Martin McDonagh – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin Mc Donagh https://www.carmillaonline.com/2018/02/09/tre-manifesti-edding-missouri-martin-mc-donagh/ Thu, 08 Feb 2018 23:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43646 di Mauro Baldrati

Si potrebbe riassumere il gradiente di questo film con un “Mah…”, puntini di sospensione compresi. Il nostro Magister filmico, Dziga Cacace, sulla pagina FB del suo alter ego ha postato “Boh…”

“Mah…” è leggermente meno negativo di “Boh…”, però entrambi rivelano una difficoltà, quello stato d’animo di strisciante insoddisfazione che ci accompagna all’uscita dalla sala, quando ci chiediamo: “Ma cosa ho visto, e perché?” Domanda insidiosa, alla quale è sempre difficile rispondere, perché alcune cose ci sono piaciute ma non ci hanno convinto e la linea di confine è danzante, [...]]]> di Mauro Baldrati

Si potrebbe riassumere il gradiente di questo film con un “Mah…”, puntini di sospensione compresi. Il nostro Magister filmico, Dziga Cacace, sulla pagina FB del suo alter ego ha postato “Boh…”

“Mah…” è leggermente meno negativo di “Boh…”, però entrambi rivelano una difficoltà, quello stato d’animo di strisciante insoddisfazione che ci accompagna all’uscita dalla sala, quando ci chiediamo: “Ma cosa ho visto, e perché?” Domanda insidiosa, alla quale è sempre difficile rispondere, perché alcune cose ci sono piaciute ma non ci hanno convinto e la linea di confine è danzante, frastagliata. Proviamo a farlo qui.

La perplessità emerge subito, già dalle prime scene. Soprattutto nei dialoghi. C’è una sorta di innesto del grottesco – alla Coen per capirci – o un registro super-avant-pop alla Tarantino? – con un parlato sopra le righe e personaggi eccessivi, quasi macchiettistici, in una storia estremamente seria, con implicazioni drammatiche. In musica classica questo procedimento si chiama “contrappunto”: “La presenza, in una composizione o in una sua parte, di linee melodiche indipendenti che si combinano secondo regole tramandate dalla tradizione musicale occidentale” (Wikipedia).

Si combinano. Ecco, un problema – il problema? – è che non si combinano granché. Tutto avviene tra Mildred e i poliziotti locali, parodie viventi degli amerikani della provincia profonda, razzisti e omofobi (Trump qui ha totalizzato il 56.8 dei voti). Il loro esponente tipo è l’agente Dixon, sempre alticcio, violento, in odio viscerale contro i negri, i froci, e contro Mildred, per la questione dei tre manifesti. Su di lui pende un sospetto di omosessualità, o quanto meno di ermafroditismo: vive ancora con “mammina”, una vecchia malvagia che lo inonda di consigli malevoli e pericolosi. I dialoghi sono infarciti da raffiche di vaffanculo, fucking, motherfucker, il classico slang post-puritano che imperversa negli ambienti rustici e working class americani. Il personaggio di Mildred è ben delineato: è una donna dura e disperata per la perdita della figlia, stuprata e uccisa, una ragazzina con la quale aveva un rapporto conflittuale, che l’accusava di essere una “maledetta troia” e una “stronza” e “vaffanculo”. Ma è anche decisa a tutto. Nulla e nessuno possono fermarla, né le minacce né le aggressioni più o meno verbali. La cittadina di Ebbing è un ambiente asfittico, popolato da mostri, che forse il regista ha cercato di sdrammatizzare col ricorso al grottesco.

Un’altra scelta, altrettanto posticcia, magari per non incartarsi in un conflitto difficilmente gestibile tra personaggi, riguarda lo sceriffo Bill, interpretato dal sempre ottimo Woody Harrelson. Benché parli coi suoi poliziotti-bestia con lo stesso fucking-slang, Bill è un brav’uomo. Va a trovare Mildred, cerca di spiegarle lo stato delle indagini e le difficoltà di trovare le prove. Un personaggio impegnativo da gestire nell’ingranaggio, semplice ma abbastanza rigido, della storia. Obbligherebbe a uno spostamento del baricentro verso un genere più thriller, con nuove indagini e colpi di scena.

