Mario Tronti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 09 Apr 2025 20:00:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Decenni smarriti. Gli anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2024/07/07/decenni-smarriti-gli-anni-ottanta/ Sun, 07 Jul 2024 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83244 di Gioacchino Toni

AA.VV., a cura della redazione di Machina, Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, Machina libro – DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 208, € 16,00

Che nell’ambito della messa in discussione dell’esistente vi siano decenni decisamente più rilevanti di altri è fuori di dubbio. Dell’importanza degli anni Sessanta e Settanta per l’assalto al cielo che hanno prodotto è stato detto e scritto in abbondanza ed a volte anche in maniera acritica, autoreferenziale o con uno sguardo a ritroso segnato da omissioni e dimenticanze più o meno di comodo.

Se è vero che le ricostruzioni del passato [...]]]> di Gioacchino Toni

AA.VV., a cura della redazione di Machina, Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, Machina libro – DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 208, € 16,00

Che nell’ambito della messa in discussione dell’esistente vi siano decenni decisamente più rilevanti di altri è fuori di dubbio. Dell’importanza degli anni Sessanta e Settanta per l’assalto al cielo che hanno prodotto è stato detto e scritto in abbondanza ed a volte anche in maniera acritica, autoreferenziale o con uno sguardo a ritroso segnato da omissioni e dimenticanze più o meno di comodo.

Se è vero che le ricostruzioni del passato parlano innanzitutto al/del presente, allora, forse, il limite maggiore, per quanto comprensibile possa essere, deriva da un tipo di sguardo a ritroso che, insieme alla sconfitta, ha introiettato l’idea della fine della storia. Si rischia di guardare ai decenni ribelli come se con la fine di essi fosse scomparsa ogni minima forma di conflittualità. Anche da ciò deriva la tendenza a leggere i decenni successivi in maniera non dissimile da quella propinata dai vincitori: seppure vissuti da una parte come trionfo e dall’altra come sconfitta, i decenni successivi al “lungo Sessantotto” tendono ad essere narrati come periodi riappacificati e privi di contraddizioni.

La storia e il conflitto non si sono evidentemente fermati alle soglie degli anni Ottanta lasciando campo libero al dominio ed al pensiero unico capitalistico. Non si può dunque che accogliere con favore l’iniziativa intrapresa dalla rivista “Machina”, in seno a DeriveApprodi, indirizzata ad occuparsi dei «decenni smarriti» riattraversando i «quaranta ingloriosi», dagli anni Ottanta agli anni Dieci del nuovo millennio, al fine di individuare i nodi centrali nel presente tentando di cogliere le tendenze in atto. Risulta indubbiamente efficace il ricorso al termine «smarriti» a proposito di questi decenni in quanto, come argomenta la redazione di “Machina”, si tratta di decenni in buona parte «perduti, rimossi o frettolosamente finiti fuori dai nostri radar, perché rappresentano, simbolicamente e concretamente, l’“inverno del nostro scontento”, conseguente al fallito assalto al cielo».

Certo, quelli successivi ai Settanta sono decenni di controrivoluzione capitalistica, di repressione e di riassorbimento delle lotte e degli immaginari ribelli, ma non sono stati decenni privi di contraddizioni e di conflittualità, per quanto queste ultime abbiano assunto forme e modalità inedite. L’aura del Lungo Sessantotto non dovrebbe ridurre a nullità, a mera sconfitta interi decenni di storie, condotte e immaginari di esseri umani che riconciliati non sono stati. Recuperare i «decenni smarriti» significa innanzitutto infrangere lo storytelling dominante della fine della storia, delle contraddizioni e del conflitto in tutte le sue molteplici forme. È con tali premesse che, dopo aver raccolto numerosi articoli sugli anni Ottanta, la redazione di “Machina” ha dato alle stampe un primo volume dedicato a quel periodo: Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio.

