrema attualità e drammaticità come quelle legate alla guerra in corso. In estrema sintesi, che rapporto c’è tra la necessità strutturale e la contingenza storica, tra le strutture sociali e l’agency, tra la macrostoria e la microstoria?

Questi nodi teorici sono affrontati in modo originale da George Garcia-Quesada nel suo libro Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces. Poiché abbiamo iniziato con la guerra dei nostri giorni, rimaniamo sul tema bellico riferendo quanto dice l’autore a proposito dell’analisi marxiana della guerra civile americana combattuta tra il 1861 e il 1865. In questo contesto il rivoluzionario tedesco non si limita a chiamare in causa le leggi di sviluppo del modo di produzione capitalistico che si esplicherebbero attraverso un processo di modernizzazione capitalistica, portata avanti dal Nord, a detrimento dell’arretrata produzione schiavistica degli stati sudisti. Anche perché quest’ultima, secondo Marx, ha natura pienamente capitalistica. Piuttosto vengono messe in evidenza due differenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico, interdipendenti ma in competizione. Negli Stati Confederati, infatti, la coltivazione per l’esportazione di cotone, tabacco, zucchero ecc. per essere remunerativa necessitava dell’utilizzo e della riproduzione su larga scala del lavoro schiavile, e di una continua espansione delle terre fertili coltivate. Data la contiguità spaziale delle due aree, il conflitto tra il Nord e il Sud era solo questione di tempo.
Dunque la spiegazione storica chiama in causa come elementi determinanti la topografia e la decrescente fertilità del suolo oltre che condizioni di natura strettamente politica e militare per definire lo scontro tra due differenti formazioni sociali. La dimensione spazio-temporale chiamata in causa si configura con riferimento alla forma-stato, ma la spiegazione ha come ultimo referente il mercato mondiale, data l’impossibilità per l’industria britannica, potenza egemone a livello globale, di sostituire nel breve periodo la produzione del cotone, bloccata dalle vicende belliche, proveniente dagli stati confederati. In sintesi la spiegazione della guerra civile si basa su una combinazione di formazioni sociali che, sebbene generalmente orientate all’accumulazione del modo di produzione capitalistico, non possono essere ridotte ad un unico meccanismo esplicativo.

Nelle righe precedenti abbiamo fatto riferimento a due differenti concetti, modo di produzione e formazione sociale, che ora andranno chiariti facendo riferimento ai differenti livelli di astrazione in cui si articola l’analisi marxiana. La fondazione del materialismo storico, secondo Garcia-Quesada, si basa su affermazioni di carattere metastorico che costituiscono la teoria dei modi di produzione (al plurale) avendo a che fare con le condizioni generali di produzione e riproduzione di tutte le società a partire dal ricambio organico tre essere umano e natura. A un livello inferiore di astrazione abbiamo la teoria di un singolo modo di produzione che, basandosi su astrazioni storicamente determinate, si articola in tendenze o meccanismi operanti in virtù di relazioni necessarie/interne. Scendendo ancora nella scala dell’astrazione abbiamo la spiegazione di una formazione sociale in cui si sintetizzano le tendenze del livello precedente con le specifiche le condizioni in cui operano. A livello massimo di concretezza storica abbiamo, infine, le congiunture.
Sul piano ontologico il modo di produzione è astratto ma reale, mentre la formazione sociale è più concreta e con più determinazioni da spiegare. A livello epistemologico il modo di produzione è un sistema chiuso e i suoi risultati sono necessari, mentre la formazione sociale è un sistema aperto e presenta un certo livello di contingenza. In altri termini lo studio del modo di produzione capitalistico è necessario ma insufficiente per l’analisi di una formazione sociale in cui prevale perché si deve tener conto delle diverse modalità attraverso cui il capitalismo si espande entrando in relazione con altri meccanismi di tipo economico, politico, ideologico ecc.
Il concetto di modo di produzione, dunque, non esaurisce la teoria della storia di Marx ma ne costituisce il necessario punto di partenza. Questo concetto, però, rimane centrale nella teoria marxiana in quanto uno specifico processo di produzione rappresenta la condizione di possibilità per tutta l’attività degli esseri umani dal momento che questi devono organizzarsi socialmente per soddisfare i propri bisogni e sopravvivere. Esso, dunque, è il grimaldello teorico per la totalizzazione, vale a dire per articolare e integrare le differenti prassi umane in un processo storico unitario sebbene mai concluso. In questo senso il concetto di modo di produzione rappresenta la discontinuità di base nella storia, organizzando ciascuna delle diverse forme di sociali sulla base dei loro principi peculiari a partire dalle interazioni tra le prassi umane e le loro condizioni materiali. Ma a questo punto sorge una domanda. Come intendere questa discontinuità dal momento che per Marx esiste una storia unica per quanto costituita da tempi non omogenei? L’unitarietà del processo storico si può riscontrare al livello più astratto dell’analisi, perché esistono condizioni comuni, metastoriche per la riproduzione di ogni società. Ma la ritroviamo anche analizzando il capitalismo perché si tratta del primo modo di produzione che, per il suo intrinseco dinamismo, è portato a espandersi a livello globale.

Insomma, con il capitalismo abbiamo per la prima volta una storia mondiale tendenzialmente unificata. Secondo Garcia-Quesada, Marx, solo in un primo momento, concettualizza questa tendenza nei termini di una teoria stadiale dello sviluppo storico:  l’espansione capitalistica, in qualità di stadio più avanzato, impone una singola totalizzazione spazio-temporale sulla molteplicità spazio-temporali delle coeve società caratterizzate da modi di produzione meno produttivi. In breve, lo stadio più avanzato è destinato a sostituire in toto quelli più arretrati in un processo che può essere concepito come un predeterminato schema di evoluzione. A partire dai Grundrisse, però, Marx articola una concezione diversa: il modo di produzione più produttivo non elimina necessariamente gli altri, ma crea diverse formazioni sociali sotto un meccanismo dominante, l’accumulazione capitalistica, che subordina e, nel caso, rifunzionalizza le forme sociali pregresse. Da ciò deriva, da una parte, la possibilità di delineare una concezione multilineare della storia, dall’altra, la capacità di rendere visibili diversi tipi di oppressione e sfruttamento. Questa concezione si è articolata e consolidata attraverso l’approccio teorico e politico di Marx ai paesi non europei. Un approccio che ha tra i suoi esiti più rilevanti l’ipotesi di una via russa al socialismo senza un passaggio preliminare attraverso un compiuto sviluppo capitalistico.
Ripetiamolo in altro modo: la dinamica capitalistica tende verso una totalizzazione dello spazio mondiale, ma quest’ultimo assume caratteristiche contraddittorie perché contraddistinto da uno sviluppo diseguale e combinato. Lo spazio-tempo capitalistico sussume ma non annulla la molteplicità delle configurazioni spazio-temporali presenti sul globo. Qui il tempo e lo spazio, come si può intuire dal titolo del libro di Garcia-Quesada, devono essere intesi come forme sociali storicamente mutevoli, vale a dire prodotti della prassi umana che organizzano i differenti processi sociali e che, nella loro inscindibile ma variabile relazione, definiscono le coordinate di ciascuna configurazione storica. Nonostante l’inseparabilità di queste due dimensioni, Marx utilizza modelli prevalentemente spaziali per descrivere le società precapitalistiche, con particolare riferimento al rapporto tra città e campagna. La dimensione temporale non scompare ma è messa in secondo piano perché questi tipi di società sono caratterizzati dalla longue-durée. La forte stabilità è una loro caratteristica essenziale. Il capitalismo è invece concettualizzato da Marx prevalentemente in termini temporali, caratterizzato come è dall’annichilimento dello spazio da parte del tempo. La separazione dello spazio dal tempo è però il portato dello stesso sviluppo capitalistico. È possibile pensare un processo sociale in termini esclusivamente temporali a patto di presupporre implicitamente uno spazio con caratteristiche costanti. Uno spazio, cioè, astratto, globale e mercificato in cui prevale la dimensione urbana. 