Così gli fanno venire un cancro terminale. Più o meno a metà film si spara una rivoltellata in testa. E’ una scelta già operata dai Coen in Non è un paese per vecchi. Uno dei personaggi chiave, col quale buona parte del pubblico si identifica (perché è l’eroe inseguito dall’assassino) viene tolto di mezzo all’improvviso. Lo trovano morto in una scena secondaria, così, en passant. In realtà questa scelta risale a uno dei massimi capolavori della storia del cinema, che proprio a causa di questa breaking bad rischiò di non trovare un produttore: Psycho, di Hitchcok. Quasi subito fa morire la protagonista, nella leggendaria scena della doccia (circa quaranta secondi che hanno richiesto una settimana intera di riprese). Il pubblico restò senza punto di riferimento. Non era mai successo. Un’autentica rivoluzione.

Il regista Mc Donagh la fa a sua volta, ma con una modalità di nuovo posticcia, affrettata addirittura.

Così la stazione di polizia rimane senza capo, in uno stato di violenta anarchia e di svacco. Poi arriva un nuovo sceriffo che è… un negro. Sicuramente qualcosa decollerà, ma ormai è tardi, possiamo solo immaginarlo.

Perché ora che siamo a tre quarti e oltre è giunta l’ora della redenzione.

Bill ha lasciato delle lettere, e quella per Dixon otterrà un risultato inaspettato. Dixon, dopo avere quasi ucciso un ragazzo, muta da così a così. Bill gli ha spiegato l’importanza dell’amore e lui diventa generoso, cambia addirittura il linguaggio. Passa dalla parte di Mildred, l’anello debole, dopo averla più volte insultata e derisa. Indaga, perché è sicuro di avere scoperto l’identità dell’assassino della figlia. Lui, teppista picchiatore, si fa addirittura massacrare di botte pur di raccogliere un indizio che potrebbe incastrare lo stupratore.

E così, con Dixon come nuovo alleato di Mildred, marciamo a vele spiegate verso il finale. Lo capiamo dal ritmo più lento, dalla faccia degli attori (Dixon e Mildred, in auto insieme), dalla musica di sottofondo. E sarà un finale classico, da manuale: il finale aperto. Un finale che più politicamente corretto non si può.

Ora non pretendiamo finali-cult come in “Taxi Driver”, o nel più recente “Cold in July”, ma il politicamente corretto, in questa storia malata, è poca cosa, un tentativo consolatorio e facilone che non può che evocare il nostro strascicante “Mah…”.

P.S. Abbiamo deciso di sorvolare sulla trama perché gran parte delle recensioni uscite sul web e sui giornali si occupa quasi solo di questo; e Wikipedia ne contiene una, utile per il recensore che preferisce conoscere a fondo lo spoiler, che spiega anche i dettagli.

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La notte dell’American Way of Life https://www.carmillaonline.com/2018/01/25/la-notte-dellamerican-way-of-life/ Wed, 24 Jan 2018 23:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42940 di Sandro Moiso

Mi sono chiesto se fosse il caso di parlare ancora di un film che ha fatto incetta di premi all’ultima edizione dei Golden Globes (come miglior film drammatico, migliore attrice di un film drammatico, migliore attore non protagonista e migliore sceneggiatura) e sono giunto alla conclusione che sì, ne valesse la pena. Perché Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri) è una storia, magistralmente diretta dal regista inglese Martin McDonagh, di solitudine e violenza che ci mostra uno spaccato di quell’America profonda di cui tanto si sente parlare e che così poco si conosce.

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di Sandro Moiso

Mi sono chiesto se fosse il caso di parlare ancora di un film che ha fatto incetta di premi all’ultima edizione dei Golden Globes (come miglior film drammatico, migliore attrice di un film drammatico, migliore attore non protagonista e migliore sceneggiatura) e sono giunto alla conclusione che sì, ne valesse la pena.
Perché Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri) è una storia, magistralmente diretta dal regista inglese Martin McDonagh, di solitudine e violenza che ci mostra uno spaccato di quell’America profonda di cui tanto si sente parlare e che così poco si conosce.