Gli anni Ottanta sono certamente stati anni all’insegna del rappel à l’ordre, di ristrutturazione e di riassorbimento delle insorgenze dei decenni precedenti, anni di disimpegno reclamizzato dai tubi catodici della neotelevisone e di cinico individualismo, ma dietro all’autocelebratoria narrazione patinata dell’oblio pacificato non sono mancate contraddizioni e conflittualità, sperimentazioni e immaginari non riconciliati che, in un clima repressivo da resa dei conti, è bene ricordarlo, hanno dovuto destreggiarsi tra la preservazione della memoria delle esperienze precedenti e il reinsediamento sociale e culturale a partire da un universo produttivo, un contesto urbano e un immaginario, soprattutto giovanile, in via di rapida mutazione.

A dare il senso dello spirito politico con cui il saggio guarda al primo dei “decenni perduti” rapportandolo all’oggi e al domani, non limitandosi dunque a ricavarne una, per quanto interessante, “mappa muta”, è soprattutto il contributo di Chiara Martucci e Bruna Mura che partono dall’esperienza personale che le ha portate a confrontarsi con l’affievolirsi in Italia, nel corso degli anni Ottanta, della tradizione marxista del femminismo, per poi soffermarsi sull’ambivalenza del processo di istituzionalizzazione in quel decennio di diverse conquiste ottenute dalla precedente stagione di lotta:

se da un lato vi e stato il risultato di aver strappato la formalizzazione di diritti e servizi, dall’altro si è reso molto complesso il garantire la portata conflittuale di quelle rivendicazioni, sia a causa di fattori estranei – quali quelli giudiziari – ma anche a causa delle stesse dinamiche formali dei percorsi di istituzionalizzazione. L’elemento profondamente trasformativo dei rapporti sociali e fondativo delle stesse rivendicazioni del femminismo marxista, è venuto meno nel passaggio al riconoscimento normativo (p. 153).

Tale ragionamento sugli anni Ottanta conduce Martucci e Mura a porsi importanti interrogativi sul presente:

ci stanno scippando la profondità dei concetti e la dimensione politico-conflittuale delle pratiche che per noi sono state la potenza della lotta alla violenza di genere? L’utilizzo semplificato e banalizzato di alcuni termini – patriarcato, su tutti – rischia di riprodurre quelle dinamiche di potere e quei rapporti di forza che stiamo combattendo? (p. 163).

Diventa importante comprendere quanto certe dinamiche istituzionali, supportate da una potente grancassa spettacolare-mediatica, assorbano le rivendicazioni depotenziandole e «quanto invece possa rivelarsi potente la diffusione nel discorso pubblico di pratiche e concetti costruiti in decenni di lotte» (Ibid).

Una serie di contributi presenti sul volume sono dedicati alle espressioni artistiche degli anni Ottanta: Jadel Andreetto tratteggia il panorama musicale del periodo evidenziando le tante sperimentazioni e contaminazioni che lo hanno contraddistinto; Rudi Ghedini offre una mappatura cinematografica di un decennio in cui il cinema si trova a fare i conti i conti con l’avvento dei videoclip televisivi e le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie nell’ambito degli effetti speciali; Manuela Gandini degli anni Ottanta tratteggia invece l’intrecciarsi di scenari mediatici ed artistici, costume, politica ed economia a cavallo tra modernità e postmodernità; Giorgio Mascitelli, guardando al dibattito letterario, artistico e filosofico che si è sviluppato all’epoca attorno al termine postmoderno, ricostruisce le avvisaglie della crisi del sistema letterario novecentesco, crisi che subirà un’accelerazione con l’arrivo di internet nel decennio successivo.

Delle forme aggregative e di militanza che si fanno strada negli anni Ottanta, soprattutto a partire dalla dimensione “emotiva”, si occupano Federico Battistutta e Massimo Ilardi: il primo si concentra sulla categoria della “fuga” per descrivere quanto avvenuto nei movimenti sociali del periodo condensabile nell’espressione di “militanza gioiosa” introdotta recentemente da Silvia Federici; il secondo guarda alla nascita delle rivolte contraddistinte da una conflittualità sfuggente alle letture politiche tradizionali in quanto scatenate da “pratiche di libertà” e “culture del consumo”. «Sono lotte che non hanno né il lavoro, né la produzione, né la conquista del potere al centro dei loro obiettivi, ma attaccano una forma e una tecnica del potere che vogliono destituire, quella più legata al controllo dei corpi e del territorio. Non cercano il nemico principale ma quello più vicino» (p. 99).

