Mary Shelley – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le macchine della paura https://www.carmillaonline.com/2025/02/24/le-macchine-della-paura/ Mon, 24 Feb 2025 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87071 di Paolo Lago

Fabio Malagnini, Horror ex machina. Intelligenze artificiali, robot e androidi nel cinema dell’orrore tecnologico, Odoya, Bologna, 2024, pp. 285, euro 22,00.

L’animazione di un oggetto inanimato, secondo Sigmund Freud, rientra nella categoria del “perturbante”, un concetto che si riallaccia a ciò che è spaventoso e che provoca orrore. Rifacendosi alla fiaba di Hoffmann dal titolo Il mago Sabbiolino, Freud afferma che desta particolare perturbamento “una bambola che sembra viva”1 e che “è perturbante in sommo grado [...]]]> di Paolo Lago

Fabio Malagnini, Horror ex machina. Intelligenze artificiali, robot e androidi nel cinema dell’orrore tecnologico, Odoya, Bologna, 2024, pp. 285, euro 22,00.

L’animazione di un oggetto inanimato, secondo Sigmund Freud, rientra nella categoria del “perturbante”, un concetto che si riallaccia a ciò che è spaventoso e che provoca orrore. Rifacendosi alla fiaba di Hoffmann dal titolo Il mago Sabbiolino, Freud afferma che desta particolare perturbamento “una bambola che sembra viva”1 e che “è perturbante in sommo grado il fatto che un oggetto inanimato, ritratto o bambola, acquisti vita propria”2. La bambola della fiaba di Hoffmann appare come un “automa”, cioè un essere che si muove da solo: se lì la spiegazione del movimento era puramente magica e soprannaturale, il movimento degli automi reali, realizzati a partire dal XVII secolo, era meccanico. Questi ultimi si potevano incontrare anche ai banchetti e alle feste delle corti barocche e settecentesche, esposti a fare bella mostra di sé: basta dare uno sguardo all’iperbolico banchetto di una corte tedesca ricostruito dalla fantasia di Federico Fellini in Il Casanova di Federico Fellini (1976), al quale partecipa uno stupefatto Giacomo Casanova. Qui, il celebre intellettuale e seduttore veneziano incontra una bambola meccanica che provoca in lui contemporaneamente attrazione e perturbamento e della quale finirà per innamorarsi.

Ma l’automa è anche e soprattutto portatore di orrore: non è un caso che il vampiro di Murnau, in Nosferatu. Una sinfonia dell’orrore (1922), emerga dal sepolcro e si muova quasi come una marionetta o un burattino, in modo meccanico, come un sonnambulo. Esseri sonnambulici, definiti “automi spirituali” e “mummie del pensiero” da Gilles Deleuze3 sono presenti d’altronde anche nel cinema di Dreyer, non a caso proprio in Vampyr – Il vampiro (1932). La figura dell’automa, nell’immaginario della fantascienza, si è evoluta poi nelle sembianze dell’androide, un essere meccanico dotato di una superiore intelligenza artificiale: è quest’ultima a sostituire, oggi, gli elementi magici, meravigliosi e demonici. Un cortocircuito di tematiche che, nella contemporaneità, esce dall’immaginario cinematografico e letterario per lambire la realtà: è da essa, in cui l’intelligenza artificiale si è ormai diffusa, che emergono gli spunti più inquietanti per un nuovo “orrore tecnologico”. È proprio di questo che si occupa il nuovo, interessante saggio di Fabio Malagnini dal titolo significativo di Horror ex machina, dedicato, come leggiamo nel sottotitolo, al “cinema dell’orrore tecnologico”. Se nel nesso Ex machina si può intravedere un riferimento al film del 2014 di Alex Garland (Ex machina appunto) è anche vero che Horror ex machina è una frase latina che significa “orrore dalla macchina”. Non solo il “sonno della ragione”, ma anche la tecnologia genera mostri, e li può generare anche nel mondo reale oggi più che mai, con l’elezione al soglio presidenziale degli Stati Uniti di Donald Trump e lo strapotere che ha assunto (se possibile, ancora più di prima) il suo accolito Elon Musk. Come scrive Malagnini, “parlare di AI e di mostri” non significa parlare soltanto del presente o del passato ma anche “guardare attraverso le ombre e i fantasmi che il futuro proietta verso di noi” (p. 31).

E comunque, Malagnini nel suo denso saggio dedica ampio spazio anche al passato. Un capitolo, ad esempio, è dedicato proprio agli automi, i quali “simboleggiano l’infanzia dell’automazione” (p. 34). Si arriva quindi anche all’automazione per l’infanzia, cioè i giocattoli meccanici ed elettronici che, nell’immaginario horror preso in esame, si configurano come “giocattoli killer”. Si può pensare, allora, fra i tanti film analizzati, alla bambola Chucky, posseduta dallo spirito di un serial killer, nella saga di Child’s Play, che “inizia nel 1988 e conta 7 film più una serie tv fino al reboot del 2019”. C’è poi una “bambola assassina per la generazione di ChatGPT” (p. 45), vale a dire quella di M3gan (2022), diretto da Gerard Johnstone, in cui una ricercatrice di robotica crea una bambola superintelligente per tenere compagnia a sua nipote Cady. La bambola, pur di proteggere Cady, sarà disposta anche ad uccidere senza pietà. Sempre nel passato è situato il “mostro elettrico” (titolo del capitolo 2) per eccellenza, Frankenstein, nato dalla fantasia di Mary Shelley. Antenato degli androidi, Frankenstein ha conosciuto una enorme fortuna cinematografica, dovuta indubbiamente soprattutto a James Whale e Terence Fisher per riversarsi negli anni Settanta nel geniale Frankenstein Junior (1974) diretto da Mel Brooks e ricomparire, recentemente, sotto le vesti femminili di Bella Baxter nell’altrettanto geniale pastiche di Yorgos Lanthimos, Povere creature! (Poor Things, 2023) tratto dal romanzo di Alasdair Gray. Come scrive Franco Moretti, il mostro “ci fa anche capire che in una società diseguale gli uomini non sono uguali”4, perché “la diseguaglianza scava la pelle, gli occhi, il corpo”5, una diseguaglianza bene evidente nella società industriale, in cui gli operai, costretti a lavorare nelle fabbriche a ritmi disumani, non sono davvero uguali ai ricchi borghesi. Per certi aspetti, gli androidi di Blade Runner (1982) di Ridley Scott, diversi dagli esseri umani perché costretti in vite a scadenza molto brevi, sono i pronipoti di Frankenstein anche perché sono coloro che devono lavorare a ritmi disumani in luoghi disumani, nelle lande più remote e inaccessibili dello spazio. E gli esseri umani, dopo averli creati, non trovano di meglio che cacciarli ed eliminarli in serie nelle strade di una fatiscente Los Angeles del 2019. Da Frankenstein alla clonazione, poi, il passo è più breve di quanto sembri: se nella realtà il primo mammifero clonato in laboratorio era stata la “pecora Dolly”, nell’immaginario tecno-horror le clonazioni abbondano, da quelle di Alien – La clonazione (Alien: Ressurection, 1997) di Jean-Pierre Jeunet, in cui sono stati clonati ibridi umani e xenomorfi fino alla saga di Resident Evil (2002-2017), dove “il clone è creato con intenti chiaramente dinastici per diventare l’elemento problematico e dinamico della saga” (p. 104).

E se la “macchina” dotata di intelligenza artificiale non ha un aspetto antropomorfo, androide o ginoide, ma appare sotto le vesti di un cervellone elettronico, uno scatolone parlante? È sicuramente meno affascinante, anche meno inquietante, ma non certo meno terribile. In un capitolo dedicato ai “cervelli elettronici”, Malagnini ci informa che HAL 9000, il computer di 2001 Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) di Stanley Kubrick, ha superato anche Alien, lo squalo di Spielberg e Terminator nella classifica dei ‘cattivi’ di tutti i tempi. Si tratta di una AI ‘addestrata’ a ‘pensare’ come un essere umano, un processo che sta avvenendo oggi anche nella realtà e per cui è stato coniato il termine “Psicologia delle macchine” perché la liaison tra cervello e computer si fa sempre più stretta. Ma, come osserva l’autore, “l’inconscio della macchina incorpora volenti o nolenti i nostri pregiudizi culturali” (pp. 11-12). Stereotipi culturali e di pensiero legati a un passato e a un presente ‘discriminanti’ provocano inquietanti bias cognitivi: ad esempio, un archivio utilizzato per addestrare le AI, erroneamente ritenuto “universale”, possiede un’idea di “città” incentrata su metropoli come Londra, Tokyo, Parigi, New York e non su Città del Messico, Pechino o Nairobi; allo stesso modo, la conoscenza degli esseri umani è basata su un’alta percentuale di individui bianchi, maschi e occidentali con una bassissima presenza di bambini e donne africane. Un altro cervellone spaziale si incontra sulla Nostromo, la nave cargo di Alien (1979) di Ridley Scott, chiamato confidenzialmente “Mother”. Una ‘madre’ accudente ma che in realtà è programmata per fare gli interessi della corporation che possiede l’astronave a scapito degli esseri umani. Un’altra AI dalle connotazioni materne è presente anche nel più recente I Am Mother (2019) di Grant Sputore ma anche qui si tratta di una madre crudele, che mira a sterminare gli esseri umani per creare una razza superiore e più intelligente. In questo film la AI possiede l’aspetto di un robot molto ‘rozzo’, una specie di scatola con braccia e gambe, e ci ricorda, allora, tutta una serie di personaggi robotici più o meno ‘buoni’ o ‘cattivi’, pronti, a partire da Metropolis (Fritz Lang, 1927), a ribellarsi ai creatori umani.

Ma, come spiega Malagnini, esiste anche “la variabile umanoide” (titolo del capitolo 6), cioè esseri robotici che, a prima vista, non sono distinguibili dagli uomini in carne ed ossa, gli androidi. Come nota l’autore, “se il robot nasce dall’idea di automatizzare l’umano, l’androide rappresenta il tentativo di umanizzare la macchina. Il primo riflette storicamente la società delle masse, il secondo quello dell’individuo neoliberale” (p. 184). Fra gli innumerevoli film in cui sono presenti gli androidi risulta sicuramente interessante Westworld (1973) di Michael Crichton: in un parco a tema in cui “tutto è permesso”, i ricchi occidentali possono uccidere o violentare androidi a loro piacimento. Anche qui scatta il meccanismo della ribellione perché un ignaro turista, a un certo punto, sarà perseguitato da un robot-pistolero impazzito (Yul Brinner) in un’area tematica dedicata al selvaggio West. Alla categoria degli androidi appartengono anche alcuni personaggi di due film di Ridley Scott già ricordati, Alien e Blade Runner. In quest’ultimo avevamo incontrato anche Pris e Zhora, due androidi femminili o, per meglio dire, ginoidi (dal greco γυνή, “donna”) che, negli anni Ottanta e Novanta, offriranno lo spunto a molti “cliché action femminili” (pp. 193-194) “tra somatofobia e tecnofobia” (p. 195).

Nel “cinema dell’orrore tecnologico” sono poi ampiamente presenti i cyborg (contrazione di cybernetic organism, termine coniato da due scienziati della NASA nel lontano 1960), cioè gli esseri dotati di appendici meccaniche. Come scrive Malagnini,

la realtà ci sottopone ogni giorno casi concreti di cyborg a cominciare da chi si è sottoposto a un intervento per un bypass toracico o una protesi robotica per mani, gambe, avambracci, ecc. L’immaginario cinematografico ha invece continuato a creare mostri utilizzando la vecchia antinomia uomo-macchina, ereditata dalla fantascienza del secolo scorso. La figurazione e l’ontologia del cyborg, d’altro canto, sfumano oggi nella bolla del capitalismo tecnoscientifico, in un assemblaggio di corpi, tecnologie e politiche riproduttive che Donna Haraway ha ribattezzato ironicamente New World Order Inc. (p. 204).

Non si può non ricordare allora la teorizzazione del cyborg attuata da Donna Haraway nel suo celebre saggio uscito nel 1985 (Manifesto cyborg), in cui, all’interno di un approccio anti-tecnofobico, esso “rende problematica la condizione di uomo, donna, umano, razza, corpo. Il corpo femminile non è più il corpo materno; esclude ogni dualismo e ogni comunicazione universalmente comprensibile”6. Come nota l’autore, non sono numerosi i filmmaker che hanno descritto la nostra società come una cyborg society dal punto di vista degli oppressi: si può ricordare Alex Rivera con Sleep Dealer (2008) che mostra un futuro distopico in cui il capitalismo cyborg ha sigillato le frontiere tra il Messico e gli Stati Uniti (non troppo lontano dall’altrettanto distopica realtà che viviamo), e ha connesso i migranti a una realtà virtuale per sfruttarli direttamente a casa loro. Anche al di fuori delle proiezioni distopiche, si può pensare al nostro presente e osservare che, comunque, il corpo cyborg si presenta come “il corpo glorioso e sventrato dell’Antropocene” (p. 212).

L’orrore tecnologico può provenire anche dai media ed esiste tutto un filone di film dedicato a questo tema: il più significativo è senza dubbio Videodrome (1983) di David Cronenberg, in cui il terrore viaggia attraverso una comunicazione televisiva solcata da inenarrabili oscuri poteri e capace, addirittura, di forgiare una “nuova carne”. E se alla comunicazione televisiva, tipica del momento transizionale degli anni Ottanta, sostituiamo quella digitale ci troviamo proiettati nell’attuale immaginario tecno-horror e in buona parte della nostra realtà. Adesso non si parla solo di social e di comunicazione digitale ma anche di intelligenza artificiale che si mescola in modo pervasivo alle nostre vite e al mondo che ci circonda. Ad esempio – nota Malagnini – “una richiesta a ChatGPT richiede oggi 10 volte l’elettricità necessaria a una search Google ‘vecchio stile’” (p. 269). I consumi e le emissioni provocate da questi complessi sistemi elettronici provocano esorbitanti emissioni nell’atmosfera e “stiamo cominciando a realizzare che tra le AI e la catastrofe esiste dopotutto un nesso molto stretto e che non è la minaccia delle ‘AI cattive’ conosciuta al cinema, e accreditata anche da una parte dell’establishment politico. Il loro impatto materiale sulla crisi climatica è assai più concreto, per non parlare dei problemi di controllo democratico che la concentrazione economica prospetta” (ivi). Altro che androidi che viaggiano nello spazio e si ribellano ai propri creatori, altro che cervelloni elettronici sulle astronavi, altro che robottoni dominatori di lontani mondi distopici: le macchine della paura sono già arrivate nel nostro quotidiano e sono qui, oggi più che mai, in mezzo a noi.


  1. Cfr. S. Freud, Il perturbante, in Id., Un bambino viene battuto e scritti 1919/1920, Newton Compton, Roma, 1976, p. 80. 

  2. Ivi, p. 92. 

  3. Cfr. G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, p. 190. 

  4. F. Moretti, Dialettica della paura in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, Savelli, Roma, 1978, p. 81. 

  5. Ibid

  6. F. Fiorentin, Il cyberfemminismo di Donna Haraway, in “Codice Rosso”, 14 giugno 2022. Qui il link 

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Noi, la Creatura e altre macchine fragili https://www.carmillaonline.com/2023/05/05/noi-la-creatura-e-altre-macchine-fragili/ Fri, 05 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77072 di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di [...]]]> di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di confrontare i testi delle due principali edizioni storiche, notando il passaggio dalla versione più ruvida e ribelle di una Mary Shelley giovanissima – che qualche lettore preferisce per la sua intatta freschezza – all’altra definitiva del 1831, più levigata e moderata. La seconda, Villa Diodati Files. Il primo Frankenstein, curata da Fabio Camilletti grazie a Nova Delphi, Roma 2018, presenta connotati curiosi e di grande fascino: riporta infatti il contenuto originario del manoscritto di Mary senza l’editing del suo geniale partner Percy Bysshe Shelley – dunque un testo più “imperfetto” di quello pubblicato, ma tale da fornirci un più diretto colpo d’occhio sulla scrittura della ragazza Mary e sfatare definitivamente il pregiudizio sessista che avrebbe voluto il romanzo frutto del lavoro del brillante Percy e non della sua giovanissima compagna.