Abbiamo fin qui visto l’importanza delle configurazioni spazio-tempo a livello teorico ed epistemologico. Ma c’è un altro aspetto che emerge leggendo Karl Marx, Historian of Social Times and Spaces. La rilevanza di queste configurazioni da un punto di vista narrativo. Nel raccontare la storia della Comune, per esempio, Marx, ricorre a uno slittamento nella scala della periodizzazione che permette una sorta di happy ending. Se ci si fermasse al breve periodo, alla congiuntura, la narrazione diventerebbe semplicemente tragica in considerazione del massacro dei comunardi. Ma su una scala temporale (e spaziale) più ampia possiamo prevedere la vittoria del proletariato. Questo slittamento ha una spiegazione politica, perché serve a motivare la prosecuzione della lotta. Al tempo stesso non si tratta di una scelta arbitraria dal momento che è possibile giustificarla sulla base della teoria marxiana la quale consente di affermare che i meccanismi generativi della lotta di classe non finiscono di operare nonostante la sanguinosa sconfitta della Comune.
La storiografia ha dunque degli aspetti narrativi che la accomunano alla fiction. Tuttavia, sottolinea Garcia-Quesada, questo terreno comune non dissolve la differenza tra i due generi e la loro specifica relazione con la realtà. Detto altrimenti, formulare un cronotopo – termine ispirato all’opera di Michail Bachtin che sta per configurazione spazio-temporale – significa per Marx articolare attraverso una narrazione il livello cognitivo, quello politico e quello estetico, anche se è il primo a prevalere perché la funzione principale in una storiografia realista è quella di dar conto dei meccanismi all’opera nel processo storico. Rimane il fatto che i cronotopi marxiani comportano sempre uno schieramento politico perché sono strutturati sulla base del conflitto descrivendo relazioni sociali diseguali con l’accumulazione del capitale come ultimo background di tutti i processi. Il resoconto marxiano della “cosiddetta accumulazione originaria”, per utilizzare un altro esempio tratto dal libro recensito, è una spiegazione narrativa che può essere formulata solo rendendo visibile il punto di vista degli espropriati, una spiegazione critica che approccia la totalità sociale dal suo lato nascosto e che implica una presa di posizione nella battaglia per la memoria.
Marx, a proposito del Capitale, parla della necessità di tenere distinti il metodo della ricerca da quello della esposizione (Darstellung) dei suoi risultati, consapevole del rischio di fare apparire l’esposizione stessa, anche in considerazione della sua articolazione dialettica, come una costruzione a priori. Ma con ciò, sostiene Garcia-Quesada, il filosofo tedesco si riferisce alla teoria del modo di produzione e dunque al livello dei sistemi chiusi. La narrazione rende invece conto della contingenza che inerisce ai sistemi aperti, cioè alle formazioni sociali e alle congiunture. La narrazione necessariamente completa l’esposizione, marxianamente intesa, al fine di spiegare la storia effettiva, collegando la microstoria con la macrostoria e, in questo modo, l’agency con le strutture e i meccanismi oggettivi che, a vari livelli, operano nelle diverse configurazioni spazio-temporali. Questi meccanismi, a loro volta, contribuiscono a definire la modalità narrativa più adatta alle società contemporanee. Se il capitalismo è il modo di produzione totalizzante per eccellenza, per descriverlo sarà necessario utilizzare un racconto a sua volta totalizzante ma, al tempo stesso, data la varietà delle forme sociali in cui esso domina, capace di fare affidamento su diverse sottotrame intrecciate in una narrazione multilineare.

Concludiamo con un’ultima considerazione. Secondo Garcia-Quesada, la dimensione episodica, che può essere catturata solo attraverso la narrazione, è quella che introduce la discontinuità nello spazio-tempo definito dalla narrazione stessa, indicando le possibili trasformazioni della dimensione strutturale e, in questo modo, un momento riconfigurativo che appare nella storia. Una considerazione di cui varrà la pena tener conto anche quando affrontiamo le questioni inerenti alla guerra in corso. Attraverso le attuali vicende belliche, infatti, si manifesta una tendenza verso il baratro che apparirebbe assolutamente ineluttabile qualora ci limitassimo a svelare il dispiegarsi delle leggi generali dell’accumulazione capitalistica.

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Benjamin, un marxista meravigliosamente arbitrario https://www.carmillaonline.com/2020/12/18/benjamin-un-marxista-meravigliosamente-arbitrario/ Thu, 17 Dec 2020 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63852 di Fabio Ciabatti

Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, pp. 136, € 13,30.

C’è un modo abituale di intendere la politica che rimanda all’azione degli stati, al ruolo delle istituzioni, alle elezioni, al parlamento e così via. C’è poi un altro modo che chiama in causa “la memoria storica delle lotte e delle sconfitte e il richiamo all’azione redentrice degli oppressi, un’azione inseparabilmente sociale politica, culturale, morale, spirituale e teologica”. È questa seconda via che contraddistingue il pensiero di Walter Benjamin e che rende [...]]]> di Fabio Ciabatti

Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, pp. 136, € 13,30.

C’è un modo abituale di intendere la politica che rimanda all’azione degli stati, al ruolo delle istituzioni, alle elezioni, al parlamento e così via. C’è poi un altro modo che chiama in causa “la memoria storica delle lotte e delle sconfitte e il richiamo all’azione redentrice degli oppressi, un’azione inseparabilmente sociale politica, culturale, morale, spirituale e teologica”. È questa seconda via che contraddistingue il pensiero di Walter Benjamin e che rende possibile leggere la sua opera in chiave politica, come fa Michael Löwy in una breve raccolta di saggi recentemente pubblicata in italiano, dal titolo La rivoluzione è il freno di emergenza. Filo conduttore di questo testo, secondo il suo stesso autore, è l’idea di rivoluzione in Benjamin perché è convinzione di Löwy che se si espunge dal pensiero del filosofo berlinese “la dimensione sovversiva, rivoluzionaria, insurrezionale perfino, come purtroppo capita spesso nei lavori accademici, si perde qualcosa di essenziale, di prezioso, di inestimabile”.1 Questo tipo di lettura chiama in causa direttamente il rapporto peculiare che Benjamin intrattiene con Marx. Una peculiarità che consiste, tra l’altro, nel mantenere come parte integrante del suo pensiero quelle componenti filosofico-teologiche maturate prima dell’incontro con il marxismo: l’anarchismo, il romanticismo e il messianesimo ebraico. 