A partire Les années d’hiver, volume che raccoglie diversi scritti di Félix Guattari redatti nella prima metà degli anni Ottanta, e Les nouveaux espaces de libertés, testo steso attorno alla metà del decennio dal francese insieme a Toni Negri, Roberto Ciccarelli ragiona attorno alla questione della soggettività e dei periodi di “letargo politico”, mentre Paolo Virno, Marco Mazzeo e Adriano Bertollini dialogano tra di loro su quanto l’immaginario e l’universo valoriale degli anni Ottanta sia stato contraddistinto da opportunismo, cinismo e da un particolare intrecciarsi di paura e angoscia, valutando quanto la presenza di vie di fuga presenti in quel contesto avrebbero potuto essere sfruttate più proficuamente proiettando così il ragionamento sull’oggi.

L’ultima parte del volume vede Ubaldo Fadini ragionare attorno alla figura del soggetto e alla qualifica della “plasticità”, riemersa prepotentemente negli anni Ottanta, dunque i due scritti di Rita di Leo e Romeo Orlandi sono dedicati rispettivamente al mesto dissolversi dell’esperienza sovietica e alla trasformazione cinese avvenuti nel corso di quel decennio, infine un intervento di Christian Marazzi ragiona sul recupero al lavoro, nel corso degli anni Ottanta, di quelle soggettività che avevano rifiutato il modello fordista, con un occhio sulla contemporaneità:

Quali possono essere le direttive per una possibile ricomposizione di classe? È difficile rispondere, ma bisognerebbe puntare a un’iniziativa a livello planetario per riprenderci il tempo, lottando sulla riduzione dell’orario di lavoro a tutti i livelli. Il nostro lavoro produttivo di dati non e riconosciuto ed e all’origine di profitti sconfinati per i capitalisti. Va recuperata l’esperienza teorico-politica del movimento femminista, del lavoro all’interno della riproduzione, contro il lavoro non riconosciuto che va remunerato, salarizzato. Oggi siamo persino oltre la connotazione di genere perché il tempo di lavoro non riconosciuto, gratuito, è ormai del tutto pervasivo. La riappropriazione del tempo di vita deve diventare l’asse di una possibile ricomposizione soggettiva, nella forma di resistenza al dominio capitalista (p. 195).

Chi ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta in maniera non riappacificata lo ha fatto nella scomodità del trovarsi a cavallo tra passato e futuro, tra necessità di preservare la memoria ed urgenza di sperimentare per impattare le trasformazioni in atto, in un contesto sospeso tra oblio e solitudine che invitava a guardare al passato, ridotto ad “anni di piombo”, come a un cumulo di macerie e al futuro come al raggiungimento di uno stato di grazia in cui l’individuo, sostenuto dalle risate e dagli applausi a comando degli schemi televisivi, si sarebbe finalmente liberato da ogni minimo legame sociale. Insomma, sono stati decenni un po’ più complessi e contraddittori rispetto a come sono stati spesso raccontati.

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E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/07/22/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-1/ Sat, 22 Jul 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76714 di Emilio Quadrelli

Sulle barricate c’erano delle bandiere rosse e su una c’era un cartello con su scritto: “Che cosa vogliamo? Tutto!” (N. Balestrini, Vogliamo tutto)

Un giornale operaio

«La classe», giornale delle lotte operaie e studentesche, ebbe vita breve: dal maggio all’agosto 1969. In apparenza dedicargli un saggio così corposo potrebbe sembrare un’operazione al limite dell’eccentrico e unicamente legata a quel ma l’amor mio non muore proprio di chi è stato interno a quella stagione, piuttosto che a una iniziativa in grado di parlare a un pubblico estraneo alla nostalgia o, per altro verso, unicamente a quella piccola pattuglia [...]]]> di Emilio Quadrelli

Sulle barricate c’erano delle bandiere rosse e su una c’era un cartello con su scritto: “Che cosa vogliamo? Tutto!” (N. Balestrini, Vogliamo tutto)