Ovviamente parecchie altre case avevano nel frattempo allestito nuove edizioni del romanzo, e ormai la versione 1818 può essere reperita facilmente anche in Italia, dove in precedenza si trovava in libreria solo quella definitiva. Ma, in attesa delle mirabilia che potranno essere offerte dal bicentenario 2031, Mary Shelley ha continuato a suscitare interessi e scrittura: a essere portata per esempio nelle scuole, per le provocazioni vivide che reca a un pubblico di adolescenti.

Materiali d’interesse sono a questo proposito offerti da un volume divulgativo di grande intelligenza da poco uscito, Vita e visioni. Mary Shelley e noi, a cura di Vittorina Maestroni e Thomas Casadei, con una graphic novel di Claudia Leonardi (pp. 137, € 15) per i tipi Mucchi, Modena 2023: un testo adatto soprattutto a lettori giovani, e che affronta il panorama dell’opera dell’autrice – non solo Frankenstein ma Valperga (1823), L’ultimo uomo (1826) e cenni sul resto (in effetti non andrebbe dimenticato il suo romanzo ultimo Falkner, 1837, ottimamente presentato in Italia come Il segreto di Falkner, a cura di Elena Tregnaghi, Edizioni della Sera, Roma 2017) – mediante una prospettiva di genere. Alla Presentazione dei curatori segue Mary Shelley: una graphic novel, apprezzabile al netto di alcune libertà; una breve, partecipe biografia a cura di Silvia Bartoli, Mary Shelley: una vita fra dolore e scrittura; la panoramica sui tre romanzi citati Scrittura, sogni e visioni. Selezione e traduzione dei testi a cura di Lilla Maria Crisafulli (con S. Bartoli, P. Leech e V. Maestroni); un’interessante rassegna di Parole-chiave dell’opera di Mary (Maternità; Trauma, dolore, sofferenza; Mostro; Bellezza; Fantascienza; Donne e scienza; Cultura patriarcale; Relazioni; Repubblicanesimo; Traduzione), commentata a firma di più autori. Termina il tutto una sezione Strumenti, articolata in Lo sapevi che… e in Consigli di lettura a cura del Centro documentazione donna. Finito di stampare – significativamente – l’8 marzo di quest’anno, il volume persegue come detto una prospettiva di genere: un grandangolo che permette in realtà di cogliere in modo molto ampio e sfaccettato i temi dell’opera shelleyana e induce senz’altro a consigliare questo testo per attività didattiche.

Decisamente una diversa complessità offre uno splendido studio di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (pp. 179, € 19) Carocci, Roma 2022: se l’intersezione-Frankenstein riguarda anche qui solo una delle opere citate, per quanto emblematica, il focus è la provocazione su cosa significhi essere umani a partire dalla figura dell’automa nell’immaginario letterario e audiovisivo.

 

Il volume riguarda gli effetti di una rivoluzione tecnologica molto discussa e che la comunità umana sente imminente. Se nel corso del XX secolo sono state considerate rilevanti le conseguenze culturali e antropologiche della possibilità di riprodurre il manufatto artistico attraverso la tecnica, gli scrittori di finzione si sono spesso confrontati con quelle legate alla riproduzione tecnologica dell’umano stesso. Il tema centrale del libro riguarda i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica della contemporaneità, nell’ibridazione dell’umano con la macchina, e nella crescente automazione degli oggetti che ci circondano e delle attività a cui prendiamo parte. L’argomento è declinato su diversi livelli di discorso: la fragilità umana, quella corporea e nella dimensione interiore ed esistenziale, la fragilità dell’ambiente che ci circonda, quella del nostro pianeta vulnerabile all’impatto di otto miliardi di esseri umani che lo sottomettono nell’esercizio della vita. A complemento di queste condizioni incarnate nel reale, esploreremo ipotesi affini, ma applicate a figure dell’immaginario fantascientifico. Attraverso l’analisi di una selezione di testi che provengono dalla letteratura, dal cinema, dall’animazione e dalla serialità televisiva, e lungo il crinale che le ibridazioni tra natura e artificio rendono via via meno netto, andremo alla ricerca di cosa significhi essere umani scrutando nell’immagine rovesciata della natura umana, nel negativo che è dato dall’artificio dell’automa e del cyborg.

 

Il testo, dalla bibliografia ricchissima, si articola in cinque parti: il ripercorrerle sinteticamente in questa sede potrà offrire solo una vaghissima impressione della ricchezza dei contenuti. La prima parte, Tra paradigma indiziario e seduta psicoanalitica: il dialogo con la macchina antropomorfa, prende avvio dall’interrogarsi su Il problema della coscienza, con le sue dimensioni sfuggenti; Oltre l’antropocentrismo conduce a riflettere sul concetto di io, sulla critica della “tradizione dell’umanesimo occidentale, basata su una serie di opposizioni dicotomiche che risalgono alla suddivisione cartesiana tra res cogitans e res extensa” (identità/alterità, natura/cultura, uomo/donna, bianco/nero ecc.), sulle istanze del postumano degli studi di Donna Haraway; Il cyborg e l’androide tratta della rappresentazione della creatura artificiale offrendo un po’ di puntualizzazioni lessicali. “L’atteggiamento dell’umano nei confronti della creatura artificiale oscilla tra fascinazione e paura”: e di qui si apre un discorso sui Dialoghi perturbanti tra uomo e oggetti umanoidi, con il riferimento fondamentale alla categoria del Perturbante (Jentsch, Freud…) e la teoria della uncanny valley di Masahiro Mori. Proprio la chiave del dialogo finisce con l’essere rivelativa: e lo studio procede con esempi in questo senso tratti da testi letterari e cinematografici. In particolare attraverso due autori emblematici: Isaac Asimov: i robot e l’interrogatorio; Philip K. Dick: i replicanti e la misurazione dell’empatia; e di qui si passa alla seconda parte.

Dal cyberpunk al postumano:Ghost in the Shell’ prende le mosse da un’Ontologia del cyborg. Considerando preliminarmente che “Negli ultimi settant’anni, la figura dell’umano-macchina ha cambiato statuto, passando dalla dimensione dell’immaginario a quella dell’esistente”, e che “Il cyborg ha attraversato i sottogeneri della letteratura fantascientifica, e non di rado è femminile e immaginato da scrittrici”. Donna Haraway definisce il cyborg

 

un controparadigma che descrive l’intersezione del corpo con una realtà esterna molteplice e complessa: è una lettura moderna non solo del corpo, non solo delle macchine, ma di quello che passa e succede tra di loro. In quanto modo di intervenire nel dibattito sul rapporto tra mente e corpo, il cyborg è un costrutto post-metafisico.

 

Di qui la riflessione sulla fascinazione per l’Asia e il Giappone come uno dei tratti distintivi del cyberpunk e La genesi diGhost in the Shell’, manga di Masamune Shirow (1988) poi affiancato dalla reinterpretazione di Mamoru Oshii in formato anime (1995). Un’opera dai connotati illuminanti (“Il cyberpunk aveva recuperato la distinzione in modo ambivalente attraverso la separazione semantica tra hardware/corpo e software/coscienza. Qui questi termini sono ulteriormente traslati rispettivamente nelle metafore shell e ghost”) affrontata da Piga Bruni attraverso gli step di Caduta e rispecchiamento, Autocoscienza e riconoscimento, Ambizione e trascendenza: verso il postumano.

Un’altra opera-cardine è quella cui viene dedicato il capitolo 3, ‘Westworld’ e l’inconscio artificiale: a partire dal film del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton e distribuito in Italia con il titolo Il mondo dei robot, da cui deriva la serie televisiva Westworld (in Italia, Westworld – Dove tutto è concesso) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy, prime quattro stagioni 2016-2222. Il film originale era stato di grande successo negli anni Settanta e di culto per l’immaginario distopico: la storia di un parco a tema (ben prima dell’altrettanto crichtoniano Jurassic Park) dove qualcosa va storto nella programmazione degli androidi, detti host o “attrazioni”: impossibile dimenticare il raggelante pistolero-androide Yul Brinner. Epopea western e wonderland. Dal film alla serie TV affronta vari nodi della riscrittura: in Forme della serialità televisiva emerge tra l’altro l’influenza di Ghost in the Shell nell’immaginario di Westworld; Dal robot elettromeccanico alla ginoide vitruviana tratta gli adattamenti del romanzo da parte di Nolan e Joy per quanto concerne la fisicità degli androidi; Sguardi situati e visioni creaturali affronta le variazioni di “interiorità” rispetto alla versione-fonte, che conducono gli spettatori a identificarsi in androidi con coscienza e inconscio artificiali (emblematico il caso della ginoide Maeve, la cui prospettiva è “Lontanissima dalla visione pixellata e asettica del pistolero nero nel film”); Variazioni distopiche: dal vecchio West al panopticon riflette sul parco come sistema totalitario. Ampliando l’obiettivo, Labirinti del sogno. Alice e Borges aWestworld’ parte con Figure del labirinto dalla constatazione borgesiana che “Tutto è labirinto, gli oggetti ma anche il tempo e l’universo. Il vero labirinto non è spaziale ma è lo scarto tra ciò che crediamo di vivere e ciò che viviamo realmente”.

 

Per Borges, il labirinto riguarda la vita e la scrittura, sia la realtà sia la finzione. In queste pagine mi soffermo sulla complessità della relazione che lega assieme le due sfere e, con un’estensione metaforica, includo nella riflessione un’articolazione ulteriore del termine “finzione”, il sogno. Altra passione borgesiana, il sogno è una modalità altra «di creare mondi possibili, virtuali, del tutto alternativi al mondo reale» […]. Tanto il labirinto quanto il sogno possiedono due volti. Nella metafora del labirinto troviamo, a un tempo, struttura dell’esperienza, ricerca del sé, percorso di formazione e allegorie del sacro, così come smarrimento, impotenza, orizzonte celato o visione inibita. Il sogno può divenire incubo.

 

Un motivo per cui Borges riprende Lewis Carroll e il dittico di Alice: e qui la riflessione su Westworld si protrae in due direzioni, Il labirinto come struttura dell’esperienza (nonché metafora della memoria, “la quest coincide con la ricerca della propria identità” e “metafora del proprio sé più profondo, da raggiungere, come Alice, oltrepassando lo specchio”) e Il labirinto come metafora della complessità (dove “la sfera in cui maggiormente si dispiega è quella del tempo”). Fino a Risvegli. Il sogno nel sogno, sulla domanda “Am I in a dream?” del personaggio Dolores, con significativi echi non solo al “dubbio ontologico tanto esplorato dalla fantascienza («in quale mondo siamo?»)”, ma alle avventure di Alice, visto che “il parco Westworld è una versione distopica del wonderland”. Gli sviluppi conseguenti non potranno che trattare Presa di coscienza e rivolta: dall’apocalisse alla genesi, con il massacro degli umani funzionale a un nuovo inizio, e L’inconscio artificiale, sulle reveries che permettono agli androidi di evolvere e riappropriarsi della memoria (“In quanto immagini di esperienze appartenenti al passato, sono brandelli di un inconscio artificiale di tipo personale” trattandosi di “ricordi di storie dismesse”), a sovvertire il sistema.

Il capitolo 4, Il realismo perturbante delle macchine come noi, prende avvio da Una questione morale, sui risvolti etici del tema evocati da Ian McEwan (Machines Like Me and People Like You, 2019); e i paragrafi successivi – Il realismo perturbante, Forme del dialogismo, Forme dell’immedesimazione – approfondiscono le relative provocazioni. Fino alla nota chiave in cui culmina l’intero volume, La fragilità dell’altro attraverso gli step di Contraddizioni e rivolta e La solitudine della creatura: presenti già nell’opera di Mary Shelley, questi stigmi dolorosi finiscono con lo stemperare il nostro timore delle macchine nella contemplazione di esiti di sofferenza che ci affratellano e non possono lasciarci insensibili.

A chiudere il volume come quinto capitolo è un bel contributo di Christiano Presutti, L’umano nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che prende le mosse dal romanzo steampunk di William Gibson e Bruce Sterling The Difference Engine (La macchina della realtà), 1990. Lo sfocarsi dei confini tra scienze naturali e scienze umane nella seconda rivoluzione industriale grazie all’emergere di nuovi paradigmi “avrebbe portato il mondo scientifico a orientare il proprio punto di vista verso il dominio umanistico e viceversa, in un gioco di specchi e scambi di ruolo che si è protratto sino a oggi e che caratterizza le moderne discipline scientifiche interdisciplinari”. Sempre più lo scienziato è – o dovrebbe essere – indotto a interpellarsi sul significato filosofico e “umanistico” del risultato delle proprie ricerche: e a parte alcune opere pionieristiche dell’ottocento (Mary Shelley, Hoffmann, Poe…), è solo con il secolo successivo che la protofantascienza di Verne e Wells può lasciare il posto alla SF vera e propria. Tra le idee più fortunate sviluppate in quest’ambito sono quelle attorno alla macchina intelligente e al problema dell’emergenza della coscienza. Di qui l’esame di Presutti si sviluppa attraverso tre tappe, La mente artificiale (con le varie definizioni di IA), Che cos’è la coscienza, La coscienza artificiale o immaginare l’impossibile, arricchendo in modo importante l’itinerario di Piga Bruni.

Una ricca bibliografia conclude questo studio molto bello, dove la chiave della macchina fragile rappresenta una preziosissima provocazione. La presa di coscienza della quale dovrebbe illuminare non solo la nostra percezione teorica di questi temi, ma in fondo la vita stessa che ci arrabattiamo a vivere.

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L’altro che è (anche) in me https://www.carmillaonline.com/2023/04/25/laltro-che-e-anche-in-me/ Tue, 25 Apr 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76766 di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, [...]]]> di Sandro Moiso

[Si riproduce qui di seguito una versione abbreviata della Prefazione a G. Toni, P. Lago, Alle radici di un nuovo immaginario, Rogas Edizioni, Roma 2023]

Qualcosa di spaventoso è entrato nella mia vita! (E.T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia)

Se già nel 1919 Freud poté scrivere un testo che fin dal titolo, Il perturbante, dichiarava il tema di una profonda ed emblematica inquietudine, ovvero quella dello straniamento e dello smarrimento della consapevolezza, che volge dalla ragione allo spaesamento, è anche vero che lo smarrirsi della ragione e del sé, entrambi sospinti in un improvviso vuoto di riferimenti oggettivi, appare come una caratteristica dell’immaginario moderno, eccitato da un ambiente sociale e tecnologico divenuto sempre più estraneo al proprio essere presente di ogni singolo individuo.
E’ evidente che l’altro da sé stimola gran parte delle paure moderne basate sulle differenze di razza, classe, genere, ma ciò avviene perché spesso tale alterità può anche presentarsi come la presa di coscienza dell’esistenza dell’altro nel sé,

Fu certamente Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776 -1822) il primo autore a far precipitare nella letteratura della sua epoca la figura dell’altro da noi che in realtà è in noi, del doppelganger (in tedesco il “doppio camminatore”) che con la sua presenza faccia parte di un altro essere umano e ne condivida la vita, la osservi soltanto oppure cerchi di sostituirsi ad esso. Una sorta di gemello malvagio che si presenta rivelandone il lato oscuro e patologico della personalità.

Ma se la figura del doppio o dell’altro consimile era già presente nelle culture dei secoli precedenti, come effetto di magie e stregonerie, è proprio con la Rivoluzione Industriale che l’altro da sé di cui si ha paura, ma che in realtà è anche parte del proprio sé, esplode nell’immaginario e nella psiche individuale e sociale. Come ha affermato Luca Crescenzi, in una sua introduzione ai Notturni di E.T.A. Hoffmann:

[…] il vero movente della narrazione notturna era la rappresentazione tanto evidente quanto spietata della modernità e, soprattutto, della tecnica quale sua componente essenziale. In modo clamoroso questa dimensione del notturno emergeva nelle pagine dell’Uomo della sabbia, il racconto che, non a caso, poté sedurre più di ogni altro l’immaginazione artistica ottocentesca e novecentesca. Il primo dei Notturni rappresentava infatti in modo più esplicito di ogni altra narrazione hoffmaniana l’aggressione che l’impotente individuo moderno subiva ad opera della tecnica.
[…] L’aspirazione demiurgica della tecnica, la sua volontà di assimilarsi alla potenza divina, venivano qui mostrate nella loro valenza nichilista e distruttiva. Il mondo costruito dalla scienza racchiudeva in se stesso il germe della notte.
[…] Il tratto veramente spaventoso e «perturbante» dei Notturni hoffmaniani era dato dalla visione di un’umanità disumanizzata dalla tecnica e di individui resi incapaci di esercitare un autonomo controllo sulle loro facoltà fisiche e psichiche. Il mondo moderno appariva a Hoffmann percorso in profondità dall’orrore della spersonalizzazione e dell’alienazione del singolo da se stesso. La realtà che esso produceva era una realtà oscura, dominata d una titanica volontà distruttiva1.