Con il titolo del suo testo Löwy richiama l’attenzione su una delle poche prese di distanza esplicite da Marx da parte del filosofo berlinese: la definizione della rivoluzione come “freno d’emergenza” piuttosto che, marxianamente, “locomotiva della storia”. Questa affermazione può essere legata al fatto che Benjamin è “il primo marxista ad aver rotto radicalmente con l’ideologia del progresso”.2 Per Benjamin, infatti, “la rivoluzione proletaria non è il risultato ‘naturale’ o ‘inevitabile’ del progresso economico e tecnico, ma l’interruzione critica di un’evoluzione che porta direttamente al disastro”.3
Attraverso la lettura di Löwy possiamo capire che questa rottura per Benjamin ha due obiettivi: da una parte, mira a distinguere nettamente il materialismo storico dalle forme tradizionali del pensiero borghese, come lo storicismo tedesco che conferisce alle classi dirigenti lo status di eredi della storia vedendo nelle vicende passate solo una gloriosa successione di successi politici e militari;  dall’altra, vuole criticare la coeva ideologia socialdemocratica che aveva commesso il grande errore di considerare lo sviluppo tecnologico solo dal punto di vista del progresso delle scienze naturali e non del regresso sociale, fino al punto di idealizzare il lavoro di fabbrica, dando luogo alla risurrezione, tra gli operai,  della vecchia morale protestante del lavoro in forma secolarizzata.
La convinzione socialdemocratica di nuotare a favore di corrente è un elemento di forte corruzione degli operai tedeschi. A questo ottimismo ideologico Benjamin contrappone il suo comunismo inteso come organizzazione del pessimismo. Contro la riduzione della società senza classi a puro ideale, compito infinito che predispone all’attesa di una situazione rivoluzionaria che non arriva mai, Benjamin propone l’ipotesi secondo la quale anche il più piccolo istante nasconde un potenziale rivoluzionario, un’ipotesi che presuppone una concezione aperta della storia come prassi umana, ricca di possibilità inattese e inaudite.
Possibilità che, per esempio, emergono tra le barricate parigine del 1830, del 1848 e del 1871 nei confronti delle quali, sostiene Löwy, Benjamin  subisce una vera e propria fascinazione. Le barricate, al di là della loro effettiva efficacia, rappresentano una sorta di luogo utopico, un’anticipazione dei rapporti sociali del futuro, costruito attraverso l’uso da parte dei dominati della geografia urbana nella sua materialità (strade strette, altezza delle case, pavimentazione urbana) in cui un ruolo di primo piano spetta alle donne. La ristrutturazione della città ad opera di Haussmann tra  il 1860 e il 1870 vorrebbe cancellare la memoria collettiva di questa esperienza. Ennesima conferma del fatto che ciò che appare patrimonio culturale, se visto con gli occhi dei vincitori,  rappresenta un documento della barbarie, se ci mettiamo dalla parte dei perdenti della storia. L’abbattimento dei quartieri popolari di Parigi avviene con il pretesto della loro bruttezza e insalubrità, ma il vero obiettivo è fare spazio agli ampi boulevard in cui i cannoni possono più facilmente colpire gli insorti. Un atto di guerra preventiva, diremmo oggi, contro la possibilità stessa del verificarsi di quella sorta di “illuminazione profana” che, secondo Benjamin, si può affacciare sul proscenio della storia con la rivolta degli oppressi.

L’interpretazione della rivoluzione in termini di illuminazione rimanda al messianesimo che Benjamin considera la dimensione più importante della spiritualità ebraica. Nella teologia benjaminiana, però, non esiste un Messia inviato dal cielo. “Il solo messia possibile è collettivo … l’umanità oppressa”.4 Ogni generazione ha un pezzo di potere messianico che deve cercare di esercitare perché le generazioni passate gli hanno assegnato il compito della redenzione: il sacrificio delle generazioni sconfitte, la memoria dei martiri del passato ispirano le lotte di liberazione del presente. Il compito messianico corrisponde allora con la rivoluzione, con l’interruzione di un continuum storico che, con il suo accumulare macerie su macerie, preannuncia l’imminenza di nuovi disastri. Benjamin parla comunque di un potere messianico “debole” perché la redenzione, l’avverarsi dell’utopia rivoluzionaria è soltanto un’incerta possibilità.
Questa utopia, i sogni di un futuro diverso, nascono, secondo Benjamin, in intima associazione con elementi provenienti da una storia arcaica depositati nell’inconscio collettivo. Si tratta della rammemorazione, altro elemento essenziale della teologia secondo Benjamin, che ha per oggetto il matriarcato, il comunismo primitivo, una società senza classi né stato. E si tratta anche del ricordo di un rapporto più armonico con la natura che non sia contrassegnato dall’avidità distruttrice della società borghese, dalla concezione “imperialista” del dominio dell’uomo sull’ambiente naturale. Löwy evoca il rischio che in base a tali concezioni si possa sacrificare l’utopia sull’altare del mito. Ma afferma anche che, a scongiurare questo pericolo, entra in gioco una “dialettica propria del romanticismo rivoluzionario” perché Benjamin sostiene “un ritorno al passato verso un nuovo avvenire, che include tutte le conquiste della modernità dal 1789”.5
In modo simile Benjamin afferma, seguendo i surrealisti, che occorre conquistare per la rivoluzione le forze dell’ebbrezza, il rapporto magico con il mondo, ma aggiunge che mettere l’accento solo su questo lato significherebbe trascurare la preparazione metodica e disciplinare della rivoluzione. In altri termini, secondo Benjamin, occorre ridare spessore sensibile alla rivoluzione senza toglierle la sua virtù emancipatrice. È necessario, per dirla ancora in un altro modo, cambiare la vita, come sostiene Rimbaud, e insieme cambiare il mondo, come afferma Marx. Se venisse meno la tensione dialettica tra questi poli apparentemente inconciliabili scivoleremmo verso un romanticismo reazionario che nutre il sogno impossibile di un ritorno al passato. 

Non a caso la commistione tra arcaico e moderno è anche il tratto caratteristico del nazismo, per Benjamin vero e proprio Anticristo, cioè falso Messia che scimmiotta il vero redentore rappresentato dal socialismo. Sebbene utilizzi un discorso magico, il fascismo è profondamente radicato nello sviluppo moderno. Non si tratta di una parentesi storica che scomparirà con il procedere del progresso. Per vincere fascismo, occorre perciò produrre “il vero stato di eccezione”, vale a dire l’abolizione del dominio, la realizzazione della società senza classi. Il vero Messia trionfa solo quando sconfigge l’Anticristo. Anche “in un momento di pericolo supremo si presenta una costellazione salvifica che unisce il presente al passato”:6 tra le folle asservite dai dittatori Benjamin non dispera di scorgere i nuclei di resistenza formati dalle masse rivoluzionarie del Quarantotto e dai Comunardi.
Di fronte alla minaccia del nazismo, Benjamin, in una lettera del 1938 a Horkeimer, esprime la speranza che l’Unione Sovietica si possa considerare “l’agente dei nostri interessi in una guerra futura” sebbene sia consapevole che si tratti di “una dittatura personale con tutto il suo terrore” che finirà per far pagare un conto salato ai lavoratori. In una lettera precedente, scritta nel 1926 al suo amico Scholem, annuncia di voler aderire al partito comunista tedesco, sebbene non darà mai seguito a questa intenzione. Rimarrà, come egli stesso sostiene, un “osservatore tedesco” in una posizione “estremamente scoperta tra fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria”. Da una parte, dunque, c’è il suo anarchismo mai abiurato, il suo spirito libertario e romantico, dall’altra, come scrive in un’altra lettera a Scholem del 1924, la sua profonda attrazione per la prassi politica del comunismo intesa “come contegno normativo”. Egli stesso si descrive come un Giano Bifronte, con un volto rivolto a Gerusalemme e l’altro a Mosca sebbene il patto Molotov-Ribbentrop oscurerà definitivamente ai suoi occhi la luce della stella moscovita.