Un giornale operaio

«La classe», giornale delle lotte operaie e studentesche, ebbe vita breve: dal maggio all’agosto 1969. In apparenza dedicargli un saggio così corposo potrebbe sembrare un’operazione al limite dell’eccentrico e unicamente legata a quel ma l’amor mio non muore proprio di chi è stato interno a quella stagione, piuttosto che a una iniziativa in grado di parlare a un pubblico estraneo alla nostalgia o, per altro verso, unicamente a quella piccola pattuglia di storici che, delle vicende dell’altro movimento operaio degli anni ’60 e ’70, hanno fatto il loro ambito di ricerca. Pattuglia più che meritevole poiché, grazie a questa, sono stati confezionati una serie di lavori che hanno ben ricostruito sia gli albori delle lotte operaie e proletarie degli anni sessanta e primi settanta insieme a quel multiforme filone teorico che è stato l’operaismo, sia ciò che da questo ceppo ha preso vita. Lavori di notevole interesse e spessore che hanno contribuito non poco a restituire un minimo di obiettività storica all’insieme di quelle vicende che l’ordine del discorso dominante aveva decretato innominabili arrivando a bruciare sul rogo parte dei testi che di quella stagione erano stati elementi teorici e politici non secondari1.

Rispetto all’insieme di questi lavori il testo presente non ha nulla da aggiungere, semmai è interessato a focalizzarne alcuni aspetti. Si può, più o meno, concordare o dissentire con alcune interpretazioni come, ad esempio, l’eccessiva enfatizzazione attribuita a questa o quella rivista ignorando, e non si tratta proprio di cosa di poco conto, come in non pochi casi il corpo militante e le avanguardie si mostrarono non uno, ma molti passi indietro rispetto al movimento reale e, diretta conseguenza di ciò, come la questione della forza che la violenza operaia stava ponendo in maniera esplicita finisse con l’essere sostanzialmente elusa proprio da una parte di coloro che, almeno sul piano teorico e analitico, si mostravano tra i più sagaci interpreti e lettori di ciò che il movimento di massa stava ponendo all’ordine del giorno. Per altro verso si potrebbe anche obiettare come dentro una parte di quell’operaismo, aspetto solitamente ignorato da gran parte delle ricostruzioni storiche, la lotta contro la macchina statuale non fosse minimamente presa in considerazione il che, a conti fatti, non poteva far altro che far retrocedere la pratica del potere operaio entro un “economicismo” sempre o a rimorchio del comando o come volano del comando stesso. Se c’è qualcosa di poco convincente nell’operaismo che precede l’autunno caldo è proprio la teorizzazione di una sorta di dualismo di potere in permanenza che le lotte operaie sarebbero in grado di imporre, dando vita a forme di attacco che obbligherebbero il comando a una costante ristrutturazione senza mai, però, ipotizzare il momento della rottura.

Sulla necessità di spezzare la macchina statuale una parte dell’operaismo si mostrò a dir poco titubante e, a tal proposito, va sicuramente evidenziato come proprio nelle pagine de «La classe» tale nodo iniziò a essere affrontato senza mezze misure. Se l’operaismo, che per convenzione possiamo definire classico, aveva sostanzialmente ignorato la “questione dello Stato” e la necessità per la forza operaia di attrezzarsi per lottare contro la macchina statuale della borghesia, l’operaismo che prende forma dentro la lotta autonoma di massa comincerà a porsi concretamente il problema dello scontro politico – militare con lo stato e i suoi apparati. Anticipato ciò proseguiamo.