Redatto di getto, in una prima versione, nella notte tra il 15 e il 16 novembre 1815 L’uomo della sabbia sarà eguagliato all’epoca, nella critica alla notte dell’umano creato da una tecnica dalle aspirazioni caratterizzate da una demoniaca volontà di potenza, soltanto da un altro romanzo della stessa epoca: Frankenstein o il moderno Prometeo (Frankenstein, or The Modern Prometheus).

Scritto, tra il 1816 e il 1817, da una Mary Shelley ancora diciannovenne, il romanzo sarebbe stato ideato nella piovosa e fredda estate del 1816 mentre l’autrice, Mary Wollstonecraft Godwin insieme al futuro marito Percy Bysshe Shelley e John William Polidori, era ospite di Lord Byron che, per l’occasione aveva affittato Villa Diodati, già Villa Belle Rive, a Cologny, nel cantone di Ginevra.

Se nel racconto di Hoffmann a dominare sarebbe stata l’immagine dell’automa dalle sembianze femminili e dotato di occhi umani strappati a un vivente, nel romanzo della Shelley il lettore sarebbe stato terrorizzato dell’essere creato dal dottor Victor Frankenstein per mezzo dell’assemblaggio di parti di cadaveri e dell’utilizzo della corrente elettrica originata dai fulmini per dare vita al cadavere così ricomposto attraverso un esperimento ispirato a quelli di Luigi Galvani (1737 – 1798).

In entrambi i casi ci troviamo di fronte a qualcosa di inumano cui viene donata la vita per mezzo di una scienza e di una tecnica profondamente marcate dall’inumanità degli strumenti della ricerca.
In tutte e due le narrazioni ci troviamo di fronte all’anticipazione letteraria di quell’alienazione dell’individuo creata dal sistema delle macchine assurto in auge a partire dalla Rivoluzione industriale e perfettamente messa a fuoco, sul piano politico e sociale, da Karl Marx fin dai suoi giovanili Manoscritti economico filosofici del 1844.

L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. […] Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci.
[…] La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia capitalistica come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.2.

Svelando poi definitivamente l’arcano nelle pagine successive.

E ora in che consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. […] Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […] Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma a un altro3.

Il passaggio dell’alienazione nella contemporaneità, dal lavoro operaio a quello di strati sociali che da questo pretendevano di essere separati, si manifesta letterariamente nella più famosa opera di Franz Kafka, pubblicata per la prima volta a un secolo di distanza dalle due precedenti nel 1915, La metamorfosi. L’opera forse più sintomatica dell’immaginario moderno vede il tranquillo rappresentante di commercio Gregor Samsa, membro di una famiglia piccolo borghese di Praga, scoprire la propria alienazione, lavorativa e famigliare, e la separazione dal proprio sé attraverso una drammatica e sconvolgente trasformazione fisica.

Gregor Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un po’ la testa vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerose nervature. La coperta, in equilibrio sulla sua punta, minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente davanti agli occhi. “Che mi è successo?” pensò. Non era un sogno.

Possiamo fissare qui l’inizio dell’incubo della modernità rappresentato dalla paura della perdita del sé o della scoperta di esserne individualmente portatori di un altro che caratterizza le opere cinematografiche analizzate da Gioacchino Toni e Paolo Lago.

Rispettivamente del 1979 (Alien), 1982 (Blade Runner e La cosa) e 1983 (Videodrome), nel giro di pochissimi anni portano sulla scena l’anticipazione, se non la conferma, delle paure più recondite degli individui, più o meno consci della radicale trasformazione antropologica, sociale e psicologica in atto in prossimità della fine del secondo millennio.

Più di centosessanta anni dopo le prime e sessanta dopo l’opera di Kafka, quegli autori ci dicono che la situazione non è migliorata ma, anzi, che è peggiorata. Che, insomma, non è bastato andare sulla Luna o cantare le lodi del welfare state per convincere la società che tutto sarebbe andato bene da lì in avanti. La festa post-sessantottina e successiva alla fine della guerra in Vietnam era già finita.

Il piccolo margine di autonomia conquistato dai lavoratori dell’Occidente e dagli esclusi del Primo e del Terzo Mondo si stava già rinchiudendo. Margaret Thatcher (primo ministro inglese dal 1979 al 1990) e Ronald Reagan (quarantesimo presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989) preannunciavano, non solo simbolicamente, il trionfo di un ultra-liberismo che avrebbe portato alla globalizzazione economica su scala planetaria e alla fine di ogni diritto collettivo o su scala comunitaria, per tornare a rinchiudere gli individui nella ristretta e meschina dimensione del sé.

Motivo per cui sarebbe cresciuta in maniera esponenziale la paura di essere come l’altro, il povero, l’emarginato, il migrante proveniente dalle aree più povere, o devastate da crisi economica o ambientale oppure dalla guerra, del mondo al di fuori di quello che un tempo si riteneva sicuro, benestante e garantito, identificabile con quello bianco e occidentale.

Il cittadino occidentale nello specchio dell’immaginario ha iniziato a non riconoscersi più come tale, ma piuttosto come il futuro povero, figura ben più terrificante della figura del vampiro (che nello specchio, secondo la tradizione, non si rifletteva).

Un altro da sé iniziava a strisciare sul fondo delle coscienze individuali, mentre la crisi del lavoro, delle certezze (anche tecnico-scientifiche) e la paura di un futuro che iniziava a mostrarsi nuovamente come ignoto riportavano alla ribalta la figura dell’automa dotato soltanto di vita apparente, del mostro pronto a esplodere dal proprio interno e dell’individuo sfigurato, fisicamente e psichicamente, da una magia esterna, di cui il medium non sarebbe stato più il negromante, colui che ha la facoltà de di comunicare con gli spiriti e con i morti, ma la rete mediatica rappresentata dalla televisione e dagli altri strumenti di comunicazione di massa elettronici.
Nelle quattro opere cinematografiche analizzate dagli autori sono presenti, in forme e modalità diverse, tutti questi aspetti di una nuova paura che si alimenta ancora di quelle più vecchie, sorte fin dagli albori dell’attuale modo di produzione.

Nell’ultimo dei quattro film analizzati, Videodrome di David Cronenberg, tutti i temi si riuniscono: dal controllo esterno esercitato dai media alla possessione del corpo, orrendamente trasformato in qualcosa di alieno e altro dall’umano, tutto concorre a dare voce alla paura e all’orrore per il non essere più ciò che si pensava di essere oppure del dover rassegnarsi ad agire in maniera non più umana o, perlomeno, che come tale si pensava.

Nel film di Cronenberg, ha scritto in suo saggio Gianni Canova: «Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno delle televisione.»4.

Tecnologia, controllo della mente e del corpo, alienazione sociale e individuale si fondono nel corpo umano che diventa altro da sé e allo stesso tempo non più umano ma nemmeno soltanto artificio robotico. In tal modo

Cronenberg inaugura dunque un nuovo tipo di cyborg, che nasce dalla fusione del corpo biologico dell’uomo con i sistemi di comunicazione del pianeta: non più un cyborg elettromeccanico, con impianti spinotti e prese craniali, ma un ibrido tra corpo e flusso comunicativo, quello che potremmo definire “cyborg del codice”5.

E’ di una anno successivo l’uscita del romanzo di SF che avrebbe poi aperto le porte al cyberpunk nella fantascienza, Neuromante di William Gibson (1984), in cui il collegamento tra mente e rete diventa elemento, forse meno tormentato che nel film sopra citato, di quasi normalità nell’esistenza quotidiana e nella società dell’economia dell’informazione.

Quest’ultimo tema, però, rischia di portare lontano da quello iniziale, sul quale occorre tornare in queste ultime righe. Sottolineando come le paure manifestatesi nell’immaginario letterari all’inizio del capitalismo industriale e nel periodo della sua conferma come modo di produzione dominante su scala planetaria siano state confermate e amplificate dal cinema della fine del secondo millennio.

Aprendo una finestra da incubo su quella che sarebbe poi diventata la nostra attuale realtà: in cui l’individuo si è perso, dentro e fuori i luoghi di lavoro e in cui i social hanno finito col divenire luoghi “reali” dell’agire umano e della diffusione di un pensiero unico, di cui gli utenti non sembrano più manifestare alcune coscienza.

Da oggetti originari delle paure della modernità gli automi, i corpi modificati e la perdita della coscienza individuale sono quindi diventati il pane quotidiano dell’agire umano, rovesciando e trasformando in disumano e nemico ciò che è altro da sé: l’umana fatica e sofferenza, nella loro concreta realtà, e il conflitto sociale che ne deriva inevitabilmente.

Il capitale è entrato così nei corpi, nelle coscienze e nell’immaginario della specie minandone la comunità possibile per perpetrare, come lo xenomorfo di Alien, unicamente la propria.


  1. L. Crescenzi, Introduzione a E.T.A. Hoffmann, Notturni, Newton Compton editori, Roma 1995, pp. 12-13.  

  2. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi editore, Torino 1968, p. 71.  

  3. K. Marx, op. cit., pp.74-75.  

  4. G. Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano 1993 cit. in A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing, Brescia 2022, p. 111.  

  5. A. Caronia, op. cit., p.112.  

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Nel 1899 naviga un piroscafo lisergico e mostruoso https://www.carmillaonline.com/2023/02/21/nel-1899-naviga-un-piroscafo-lisergico-e-mostruoso/ Tue, 21 Feb 2023 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76222 di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e [...]]]> di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e il progresso si celano il buio e l’orrore. Ecco che, proprio in quegli ultimi lembi di Ottocento, nel 1897 vede la luce “Dracula” di Bram Stoker, in cui il mostruoso vampiro proveniente dai desolati confini dell’“impero” si reca a Londra, nel cuore economico di quello stesso “impero”. Ecco che, spesso, dietro ai viaggi dall’Inghilterra verso Oriente narrati da Joseph Conrad come, ad esempio, in “Il negro del «Narciso»” – romanzo uscito sempre nel 1897 – si celano la malattia e l’orrore.

Questa dicotomia e questa dialettica sono assai presenti anche nella serie TV Netflix, 1899 (2022, otto episodi di un’unica stagione) di Baran Bo Odar e Jantje Friese. L’azione narrativa si svolge su un piroscafo in viaggio tra l’Europa e l’America sul quale i passeggeri, com’era uso all’epoca, sono rigorosamente divisi in classi. Ci sono i ricchi di prima classe e i poveri di terza, prevalentemente migranti. Il piroscafo, emblema del progresso e della velocità del nuovo secolo che sta per arrivare, fin dalle prime puntate, possiede una marcata connotazione mostruosa: oscuro, gigantesco, con enormi fumaioli dai quali esce perennemente fumo nero proveniente dal suo ventre infernale, la sala macchine, dove i fuochisti sono costretti a lavorare in condizioni ai limiti dell’umano. La nave porta un alone di mostruosità anche nel suo stesso nome, “Kerberos”, che rimanda al guardiano infernale presente nella mitologia antica e nell’Inferno dantesco, un mostruoso cane a tre teste. Se nelle prime puntate la narrazione sembra poggiare su un impianto – se così si può dire – ‘tradizionale’, successivamente subentrano degli spunti narrativi che la trasformano in qualcosa che mai ci saremmo aspettati. Senza spoilerare troppo, si potrebbe affermare che 1899 possiede due film in uno: il primo, prevalentemente di carattere storico, horror e thriller; il secondo di carattere fantascientifico. Gli spazi della nave si configurano come un labirinto dalle connotazioni quasi kafkiane: se all’inizio si potrebbe pensare di trovarci sulla nave di Amerika (postumo, 1927) di Franz Kafka, dove il giovane Karl Rossmann non riesce più a ritrovare la via giusta, successivamente quel labirinto kafkiano si trasforma in un universo virtuale in cui i ‘pixel’ iniziano a spostarsi e a decostruirsi distruggendo passaggi o creandone di nuovi.

Perché – e mi si perdonerà questo spoiler, ma è funzionale a quanto voglio dire – nella seconda parte della narrazione i personaggi, lentamente, capiranno di trovarsi in un mondo virtuale. Se, come scrive Franco Moretti, due ‘classici’ del terrore come Frankenstein di Mary Shelley e Dracula, “sono romanzi in cui la realtà funziona spesso secondo le leggi che governano i sogni”1 sembra che in molto cinema e in molti prodotti per la televisione contemporanei, al sogno, si sostituisca la realtà virtuale a partire, diciamo, da Matrix (The Matrix, 1999) di Lana e Lilly Wachowski. Un altro film incentrato sulle doppie realtà, una virtuale e una reale e sulla necessità di ‘svegliarsi’, da parte dei personaggi, per vedere il mondo reale, è anche l’oscuro e intrigante Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, del 1999 come Matrix) di Josef Rusnak. E allora, in molto cinema contemporaneo – parafrasando Moretti – la realtà funziona secondo le leggi che governano i mondi virtuali creati da fantomatici ‘manovratori’, spesso in intricati giochi di scatole cinesi per cui non si capisce fino in fondo quale sia la ‘vera’ realtà. A monte dell’idea degli universi virtuali creati per mezzo di un computer c’è un archetipo classico come il mito della caverna di Platone che, nella serie TV, viene anche direttamente citato.

Ecco che la nave di 1899, da buona eterotopia (secondo Foucault, infatti, la nave è “l’eterotopia per eccellenza”, cioè lo spazio altro per eccellenza)2 può sovrapporre, in un unico luogo reale, spazi che sono anche molto diversi tra loro3. Attraverso misteriosi passaggi dimensionali, i personaggi si ritrovano in luoghi svariati e, comunque, estremamente diversi dallo spazio navigante circondato dall’Oceano: lande ghiacciate, paesaggi montani desolati oppure luoghi legati al loro doloroso passato. D’altra parte, nella serie, incontriamo una presenza iperbolica e francamente eccessiva di questi passaggi dimensionali i quali, talvolta, conducono anche a sviluppi non sempre comprensibili della trama. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che gli autori di 1899 sono anche quelli di Dark (2017-2020, 3 stagioni per 26 episodi), una serie TV incentrata sui viaggi nel tempo che avvengono, appunto, mediante un apposito varco dimensionale localizzato nella misteriosa cittadina tedesca di Winden.

Fra i luoghi che incontriamo una volta imboccate le porte dimensionali, particolarmente interessante è la clinica psichiatrica del padre della protagonista, la dottoressa Maura Franklin, che è anche il proprietario della compagnia di navigazione alla quale appartiene il “Kerberos”. Dietro i muri della clinica, i personaggi scoprono le nere e tetre fiancate della nave: quest’ultima appare perciò strettamente associata all’universo della follia. Allora, non si può non pensare nuovamente a Foucault e alla sua Storia della follia nell’età classica, nel momento in cui lo studioso descrive l’usanza rinascimentale – che molta fortuna avrà nell’arte letteraria e figurativa – tedesca (come gli autori della serie TV) della “nave dei folli”: affidare i folli alla massa oscura dell’acqua4. Tra l’altro, sempre secondo Foucault, la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”5. Chi altri sono quei personaggi intrappolati sul “Kerberos”, in mezzo all’Oceano, se non dei ‘folli’ alla deriva dal mondo roccioso della ragione? Tra l’altro, il racconto mette in gioco anche il tema del doppio: il “Kerberos”, infatti, si imbatterà in un suo inquietante doppio andato alla deriva, il “Prometheus” sul quale, in una lisergica esplosione musicale di White Rabbit dei Jefferson Airplane (e la colonna sonora è indubbiamente un punto a favore di 1899), verrà ritrovato un bambino misterioso in possesso di una piccola scatola a forma di piramide.