Una società esplosa, si potrebbe dire forse disintegrata, in cui anche i valori più tradizionali e identitari (religione, famiglia, appartenenza alla comunità possibilmente WASP), spesso sbandierati sia dai suoi estimatori che dai suoi critici più feroci, non sono più ormai che vuoti feticci. Valori che sopravvivono soltanto accettandone la finzione persuasiva e consolatoria, ma che non reggono alla prova dei fatti.

Valori che possono disciogliersi come neve al sole di fronte al minimo soprassalto di coscienza. Nemmeno di una coscienza “politica”, ma semplicemente individuale. Coscienza di essere vittime di una violenza efferata e immotivata che sembra pervadere, e in effetti è così, ogni ambito della vita sociale. Pubblica o privata che sia. Una violenza che si fa forte della solitudine o dell’emarginazione delle vittime, designate o casuali che siano.

Frances McDormand interpreta, in maniera straordinariamente efficace, una madre (Mildred Hayes) la cui giovane figlia è stata stuprata ed uccisa. Dopo sette mesi le indagini sull’efferata violenza non hanno dato risultati, così la donna, pur di modestissime condizioni economiche, decide di affittare tre cartelloni pubblicitari, posti lungo una strada secondaria nelle vicinanze di casa sua, per chiedere alle autorità locali (lo sceriffo Bill Willoughby, interpretato da Woody Harrelson) perché tale delitto non sia stato ancora risolto e i suoi responsabili perseguiti.

Lo chiede alle autorità locali, sceriffo e agenti, perché li vede più attenti a perseguire i piccoli o inesistenti reati degli afro-americani più che a far valere i principi più generali della Legge e della Giustizia. E lo fa con i modi bruschi di una donna della middle-class ormai proletarizzata, di una donna abbandonata dal marito per una ragazza della probabile età della figlia, di una donna che beve per consolarsi e di una madre dai grandissimi sensi di colpa per una tragedia di cui si sente, almeno in parte, responsabile.

Su quei manifesti compare così simbolicamente l’immagine rovesciata di quella trasmessa durante l’era di Roosvelt dello stile di vita americano. La crisi odierna non ha sbocchi, non concede speranze e la depressione sociale non è più soltanto economica. Come nei tre manifesti fatti affiggere da Mildred, i “successi” dell’economia e della politica della nazione si riflettono negli sguardi, nei corpi e nei gesti dei suoi abitanti, così come ce li trasmette la fotografia del film.

Siamo in una cittadina del Missouri, la cui unica statua è quella ad un soldato della Guerra di Secessione, anche se non si sa a quale dei due schieramenti in campo appartenga visto che all’epoca il Missouri fu uno stato cuscinetto all’interno del quale le fazioni filo-sudiste e filo-nordiste lottarono duramente in oltre 1.200 scontri armati di varia entità, che lacerarono profondamente sia il territorio che la popolazione.

La maledizione di quella lacerazione sembra strisciare ancora sul fondo delle vicende narrate, anche se non sembra mai destinata a comparire pienamente. Alcuni agenti, ed uno in particolare (l’agente Jason Dixon, interpretato da Sam Rockwell), sono decisamente razzisti e lo sceriffo forse chiude un po’ troppo gli occhi su ciò che accade intorno a lui. Ma l’ignoranza, la dipendenza alcolica e le tare famigliari sono mostri che non si possono sconfiggere facilmente e lo sceriffo ha a che fare con un altro invincibile mostro: un cancro al pancreas.
Questo serve a giustificare qualcosa per Mildred o per lo spettatore? No.
Serve soltanto ad amplificare il senso di solitudine e di impotenza in cui ognuno si muove, vittima o meno che sia. In una società svuotata di ogni residuo valore umano, così come è stata svuotata dalle sue ricchezze minerarie la collina spaccata e devastata che fa da sfondo ai tre cartelloni e, metaforicamente, a tutta la vicenda.

Sullo sfondo si agitano i fantasmi del razzismo e di una guerra lontana che tracima oltre i suoi confini reali, per portare fino a casa i suoi frutti più marci. Meno sullo sfondo è presente quello del sessismo e della violenza famigliare, ma contro ognuno di essi anche la vendetta, così liberatoria in tante altre narrazioni, può rivelarsi incerta ed inutile.