Come in tutte le storie, anche in quella relativa all’altro movimento operaio ve n’è una ufficiale e una tenuta, ad arte, un po’ nell’ombra2. Quella ufficiale, sposata dai più, ha focalizzato l’attenzione sul ruolo degli intellettuali e le riviste da questi confezionate, finendo con ignorare le lotte operaie o renderle semplici appendici e/o esecutrici delle direttive di un ceto politico – intellettuale, l’altra, e non per caso decisamente minoritaria, ha invece focalizzato la sua attenzione sulla massa anonima degli operai tanto che, in maniera non del tutto insensata, si è iniziato a parlare di autonomia operaia con la a maiuscola nel caso dell’autonomia degli intellettuali e di autonomia con la a minuscola messa di fronte a quella degli operai. Non si tratta certo di un fulmine a ciel sereno emerso in alcune recenti ricostruzioni poiché, detta contrapposizione, affonda le sue radici nelle differenze risultate incolmabili all’origine anche della fine del giornale «La classe», tra ciò che diede vita a Potere Operaio3 da una parte e Lotta Continua4 dall’altra. A ciò va aggiunto, il che mostra come l’operaismo sia stato un contenitore teoricamente e politicamente affine ma non omogeneo, il fatto che una quota non secondaria degli attori che avevano dato vita alla stagione teorica dell’operaismo già sul finire degli anni sessanta era rientrata nei ranghi del PCI e del sindacato allineandosi velocemente e senza grandi difficoltà alle peggiori nefandezze che questi stavano perpetrando e continuando su questa strada anche quando, partito e sindacato, si mostrarono come i più accaniti nemici e persecutori delle lotte e delle pratiche dell’altro movimento operaio e della guerriglia comunista che queste si erano portate appresso5.

Fatta questa necessaria precisazione la quale, come un vero e proprio lapsus freudiano, sfugge a molti autori che negli ultimi anni si sono cimentati nella ricostruzione dell’operaismo, ritorniamo un momento sulla contrapposizione tra le due autonomie. In un bel saggio recente, Galmozzi6 ha ben reso il senso di questa differenza e, chi scrive, si allinea sostanzialmente con quanto in quel testo è sostenuto e argomentato. Per altro verso Viale, nel suo lavoro sul ’687, aveva già evidenziato come queste due anime non avrebbero potuto convivere a lungo e quanto un certo tipo di operaismo avesse poco a che vedere con gli operai e le loro lotte. Pur propendendo maggiormente per questa interpretazione il testo presente, dall’insieme di dette diatribe, si smarca immediatamente provando a collocarsi in un contesto diverso. Sicuramente, da un lato, ha indubbiamente un valore storico in quanto riporta alla luce un’esperienza del passato e la rende fruibile a chi è interessato a studiare queste vicende ma, dall’altro, prova ad argomentarne soprattutto l’attualità e per questo il suo intento è decisamente politico dove, per politico, si intende il qui e ora delle lotte operaie e della necessità di queste di trovare uno sbocco politico in grado di rimettere al centro dell’ordine discorsivo dell’antagonismo sociale la centralità operaia, la sua capacità di direzione e la necessità di costruire gli organismi del contropotere operaio sia all’interno degli ambiti produttivi, sia nei territori, un’asserzione non proprio scontata e in apparenza quasi folle ma che, con pazienza, si cercherà di argomentare infine , ma non per ultimo, discutere de «La classe» è anche una scusa per ridiscutere Lenin e la teoria politica leniniana. Partiamo, pertanto, esattamente da Lenin.

Mentre dai più, oggi, Lenin è considerato un cane morto il cui cadavere merita scarsa menzione o una mummia da venerare come un Padre Pio in versione laica, pare utile oltre che necessario provare a ricalibrare la teoria leniniana dentro il presente e farlo sulla scia dell’esperienza del giornale «La classe» il quale aveva fatto esattamente ciò, strappando Lenin alle sue litigiose vestali eredi del terzo internazionalismo, per farlo ripiombare prepotentemente e in piena freschezza dentro il fuoco della lotta di classe del presente. Questo aspetto sembra essere per lo più ignorato dalla saggistica inerente alla nascita e sviluppo del movimento dell’autonomia operaia mentre, al contrario, è stata proprio una nuova lettura di Lenin, o forse sarebbe meglio dire una sua nuova traduzione, a fare da sfondo a tutto ciò che ha dato politicamente vita alla stagione dell’autonomia operaia. Se c’è una cosa sulla quale appare difficile non concordare è proprio la costante ritraduzione di Lenin da parte di tutte le componenti politiche di quella stagione. Si può anche parlare della messa a regime di diverse eresie leniniane, di diverse traduzioni della teoria politica di Lenin ma sicuramente non di una sua rimozione e tutta la pubblicistica dell’epoca va esattamente in quella direzione. Lenin in Inghilterra insieme a 1905 in Italia8, del resto, erano stati passaggi e letture condivise dai più e questo non può essere certamente ignorato così come: “Cominciamo col dire Lenin”, era stato un non secondario incipit del ragionamento politico di ciò che nelle fabbriche, nei reparti e nei territori operai aveva iniziato a prendere forma9. Se c’è qualcosa che fa permanentemente da sfondo a tutte le iniziative organizzative ed editoriali che nascono intorno alle lotte operaie degli anni sessanta sono proprio Lenin e l’insurrezione, di più, se c’è una idea – forza che sostanzia tutte le esperienze dell’epoca è la necessità di dare, nel presente, corpo e teoria al partito dell’insurrezione.