Inutile dire che, anche nel mondo virtuale del piroscafo “Kerberos”, domina la logica spietata del Capitale. I passeggeri di terza classe appaiono come i prigionieri dei più bassi interstizi della nave, solo un gradino più alto della manovalanza maledetta e condannata dei fuochisti. Intrappolati nei loro alloggiamenti separati dal resto della nave da un cancello chiuso a chiave, se solo osano avventurarsi negli eleganti saloni della prima classe, vengono ricacciati dentro il loro inferno in malo modo. Ognuno, sulla nave, sembra condannato a rivestire il suo ruolo in una specie di eterno presente, quello forgiato dalle logiche capitalistiche. D’altra parte, gli stessi ricchi di prima classe, colpiti da una misteriosa epidemia di trance, quasi come zombie si dirigeranno in fila indiana fino sul ponte della nave per poi gettarsi in mare e, come zombie, macchine asservite al Capitale, sono tratteggiati anche i già nominati fuochisti, costretti a gettare incessantemente il carbone nelle caldaie per far correre la nave mostruosa verso un progresso che assomiglia sempre di più ad una prigione. Perché vie d’uscita non ce ne saranno, né nuove sponde e neppure nuovi futuri (e non svelerò davvero l’esplosivo finale): il piroscafo, come un inquieto “Olandese volante” della Rivoluzione industriale, come il vascello dannato del Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe, è solo una truce macchina nomadica lanciata verso gli inferni del mondo irreale nel quale ci stiamo perdendo.


  1. F. Moretti, Dialettica della paura, in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, febbraio 1978, p. 97. 

  2. cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine, 2001, p. 31. 

  3. cfr. ivi, p. 27 

  4. cfr. Id., Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1978, p. 26. 

  5. Id., L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74. 

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Immagini del conflitto / Corpi https://www.carmillaonline.com/2018/06/09/immagini-del-conflitto-corpi/ Fri, 08 Jun 2018 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46124 di Gioacchino Toni

Convinto di come il genere fantascientifico – nelle sue molteplici dilatazioni – abbia saputo condensare epocali processi sociali e conflitti politici, Antonio Tursi, nel suo recente libro Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), si sofferma su alcune rappresentazioni che a ridosso del cambio di millennio hanno messo in luce quei mutamenti di confini che stanno ridisegnando i nostri corpi in un orizzonte post-umano.

Attraverso una serie di esempi narrativi – la figura del cyborg, con i suoi rimandi alla creatura frankensteiniana e a Dracula; [...]]]> di Gioacchino Toni

Convinto di come il genere fantascientifico – nelle sue molteplici dilatazioni – abbia saputo condensare epocali processi sociali e conflitti politici, Antonio Tursi, nel suo recente libro Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), si sofferma su alcune rappresentazioni che a ridosso del cambio di millennio hanno messo in luce quei mutamenti di confini che stanno ridisegnando i nostri corpi in un orizzonte post-umano.

Attraverso una serie di esempi narrativi – la figura del cyborg, con i suoi rimandi alla creatura frankensteiniana e a Dracula; l’universo avatariano di James Cameron; la nuova carne cronenberghiana; la trilogia cinematografica dei fratelli Larry e Andy Wachowski; il ciberspazio dei romanzi di William Gibson, il Metaverso descritto da Neal Stephenson – Tursi riflette su questioni che toccano il nostro presente materiale-immaginario in un volume suddiviso in due parti: Corpi e Spazi. In questo scritto ci limiteremo a prendere in esame soltanto la prima parte del libro, relativa ai Corpi, ripromettendoci di tornare sulla seconda, dedicata agli Spazi, successivamente.

Il rapporto tra corpi e immaginario risulta meno oppositivo di quanto non appaia in un primo momento e ciò risulta particolarmente evidente nell’immaginario tecnologico. Se già nel Golem, creatura umanoide artificiale della tradizione ebraica, nel suo essere proto-umano, i confini tra umano e non-umano, organico e inorganico, naturale e artificiale non appaiono tracciati con la nettezza che contraddistingue la cultura occidentale, è però sull’essere mostruoso assemblato da Frankenstein e sulla figura del conte Dracula che Tursi avvia la riflessione sulla recente figura ibrida del cyborg.

Il corpo della creatura frankensteiniana di Mary Shelley rappresenta l’oggetto scandaloso con cui è costretta a confrontarsi la società borghese pre-vittoriana. «Un corpo assemblato rappezzando pezzi anatomici di cadaveri, attraverso un commercio con il-già-morto, con membra destinate alla putrescenza. Con ciò che la società degli umani ha già relegato nell’altro da sé, anche fisicamente rinchiudendolo nei cimiteri all’esterno delle città» (p. 34). Il corpo della creatura mostruosa è sospeso tra vita e morte, «tra visioni normalizzate dell’umano e visioni inquietanti di ciò che umano non è ritenuto e che, nonostante ciò o proprio a causa di ciò, insiste nel mettere in discussione le certezze umane» (p. 34). Le membra tratte dai cadaveri ricevono la vita dal dominio moderno tecnico-scientifico sulla natura; l’immaginario tecnologico veicolato dalle vicende della creatura frankensteiniana ha sicuramente a che fare con i mutamenti tecnologici e sociali propri del periodo compreso tra la prima e la seconda rivoluzione industriale. Scriveva a tal proposito sul finire degli anni Settanta Alberto Abruzzese (La grande scimmia. Mostri vampiri automi mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione, 1979) che nel momento in cui le macchine invadono l’uomo e la natura, all’orrido paesaggistico finiscono con l’aggiungersi gli orrori industriali e metropolitani di un capitalismo che porta sfruttamento e alienazione.

Un aspetto interessante della creatura di Frankenstein riguarda il legame tra l’evoluzione biologica e quella culturale, tra corpo e tecnica. Quando il mostro assemblato tenta di raggiungere una sua autonomia, inevitabilmente sente il bisogno di esprimere le sue emozioni, di comunicare con gli altri esseri umani al fine di farne a tutti gli effetti parte ma, paradossalmente, «è poco macchina»; non possiede la macchina sociale del linguaggio. Il mostro deve acquisire un elemento artificiale come il linguaggio per potersi dire davvero umano.

Dracula di Bram Stoker è invece un essere metamorfico, il suo corpo si trasforma in altro da sé, in altre specie viventi, collocandosi in un immaginario di fine secolo caratterizzato dall’instabilità del soggetto moderno. È attraverso il sangue raggiunto dai denti aguzzi che il suo corpo di non-morto si ibrida con il corpo dei mortali in un meccanismo di attrazione reciproca, di contaminazione e di trasformazione. «Metamorfosi e ibridazione emergono come caratteristiche decisive del corpo di Dracula e perturbano la stabilità e l’identità dei corpi umani» (p. 42). Nella sua alterità si annida un vettore di disordine che mette in pericolo l’identità occidentale che la tradizione umanistica ha edificato nel corso dei secoli: è l’intero ordine da essa costruito ad essere messo a rischio.

La narrazione di Dracula, sottolinea Tursi, si inscrive perfettamente all’interno delle trasformazioni comunicative moderne; nel testo si giustappongono diversi mezzi di comunicazione e attorno al buon esito o meno della comunicazione si determinano comprensioni o incomprensioni tra i diversi personaggi con importanti ricadute sull’epilogo. Oltre alle comunicazioni anche i numerosi mezzi di spostamento hanno importanza nella narrazione che conduce, inesorabilmente, verso la dissoluzione del corpo di Dracula e se ciò accade è perché i suoi nemici possono ricorrere ai mezzi messi a disposizione dalla moderna società capitalista che regola così i conti con un passato costretto a lasciare spazio al nuovo mondo che avanza.

Questa immersione nella civiltà tecnologica dei protagonisti del romanzo di Stoker svela sino in fondo il conflitto che ha portato alla dissoluzione del corpo di Dracula e all’impedimento posto alla trasformazione in non-morta del corpo di Mina. Da un lato, infatti, c’è l’aristocratico conte Dracula dotato di notevoli risorse, lascito di un passato glorioso; dall’altro, un manipolo, tutto sommato abbastanza omogeneo, sintesi della borghesia occidentale, anch’essa dotata di bastevoli risorse, frutto delle attività dei tempi recenti. Evidentemente, queste ultime superiori alle prime tanto da consentire la vittoria all’avvocato Jonathan Harker, all’americano Quincy Morris e agli altri inseguitori. Alla fine Mina potrà con un certo autocompiacimento “riflettere sul meraviglioso potere del denaro! Che cosa possono fare i soldi quando sono impiegati come si deve”. Cosa pu fare il capitalismo nel pieno della seconda rivoluzione industriale e poco prima del passaggio di secolo? (p. 45).

A dissolversi con il corpo del conte è anche l’Uomo cartesiano, infrantosi contro il «corpo polimorfico, ibrido e desiderante di Dracula. Questo essere diabolico ha rivelato la contingenza storica del progetto moderno: le apparentemente intoccabili catene dell’ancien régime si sono spezzate per essere prontamente sostituite da nuove catene, quelle che nel romanzo di Stoker si colgono nel rapporto di reverenza nei confronti delle classi emergenti da parte dei personaggi di ceto sociale inferiore» (p. 46). Usciamo da questa vicenda coscienti del «carattere dinamico del nostro “essere-generico” (gattungswesen) […] costruzione prodotta dai rapporti capitalistici di produzione» (p. 47).

Non è difficile comprendere i motivi per cui il mostro organico-artificiale frankensteiniano e il metamorfico Dracula riescano ad avere ancora un ruolo importante nell’immaginario contemporaneo. Nonostante si tratti di figure nate nel corso di un epoca passata di grandi mutamenti della quale hanno saputo condensare i conflitti sociali e l’immaginario, sembrano comunque capaci di far riferimento anche a un contesto contemporaneo caratterizzato da un immaginario tecnologico riferito al corpo umano in cui

la tenco-scienza si è fatta mondo, si è posta […] l’obiettivo di costruire non una seconda natura per l’essere umano ma la natura stessa dell’essere umano. Se nel primo caso, infatti, poteva ancora valere il tentativo di segnalare il carattere compensativo della tecnica rispetto a una carenza dell’umano, oggi ciò che è tecnica e ciò che è umano mostrano la loro indissolubilità e indistinguibilità ab origine. La tecno-scienza ha addirittura proposto (preteso), attraverso la mappatura completa del genoma, di tradurre l’umano in un codice d’informazioni, disponibile alla riproducibilità tecnica (p. 49).

L’essere umano si modella tanto «attraverso una messa in forma civilizzante» (attraverso pratiche di educazione, disciplinamento, formazione…), quanto ricorrendo all’ingegneria genetica e alle biotecnologie «che intervengono a costruire l’umano, a manipolare la sua costruzione biologica in modo accelerato» (p. 50). Il ricorso sempre più massiccio alla tecno-scienza comporta una messa in discussione dei confini che definiscono l’umano. «Affrontare i confini della nostra vita corporea, il suo inizio e la sua fine, ripensare le nostre vulnerabilità e le nostre potenzialità, cogliere i limiti e gli sconfinamenti della nostra pelle, di quella membrana che ci interfaccia con il mondo, si pongono come questioni di scelta politica da cui non possiamo sottrarci come singoli, come collettività e come società globale» (p. 51).

Alla luce di tali trasformazioni, l’individuo contemporaneo, rispetto al passato, tende inevitabilmente ad avvertire come la sua condizione sia tutto sommato simile a quella del corpo assemblato immaginato da Shelley o metamorfico narrato da Stoker. «Parti inorganiche (le protesi), semiorganiche (gli organi bioartificiali) o appartenenti a organismi non più viventi (gli organi trapiantati) sono pronte a costruire e ricostruire, a modificare in continuazione i nostri corpi grazie ai meravigliosi progressi tecnoscientifici degli ultimi decenni. La rottura di un ordine, che il corpo mostruoso della creatura di Frankenstein manifestava ai suoi contemporanei, è diventata normalità, condizione quotidiana di noi post-umani del terzo millennio» (pp. 52-53).

Mentre la civiltà classica ha tendenzialmente manifestato l’inquietudine circa l’identità umana elaborando un universo di mostri in cui l’umano si intrecciava con l’animale, l’attuale civiltà tecnologica si proietta su sconfinamenti che riguardano l’antroposfera e la tecnosfera. Da tali sconfinamenti nascono le figure dei nuovi mostri: automi, robot, androidi, replicanti, mutanti… Nell’età contemporanea tali inquietanti ibridazioni consentono di fare i conti il concetto stesso di “vera natura” che si tramanda da secoli.

Gli attuali e diffusi sconfinamenti tra antroposfera e tecnosfera impongono la sfida concettuale di interrogarsi su quanto queste sfere (compresa naturalmente la teriosfera) possano definirsi nella loro distinzione netta se non oppositiva, così come la civiltà classica e poi quella umanistica hanno suggerito, e non invece nella loro ibridazione reciproca. Se dalla civiltà umanistica abbiamo ereditato un certo Uomo, autoreferenziale nel suo intendimento e persino violento nel suo progetto di dominio, in un orizzonte post-umanistico possiamo riconsiderare le trame di relazioni che l’essere umano costruisce da sempre con l’alterità, sia essa innanzitutto umana (superando, per esempio, quelle distinzioni di razza e di genere che per troppo tempo hanno contribuito a isolare quel certo Uomo e a produrre sub-uomini), animale o macchinica. Sono queste trame a permettere l’emerge stesso di ciò che siamo abituati a chiamare umano (pp. 53-54).

Senza dubbio la figura del cyborg è quella che meglio esprime l’ibridazione tra elementi organici e cibernetici pensando però a questi ultimi non soltanto come oggetti aggiunti a un corpo naturale. «Essi, in quanto ultima manifestazione del nostro esserci tecnico, rientrano appieno nel definire la natura umana ovvero nel coglierne la fondamentale costruzione storica» (p. 56). L’orizzonte post-umano comporta dunque una riconsiderazione dell’intera storia dell’evoluzione dell’essere umano e non soltanto degli esiti recenti tecnologicamente più avveniristici. Se da un lato si può affermare che l’essere umano è sempre stato post-umano in quanto ibridato (con piante,  cibo, farmaci, droghe e, in epoca più recente, macchine) e modificato (attraverso pratiche artificiali), dall’altro lato vi è però un’importante discontinuità che risiede nella sua inedita consapevolezza.

Secondo Tursi occorrerebbe «rintracciare nel cuore della modernità, nei suoi disumanizzanti processi di industrializzazione e artificializzazione, crepe rispetto a quella civiltà umanistica che è valsa come alveo della modernità stessa» (p. 57). È proprio «nel momento in cui il progetto umanistico si è compiuto imponendo la sua egemonia sul mondo intero [che] si sono avvertiti i suoi limiti e le sue ambivalenze. L’Uomo bianco, nel portare sulle spalle il suo gravoso fardello, si è trovato di fronte a un cuore di tenebra: ha incontrato mostri come quello di Frankenstein e il conte Dracula» (p. 57) e questi hanno insegnato a guardare al di sotto della superficie della della civiltà occidentale, cogliendone le ambivalenze. «E così il mostro di Frankenstein e il conte Dracula invitano anche a guardare nell’attuale orizzonte post-umano per cogliere sfumature e ambiguità, opportunità e rischi del nostro essere cyborg, per essere cioè all’altezza delle sfide complesse che esso ci pone, a iniziare da quella di riconsiderare le tracce della storia che conducono ai nostri corpi, sulla cui pelle si giocano i conflitti del presente a venire» (p. 57).

Dopo una breve parentesi in cui, ragionando attorno ad Avatar (2009) di James Cameron, lo studioso riflette sulla soggettività e l’agire politico nel mondo contemporaneo a partire dall’intersezione tra corpo e tecnologia in un’epoca in cui la politica sembrerebbe fondarsi «sul coinvolgimento emotivo, sulla condivisione di un sentimento di appartenenza, di un sentire comune» (p. 71) più che sulla ricerca di una soluzione razionale, Antonio Tursi giunge ad affrontare, inevitabilmente, la produzione cornemberghiana.

Attorno al passaggio di millennio, in un’epoca segnata da nuove scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, oltre che dall’aprirsi di una prospettiva di globalizzazione, è stata messa in discussione l’eredità umanistica antropocentrica che «mentre dichiarava l’essere umano (o meglio un certo essere umano: uomo, bianco, colto, razionale e possidente) misura di tutte le cose, lasciava sul terreno macerie e tragedie impensabili. Dell’essere umano si è compresa la dinamica emergenziale: non si tratta di un essere fisso e immodificato (di cui rinvenire l’essenza) ma di un’entità costruita nei tempi lunghi della sua filogenesi» (pp. 80-81). La consapevolezza che l’essere umano derivi da numerosi processi di ibridazione (con simili, con l’ambiente, con la tecnica…) ha comportato un ripensamento del corpo «ripensato e compreso non come datità ma come retaggio di lunghi processi filogenetici, processi di adattamento e sfida all’ambiente» (p. 81) in cui è possibile – inevitabile – accogliere alterità.