Si può considerare tutto ciò come un atteggiamento ondivago e contraddittorio. Oppure, come fa Michael Löwy, si può sostenere che Giano avrà pure due volti, ma possiede una testa sola. Se questo è vero si può considerare il pensiero di Benjamin come una “variante eretica del materialismo storico” che presta “un’attenzione sistematica e preoccupata per lo scontro di classe dal punto di vista dei vinti – a danno di altri topoi classici del marxismo, come la contraddizione tra forze e rapporti di produzione, o la determinazione della sovrastruttura attraverso l’infrastruttura economica”.7 Quella di Benjamin, in sintesi, è un’“alchimia filosofica” con una “componente esplosiva”8 che mette capo a una reinterpretazione del marxismo “assolutamente eterodossa, fortemente selettiva e talvolta meravigliosamente arbitraria”.9


  1. Michael Löwy, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Ombre Corte, Roma 2020, p 9. Per la la precedente citazione vedi p. 8 del testo di Löwy. 

  2. Ivi. p. 31. 

  3. Ivi. p. 33. 

  4. Ivi. p. 112. 

  5. Ivi p. 66. 

  6. Ivi, p. 106. 

  7. Ivi p. 80. 

  8. Ivi p. 10. 

  9. Ivi p. 8. 

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Marx e la cartina di tornasole dell’autoemancipazione https://www.carmillaonline.com/2020/12/04/marx-e-la-cartina-di-tornasole-dellautoemancipazione/ Thu, 03 Dec 2020 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63590 di Fabio Ciabatti

Dan Swain, None So Fit to Break the Chains. Marx’s Ethics of Self-Emancipation, Haymarket Books, Chicago 2020. pp. 224, 33,00 euro.

“L’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei lavoratori stessi”. Questa famosa affermazione di Marx appare inequivocabile. Basta però, per alimentare qualche dubbio, accostare questa citazione a un altro famoso passaggio in cui il Moro di Treviri parla dell’“organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico”. Si può così concludere che l’emancipazione della classe operaia è sostanzialmente opera del Partito comunista. Peccato che, come si evince dall’intero [...]]]> di Fabio Ciabatti

Dan Swain, None So Fit to Break the Chains. Marx’s Ethics of Self-Emancipation, Haymarket Books, Chicago 2020. pp. 224, 33,00 euro.

“L’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei lavoratori stessi”. Questa famosa affermazione di Marx appare inequivocabile. Basta però, per alimentare qualche dubbio, accostare questa citazione a un altro famoso passaggio in cui il Moro di Treviri parla dell’“organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico”. Si può così concludere che l’emancipazione della classe operaia è sostanzialmente opera del Partito comunista. Peccato che, come si evince dall’intero corpus marxiano e come è stato chiarito esplicitamente in una lettera dal diretto interessato, Marx quando parla di partito si riferisce generalmente al partito della classe in senso eminentemente storico, non a una qualche specifica organizzazione politica.
In altri termini, il concetto di partito, almeno nella sua accezione dominante nell’opera marxiana, coincide con il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”.1 
Un movimento che si costituisce come parte, la parte proletaria in lotta con quella borghese, ponendosi l’obiettivo politico di abbattere il modo di produzione dominante e per fare ciò si cristallizza temporaneamente in specifiche organizzazioni. Saremmo però dei materialisti assai bizzarri se pensassimo che importanti sviluppi storici, come la centralità assunta dal partito nelle vicende novecentesche, siano dipesi dalla cattiva interpretazione di alcuni testi, fossero anche quelli di Marx. 

La citazione con cui abbiamo aperto testimonia che l’intera opera marxiana è pervasa da un impegno etico-politico nei confronti della rivoluzione intesa come autoemancipazione del proletariato.2 Ma stando così le cose si apre subito un problema: se la società comunista deve essere il frutto di un’autonoma attività emancipatrice del proletariato come può darsi questa attività in una società che sistematicamente la impedisce? E’ proprio a fronte di questa difficoltà teorica, ma soprattutto pratica, che si afferma la soluzione rappresentata dal primato del partito sulla classe. Che però non è la soluzione di Marx il quale nota  perentoriamente, nella terza tesi su Feuerbach, che “l’educatore stesso deve essere educato”.

È allora interessante utilizzare il principio dell’autoemancipazione del proletariato come cartina di tornasole per valutare alcuni snodi centrali dell’opera marxiana, come fa Dan Swain in un recente testo intitolato None so fit to break the chain. Marx’s ethics of self-emancipation.3 Da questa prospettiva si può comprendere meglio l’antiutopismo di Marx, laddove per utopia si intenda la costruzione di piani dettagliati per la società dell’avvenire. Se c’è qualche mente illuminata che è in grado di progettare in anticipo il futuro con dovizia di particolari, allora è chiaro che alla massa non rimane che il ruolo del mero esecutore. Addio autoemacipazione.
Però, se per utopia intendiamo semplicemente la speranza o la fiducia in una società futura radicalmente migliore di quella presente definire Marx un antiutopista è un semplice non senso. Esiste comunque una terza accezione di utopia che si incentra sulla proposta di modelli alternativi di società dal carattere esplicitamente limitato e provvisorio. Nei confronti di questi tipi di modelli Marx rimane diffidente perché ritiene possano rappresentare un elemento fuorviante rispetto alle necessità più impellenti del conflitto di classe. Un atteggiamento che ha le sue fondate ragioni, sostiene Swain, ma che da un punto di vista politico potrebbe portare a sottostimare la capacità mobilitante di un immaginario alternativo sufficientemente articolato. E ciò è vero oggi più che ai tempi di Marx, perché noi dobbiamo fare i conti con il crollo di un immaginario centrato, in un modo o nell’altro, sul socialismo realizzato di stampo sovietico. 

Poiché la nostra capacità di prevedere il futuro è limitata, prosegue Swain, l’immagine della futura società comunista deve essere concepita come una visione. Siamo cioè capaci di raffigurare la società futura allo stesso modo in cui siamo in grado di vedere, da un punto di osservazione posto in alto, un paesaggio lontano di cui possiamo scorgere solo i contorni più marcati, le figure più grandi. Quanto più cerchiamo con l’immaginazione di riempire di dettagli ciò che non possiamo osservare direttamente, tanto più siamo portati a utilizzare inconsapevolmente elementi tratti dalla nostra esperienza quotidiana. Il futuro diventa così un ombra del presente. Ciò che rimane precluso è il novum in senso forte, perché esso può essere prodotto e concepito soltanto attraverso una prassi di emancipazione di un soggetto collettivo che si trova ad operare in modo autonomo in circostanze impreviste e imprevedibili.
Non potendo eliminare la contingenza dalla nostra visione politica, cosa rimane del materialismo storico inteso come analisi scientifica del funzionamento del modo di produzione capitalistico e come capacità di prevedere le sue traiettorie di sviluppo futuro? Di certo comprendere che le leggi che governano il nostro mondo sono storicamente determinate è il primo passo necessario per capire che possono essere cambiate. Ma non è tutto. Imparare a leggere i necessari vincoli che i rapporti sociali di produzione ci pongono è un altro passo necessario per formulare concrete strategie per sovvertire le regole del gioco. In base a queste regole possiamo prevedere l’avverarsi di alcune categorie di eventi, come crisi e rivoluzioni, non i singoli eventi. Solo se l’analisi scientifica non diventa rivelazione di un futuro già scritto, profezia, essa può diventare strumento nelle mani di un soggetto collettivo che liberamente si autodetermina. 