Di questo, il che qualche interrogativo lo pone, nei testi recenti che hanno affrontato la storia e la politica dell’altro movimento operaio vi è ben poca traccia come se, gran parte degli intellettuali militanti contemporanei, preferisse ignorare e rimuovere alla radice la questione della insurrezione e della violenza che Lenin inevitabilmente si porta appresso, insieme a quell’ombra del patibolo e del carcere che da sempre fa da sfondo ai rivoluzionari, insomma ciò che sembra aver preso corpo è l’idea di una rivoluzione non distante da un buffet di gala, consumato negli intervalli di un qualche seminario o convegno accademico, all’interno del quale studenti e dottorandi di belle speranze pontificano sulle teorie operaiste, sulle sue derive approdate dall’operaio massa alle moltitudini, sul general intellect, il frammento sulla macchina per arrivare al lavoro cognitario come orizzonte contemporaneo sia del comando che della sovversione sociale tanto che, a uno sguardo anche distratto, lo spezzare la macchina statuale, l’insurrezione armata, la dittatura operaia e il potere dei soviet sembrano essersi repentinamente condensate nella conquista di una qualche cattedra universitaria e coevi fondi di ricerca. Detto polemicamente ciò torniamo a Lenin e alle pagine del nostro giornale. Infine, ma certamente non per ultimo, si assiste alla completa rimozione della rottura come elemento centrale della conflittualità operaia e proletaria. Con ciò, reiterando il limite proprio di un certo operaismo delle origini, si torna alla teorizzazione di un conflitto in permanenza, e coeve istanze di potere, destinate a giocarsi in eterno. Su questo piano, ovviamente, Lenin non solo può, ma deve essere rimosso. In ciò che, con non poca arguzia, è stato chiamato l’operaismo della cattedra10 i richiami a Lenin e al terrore rosso non possono che essere ignorati prima, accantonati poi. Non diversamente da quanto fece Bonaparte nei confronti della Grande Rivoluzione gli operaisti della cattedra, non rinnegano l’autonomia ma la epurano dagli eccessi relegandola nel tranquillizzante mondo della buona teoria niente di più e niente di meno di uno dei tanti capitoli della storia delle idee. Ma torniamo al nostro giornale.

«La classe» non si era prostrata davanti a Lenin e tanto meno si era sognata di venerarlo ma lo aveva preso e portato alla Fiat dove, in piena ubriacatura eretica, era risorto. Solo davanti ai cancelli di Mirafiori o dentro le Presse questi cessava di essere un santino da incorniciare ed esibire sugli altarini delle varie chiese comuniste, per farsi nuovamente rivoluzionario di professione, così come solo ritornando in fabbrica poteva abbandonare i panni del compito parlamentare rispettoso della legge e della legalità a cui una lettura a dir poco approssimativa de “L’estremismo” lo aveva relegato. Quella sua immagine bigotta e perbenista che il PCI e non solo aveva, per anni, pazientemente confezionato andava in frantumi. Ritornando in mezzo agli operai il suo tratto barbarico faceva nuovamente capolino e ritornava a far tremare il mondo, all’interno delle officine, insieme ai cortei operai, Lenin riprendeva a essere il partito dell’insurrezione e poteva tornare a essere il teorico e l’organizzatore della guerra di movimento e mandare in soffitta tutte le amenità proprie della guerra di posizione. Ma non si tratta solo di ciò. «La classe» sintetizza al meglio il rifiuto del determinismo e dello scientismo in cui Lenin era stato, e con lui tutta la teoria marxiana, da tempo imprigionato e con ciò ritornava a essere il punto d’approdo non della scienza in astratto, che è sempre scienza del capitale, ma della scienza operaia ovvero della soggettività di classe. Contro lo storicismo, prono alla metafisica della storia, ritornava a stagliarsi prepotentemente il treno della soggettività così come, contro il determinismo oggettivista, tornava quel Bisogna sognare! che Lenin aveva tradotto in programma di potere nella prospettiva della dittatura operaia.