In ambito cinematografico David Cronenberg è sicuramente l’autore che meglio di ogni altro ha saputo «condensare uno dei passaggi mediologici cruciali del secolo scorso: cioè il ruolo profondo dei media elettronici e in particolare della televisione» (p. 82). In Videodrome (1983) il regista «ci ha messo di fronte alle caratteristiche decisive della televisione: al suo essere ambientale (e non riducibile a un mero strumento) e al suo essere tattile (e non legato unicamente al regime visivo)» (pp. 82-83).

Cronenberg […] ha saputo cogliere e rendere percepibile il medium televisione: Videodrome ci ha offerto scene di pulsazioni degli aggeggi televisivi, di piccoli schermi che risucchiano corpi, di corpi che ospitano e liberano aggeggi, di desideri che si incontrano sulle superfici dei tubi catodici, di ibridazioni tra umano e tecnologico, di immersioni profonde in ambienti televisivi, di emergenza di una nuova forma di vita. Inoltre, Videodrome rappresenta il consolidarsi del nuovo regime mediale come conflitto tra progetti alternativi, tra istanze divergenti […] Un conflitto che […] ridisegna l’essere umano, la sua carne, sino a far emergere un ibrido tra corpo e comunicazione, tra psiche e segnali dell’etere, tra sistema nervoso e immaginario, tra “realtà” e allucinazioni (p. 84).

La fusione tra essere umano e ambiente si completa nelle scene finali quando il protagonista, desiderando andare oltre i suoi confini, oltre la sua umanità, inneggia alla “nuova carne” mentre lo schermo televisivo di fronte a lui esplode eruttando interiora e sangue. «Così la fusione tra uomo e ambiente televisivo è completa e profonda. Ed è avvenuta spingendo oltre l’uomo e oltre il suo rassicurante ambiente abituale, verso una superficie scontornata che amalgama pelle e transistor, carni e metalli, desideri e immaginari senza soluzioni di continuità» (p. 85). Tematiche simili si rintracciano anche in eXistenZ (1999) dello stesso Cronemberg, con il mondo dei videogiochi digitali e reticolari al posto della televisione tradizionale.

Tursi evidenzia che se in molte produzioni cinematografiche recenti Cronemberg sembra aver accantonato l’ossessione per le tecnologie, soprattutto comunicative, e la loro ibridazione con il corpo umano, è pur vero che questa riflessione la si ritrova, in qualche modo, e in maniera del tutto particolare, nel suo romanzo Consumed (Divorati, 2014). Curiosamente in questo caso Cronemberg ricorre a un medium come il libro stampato, in cui la fotografia ha un ruolo centrale nella narrazione.

Divorati si apre con uno schermo di un computer portatile, quello attraverso il quale Naomi esplora l’abitazione dei coniugi Aristide Arosteguy e Célestine Moreau (“Naomi era nello schermo” sono le prime parole del romanzo). Durante tutto il romanzo, le nostre tecnologie e piattaforme di comunicazione sono costantemente richiamate: dall’iPhone all’iPad, dal MacBook Air alle schedine di memoria SD, da Adobe Lightroom a Photoshop, da YouTube a Skype, da Facebook a Google. Esse rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di Naomi e Nathan esattamente come rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di ciascuno di noi. E naturalmente come l’acqua per i pesci, queste tecnologie rischiano di essere sempre più inavvertite nel momento stesso in cui si normalizzano e ci circondano nelle routine quotidiane (p. 87).

Pur evitando di mostrare tecnologie e scenari futuristici, Cronemberg evidenzia la

quotidianizzazione dei media digitali. Comprendere il loro carattere ambientale, da un lato, diventa più difficile perché ormai ne siamo costantemente immersi ma, dall’altro, è una possibilità offerta a ciascuno e non più solo un’esperienza eccezionale, quale era quella a cui aveva avuto accesso – nel caso di Videodrome – il produttore televisivo Max Renn. Una possibilità che diviene più che mai necessario cogliere per muoversi agilmente nel nuovo scenario mediale, individuarne gli elementi conflittuali e non lasciarsi risucchiare in una narcosi da Narcisi postmoderni, non lasciarsi sommergere dalla “inesorabile, rovente colata lavica della tecnologia” (pp. 87-88).

Le macchinette fotografiche che letteralmente infestano le vite dei protagonisti del romanzo si riveleranno incapaci di garantire autenticità alle immagini. Su «quelle foto, sulla loro capacità di catturare o ancor di più costruire e veicolare la nuova carne, si è giocata una partita globale tra poteri» (pp. 89-90). Cronemberg mette in scena scontri globali sulle tecnologie che «nel dispiegare la nuova carne del mondo, configurano uno scontro profondo sul modo stesso in cui ci comprendiamo, comprendiamo i nostri corpi, configuriamo le nostre identità ibride. Attraverso le tecnologie, si ridisegna il rapporto tra carne e corpo» (p. 91).

Attraverso il romanzo Cronenberg sembrerebbe pertanto riprendere la sua indagine sull’estetica contemporanea intesa come «cartina di tornasole delle dinamiche politiche attuali». Un’estetica fondata sull’ibridazione tra tecnologie e corpi che accoglie concetti di bellezza in passato non ritenuti tali.

La malattia che eccita, la seduzione del decadimento, il profumo della morte, le disfunzioni corporee (come quella di Peyronie), la disabilità umana, i nuovi corpi che emergono dall’amputazione di membra (apotemnofilia): modalità di una bellezza che si contrappone a quella classica basata sulla conformità, sull’armonia, sull’organicità. Una bellezza capace di competere con quella naturale o addirittura di superarla per capacità di seduzione, una bellezza all’altezza delle nuove condizioni industriali-tecnologiche dell’uomo. Un riallineamento dell’estetica che fa perno sulla diversità stessa, diventata “afrodisiaca e stuzzicante”. E intorno a questa bellezza che si costruiscono nuove identità, che si giocano perciò gli scontri di potere. In un mondo in cui il “vero oggetto dell’innata brama di bellezza erano adesso le merci, i prodotti industriali”, in un mondo in cui il corpo stesso è ridotto a merce, è omologato, è triturato dall’“insaziabile ethos consumista occidentale che tutto divora”, ovvero è costruito come prodotto dalle tecnologie, in questo mondo non ci resta che diventare consumatori di noi stessi, appropriarci di noi stessi in modo estremo, essere divoratori della carne ormai sconfinata oltre i confini della nostra pelle. […] Abitare un corpo ibrido, aperto, contaminato. Che non può più rappresentare il confortevole porto di partenza dal quale sicuri guardare il mondo ma l’approdo instabile del nostro cammino nel mondo (p. 95).

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Gotici per le feste https://www.carmillaonline.com/2017/12/09/gotici-per-le-feste/ Sat, 09 Dec 2017 22:10:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42035 di Franco Pezzini

(Dell’autore di questa rassegna è uscito da poco in libreria Fuoco e carne di Prometeo. Incubi, galvanisti e Paradisi perduti nel Frankenstein di Mary Shelley, per i tipi Odoya, Bologna 2017.)

Il lettore che nel periodo successivo all’11 marzo 1818 nota sul bancone del libraio un’opera fresca di stampa di cui ha letto alcune recensioni, non può immaginare che quel romanzo, tirato da Lackington, Hughes, Harding, Mavor, & Jones nel modesto numero di cinquecento copie, sia destinato a cambiare parecchie cose nell’immaginario collettivo. Sul termine “fresca di stampa” dobbiamo intenderci, perché materialmente il volume è uscito dalla tipografia [...]]]> di Franco Pezzini

(Dell’autore di questa rassegna è uscito da poco in libreria Fuoco e carne di Prometeo. Incubi, galvanisti e Paradisi perduti nel Frankenstein di Mary Shelley, per i tipi Odoya, Bologna 2017.)

Il lettore che nel periodo successivo all’11 marzo 1818 nota sul bancone del libraio un’opera fresca di stampa di cui ha letto alcune recensioni, non può immaginare che quel romanzo, tirato da Lackington, Hughes, Harding, Mavor, & Jones nel modesto numero di cinquecento copie, sia destinato a cambiare parecchie cose nell’immaginario collettivo. Sul termine “fresca di stampa” dobbiamo intenderci, perché materialmente il volume è uscito dalla tipografia a Capodanno: ma è vero che nei primi due mesi, e nonostante un certo movimento (rilascio di esemplari, consegna di quelli per il copyright, invio ai giornali o a scrittori amici, e naturalmente alle librerie), non sembra filarselo quasi nessuno, e solo a marzo la novità editoriale inizia ad avere il botto di recensioni. Se ne parla su “La Belle Assemblée, or Bell’s Court and Fashionable Magazine” e “The Edinburgh Magazine and Literary Miscellany; A New Series of ‘The Scots Magazine’” in date non specificate del mese, sul “Blackwood’s Edinburgh Magazine” (con la recensione di Walter Scott) il 20 marzo a Edimburgo e il 1° aprile a Londra, su “The British Critic”, “The Gentleman’s Magazine” e “The Monthly Review” in date non specificate di aprile… Al punto che ottime edizioni (Oxford World’s Classic, University Chicago Press…) lo danno per edito decisamente nel marzo o aprile, e magari proprio il citato 11 marzo. In realtà sarebbe bizzarro perché in quella data la famiglia dell’autore – anzi autrice, che ovviamente ha voluto vedere l’avvio editoriale – chiude le borse per partire verso il Continente, imbarcandosi il giorno dopo a Dover per Calais: ma la data che associa alla partenza resta simbolicamente significativa e di svolta. Nel libro, Frankenstein di Mary Shelley (ancora coperta da un pudico anonimato), la Creatura, dopo una fase di vita defilata, inizia a colpire in assenza e anzi a notevole distanza geografica dal suo creatore; ma anche il romanzo, dopo il primo periodo defilato, dopo l’11 marzo inizia a “colpire” in assenza e a notevole distanza dalla sua autrice. A colpire i recensori, i lettori da loro indirizzati a quelle pagine, gli uomini di teatro che si approprieranno dell’opera iniziando a trasformarla…

Se insomma oggi – a dirla in linguaggio mutuato dalla liturgia – natale ed epifania di un romanzo devono essere estremamente ravvicinati (se no, si dice, non “funziona”), ciò non è sempre stato vero: e possiamo ben festeggiare entrambi i prossimi bicentenari del Frankenstein, il 1° gennaio e poi in marzo – magari il simbolico 11 –, per il loro rispettivo peso. Iniziando magari a (ri)prenderlo in mano con occhi (il più possibile) vergini: come tutti i romanzi assurti a mito, il capolavoro di Mary Shelley è infatti più conosciuto per i suoi derivati (soprattutto, ma non solo cinematografici) che per i contenuti, e il rischio è di leggerlo col pregiudizio delle pur geniali trasposizioni, che però restano molto libere.

A badare a cosa l’autrice realmente scrive, scopriamo che la Creatura non assomiglia se non in minima parte al “Mostro” dell’immaginario collettivo; che il modo di costruirla e persino l’attrezzatura hanno ben poco a che vedere con le straordinarie apparecchiature steampunk cui siamo abituati; ma soprattutto che il senso dell’apologo non è affatto quello un po’ reazionario e ostile alla scienza che il nome Frankenstein evoca all’uomo della strada. In scena è una grande metafora sulla responsabilità, a ogni livello: a partire da quella verso le creature che nella nostra cerchia di rapporti “costruiamo” e nutrono legittime attese verso di noi. Ma il senso voluto da quella riflessiva, un po’ ribelle, affascinante ragazzina (ricordiamo che i personaggi principali del romanzo, Creatura compresa, sono poco più che adolescenti) nutrita di istanze libertarie si allarga ad abbracciare dimensioni sociali, politiche… Quello dunque della scienza è soltanto uno dei campi interessati: importante, certo, ma senza le implicazioni pavide che infinite banalizzazioni hanno rovesciato su una grande storia d’amore – Victor è anzitutto il partner amatissimo e nevrotico, ammirato e criticato, Percy Bysshe Shelley – e di dolore. Come in genere i capolavori della letteratura, Frankenstein non è insomma un romanzo a tesi, ma una macchina per pensare dove precipitano conati d’angoscia, frustrazioni, fantasmi personalissimi dell’autrice e generalissimi di un mondo.

Il bicentenario ovviamente ha già iniziato a impattare sull’editoria anche in Italia. Se meriterebbe proporre una versione del Frankenstein 1818 – cioè la prima, più ruvida e ribelle, e con alcune significative divergenze rispetto a quella definitiva e levigata 1831 generalmente presente nei cataloghi – già sono apparsi vari testi nuovi o si annunciano riedizioni di altri proposti, sia in tema Frankenstein che più in generale sull’autrice.

Fin da settembre è per esempio approdato in libreria a firma di Adriano Angelini Sut il buon saggio divulgativo – non è una dequalificazione, c’è bisogno di buona divulgazione – Mary Shelley e la maledizione del lago (Giulio Perrone, Roma). Vi si presenta con qualche concessione alla docufiction (in dialoghi ipotetici) il momento genetico di Villa Diodati e, come un’ombra, ciò che seguirà nel tessuto delle vite coinvolte, fino alla morte dell’autrice (1851) e oltre. Un teatro di figure carismatiche che non a casa ha dato la spinta a vari film e porzioni di sceneggiati TV per l’intensità delle passioni coinvolte.

È poi appena comparso in novembre il romanzo ultimo di Mary Shelley, Il segreto di Falkner (Falkner, molto ben curato da Elena Tregnaghi, Postfazione di Elisabetta Marino, nella collana I grandi inediti diretta da Giorgio Leonardi, Edizioni della Sera, Roma 2017). Datata a quel 1837 anno di avvio dell’età vittoriana, l’opera rappresenta dunque in qualche modo una cerniera ideale tra due mondi che in quel momento ancora inavvertitamente si compenetrano. Protagonista della storia drammatica (non propriamente gotica, ma certo a tinte forti) è una ragazza coraggiosa, Elizabeth, cui Mary – che non si ritrova più nel radicalismo dei suoi giorni verdi, ma combatte per valori cui non ha abdicato – dona evidentemente parecchio di sé. Il romanzo merita senz’altro una riscoperta.

 

Che, al di là degli anniversari specifici, il gotico appaia un linguaggio molto più congruo ai nostri tempi di quanto spesso si creda – con le impennate e gli eccessi, ma anche le provocazioni più sottili, e quella cartapesta di un teatro che può inscenare istanze serissime – ricomincia a venire intuito anche a livello collettivo. È di lì in fondo, dal seminale Castello d’Otranto (1764), che nascono i generi moderni: e se AD 2017 non siamo ancora nella fase ascendente di quei picchi trentennali di successo gotico che hanno connotato il Novecento per il traino del cinema, e potrebbero riproporsi nel nuovo secolo (trentennali, cioè guarda caso della durata di una generazione, quasi a suggerire che si tratti di un linguaggio di “iniziazione” immaginale, una sorta di rito collettivo di passaggio) fin d’ora soprattutto i piccoli editori brillano per attenzione. Merita dunque anche da questo punto di vista visitare le manifestazioni a loro dedicate, come la romana Più libri più liberi aperta in questi giorni.

Qualche testo lo si è citato, ma in realtà non c’è che l’imbarazzo della scelta. Per dire, Beat di Milano ha ripubblicato mesi fa a cura di Sergio Marconi Il vecchio barone inglese di una delle prime Madri gotiche antesignane di Mary Shelley, cioè Clara Reeve (1777 come The Champion of Virtue, 1778 col titolo più noto The Old English Baron), giunto qualche anno dopo la birichinata grottesca e onirica di Walpole e invece orribilmente serio. Che pure merita la rilettura, tanto più che è il vero battistrada per il successivo gotico “di consumo” ma anche per una serie di romanzi ben altrimenti brillanti, a partire da quelli di Ann Radcliffe. L’attivissima Nova Delphi di Roma ha riproposto invece quel testo incompiuto di grande fascino che è Il visionario di Friedrich Schiller (Der Geisterseher, 1789), nella traduzione classica di Giovanni Berchet (1838), magnificamente curato da Fabio Camilletti (già curatore nel 2015 per Nova Delphi del Fantasmagoriana letto a Villa Diodati) e dall’illusionista e scrittore Mariano Tomatis, fautore di una magia militante e dalle vivaci iniziative (si rinvia senz’altro al suo sito): una macchina per pensare sul tema di quell’illusione che si fa anche motore politico, come in fondo vediamo in azione fino agli ultimi (ma purtroppo non ultimi) epigoni nell’Italietta berluschina renzina grillina.