E  qui sorge la domanda successiva. Questo soggetto che si autodetermina verso quale meta si dirige? L’autodeterminazione per Marx è possibile solo attraverso forme sociali che permettono la gestione democratica dell’attività lavorativa, l’appropriazione della totalità delle forze produttive da parte degli individui uniti. Ciò è impossibile nel mondo moderno su piccola scala e per questo è necessario esercitare una capacità di decisionalità collettiva su una scala geografica sufficientemente ampia. Quale che sia questa scala, è il lavoro stesso che deve cambiare e a tal fine è necessario superare la distinzione tra lavoro mentale e manuale, tra compiti direttivi e compiti esecutivi. Certamente Marx sostiene che il regno della libertà inizia solo dove finisce il regno della necessità. Ma se intendiamo quest’ultimo come il regno del lavoro necessario a soddisfare i bisogni della società, non c’è bisogno di pensarlo come il luogo della subordinazione e della soggezione dei lavoratori. La limitazione della giornata lavorativa per Marx è essenziale ma, sostiene Swain, rappresenta un mezzo, non un fine. Altrimenti si finirebbe per confermare la contrapposizione tra tempo libero e tempo di lavoro limitandosi ad ampliare il primo a discapito del secondo. Rimane invece vero che è necessario superare la relazione antagonistica che è storicamente esistita tra lavoro e libertà.
Questo antagonismo e lo sfruttamento che è ad esso connesso è per Marx storicamente necessario e al tempo stesso da condannare. Questa condanna non avviene però sulla base di una morale metastorica. Ogni società ha una sua giustificazione morale delle forme di sfruttamento storicamente date. Esse sono in qualche modo legittime. Questa necessità storica può essere messa in questione soltanto perché lo sfruttamento è vissuto da una parte della società come qualcosa contro cui combattere. Se ci si mette dal punto di vista degli sfruttati questa reazione non ha nulla di misterioso. Per combattere lo sfruttamento non c’è bisogno di basarsi su una qualche teoria della giusta distribuzione della ricchezza o dello scambio equo tra possessori di beni. Ciò che  in ultima istanza emerge dalla critica marxiana dello sfruttamento, afferma l’autore, è che esso rappresenta una rapporto di dominio, esercitato in primo luogo nel segreto laboratorio della produzione, in cui i capitalisti approfittano della debolezza e della mancanza di potere dei lavoratori.
In modo simile Swain sostiene che per parlare di alienazione non abbiamo bisogno di una concezione essenzialista, metastorica della natura umana che verrebbe negata dall’attuale società. E’ sufficiente focalizzarsi sulle reali esperienze di sofferenza fisica e psicologica cui sono sottoposti i lavoratori e le lavoratrici. Partendo da questa negatività possiamo sostenere che l’essenza umana è qualcosa che deve essere ancora realizzata. Parlare di alienazione è dunque un modo per denunciare una situazione economico-sociale che nega la possibilità di un’attiva partecipazione degli individui uniti alla libera costruzione dell’identità umana. 

In un modo o in un altro si torna verso la medesima conclusione: la possibilità di riempire di dettagli la visione del comunismo non dipende da standard preordinati all’azione politica, siano essi relativi alla giustizia distributiva o all’essenza umana, ma può emergere solo nell’ambito di movimenti di resistenza e reazione a specifici mali della società capitalistica. Ciò significa, tra l’altro, che la resistenza deve possedere dei caratteri prefigurativi, in grado cioè di anticipare alcuni elementi della realtà che vogliamo costruire. Deve essere in grado, mentre si pone specifici obiettivi, di proiettarsi verso un successivo stadio di sviluppo che ancora non è dato, aiutando così la trasformazione dei soggetti coinvolti, l’acquisizione di nuove capacità ed attitudini. Questo perché la coscienza comunista, almeno su larga scala, non è qualcosa di dato, ma qualcosa da costruire, da conquistare. L’autoemancipazione è cioè un processo collettivo di autoeducazione attraverso il conflitto. Solo così è possibile sviluppare pratiche sociali realmente nuove e differenti rispetto a quelle esistenti. Queste pratiche sociali devono negare alla radice la separatezza tra sfera socio-economica e sfera politico-statuale. In questo senso l’autoemancipazione è una pratica di spoliticizzazione e dunque di critica di tutte quelle forme politiche che in questa separazione trovano il loro habitat naturale. Ma, per altro verso, si tratta di una dinamica di politicizzazione radicale, nel senso che attribuisce alla decisionalità collettiva una capacità di intervento su sfere sociali, economiche e anche personali considerate oggigiorno sottoposte all’arbitrio privato o a leggi “naturali” e perciò immodificabili.
Non bisogna però dimenticare che questi processi si sviluppano nell’ambito di dinamiche conflittuali e devono fare i conti con la violenza dello relazioni sociali dominanti e dello stato. Secondo Marx nessuna rivoluzione si può dare senza che a un certo punto si ponga il problema del potere statale. Che si tratti di conquistarlo, di distruggerlo o di impadronirsene per trasformarlo in profondità i temi della violenza degli sfruttati e quello della loro organizzazione diventano ineludibili, con tutto il portato problematico che riguarda il rapporto tra efficacia dell’azione politica e principio dell’autoemancipazione, tra politica e etica rivoluzionarie. Anche per questo, pur assumendo che la coerenza tra mezzi e fini sia un problema decisivo, è semplicemente assurdo assumere che i primi debbano coincidere con i secondi. 

Alla luce di queste ultime considerazioni il tema dell’autoemancipazione, se preso sul serio, risulta essere meno “innocente” di quanto potrebbe apparire a prima vista. Ma proprio per questo un pensiero che si pretenda rivoluzionario, come sostiene Swain, deve prendere sul serio l’attualità della rivoluzione ponendosi, in ogni fase, la questione di cosa possa aiutare il proletariato a costruire e riconoscere la propria capacità di trasformare il mondo. E per fare questo non bisogna applicare schemi esterni alle lotte degli sfruttati o pretendere di educare e dirigere ex cathedra gli oppressi, ma occorre partecipare alla loro forme di resistenza cercando di far avanzare, dall’interno, i movimenti di autoemancipazione. Occorre camminare domandando per cercare collettivamente le possibili risposte, ciascuno secondo le proprie capacità e i propri bisogni. 


  1. La prima citazione è tratta K. Marx, L’Internazionale operaia, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 17, la seconda dal K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 17, la terza da K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma 1991, p. 25. La lettera cui abbiamo fatto riferimento è quella scritta da Marx a Freiligrath il 29 febbraio 1864. 