Di fronte alla pacatezza e al buon senso di tutti i residui e cascami del terzo internazionalismo i quali, di fronte agli operai che non si lasciavano irretire dalla loro coscienza, dichiaravano l’immaturità dei tempi e della necessità della politica dei piccoli passi e dell’importanza strategica del grigio lavoro quotidiano, le fabbriche tornavano ad annunciare: sproneremo il ronzino della storia fino a che schianti! Una pietra tombale sembrava finalmente essere posta sul determinismo scientista e la gabbia dello storicismo definitivamente divelta dalla soggettività operaia, a fronte di un marxismo ridotto a banale interpretazione dello sviluppo capitalista e prono a un evoluzionismo ancorché dai tratti messianici, il marxismo di Lenin è nuovamente la scienza operaia della rottura, la scienza dell’insurrezione. All’oggettività dei processi del capitale, intorno ai quali si focalizzano tutte le eredità terzo internazionaliste, va giocato il processo della soggettività operaia. Lì, con questa e non altrove, si situa il punto di rottura. Contro la storia come sviluppo oggettivo del capitale va lanciata tutta l’irruenza del treno della soggettività operaia. Ai nuovi marxisti legali va contrapposto il bolscevismo del partito dell’insurrezione. Contro tutte le ortodossie comuniste che, reiterando il vizio positivista della Seconda internazionale, considerano il divenire come un canovaccio evoluzionista teologicamente determinato11, l’altro movimento operaio e le sue teorie reintroducono la dialettica dentro il divenire storico e con ciò la storia torna a essere un campo di battaglia che la soggettività può piegare in una direzione piuttosto che in un’altra. On s’engage …puis on voit! e ancora: D’audace, encore d’audace et toujours d’audace!, così Lenin aveva lanciato l’assalto al cielo e se c’è qualcosa di ortodosso nell’autonomia operaia è proprio la totale adesione a queste indicazioni leniniane.

Questa a conti fatti era stata la grande eresia pronunciata, ancorché sulla scia di Marx, da Lenin e che gli era costata l’ostracismo da parte di tutto il marxismo europeo insieme a una quantità di accuse le quali, volta per volta, lo avevano definito anarchico, giacobino, blanquista, neopopulista fino, tradendo con ciò lo sfondo razzista implicito in gran parte della Seconda internazionale, come barbaro e asiatico. Quanto questa narrazione tossica su Lenin e il bolscevismo finisse con l’essere fatta propria da tutti i ceti politici e intellettuali compresi, almeno in buona parte, quelli interni al movimento dell’autonomia operaia è ampiamente riscontrabile nel modo in cui, un intero pezzo della storia bolscevica e della coeva linea di condotta leniniana, finì con l’essere sostanzialmente rimossa dagli orizzonti dei vari ceti politici e intellettuali. Per esemplificare al meglio tutto ciò occorre compiere un piccolo passo avanti negli anni e osservare la diversa recezione che un pezzo non secondario della storia del bolscevismo ebbe dentro l’area dell’autonomia. Lì ed esattamente lì è possibile scorgere la non secondaria differenza tra l’autonomia operaia con la a maiuscola e quella continuamente tradotta in caratteri minuscoli.

(1continua)


  1. L’intera raccolta del giornale «La classe» è reperibile in formato PDF sui siti Chicago86 e Machina- DeriveApprodi. In particolare, in relazione all’esperienza de «La classe», si veda il lavoro di A. Pantaloni, 1969 L’assemblea operai studenti. Una storia dell’autunno caldo, Derive Approdi, Roma 2020; mentre per gli opuscoli marxisti di Antonio Negri si veda A. Negri, I libri del rogo, Derive Approdi, Roma 2006. Il libro raccoglie una serie di testi usciti per la collana Opuscoli marxisti editi dalla Feltrinelli la quale, all’indomani del 7 aprile, li mandò al macero.  