Però anche sul terreno della saggistica, su gotico e affini brillano uscite di grande interesse. Odoya ha appena edito – 30 novembre 2017 – una sontuosa Guida al grottesco, a cura di Carlo Bordoni e Alessandro Scarsella (contributori assieme a Susanna Becherini, Francesco Galluzzi, Riccardo Gramantieri, Patrizia Magli, Giuseppe Panella), che ovviamente impatta sulla materia in discorso per aprire a sviluppi poi autonomi. Tra Rabelais, Bosch e Arcimboldo, Hugo (firmatario del “Manifesto del grottesco” in appendice, 1827) e Browning, freaks e mascherate, l’opera è un intero, trasversalissimo canto – letteratura e arti visive, filosofia e spettacolo – al “sublime orrorifico”. Già indicativo l’indice, che dopo un paio di capitoli introduttivi dei curatori vede articolare il discorso nei suoi richiami storici (mondo antico e via via fino al barocco e poi alla modernità), nelle forme diversificate di singoli ambiti (allegoria, maschere e carnevale, fiaba, circo, Grand Guignol, cinema…), nelle connotazioni che associamo al termine (eccesso, disarmonia, rovesciamento della realtà, deformità fisica, oscenità…), ma anche in alcune specifiche figure (diavoli, vampiri, fantasmi, mostri assortiti…), con ovvio spazio al gotico e appunto al Frankenstein. “Il brutto e il grottesco ne hanno fatta di strada per farsi accettare, per uscire dal silenzio e dall’emarginazione” scrive Bordoni nell’introduzione: “finalmente sono entrati a pieno titolo nelle forme riconosciute dell’espressività umana e si sono conquistati, a buon diritto, il posto che compete loro nell’estetica, nella storia della letteratura e dell’arte, al punto da giustificare una Guida al grottesco”.

Qui il tema era visto col grandangolo, ma non mancano uscite più settoriali. Quodlibet di Macerata ha per esempio presentato nel 2017 un affascinante studio di Alessandro Botta, Illustrazioni incredibili. Alberto Martini e i racconti di Edgar Allan Poe, sull’opera dello scrittore moderno che può griffarsi del titolo di “più illustrato”. L’incontro postumo dell’Americano Maledetto – per cui l’etichetta di gotico non è certo inappropriata, pur con tutte le specificazioni che la critica suole recare – con il grande illustratore trevisano Alberto Martini (1876-1954) vede produrre la meravigliosa, imponente serie di tavole qui raccolte: tavole visionarie, alcune notissime (ma che nella completezza di un itinerario assumono un senso assai più ricco) e altre conosciute in genere soltanto dai cultori, con un commento sull’itinerario dell’artista.

Gli editori grandi riservano al gotico (e dintorni) attenzioni istituzionali senza grosse sorprese, anche se qualche eccezione è significativa. Come il monumentale volume (754 pp.) appena edito dal Saggiatore delle Lettere di Edgar Allan Poe, a cura di Barbara Lanati: un corpus che corre dal 1824 (Poe quindicenne sottoscrive una richiesta al governatore della Virginia dei Giovani Volontari di Richmond per poter trattenere in custodia le armi loro affidate durante il trionfale passaggio del vecchio La Fayette negli States) al fatale 1849 (tre lettere vergate una ventina di giorni prima della morte). Un volto cangiante di maschera in maschera, come ignoto a se stesso (a voler richiamare il titolo di una vecchia mostra torinese su ritratti fotografici di scrittori proposta da Sciascia, 1987, e del relativo catalogo edito da Bompiani, Ignoto a me stesso, che poneva proprio Poe in copertina), tra disvelamenti ed autofiction, drammi autentici e teatro, dove lo scarto sfuggente, continuo obbliga il lettore a porsi continue domande, e insieme panoramica (ancora una volta elusiva) sul dietro-le-quinte di una produzione che troppo spesso si presume nota.

Si citava Ann Radcliffe: che per inciso figura come protagonista di un geniale, scatenato, ironico controcanto al gotico di uno dei padri del feuilleton, Paul Féval, cioè La città vampira o la sventura di scrivere romanzi gotici (La Ville Vampire, 1875). La scrittrice vi è immaginata in missione nei Balcani per aiutare amici nei pasticci: e in un contesto grottesco, pirotecnico e onirico da delirio acido dovrà fronteggiare vampiri che si sdoppiano, si trasfondono o si moltiplicano come entrando e uscendo da specchi, fino alla loro città babelica, folle come in una visione di Moreau e “superba sotto la maledizione di Dio, [che] viene chiamata Selene, […] nome greco della luna”. Ora, questa edizione con prefazione di Claudia Salvatori e tradotta magnificamente da Massimo Caviglione (anche nei tascabili, per favore, dateci più spesso professionisti del genere) è apparsa sì per un grande editore, Mondadori, ma solo in edicola all’interno di un volume curato da Giuseppe Lippi, Cerimonie nere (che comprende anche altri due gioielli horror, Il villaggio nero di Stefan Grabinski e La cerimonia di Laird Barron). Solo in edicola – quindi sparito subito – e come ultimo volume della serie Urania Horror, che avrebbe meritato ben maggiore visibilità di quella in effetti concessa (il che non va inteso in alcun modo come polemica con Lippi, che merita riconoscenza sempiterna per la sua opera a favore del fantastico e del gotico in Italia). Urge recuperarlo in qualche collana da libreria.

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Il golem di Victor, come venne al mondo (Nightmare Abbey 9) https://www.carmillaonline.com/2016/06/18/golem-victor-venne-al-mondo-nightmare-abbey-9/ Fri, 17 Jun 2016 22:02:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31234 di Franco Pezzini

Il golem di Victor 6[“Cominciato la mia storia di fantasmi dopo il tè”, scrive nel proprio diario alla data 18 giugno 1816 John William Polidori: e ai giorni immediatamente precedenti risale la famosa sfida letteraria idealmente a monte del fantastico moderno. Duecento anni dopo la fatale vacanza a Villa Diodati si propone qui un brano dai testi di ‘TuttoFrankenstein’, un ciclo di incontri a Torino sul romanzo di Mary Shelley conclusosi appropriatamente nella serata del 17 giugno: il passo qui commentato riguarda la scena del destarsi della Creatura. Per [...]]]> di Franco Pezzini

Il golem di Victor 6[“Cominciato la mia storia di fantasmi dopo il tè”, scrive nel proprio diario alla data 18 giugno 1816 John William Polidori: e ai giorni immediatamente precedenti risale la famosa sfida letteraria idealmente a monte del fantastico moderno. Duecento anni dopo la fatale vacanza a Villa Diodati si propone qui un brano dai testi di ‘TuttoFrankenstein’, un ciclo di incontri a Torino sul romanzo di Mary Shelley conclusosi appropriatamente nella serata del 17 giugno: il passo qui commentato riguarda la scena del destarsi della Creatura. Per la traduzione utilizzo l’edizione Einaudi 2011.]

Fu in una cupa notte di novembre che vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un’ansia che assomigliava all’angoscia, raccolsi attorno a me gli strumenti atti a infondere la scintilla di vita nell’essere inanimato che giaceva ai miei piedi. Era già l’una del mattino; la pioggia batteva sinistra sui vetri e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; un ansito e un moto convulso le agitarono le membra.
Come descrivere le mie emozioni dinanzi a questa catastrofe, o come dare un’idea dell’infelice che, con cura e pene infinite, mi ero sforzato di creare? Le sue membra erano proporzionate, e avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra copriva a malapena la trama sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di un nero lucente, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma questi pregi non facevano che rendere più orribile il contrasto con quegli occhi acquosi, che apparivano quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano collocati, con la pelle grinzosa e le labbra nere e tirate.

È emozionante vedere questa pagina del manoscritto (sia pure in foto, sul sito Abinger papers, Dep. c. 477, fol. 21r, Bodleian Library, University of Oxford), con la grafia di Mary e le correzioni di Percy: da un punto di vista materiale il vero inizio del romanzo, come racconta Mary stessa nell’Introduzione all’edizione 1831. E con questo passo straordinario inizia l’avventura nel mondo dell’essere qui definito la “creatura” (“creature”): dove la stessa mancanza di un nome parrebbe indicativa di un rigetto. È un po’ come se Mary, figlia di una coppia innamorata con tutta la relativa fecondità emotiva, figlia di una madre morta per averla data alla luce, mostrasse il diverso stile di una nascita senza madre: non nel senso ovviamente dell’odierno dibattito sul gender, ma in quello simbolico “tradizionale” dei ruoli di padre e madre. Una nascita blasfema – un assemblaggio di pezzi morti, un anti-natale – nel segno dell’angoscia e non della gioia; un generare solo col cervello, con l’orgoglio e con quel senso di potere e normatività “paterna” al cui stile non sfugge Victor stesso (“Nessun padre avrebbe avuto diritto – ecco il termine – a una gratitudine così totale da parte dei figli come quella che io avrei meritato da loro”) e poi subito pronto a mutarsi in abbandono per delusione.
Consideriamo che il cap. V è rimasto quasi invariato dalla prima edizione 1818 (dove semplicemente si trattava del cap. IV), e soffermiamoci sui dettagli. Il tempo: una nascita in “una cupa notte di novembre”, anzi “l’una del mattino” in una notte livida di pioggia, a evocare cioè non un’alba simbolica ma un inizio nella notte fonda dell’anima. Le emozioni: “un’ansia che assomigliava all’angoscia”, ben diversa dai dolori del travaglio aperti però alla gioia. L’attrezzatura: “raccolsi attorno a me gli strumenti atti a infondere la scintilla di vita”, cioè in apparenza l’apparecchiatura leggera di pratiche galvaniche – sia pure fantasticamente reinventate, con batterie e forse muscoli animali collegati con cavi; e d’altronde in quel raccogliere gli strumenti sembra evocato il muoversi dei vecchi medici che radunano il necessario (bacinelle, forcipi, attrezzi per suturare) per far partorire in casa. La postura della creatura: che non sta affatto su fantastici letti steampunk, magari elevabili con funi e catene verso il tetto a ricevere l’energia del fulmine, mentre qui si parla di un “essere inanimato che giaceva ai miei piedi”. Cioè simbolicamente a terra per esserne tratto, un Adamo farlocco che è un coacervo di carni rabberciate, di ossa ficcate alla meglio, di parti anatomiche dilatate artigianalmente per semplificare il lavoro.
Sembra densa di valore simbolico anche quella candela che sta per spegnersi quando “vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; un ansito e un moto convulso le agitarono le membra”, come nel resoconto del famoso esperimento di Giovanni Aldini o in un risveglio traumatico da un incubo. Ed è allora che – tornando nuovamente al Genesi – “si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi” (3, 7): non Adamo e la complice, che però è anche compagna, aiuto e consolazione, ma il falso Adamo e il falso creatore, ciascuno abbandonato alla propria solitudine. Uno che apre occhi morti, l’altro che finalmente si rende conto, e vede sconvolto ciò che ha animato. Sì, membra proporzionate, e tratti scelti “in modo che risultassero belli”: ma la bellezza che per Victor è probabilmente ancora quella neoclassica ha dovuto fare i conti con la messa in macchina, con la pelle necessariamente ingiallita (e qui vengono in mente certe immagini di antichi volumi anatomici, Il golem di Victor 2come quella barocca della pelle di un cadavere appeso in mostra – testa, mani e piedi penzolanti dall’epidermide staccata – che funge da cartiglio per il frontespizio dell’Anatomia reformata di Thomas Bartholin, 1655) fin troppo tirata per coprire l’intreccio di muscoli e arterie da macchina anatomica di carne. Sì, capelli nerissimi e denti bianchissimi sembrano belli – quasi finti nel loro esser morti – ma rendono “più orribile il contrasto con quegli occhi acquosi, che apparivano quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano collocati”: perché la vitalità degli occhi è andata perduta. E in quel viso “la pelle grinzosa e le labbra nere e tirate” sono – a dispetto della scelta di cadaveri dai tratti regolari – il frutto di cuciture, tensioni di muscoli assemblati come si può, e un inevitabile processo di degradazione dei materiali pur nelle migliori condizioni di conservazione.
Victor ha “lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato”, con un fanatismo assoluto e divorante, consumandosi: “ma ora che avevo finito, la bellezza del sogno svaniva, e il mio cuore si riempì di orrore e di un disgusto indicibili”. Subito prima aveva considerato che i sentimenti umani sono persino più mutevoli dei casi della vita: ma in realtà, a ben vedere, era lui a non essersi guardato dentro, a non aver interpretato l’angoscia che provava, a non essersi domandato se stava fissando la bellezza o non piuttosto il buco nero d’orgoglio del suo sogno febbrile.
E ci torna alla mente il brano in cui parlava della propria infanzia: l’amore della coppia che si fa “vera e propria miniera d’amore” riversata su di lui, mentre qui il suo orgoglio lo rende affettivamente sterile verso quel figlio; “le tenere carezze di mia madre e il benevolo sorriso compiaciuto di mio padre quando posava lo sguardo su di me costituiscono i miei primi ricordi”, mentre qui all’armeggiare galvanico è seguito lo sguardo inorridito del padre come primo, potenziale ricordo della creatura; l’Eden familiare in cui per i genitori Victor è stato “il loro giocattolo e il loro idolo, e qualcosa di più – il loro bambino, la creatura inerme e innocente loro concessa dal cielo”, ma qui il cielo si è limitato a permettere la libertà di lui di costruirsi un giocattolo e un feticcio, un finto bambino (in realtà già adulto) che si rivelerà niente affatto inerme e perderà subito l’innocenza. Inevitabile dunque il paragone tra le due situazioni, di fronte a quest’atteggiamento anaffettivo del figlio/padre.
Ed è in questo istante di smarrimento che lo coglie una delle primissime immagini all’opera, quella del grande Theodor von Holst, il più prolifico illustratore inglese di romanzi tedeschi, dal frontespizio dell’edizione 1831: la Creatura a terra, nerboruta e col viso allucinato, tra uno scheletro, un panno e un libro, mentre alle spalle si intravede qualcosa come un macchinario; e sullo sfondo di una grande finestra gotica Victor con lo sguardo stravolto, che sta prendendo la porta per scappare.
Così il testo del ’18 e così quello identico del ’31: ma abbiamo detto che c’è un terzo testo a cui fare riferimento, cioè la descrizione/ricostruzione del sogno ispiratore di Mary nell’Introduction ’31. E che riporta:

La mia immaginazione, non richiesta, mi pervase e mi guidò, donando alle immagini che si affacciavano alla mia mente una lividezza di gran lunga superiore alle solite visioni delle fantasticherie. Vidi – con gli occhi chiusi, ma con una percezione mentale acuta – il pallido studioso di arti profane inginocchiato vicino alla cosa che aveva assemblato. Vidi l’orrenda sagoma di un uomo disteso, poi, all’entrata in funzione di un qualche potente macchinario, lo vidi dar segni di vita e fremere con un movimento impacciato, vivo solo a metà. Doveva essere spaventoso, perché spaventoso sarebbe stato l’effetto di ogni sforzo umano di scimmiottare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. Il successo avrebbe terrorizzato l’artista, che sarebbe fuggito colmo d’orrore dall’orrido manufatto.

Dove acquisiamo qualche particolare in più, a cavallo tra ricordo e ricostruzione del medesimo. Il golem di Victor 3Anzitutto in quel “pallido studioso di arti profane inginocchiato vicino alla cosa che aveva assemblato” vediamo che non c’è un tavolo, ma Victor, pallido e presentato come una sorta di negromante, studioso di arti blasfeme, è in ginocchio accanto alla cosa che ha messo insieme. “Vidi l’orrenda sagoma di un uomo disteso, poi, all’entrata in funzione di un qualche potente macchinario, lo vidi dar segni di vita e fremere con un movimento impacciato, vivo solo a metà” (“I saw the hideous phantasm of a man stretched out, and then, on the working of some powerful engine, show signs of life, and stir with an uneasy, half vital motion”), con il possibile scarto tra l’attrezzatura leggera del romanzo e il “potente macchinario” qui evocato (e suggerito vagamente dall’incisione di von Holst); ma l’espressione sul moto con cui la creatura riprende una vita deminuta è ancora una volta coerente con i racconti dell’esperimento Aldini. Con una nota aggiuntiva, ora, sull’inevitabile mostruosità derivata dal “to mock the stupendous mechanism of the Creator of the world”; e – con un tocco di ironia nera – sul successo che “would terrify the artist; he would rush away from his odious handywork, horror-stricken”, come se il mostro fosse un’opera d’arte e Victor un artista.
E infatti, continua ora Victor nel romanzo, “Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato, mi precipitai fuori dalla stanza e camminai a lungo su e giù per la mia camera da letto, incapace di prender sonno”: e possiamo solo immaginare cosa confusamente gli stia esplodendo dentro. Mary in qualche modo lo esplicita nell’Introduction:

Avrebbe sperato che, lasciata a se stessa, la flebile scintilla della vita che aveva comunicato si sarebbe spenta; che quella cosa che aveva ricevuto un’imperfetta animazione, sarebbe tornata a essere materia inerte; e si sarebbe addormentato sperando che il silenzio della tomba avrebbe soffocato per sempre la breve esistenza dell’orrido cadavere a cui aveva guardato come alla culla della vita.