  2. Il tema dell’autoemancipazione è particolarmente presente nell’opera di Maximilien Rubel che negli anni ‘90 del secolo scorso è stata ripresa in Italia, grazie a Marco Melotti, dalla rivista Vis-à-Vis. Alcuni articoli di Rubel sono reperibili nell’archivio on line della rivista qui http://web.tiscalinet.it/visavis/

  3. Il titolo riprende la prima parte di una frase di James Connolly contenuta nel pamphlet del 1915 The Re-Conquest of Ireland: “None so fitted to break the chains as they who wear them, none so well equipped to decide what is a fetter”. Nessuno è così adatto a spezzare le catene come coloro che le indossano, nessuno così ben attrezzato per decidere cos’è una catena. 

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Laboratorio Rojava https://www.carmillaonline.com/2016/11/16/laboratorio-rojava/ Wed, 16 Nov 2016 22:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34508 di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia [...]]]> di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia Todeschini, pp.246, 2016 todessil@gmail.com € 10,00

Immagino lo storcimento di naso che alcuni avranno fatto di fronte alla notizia, comunicata nei primi giorni di novembre dalle Forze democratiche siriane (Sdf), l’alleanza arabo-curda che agisce sul territorio siriano, l’offensiva congiunta su Raqqa la “capitale” siriana dell’Isis. Soprattutto, considerato che tale coalizione ha ricevuto l’appoggio dall’aviazione statunitense.

Certo nella vicenda c’è dell’ambiguità. Da parte degli Stati Uniti che, mentre da un lato hanno tra gli alleati i maggiori finanziatori dell’Isis (Arabia Saudita, Stati del Golfo, Turchia) dall’altro, cercano di sfruttare la legittima aspirazione all’autonomia dei curdi in funzione del proprio progetto di disarticolazione dello stato siriano e del regime di Assad. Oltre che, al momento attuale e dopo le capovolte di Erdogan, per fare indispettire il dittatore turco. Senza magari domani rinunciare ad abbandonare alla sua vendetta i curdi del Rojava in nome di una recuperata “sicura” alleanza. Cosa già messa in atto, tra l’altro dalle forze russe, dopo il riavvicinamento tra Putin ed Erdogan.

D’altra parte, a partita già iniziata e non da ora, come dovrebbero muoversi i curdi del Rojava per continuare a difendere i territori già liberati e per scacciare definitivamente i mercenari dell’Isis dai propri territori?
Certo qualcuno avrebbe trovato da ridire anche in occasione del trasferimento su un treno militare tedesco, da Zurigo a San Pietroburgo, di Lenin nel 1917 o chissà in quante altre occasioni, compresa la guerra civile spagnola, in cui chi la Rivoluzione la stava facendo, o almeno stava provando a realizzarla, è stato colpito dall’ostracismo ideologico di fazioni avverse ”più radicali” o “ortodosse”.

i-dont-fight-3 Non andrebbe però dimenticato che proprio la guerra siriana ha causato malumori tra gli stessi militari americani impiegati che, utilizzando i social network, hanno manifestato la loro contrarietà a combattere una guerra a vantaggio di Al Qaeda e contro le popolazioni civili, pubblicando foto in cui si coprivano il volto con scritte del tipo “I will not fight for Al Qaeda in Syria” oppure “Obama, I will not fight for your Al Qaeda rebels in Syria. Wake Up People!”. Contribuendo così, anche indirettamente, al successivo trionfo elettorale di Donald “Duck” Trump e alla sua, probabile, rottura con la tradizionale politica filo-jihadista della Segreteria di Stato americana, impostata a suo tempo dalla Clinton e dalla lobby petrolifera.

Certo, la semplificazione con cui i media, soprattutto nostrani, dipingono l’alleanza in atto nel Rojava come un’alleanza tra curdi e arabi potrebbe far pensare ad un indesiderabile accordo tra le forze delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg – Yekîneyên parastina gel) e le forze arabo-saudite. In realtà sul territorio del Rojava le unità militari curde operano con le formazioni militari locali create dalle comunità arabe e turcomanne che risiedono nello stesso territorio e che hanno accettato i presupposti di autogestione e confederalismo democratico e territoriale proposto dalle e dagli esponenti delle forze rivoluzionarie curde.

riv-rojava Proprio per comprendere meglio un esperimento complesso ed innovativo come quello in atto nel Rojava, la Red Star Press ha edito, nel giro di pochi mesi, due utili testi. Il primo, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA, è stato scritto da una giornalista nata a Istambul nel 1974, che vive e lavora in Turchia ed è nota per suoi reportage dedicati alle più importanti questioni sociali del Medio Oriente.

Il secondo, LABORATORIO ROJAVA, è opera di uno storico che da sempre studia la questione curda e le pratiche alternative al capitalismo nell’età moderna (Michael Knapp), di un’etnologa che ha trascorso due anni nella resistenza femminile curda (Anja Flach) e di un ingegnere ambientale che vive nel Kurdistan del Nord ed è impegnato in particolare nelle lotte per la salvaguardia delle acque (Ercan Ayboga).

Già il lungo elenco di sigle di formazioni politiche e militari operanti sul territorio del Kurdistan, compreso nelle prime pagine del testo di Arzu Demir, dovrebbe da solo bastare a far comprendere la complessità di una situazione, sia politica che militare e territoriale, che non può essere liquidata semplicemente come “questione curda”. Da qui discende la necessità di rimarcare le differenze intercorrenti tra alcune delle principali organizzazioni: PDK (Partito Democrtaico del Kurdistan – iracheno), PKK (Partîya karkerén Kurdistan – Partito dei lavoratori del Kurdistan – turco) e PYD (Partiya yekîtiya demokrat – Partito dell’unione democratica – siriano).

lab-rojava Il primo è il partito che governa il Kurdistan meridionale (Bajûr, Nord Iraq), divenuto regione autonoma (KRG) dopo la cacciata di Saddam Hussein a seguito dell’invasione americana del 2003. E’ un partito nazionalista e decisamente schierato a fianco della politica americana nella regione e, di fatto, rappresenta gli interessi politico-petroliferi del clan Barzani. Il termine peshmerga, che storicamente definisce genericamente ogni “guerrigliero” o “soldato” curdo, ha finito col rappresentare i combattenti del PDK e del PUK (Yekêtiy nistîmaniy Kurdistan – Unità patriottica del Kurdistan – iracheno) di Talabani; mentre i partigiani del PKK e del PYD preferiscono definirsi col nome delle proprie organizzazioni oppure come gerîlla o partîzan. Ma è proprio sulla genericità e ambiguità del termine peshmerga che si è potuta costruire gran parte della confusione imperante nei media occidentali.

Il PKK opera da circa trent’anni nel Kurdistan settentrionale (Bakûr, sud-est della Turchia) per sostenere l’autodeterminazione e la sopravvivenza del popolo curdo contro l’aggressione e occupazione militare dello Stato turco. Inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dai paesi occidentali (USA ed Europa), sta provando a superare l’originaria ideologia nazionalista e marxista-leninista attraverso una critica radicale degli stessi concetti di Stato, Nazione, Partito e l’abbandono dell’obiettivo di uno stato curdo indipendente, attraverso la proposta di un confederalismo democratico rivolto a tutte le differenti comunità presenti sul territorio in cui opera.