Anche la trasfigurazione, fisica e psicologica, di uno dei personaggi cardine (interpretato dal bravissimo Rockwell) può rivelarsi vana. Condotto sulle note della canzone della Band dedicata alle sofferenze della popolazione del Sud degli Stati uniti nel corso della parte finale della guerra civile (The Night They Drove Old Dixie Down) e cantata da una Joan Baez ascoltata attraverso un vecchio juke-box il punto di volta della storia, il suo climax, servirà soltanto a rivelare ulteriormente le contraddizioni che agitano ognuno dei personaggi più che a consegnare alla Legge, o almeno a un giudizio definitivo, il reale assassino.

La canzone inserita all’interno di una colonna sonora molto bella, firmata da Carter Burwell, compositore statunitense noto per la sue collaborazioni con Joel ed Ethan Coen, costantemente presente, tesa a sottolineare con maestria ogni istante delle vicende narrate, sembra qui assumere un significato molto più ampio di quello legato alla delusione per il crollo del vecchio Sud, per assurgere a delusione per tutto un sistema di valori ormai definitivamente ed irreversibilmente crollato.

We were hungry / Just barely alive (“Affamati, a malapena vivi”): sono parole che vanno infatti ben al di là del loro significato immediato e fisico, in un mondo in cui non c’è salvezza, non c’è vendetta e la Legge del Signore è poco gradita. Come si dimostra in un dialogo crudissimo tra Mildred e il pastore locale che va a trovarla per consolarla e dissuaderla dalla sua intenzione di continuare ad esporre i tre manifesti. Così semplici, così provocatori, così insopportabili per della coscienze morte e sepolte. L’American Way of Life è definitivamente scomparsa nell’era di Trump. Non ha più maschere, bianche o nere, dietro cui nascondere la propria violenza di classe, razza o genere.

Mentre anche i media , così attratti dalla denuncia elementare e superficiale dei delitti o degli scandali, tremano e si schierano dalla parte della conservazione dell’esistente quando la critica rischia di farsi più radicale.
Quello che va infatti sottolineato è che il film va ben al di là dell’ambito “femminista” in cui lo si è voluto recintare in un periodo fortemente segnato dalle pubbliche denunce delle violenze e dai soprusi subiti dalle donne che lo star system di Hollywood, e non solo, aveva cercato fino ad ora di nascondere. E non è certo una “commedia nera” come la distribuzione italiana l’ha fin qui voluto presentare.

Perché in realtà si tratta di un’autentica tragedia che da personale si trasforma in corale; da dramma individuale e famigliare a dramma di un intero popolo e di un’intera nazione che ha perso tutti suoi punti di riferimento e che non sa più nemmeno immaginare in quale tipo di giustizia si possa credere o sperare. Scavando nelle contraddizioni spietatamente e fino all’osso, a differenza di un altro film, il recente e farlocco Detroit di Katryn Bigelow, in cui si preferisce trasformare le vicende corali della più grande rivolta razziale degli Stati Uniti1 in un fatto riguardante pochi individui, in cui il bene e il male sono facilmente individuabili e ben definiti e la giustizia (pur non soddisfatta) anche, così come piace alla buona coscienza perbenista e manichea.

Mentre un altro bel film della stagione passata, Get Out (Scappa) co-prodotto, scritto e diretto da Jordan Peele, attore afro-americano al suo esordio dietro la macchina da presa, è stato relegato anch’esso a “commedia nera”, pur essendo in realtà un autentico horror movie ispirato dalla critica alla falsa coscienza liberal dell’età di Obama, quando ogni “negro” è da considerarsi buono soltanto nel momento in cui perde la sua reale identità. Violenza estrema e negatrice degli individui e delle comunità alla quale si può rispondere soltanto con la violenza. Per una volta liberatrice.


  1. Si veda il mio https://www.carmillaonline.com/2013/08/09/detroit-e-morta-viva-detroit-prima-parte/ e https://www.carmillaonline.com/2013/08/14/detroit-e-morta-viva-detroit-seconda-parte/  

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