E infatti alla fine – riprendiamo il romanzo – Victor crolla, si getta sul letto vestito, si addormenta e sprofonda negli incubi.

Credetti di vedere Elizabeth che, nel fiore della salute, passeggiava per le strade di Ingolstadt. Felice e sorpreso la abbracciavo, ma le sue labbra, che le sfioravo nel primo bacio, assumevano il pallore livido della morte, i suoi lineamenti mutavano, ed ecco che io stringevo fra le braccia il cadavere di mia madre; un sudario nel ricopriva le forme, e io potevo vedere i vermi brulicare tra le pieghe della stoffa.

Questa scena è terribilmente forte. Consideriamo pure che nel 1818 il gotico ha già mostrato un più che ampio teatro di orrori: ma ciò che sconvolge il lettore del Frankenstein è l’innesto delle fantasie macabre – finora lontane dalla realtà coeva, e perse in un passato di castelli e di spettri ai limiti del grottesco – entro dimensioni della modernità, dalla scienza di punta al tessuto di emozioni di una società borghese. Fino a sogni come questo, che prefigura le confidenze agli analisti del secolo successivo.
Sembra emblematico che il primo bacio del romanzo avvenga, sia pure nella forma vicaria del sogno, a seguito del trauma del laboratorio. È come se quell’evento scioccante avesse sbloccato qualcosa nella vita del giovane intelligentissimo e un po’ represso che deve fare i conti con un modello ingombrante di perfezione familiare; e per la prima volta entra l’eros nel romanzo. Ma un eros nero, nerissimo: e del resto Frankenstein pare quasi una grande seduta psicoterapica in cui Mary butta fuori i grovigli che ha dentro, in forma metaforica e non conciliata, neppure forse cosciente. Butta fuori non solo gli strascichi della crisi seguita alla morte della prima figlia – evento precedente al romanzo, e forse saldato luttuosamente in lei al ricordo della prima completa esperienza sessuale; ma butta fuori, nelle edizioni successive e in particolare in quella del ’31, il dolore e lo smarrimento, il vuoto e l’orrore per il fiume di morti seguiti all’estate di Villa Diodati. In questo sogno non c’è il compiacimento provocatorio degli Scapigliati, con i loro baci macabri: lo smarrimento è autentico, i morti ora rianimati stanno dietro una fragile porta a fissare con occhi acquosi, e nel gioco di specchi dell’incubo di un incubo Frankenstein esprime qualcosa di straziatamente vero.
Il golem di Victor 5D’altronde anche il sogno di Victor così descritto è perturbantemente credibile: al punto che possiamo domandarci se Mary non stia presentando sotto il velo narrativo qualcosa di conturbante vissuto davvero in sogno – da lei o piuttosto da Percy. Nell’Introduzione ’31, dove Mary (guarda caso) sta parlando di un altro sogno proprio sugli eventi di questa porzione di romanzo, non si fa cenno in nessun punto di tale fantasia onirica di Victor. Ma a ben vedere non è neppure necessario che si tratti di un’esperienza vissuta: ben prima di Freud, Mary potrebbe aver colto nei rapporti di suo marito col Femminile una confusione che noi classifichiamo in modo più strutturato come conflitto di Edipo. La vivacità delle frequentazioni tra Percy e le donne è stata letta da alcuni critici freudiani come desiderio edipico irrisolto di possedere la madre molto più giovane del padre – proprio come nel caso di Victor, specialmente nella versione ‘31. Nei versi di una già citata opera di Percy in qualche modo vicina al Frankenstein, cioè il poema Alastor, il desiderio di tornare alla tomba quale grembo della Madre Terra è stato interpretato in chiave edipica; ma soprattutto sembra interessante notare che il nome della partner di Victor che nell’incubo metamorfizza in sua madre, Elizabeth, è lo stesso dell’amata sorella che con Percy scrive poesie e insieme della loro madre, già a prefigurare una situazione di potenziale confusione. Nel romanzo, Elizabeth subentra alla zia adottiva Caroline in un ministero accuditivo della famiglia, anzi è come se Caroline morendo si incarnasse in lei attribuendole il proprio ruolo e consegnandola in sposa al figlio Victor: entrambe avvenenti e sensibili, entrambe votate al sacrificio, entrambe donne-angelo. Nella realtà Elizabeth/madre ed Elizabeth/sorella sono volti dell’Eden familiare che Percy ripudia con la sua vita libera, ma ancora presenti in forma irrisolta nella sua vita interiore: o così almeno Mary sembra adombrare.
Qualche ulteriore conferma la troveremo più avanti; ma anche senza insistere in una lettura freudiana (pure tanto promettente),

Mi svegliai di soprassalto, inorridito; un sudore gelido mi copriva la fronte, i denti mi battevano, tremavo convulso in tutte le membra; poi, al chiarore incerto e giallo della luna che filtrava attraverso le imposte, mi vidi davanti lo sciagurato, il miserabile mostro che io avevo creato. Teneva sollevate le cortine del letto, e i suoi occhi, se occhi si possono chiamare, erano fissi su di me. Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre un ghigno gli contraeva le guance. Forse parlò, ma io non lo sentii; aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi, ma fuggii e mi precipitai giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa dove abitavo, e lì rimasi per il resto della notte, camminando su e giù in preda alla più grande agitazione, tendendo l’orecchio e sussultando di paura a ogni rumore, quasi esso mi annunciasse l’avvicinarsi del demoniaco cadavere al quale così follemente avevo dato la vita.
Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto! Una mummia ritornata a vita non avrebbe potuto essere più spaventosa. Lo avevo osservato quando era incompiuto: era già brutto allora; ma quando muscoli e giunture erano stati resi capaci di moto, era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire.

Anche questa scena, pure tratta dall’incubo narrato da Mary nell’Introduzione (“Dorme; ma qualcosa lo sveglia; apre gli occhi; vede che l’orrida cosa è a fianco del letto, apre le cortine e lo guarda con occhi gialli e acquosi ma pieni di domande”), e che si può considerare nella sua onirica e raggelante efficacia una delle scene-chiave del fantastico di tutti i tempi, ha una fortissima valenza emotiva. Come un incubus da quadro di Füssli, o un brutto sogno evaso dai limiti della dimensione onirica, ecco la creatura occhieggiare dalle cortine del letto; Victor che pensava di essere sfuggito all’orrore di cadaveri del proprio incubo vi viene riprecipitato, e in modo molto più traumatico perché questa è la realtà e l’ha costruita lui; come prima era Victor a veder aprire gli occhi della creatura ora succede l’inverso, a stabilire un parallelismo che è anche allarmante rifrazione – e non solo perché il presunto creatore è in realtà creatura quanto l’altro.
Una con/fusione tra i due e un virtuale rapporto di rifrazione che evocano una serie di suggestioni, su cui occorre tornare nel corso dell’itinerario sul romanzo: il “mostro” come Doppio di Victor, come sua Ombra e come Perturbante (suggestivo pensare che il Frankenstein sia coevo di uno dei testi-base della riflessione sul Perturbante, Der Sandmann di E. T. A. Hoffmann, scritto nel 1816 e pubblicato l’anno seguente), come suo demone custode e nemesi personale.
Itinerari nel Frankenstein 1Ma in fondo un aspetto di questo rapporto di doppio/rifrazione sta nella stessa confusione poi consumata a livello popolare su “Frankenstein” come nome di Victor o piuttosto della sua innominata prole. Una confusione documentata fin dall’Ottocento (per esempio tra le pagine del romanzo Mary Barton di Elizabeth Gaskell, 1848, poi in un’opera di Edith Wharton, The Reef, 1916), e consacrata nella versione teatrale del Frankenstein di Peggy Webling, 1927 (ritoccata 1930), dove Victor attribuisce il proprio cognome alla Creatura: ma assurta la versione-Webling a base della sceneggiatura del film 1931 di James Whale, capostipite di un’intera serie Universal dove pure il mostro non ha nome, l’uso popolare troverà conferma attraverso richiami impliciti in titoli quali Bride of Frankenstein, 1935 – dove si gioca di rifrazioni tra la sposa dell’inventore e quella della creatura. Una tentazione del resto tanto più forte a considerare la scomoda varietà di epiteti generici, in gran parte offensivi, che l’innominato essere incassa nel corso del romanzo.
D’altra parte, nonostante il coinvolgimento nelle emozioni di Victor, iniziamo a nutrire il sospetto di una fondamentale incomprensione, di un tragico strabismo. Un’incomprensione nei confronti di colui che è etimologicamente infante, non sa parlare (“Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre un ghigno gli contraeva le guance. Forse parlò, ma io non lo sentii”); un’incomprensione della sua gestualità (“aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi”); un’incomprensione del senso dello stesso sguardo della Creatura (“i suoi occhi, se occhi si possono chiamare, erano fissi su di me”), su cui Mary torna nell’Introduction (“l’orrida cosa […] lo guarda con occhi gialli e acquosi ma pieni di domande”). Un’incomprensione che attraverso orrore e paura spalanca il rifiuto.
Paradossalmente noto a Victor fin nelle sue fibre costitutive (quasi in una contraffazione blasfema del Salmo 138 [139]: “Sei tu che hai formato i miei reni / e mi hai tessuto nel grembo di mia madre. // Io ti rendo grazie: / hai fatto di me una meraviglia stupenda; / meravigliose sono le tue opere, / le riconosce pienamente l’anima mia. // Non ti erano nascoste le mie ossa / quando venivo formato nel segreto, / ricamato nelle profondità della terra. / Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi; / erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati / quando ancora non ne esisteva uno” – si noti che l’espressione ebraica galmi qui usato per “[massa] ancora informe/embrione” può tradursi letteralmente “mio golem”), pur essendo insomma più che noto al suo costruttore, il “mostro” appare invece a Victor il radicalmente sconosciuto, l’altro da temere.
È anzi interessante notare come questa creatura, sconvolgente epifania del mostruoso agli occhi del suo stesso costruttore, sussuma in poche righe altre due categorie teratologiche alla quali oggi tendiamo a dare nomi diversi. Parlando infatti di “demoniaco cadavere al quale così follemente avevo dato la vita” (“demoniacal corpse to which I had so miserably given life”, così già nel ‘18) – una definizione riduttiva, perché si tratta di ben più di un cadavere, ma insieme estensiva per quell’aggettivo demoniaco – già prefigura l’horror di zombie, cadaveri resi attivi (virtualmente) con il ricorso a potenze infere; e più avanti, affermando che “Una mummia ritornata a vita non avrebbe potuto essere più spaventosa” (“A mummy again endued with animation could not be so hideous as that wretch”, così già nel ‘18), sembra ammiccare a un altro protagonista dell’immaginario moderno, la mummia reviviscente. Che in effetti ha idealmente radici già all’epoca: se le campagne napoleoniche hanno portato in Europa la cosiddetta egittomania – dall’arte pubblica dei monumenti, che disseminano Parigi di sfingi e obelischi, a quella privata dell’arredamento che invita i faraoni nei salotti borghesi – già all’epoca le mummie (ennesimo modo di garantire una qualche resistenza del corpo al tempo) suscitano fascino e brividi. Pensiamo al leopardiano Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, 1824; ma pensiamo anche a quel protoconnubio di mummie e fantascienza offerto dalla scrittrice inglese Jane C. Loudon in The Mummy!: Or a Tale of the Twenty-Second Century, 1827, dove la storia della mummia Cheops riportata alla vita nell’anno 2126 rilegge liberamente (in chiave conservatrice) suggestioni del Frankenstein e storie di maledizioni egizie. Il faraone che l’eroe e i suoi amici hanno sciaguratamente risvegliato (guarda caso) con l’elettricità riesce a fuggirsene in pallone verso l’Inghilterra andandosi a ficcare in complicate beghe per il trono; e solo dopo una mole di pagine deciderà infine di tornarsene alla tomba.
Ma nel nostro testo c’è un altro richiamo interessante subito dopo: “Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto!” (“Oh! no mortal could support the horror of that countenance”, così già nel ‘18), dove il mostro alluso è addirittura la Gorgone: e questo è particolarmente interessante solo a pensare al peso simbolico che negli anni del Terrore rivoluzionario in Francia e successivi ha il volto pietrificante della maschera di Medusa. Attraverso l’icona della sua testa tagliata, la Gorgone del Terrore è assurta a figura della “libertà alla francese” (eventualmente in opposizione alla saggia ed equilibrata Atena suo contraltare “all’inglese”) non solo nel dibattito intellettuale, ma in un simbolismo molto più popolare e diffuso attraverso stampe e persino oggettistica rivoluzionaria. Dove l’ossessiva riproduzione della testa mozza – in particolare il gorgoneion della testa del re – reca una confusa e arcaicissima nebulosa di simboli, ma richiama in termini diretti al mito di Perseo; e la scelta della definizione di terrore nella narrativa gotica inglese vede quell’ombra estendersi oltre la Manica. Percy stesso, più avanti, si soffermerà sul tema in On the Medusa of Leonardo da Vinci, in the Florentine Gallery, 1819. Ravvisando dunque nella Creatura un volto – per metafora – gorgonico, l’autrice evoca sottotesto un fortissimo brivido d’epoca.
Ma non ci si ferma al viso: quell’essere, già brutto quando incompiuto – ecco che Victor se ne rende conto, l’aveva già notato ma come senza riuscire a portarlo alla coscienza – una volta messa in moto l’assurda macchina anatomica di muscoli e giunture “era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire”. Le suggestioni dantesche sono al tempo note anche al di là dei giri di intellettuali, e in questo caso il pensiero va alle epopee di nudità contorte e devastate dei dannati: le riletture delle anatomie classiche in autori d’epoca come Füssli e Blake (entrambi illustratori di Dante) mostrano anche un nuovo modo di porsi rispetto al corpo, sì statuario ma energizzato fino alla teatralità o alla ritualità più plastica. La creatura però, nel suo innaturale muoversi, sembra andar oltre tutto questo.
Il golem di Victor 7E Victor fugge. E il suo orrore è proprio quello manifesto in certe espressioni sconvolte dei dipinti di Füssli, von Holst o nel Caino di Blake (The Body of Abel Found by Adam and Eve, circa 1826): un terrore allucinato fino alla follia e alla demenza. Fugge all’aperto in cortile, passa una notte terribile: “In certi momenti il mio polso batteva così rapido e forte che sentivo palpitare ogni arteria”, quasi a sentire per proiezione la propria macchina anatomica di nervi, vene, pompa cardiaca; “in altri momenti quasi mi accasciavo a terra per il languore e l’estrema debolezza”, come un corpo non più animato o un burattino di carne. E irrompe con tutta la violenza di due anni di sogni abortiti la delusione più nera.
Ma in questa fuga di Victor – una fuga duplice, prima dal laboratorio e poi nuovamente dalla camera da letto – è stato visto dell’altro. Durante la gravidanza per la prima figlia, Mary si è trovata molto sola mentre Percy continuava a vedersi con la birichina Claire, sorellastra di lei; e anche nelle due difficili settimane di vita della piccola, nata prematura, Mary ha avuto netta la sensazione che Percy non si curasse granché della piccola. L’irresponsabilità di Victor verso la Creatura che l’ha cercato come un bambino potrebbe fare con un genitore, può in fondo essere intesa come la stessa irresponsabilità e poca cura di Percy verso la sua prima figlia. E verso la stessa Mary, che non a caso alla morte della bimba chiama sul posto il pacato e responsabile amico Hogg, mentre Percy ha perso un po’ la testa come Victor (“Will you come—you are so calm a creature & Shelley is afraid of a fever from the milk—for I am no longer a mother now”: lettera 6 marzo 1815). Mary cade in quel periodo in preda alla depressione, innescata certo da quella post partum, ma non migliorata dalla sensazione di un disinteresse continuato di Percy per la creaturina e la sua tragedia – una situazione generale che può ben proiettarsi nella scelta di abbandono della Creatura da parte di Victor. E del resto quello della responsabilità è uno dei temi-chiave del Frankenstein.