Il PYD, le cui formazioni militari sono YPG e YPJ (Yekîneyên parastina jinê – Unità di difesa delle donne), è il partito maggioritario del Kurdistan occidentale (Rojava, Siria del nord). Condivide con il PKK la prospettiva della costruzione di una federazione di comunità indipendenti e autogovernate al di là dei confini nazionali, etnici e religiosi, le cui basi sono costituite dalla partecipazione dal basso, la parità di genere e la difesa dell’ambiente. Prospettiva che, a detta dell’autrice di La rivoluzione del Rojava, sta cercando di realizzare a partire dall’insurrezione di Kobane nel luglio del 2012.

Il testo di Arzu Demir si basa, principalmente su un lavoro di intervista condotto sul campo a donne e uomini delle comunità coinvolte nella guerra siriana e contro l’avanzata dell’Isis. Ma è una guerra condotta anche in casa, dove i residui del passato patriarcale, ancora sin troppo presente, dovranno essere seppelliti non dopo la lotta contro i regimi autoritari e il capitalismo che li ha prodotti, ma durante e insieme a loro.

L’essenza delle politiche del regime siriano verso il Rojava è stata quella di abbandonare la regione alla povertà e alla miseria politica, sociale, culturale ed economica per renderla dipendente dallo stato centrale. In altre parole lasciarla senza identità e senza riconoscimento. Da questo punto di vista ci sono delle somiglianze con le politiche coloniali dello stato turco nel Kurdistan settentrionale. L’unica differenza è che i curdi in Siria, almeno fino alla rivolta di Qamishlo nel 2004, non si sono mai ribellati in maniera aperta e diretta contro il regime e per questo il numero di massacri è molto minore […] La Repubblica araba siriana ha mantenuto come politica di stato quella di assimilare il popolo curdo all’interno del nazionalismo arabo. I curdi sono stati forzati ad abbandonare le loro terre e a migliaia sono stati esclusi dal diritto di cittadinanza siriana.” (pag. 31)

Parte da queste considerazioni una lunga ricostruzione storica della nascita e dello sviluppo della resistenza curda e dell’attività forzatamente clandestina condotta dai partiti curdi in Siria almeno dal 1960 e dei motivi che hanno condotto il PYD a non schierarsi né con il governo di Assad né con i “ribelli siriani”, praticando una terza via che è consistita nel liberare e difendere il proprio territorio per amministrarlo, insieme agli altri partiti e realtà della società non solo curda, in una specie di “democrazia cantonale dal basso”.

donne-curde-1 In questa azione, che è stata politica e militare nel suo insieme, le donne hanno svolto un ruolo nuovo ed importante e la costituzione delle loro unità di difesa (YPJ) ha finito con l’essere uno dei punti di forza nella difesa del Rojava sia dai lealisti di Assad che dai “ribelli siriani” e dall’ISIS e jihadisti vari. Donne di ogni estrazione sociale, e spesso provenienti da altre nazioni, che ormai da anni versano il loro sangue e prestano le loro energie intellettuali e fisiche alla causa della rivoluzione. Come ben dimostrano le numerose interviste condotte dall’autrice a donne poi cadute in combattimento.

Una delle cose che la rivoluzione ha fatto per le donne del Rojava – in queste terre in cui il fatto che un uomo possa sposarsi con quante donne voglia o con una ragazzina è riconosciuto come un diritto culturale e legale – è stata quella di proibire il matrimonio in giovane età, la poligamia o i matrimoni combinati.[…] All’inizio del 2015 è stata emanata la cosiddetta «Legge delle donne», che tutela i diritti di queste ultime. Il primo articolo della legge in questione recita così: «la lotta alla mentalità patriarcale è responsabilità che poggia sulle spalle di tutti gli individui del Rojava autonomo e democratico». Con la Legge delle donne è stata riconosciuta parità di diritti in materia di eredità, divorzio e testimonianza in sede legale. La legge ha posto fine a pratiche, come lo herdel1 o la compravendita della sposa, che mercificavano la donna” (pp. 70-71)

Il testo però non dedica soltanto spazio alla situazione femminile nel Rojava e all’apporto che le donne hanno dato e danno all’esperimento sociale in corso, ma illustra anche con dovizia di fatti e di interviste un po’ tutti gli aspetti dello stesso: dalla gestione amministrativa comunalistica alle nuove forme di organizzazione economica e di autodifesa. Contribuendo così non soltanto all’informazione su ciò che sta succedendo nella Siria del nord, ma anche alla discussione su quali possano essere le forme organizzative, sociali, amministrative e culturali là dove sia già possibile una società in divenire.

Il taglio storico ed ambientalistico contraddistingue il secondo testo pubblicato dalla Red Star Press, che fin dalle prime pagine sembra aprirsi a scenari complessi.
I curdi sono il terzo gruppo etnico del Medio Oriente dopo arabi e turchi. Le stime sul numero dei curdi variano in modo notevole, ma le più realistiche si aggirano fra i 35 e i 40 milioni di persone.
L’area di insediamento curda, sebbene relativamente compatta, si trova oggi a cavallo tra gli Stati di Turchia, Iraq, Iran e Siria. La regione è d’importanza strategica anche per la facilità d’accesso all’acqua: i fiumi che bagnano la Siria e l’Iraq scorrono entrambi nella parte turca del Kurdstan (Bakûr). I linguisti collegano di comune accordo la lingua curda al ramo iraniano della famiglia indoeuropea, nonostante il curdo possa differire in modo significativo dal farsi. Non esiste una lingua comune curda, né un alfabeto standard o scritto, in parte a causa della divisione del Kurdistan e della proibizione della lingua curda in molti stati. I curdi parlano cinque dialetti principali o gruppi dialettali […] Questi dialetti sono talmente differenti che non sempre gli interlocutori riescono a intendersi
”. (pag. 23)

Primo problema: spesso a proposito del Medio Oriente, si parla di petrolio, ma troppo spesso ci si dimentica come per il futuro, e già oggi per il vicino Oriente, la questione della disponibilità d’acqua e del suo controllo sia vitale. Prova ne sia il conflitto aperto da Israele con la Siria per il controllo del Golan. Quindi un Kurdistan ricco di acque potrebbe essere in prospettiva più appetibile e più importante del Kurdistan ricco di petrolio.

Secondo problema: una lingua dispersa che potrebbe ritrovarsi a ragionare in maniera prossima all’iraniano potrebbe costituire un ulteriore motivo di contenzioso per l’attuale espansionismo iraniano che, come ho già spiegato in altra sede,2 è uno dei fattori degli attuali conflitti mediorientali.
Così un testo come Laboratorio Rojava può essere utile non solo per ciò che espone direttamente, ma anche per i problemi che può far sorgere indirettamente a seguito di una sua più attenta lettura.

donne-curde-2 Il testo si differenzia dal precedente soprattutto per il fatto che mentre Arzu Demir fa ancora uso di una lettura e, talvolta, di una retorica ispirate dal marxismo-leninismo,3 gli autori di Laboratorio Rojava si rifanno decisamente al nuovo corso ispirato dalle riflessioni del leader storico del PKK: Abdullah Öcalan.