 

 

la-notte-di-villa-diodati-2011-copertina[NOTA. I testi principali frutto della sfida del giugno 1816 – cioè il Frankenstein di Mary Shelley (nella versione ‘31), The Vampyre di John William Polidori e The Burial: A Fragment di Lord Byron sono stati riuniti in traduzione qualche anno fa nel bel volume La notte di villa Diodati, per i tipi Nova Delphi (2011, pp. 388), cui senz’altro si rimanda. Tanto più che a coronarli è un grande saggio di Danilo Arona, Villa Diodati Horror Show (Prometeo, Edipo ed Ecate contro il Vampiro), dove l’autore affronta da par suo i grovigli relazionali tra i protagonisti, con un po’ di ghiotti retroscena e un’analisi dei meccanismi mitopoietici in gioco. Un breve estratto del saggio è già apparso qui.
Si rammenta che lo stesso editore romano – il cui ricco catalogo comprende collane sul pensiero libertario (compreso un intero progetto dedicato a Sacco e Vanzetti), sull’America Latina e sul passato italiano più recente – ha offerto alle stampe anche una traduzione di Fantasmagoriana, il testo letto dagli ospiti di Villa Diodati, con l’ottimo commento di Fabio Camilletti, 2015, cfr. qui.]

 

 

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Il Golem https://www.carmillaonline.com/2015/03/14/il-golem-israele-e-netanyahu/ Fri, 13 Mar 2015 23:01:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21270 di Sandro Moiso

golem 1Nel cuore del cuore di ciò che rimane del ghetto ebraico di Praga, ovvero al centro del vecchio cimitero, dove si sono stratificati i corpi e la cultura di migliaia di ebrei vissuti in quella città prima della catastrofe nazionalsocialista, si erge la tomba di Judah Loew ben Bezalel, anche noto come Yehudah ben Bezalel, o Jehuda Löw, o come Maharal di Praga. Vissuto tra il 1520 e il 1609, Rabbi Loew rappresenta ancora oggi un motivo di pellegrinaggio per le comunità ebraiche.

La sua celebrità e la sua importanza sono dovute, oltre al ruolo esercitato nell’ambito [...]]]> di Sandro Moiso

golem 1Nel cuore del cuore di ciò che rimane del ghetto ebraico di Praga, ovvero al centro del vecchio cimitero, dove si sono stratificati i corpi e la cultura di migliaia di ebrei vissuti in quella città prima della catastrofe nazionalsocialista, si erge la tomba di Judah Loew ben Bezalel, anche noto come Yehudah ben Bezalel, o Jehuda Löw, o come Maharal di Praga. Vissuto tra il 1520 e il 1609, Rabbi Loew rappresenta ancora oggi un motivo di pellegrinaggio per le comunità ebraiche.

La sua celebrità e la sua importanza sono dovute, oltre al ruolo esercitato nell’ambito dell’interpretazione del Talmud, anche, e forse soprattutto, per essere stato, almeno secondo le leggende che ne circondano l’immagine, colui che, insieme al genero Jizchak ben Simson e al discepolo Jakob ben Chajim Sasson, plasmò dal fango uno o più Golem, riuscendo ad insufflargli lo spirito della vita.

Il Golem costituisce, nella sua interpretazione più semplice, una sorta di automa di argilla, una statua animata destinata ad obbedire agli ordini ed alle necessità del suo creatore fino a quando questi non cancelli dalla sua fronte l’alef di ‘emet, modificandone il significato da verità in met, morte.1 Oppure, più semplicemente, togliendogli dalla fronte la benda contenente le parole magiche che lo animavano e lo tenevano in vita.

Ciò che importa, in questa sede, della suddetta leggenda è legato al fatto che tale o tali Golem, a seconda della versione, spesso si ingrandivano troppo durante la loro azione e finivano col dover essere distrutti dal loro creatore. Anche quando essi erano creati per difendere le stesse comunità ebraiche da nemici più numerosi o più potenti. Bastava infatti un attimo di disattenzione da parte di chi ne deteneva il controllo perché questo o questi finissero col distruggere le proprietà, se non addirittura le vite degli ebrei stessi.

Al di là delle sue interpretazioni kabbalistiche e trascendentali,2 il mito del Golem, anticipando di secoli sia Mary Shelley che Philip K. Dick, tratta della facoltà umana di creare una vita artificiale e nel fare questo ammonisce l’uomo dal non volersi rendere simile a Dio, poiché da un essere imperfetto non può nascere nulla di perfetto. Infatti già nel Talmud si parla di un essere artificiale creato da un uomo pio. Ma il Golem in questione, creato da Rava, è incapace di parlare poiché “i pii, gli uomini giusti, sono dotati di poteri straordinari che sono però limitati dalle iniquità da cui nessun essere umano può essere esente”.3

Prestiamo ben attenzione all’avvertimento: iniquità da cui nessun essere umano può essere esente. Perché, a questo punto, è ben facile poter intravedere nella creazione e susseguente distruzione del Golem una lezione sul limite e la pericolosità che le macchine create dall’uomo, anche nella loro forma istituzionale (Stato, esercito), possono comportare per coloro che credono di poterle usare per la propria difesa o al proprio servizio.

Molto ci sarebbe ancora da dire sui limiti che una parte del pensiero ebraico pone alla vanagloria dell’uomo e dei suoi apparati, ma per ora basti qui citare la contrarietà che molte comunità ebraiche da sempre manifestano nei confronti dello Stato sionista di Israele e delle sue aggressive politiche, sia nel mondo che all’interno dello stesso.4

Contrarietà che ha assunto ultimamente i toni di una grande manifestazione di massa tenutasi a Tel Aviv, sabato 7 marzo scorso, quando decine di migliaia di persone (gli organizzatori hanno parlato di 85.000 manifestanti) si sono raccolte, in vista delle elezioni parlamentari del 17 marzo, per opporsi alle suicide politiche militariste di Netanyahu e del suo governo di destra. Sono stati scanditi slogan come “Fermiamo la guerra”, “Portate i soldati a casa” e “Gli ebrei e gli arabi rifiutano di essere nemici”, mentre sugli striscioni era scritto “Israele vuole un cambiamento” oppure “Bibi, hai fallito, tornatene a casa” (quest’ultimo con riferimento al soprannome del premier).

netanyahu La manifestazione era stata organizzata dal movimento “Un milione di mani”. Lo scopo, a dieci giorni dalle elezioni, era quella di chiedere un cambiamento delle priorità di Israele, con maggiore attenzione a temi come la sanità, la scuola, i salari, la casa, il costo della vita e l’assistenza agli anziani, mentre un bambino su tre versa in condizioni di povertà.

Gli organizzatori del raduno avevano scritto sulla loro pagina Facebook: “Di fronte alla guerra che sta pretendendo un pesante tributo di sangue, di morti e di feriti da entrambe le parti, di distruzione e terrore, di attentati e razzi, noi resteremo con l’affermazione: «Terminare la guerra ora!» Invece di essere trascinati ancora e ancora in più guerre e più operazioni militari, ora è il momento di condurre un percorso di dibattito e di un accordo diplomatico. C’è una soluzione diplomatica. Quale prezzo pagheremo – noi, i residenti del sud e il resto di Israele, e gli abitanti di Gaza e Cisgiordania – per arrivare a questo? […] Insieme, ebrei e arabi, sostituiremo il cammino fatto di occupazione e di guerre, di odio, istigazione e razzismo, con un percorso di vita e di speranza”.

Abbiamo un leader che combatte una sola campagna – la campagna per la propria sopravvivenza politica”, ha detto uno dei principali oratori: Meir Dagan, ex capo del Mossad, che era in piazza con l’ex comandante militare della regione nord ed ex vice capo del Mossad, Amiram Levin.
Per sei anni, il signor Benjamin Netanyahu ha servito come primo ministro”- ha aggiunto- ”In sei anni non ha fatto una sola mossa per cambiare la regione e per creare un futuro migliore

La vedova del colonnello israeliano Dolev Keidar, ucciso durante l’offensiva della scorsa estate contro la Striscia di Gaza, dal podio ha severamente criticato l’approccio del premier verso la questione palestinese. “Sì, signor Primo Ministro, ciò che è importante è la vita stessa, ma è impossibile parlare tutto il tempo di Iran e chiudere un occhio sul sanguinoso conflitto con i palestinesi, che ci costa tanto sangue”, ha detto Michal Kestan-Keidar.

Mentre la crisi mondiale precipita sempre più verso una guerra allargata, è chiaro ormai per molti israeliani che, qualsiasi possano essere gli sviluppi futuri dell’attuale situazione politica, economica e militare internazionale, la politica aggressiva di Benjamin Netanyahu ha portato ormai lo Stato di Israele ad un punto di non ritorno. Soprattutto con la spinta verso la guerra all’Iran, altrettanto voluta dagli Stati del Golfo e dal regime saudita, ma attualmente osteggiata dagli Stati Uniti che, invece, dell’Iran come alleato potrebbero avere sempre più bisogno per dirimere le questioni mediorientali.

La politica dell’incremento della spesa militare di tutte le maggiori potenze e di autentico riarmo da parte della Cina, del Giappone e della stessa Germania confermano il lento scivolare del globo verso un conflitto mondiale,5 di cui le guerre finanziarie e monetarie non sono che un’anticipazione gravida di imprevedibili conseguenze6. Ed Israele potrebbe trovarsi a breve al centro di ogni tipo di conflitto, senza alleati sicuri con cui concordare la propria azione.

D’altra parte Hannah Arendt l’aveva già previsto nel lontano 1948, ai tempi della prima guerra arabo-israeliana: “[…] anche se gli ebrei dovessero vincere la guerra […] La nuova terra sarebbe qualcosa di molto diverso dal sogno degli ebrei di tutto il mondo, sionisti e non-sionisti. Gli ebrei “vittoriosi” vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difenderli fisicamente da trascurare ogni altro interesse e ogni altra attività […] il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una nazione che, indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall’estensione del suo territorio […] continuerebbe a essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall’ostilità dei suoi vicini”.7

Da settant’anni ormai lo Stato di Israele affida la sua sicurezza a Tsahal, uno degli eserciti più armati, addestrati e potenti del mondo ipocritamente definito come Forza di difesa, senza però mai essere venuto definitivamente a capo dei suoi problemi di sicurezza ed economici. Anzi entrambi sembrano essersi aggravati nel corso dei decenni, dimostrando così che il progressivo rafforzamento del Golem tecnologico-militare non ha contribuito a difendere meglio il suo territorio né, tanto meno, a migliorare le condizioni di vita della maggioranza dei suoi abitanti.

merkavaDa questo punto di vista la storia del carro armato Merkava, il gioiello corazzato dell’esercito israeliano, nato nel 1979 e interamente prodotto in Israele, può costituire un buon esempio.
Il carro Merkava prende pomposamente il nome dalla parola ebraica Merkavah, (carro, biga) usata in Ezechiele (Ez1,4-26) con riferimento al carro-trono di Dio con angeli detti Chayyot.

Il profeta Ezechiele così descrive la struttura del Carro Celeste: “Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota. Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt’e quattro erano pieni di occhi tutt’intorno. Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote. Quando essi si muovevano, esse si muovevano; quando essi si fermavano, esse si fermavano e, quando essi si alzavano da terra, anche le ruote ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote”. (Ez. 1,16-21)

Il richiamo biblico serve dunque a definire un mezzo corazzato in grado di raggiungere ogni luogo e in qualsiasi condizione. Tant’è però che, anche se oggi è considerato dagli esperti il carro armato più sicuro al mondo, nel corso degli anni i modelli succedutisi sono stati almeno sette: tutti modificati, o quasi, a seguito delle esperienze belliche sui vari fronti (a partire da quella in Libano degli anni ottanta). E senza che esso sia mai riuscito a trionfare nello sconto urbano o su territori difficili come quello del confine libanese, per cui è stato continuamente modificato.

L’aumento della potenza da sola non basta contro un nemico abile e determinato anche se armato in maniera più povera. Questa è una lezione che le strategie militari occidentali ed israeliane continuano a non comprendere. Anzi, si potrebbe dire che la guerra da sola, come strumento di controllo e di dominio non sarà mai sufficiente a risolvere i problemi tra le società e le nazioni.

Forse era anche questa la lezione che gli uomini pii delle antiche leggende volevano trasmettere: la forza non basta, anzi spesso è dannosa anche, e forse proprio, per chi pensa di averne di più. Poiché nel momento in cui quella forza gli si rivolterà contro, l’apprendista stregone non saprà e non potrà affrontarla perché tutto il suo sapere, tutte le sue abilità e tutte le sue esperienze si saranno già preventivamente concentrate in essa e soltanto in essa. Privandolo di qualsiasi altra possibilità dialettica o strumentale.

Oggi Bibi, l’omino di latta dal sorriso feroce, sbruffoneggia, ricordando qualche nostro premier, mentre scherza col fuoco di una guerra allargata. Eppure già diversi anni fa, un vecchio israeliano, comunista di origini polacche, aveva intravisto la trappola in cui il sionismo si sarebbe racchiuso da sé. Senza via di scampo. “Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni militari e civili dell’Autorità palestinese, nessun segno di prossima capitolazione è in vista. La deteminazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza, si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti a ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore8

E concludeva affermando: “La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono, in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha, fra l’altro, come rovina il popolo di Israele”.9

Schiacciato tra i giochi planetari della potenza declinante di Washington e quelli locali delle monarchi sunnite del Golfo e delle potenze rampanti come Cina, Turchia e Iran, Israele rischia veramente di fare la fine del topo. Nonostante la prosopopea da protettore degli “ebrei di tutto il mondo” con cui Bibi ha voluto presentarsi alle imbambolate piazze parigine del post-Charlie.

merkava 2 A meno che i suoi cittadini non si arrischino, per ridurlo in polvere, a togliere l’alef dalle parole, false, scritte sulla fronte del loro Golem.10 Così come dovremo fare noi anche qui, nel resto dell’Occidente, strappando dalla fronte dei nostri Golem imperialisti e militaristi le magiche parole “Progresso, Democrazia e Libertà” con cui continuano a tenersi in vita. A spese nostre e del mondo intero.


  1. Così come avviene nelle narrazioni medievali riguardanti la creazione del Golem riportate in Moshe Idel, Il Golem. L’antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche dell’ebraismo, Einaudi 2006, pag. 90 e seguenti  

  2. Vedasi, oltre al già citato Moshe Idel, anche Gersom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi 1993 e, ancora, G.Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi 1980  

  3. M. Idel, op. cit., pag.50  

  4. Si confrontino, a tal proposito, Yakov M. Rabkin, Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo, Ombre Corte, Verona 2005 e Furio Biagini, Giudaismo contro sionismo. Storia dei Neuteri Karta e dell’opposizione ebraica al sionismo e allo Stato di Israele, l’Ornitorinco edizioni, Milano 2010  

  5. Si vedano: Guido Santevecchi, Il riarmo cinese. Spese su del 10%, Corriere della sera 5 marzo 2015; Giovanni Zagni, La Germania pensa al riarmo e rivede il suo pacifismo, Corriere della sera 9 marzo 2015; Guido Santevecchi, La spesa record del Giappone per il riarmo. Guardando alla Cina, 15 gennaio 2015  

  6. Brunello Rosa, La guerra delle valute, in Moneta e Impero, Limes 2/2015  

  7. Hannah Arendt, Salvare la patria ebraica: c’è ancora tempo (1948) in Ebraismo e modernità, Feltrinelli 1993, pp. 167-168  

  8. Michael Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringhieri 2004, pp. 48-49  

  9. M.Warschawski, op.cit., pag.123  

  10. Sulla possibile sconfitta elettorale di Netanyahu e della sua coalizione alle prossime elezioni si veda Bernardo Valli, Tra i seguaci di Netanyahu che temono le urne. La sinistra di Israele torna a sognare la vittoria, La Repubblica 13 marzo 2015  

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