Nel suo tratteggiare le tradizioni comunaliste della società primitiva, Öcalan si volge verso quella che lui stesso definisce società organica o naturale, esistita a suo parere alcune decine di migliaia di anni fa, organizzata in modo comunalista ed egualitario. Era una società matriarcale e si distingueva per l’uguaglianza di genere: «Nel Neolitico fu creato, attorno alla donna, un ordine sociale genuinamente comunalista, il cosiddetto ‘socialismo primitivo’, un ordine sociale che ‘non conosceva le pratiche coercitive dello Stato’» […] dal punto di vista del materialismo storico marxista, il «comunismo primitivo» doveva necessariamente essere superato per arrivare alla società statalista attraverso le varie fasi dello sviluppo economico, dalla società schiavista al feudalesimo, al capitalismo, al socialismo e infine al comunismo, in una successione di passaggi teleologica, deterministica.4 Nella visione di Öcalan, l’emergere della gerarchia, del dominio di classe e dello statalismo non era inevitabile: «La gerarchia e il conseguente sorgere dello Stato fu agevolato dall’ampio ricorso alla violenza e all’inganno. D’altra parte, le forze essenziali della società naturale hanno resistito senza tregua e devono essere continuamente respinte (dallo Stato stesso). Contro il principio marxista del passaggio necessario attraverso fasi di sviluppo, Öcalan ha elaborato la costruzione della democrazia radicale qui e ora” (pp.51-52)

Per questo motivo il modello organizzativo proposto per il Kurdistan è sostanzialmente quello della democrazia consiliare che ebbe inizio dalla Comune di Parigi. In questa formazione di una società civile senza Stato alcuni principi sono comuni a tutti gli aspetti della riorganizzazione sociale, sia per il movimento delle donne che per il sistema sanitario, la difesa, l’amministrazione della giustizia e altro ancora. “Le persone si organizzano in Comuni, formano commissioni e lavorano insieme alle organizzazioni democraticamente legittimate” (pag. 125)

Il testo dedica molto spazio alle forme organizzative e legislative che si sviluppano in questi ambiti e per questo vale veramente la pena di condurne una lettura attenta e meditata in quanto, ancora più che per il precedente, ogni pagina non è volta soltanto a ricostruire le vicende del Rojava rivoluzionario, ma anche a suggerire prospettive per il futuro. Compreso il nostro.

donne-curde-3 Il terzo testo, quello di Silvia Todeschini, che si può richiedere direttamente all’autrice tramite l’indirizzo e-mail sopra segnalato, si occupa specificamente dell’azione femminile nel Rojava e si basa ancora una volta sull’esperienza di soggiorno e sulle interviste raccolta dall’autrice tra le donne del Rojava. Come dice la stessa Todeschini in apertura: “Questo non è un libro sul Rojava; questo non è un libro sulle donne. Questo è un libro sulla rivoluzione, dal punto di vista delle donne” (pag.6)

Da questa impostazione sorgono ancora numerose riflessioni di cui varrebbe la pena di parlare, ma che richiederebbero una trattazione a sé stante e molto ampia (così come, tra l’altro, la richiederebbero anche molte parti del testo precedente), ma almeno due considerazioni vanno qui prese in esame. La prima riguarda il linguaggio che dovrebbe essere utilizzato nel trattare un genere ancora poco favorito dalla nostra lingua.

Afferma Silvia nella sua Piccola nota sul “maschile neutro” che non viene usato in questo libro: “In italiano, al contrario di molte altre lingue, non esiste il genere neutro. In italiano, per descrivere un gruppo di persone in cui sono presenti sia maschi che femmine, si usa il maschile. Se per esempio c’è un gruppo di 15 giardinieri, di cui 13 donne e 2 uomini che ha fatto n buon lavoro, secondo la grammatica italiana si dice «i giardinieri sono stati bravi». Equiparare il neutro al maschile è chiaramente sessista, perchè la presenza delle donne viene ignorata, vengono assimilate ai maschi. Che fare quindi? Secondo me è da modificare la lingua italiana, inserendo un plurale effettivamente neutro (come del resto esiste in curdo e in altre lingue). In attesa che si modifichi la lingua, come esprimersi in un modo che non sia sessista ma che resti comprensibile? […] altra possibilità è quella di coniugare il plurale neutro al femminile, «le giardiniere sono state brave»: questa possibilità è discriminante nei confronti dei maschi; però perlomeno è facile da leggere. E comunque potrebbe essere un buon mezzo per far comprendere quanto maschilista sia il maschile neutro. In attesa che la lingua venga modificata, e possa esistere un plurale non escludente, verrà quindi per questo libro assunto il femminile come plurale neutro: ciò significa che quando leggerete espressioni come per esempio «le compagne», è possibile che nel gruppo siano presenti anche compagni maschi” (pag.2)

La seconda, invece, tocca il tema della «bellezza», tema che troppo poco spesso o quasi mai i rivoluzionari hanno seriamente preso in considerazione.
Per lottare, infine, è necessaria la bellezza. E’ necessaria l’estetica. Non solo quella esteriore, ma anche o soprattutto quella dei comportamenti. Perché dire che stai dicendo cose giuste, ma il modo in cui le dice è sbagliato, equivale a dire che è sbagliato tutto, perché il modo in cui si fanno le cose è parte integrante di ciò che si fa. Perché il fine non giustifica i mezzi: i mezzi al contrario devono contenere in se stessi il fine, devono rispecchiarlo, i mezzi stessi sono parte del fine. Perché la strada deve essere innanzitutto essere bella, per poter essere percorsa..Perché non c’è una via verso la libertà che non ne contenga i semi al proprio interno; non è sufficiente avere un buon obiettivo, è necessario conseguirlo in maniera giusta, in maniera corretta. Un caro compagno un giorno mi ha detto che puoi riconoscere se una lotta è giusta in base a quanto bene stai nel farla. La bellezza della lotta non è secondaria, perché la lotta è bellezza. E la gioia che provoca, il sorriso sui nostri volti,è già di per se un coltello nel fianco del nemico. In Rojava si dice che l’estetica è come una rosa, a cui sono necessarie spine per difendersi; queste spine sono l’etica, i valori, ma sono anche la lotta, perché la bellezza senza lotta diventa vuota” (pag. 196)

E queste considerazioni finali mi portano a comprendere ancora di più la straordinaria vicinanza tra lotta dei curdi del Rojava e l’esperienza del Movimento No Tav in Val di Susa. Per cui mi permetto di segnalare, in chiusura, tre agili e sintetici, ma tutt’altro che superficiali, libretti prodotti da una casa editrice vicina al movimento No Tav sulla questione fin qui esplorata:

Dai monti del Kurdistan. Intervista a più voci in un villaggio del Kurdistan turco, Alpi libere, Cuneo maggio 2012, pp. 32, € 2,00

pepino-kurdistan Daniele Pepino, Nell’occhio del ciclone. La resistenza curda tra guerra e rivoluzione, TABOR edizioni, Valle di Susa, dicembre 2014, € 2,00

Janeth Bielh, Dallo Stato-nazione al comunalismo. Murray Bookchin, Abdullah Öcalan e le dialettiche della democrazia, TABOR “materiali”, Valle di Susa , giugno 2015, € 2,00


  1. Pratica matrimoniale che consiste nello scambio di spose tra famiglie. E’ spesso utilizzata per mettere fine a sanguinose faide inter-famigliari  

  2. https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/  

  3. Riferibili, o almeno così sembrerebbe dopo una prima lettura, in alcuni casi alle posizioni del Mlkp (Marksist-Leninist komünist partisi – Partito comunista marxista-leninista)  

  4. Questa ricostruzione, di per sé corretta, risente tuttavia delle forzature interpretative del pensiero di Marx fatte dagli stessi marxisti. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

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