  2. Cfr., E. Quadrelli, a cura di, Le condizioni dell’offensiva. Senza tregua. Giornale degli operai comunisti: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975–1978), Red Star Press, Roma 2019.  

  3. Su Potere operaio si veda, in particolare, M. Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria., Vol. 1. Derive Approdi, Roma 2018.  

  4. Per la storia di questa organizzazione si veda soprattutto, G. Viale, Niente da dimenticare. Verità e menzogne su Lotta Continua, Edizioni Interno4, Rimini 2023  

  5. Massimo Cacciari e Mario Tronti, che pure avevano avuto un ruolo importante nella costruzione del pensiero operaista, già sul finire degli anni sessanta fecero marcia indietro e si riallinearono al PCI seguendone, senza battere ciglio, tutte le nefandezze che questo non ebbe difficoltà a perpetrare contro i comunisti e le avanguardie operaie nel corso degli anni settanta.  

  6. C. Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta continua a Prima linea: le origini e la nascita (1973–1976), Derive Approdi, Roma 2019. Ancora più esplicativo, al proposito, è il recente lavoro dello stesso autore, Marzo 1973. Bandiere rosse a Mirafiori, Derive Approdi, Roma.  

  7. G. Viale, Il 68. Contro l’università, Edizioni Interno 4, Rimini 2018.  

  8. Entrambi i saggi si trovano in M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.  

  9. A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, Manifestolibri, Roma 2016.  

  10. Si deve questa espressione a Oreste Scalzone che così, in Operaismo e comunismo, pubblicato sul blog Comunismo e comunità, Laboratorio per una nuova teoria anticapitalista, ha definito parte di quel ceto intellettuale che ha accademizzato la storia dell’autonomia operaia.  

  11. In questo modo il marxismo diventa una delle tante teologie della storia, cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 2015.  

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Lo stile alto della politica https://www.carmillaonline.com/2022/01/03/lo-stile-alto-della-politica/ Sun, 02 Jan 2022 23:05:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69885 di Jack Orlando

Mario Tronti, La saggezza della lotta, Derive Approdi, Roma, 2021, pp. 45, € 5,00

Prepararsi alla Storia, imparare a prevederne le torsioni, per romperne gli argini e deviarne il corso, è compito del politico. Questo e nient’altro è l’ossessione che si porta appresso chi ha imboccato la via della militanza come scelta di vita. E in questi tempi di palude, è più che necessario sottolineare questa dimensione esistenziale della politica. È un rivoluzionario chi ha bruciato i ponti della ritirata diceva, pressapoco, quello famoso.

La vita politica allora, non [...]]]> di Jack Orlando

Mario Tronti, La saggezza della lotta, Derive Approdi, Roma, 2021, pp. 45, € 5,00

Prepararsi alla Storia, imparare a prevederne le torsioni, per romperne gli argini e deviarne il corso, è compito del politico.
Questo e nient’altro è l’ossessione che si porta appresso chi ha imboccato la via della militanza come scelta di vita. E in questi tempi di palude, è più che necessario sottolineare questa dimensione esistenziale della politica. È un rivoluzionario chi ha bruciato i ponti della ritirata diceva, pressapoco, quello famoso.

La vita politica allora, non è fatta di ritualismi, né di riflettori mediatici, semmai questi ne sono scomodi accessori. È un percorso accidentato che contiene in sé l’estasi dei momenti d’attacco e il bruciore delle sconfitte, si districa in un grigio e quotidiano lavoro della talpa, conosce la ciclicità ma rifugge la ciclotimia; prevede periodi sorridenti, in cui si naviga tra tanti porti amici e altri di arsura, in cui si attraversano i deserti dei riflussi.

È un qualcosa che si avvicina alla scienza, per le concatenazioni di cause-effetti, per le sue norme intrinseche e per la mole di tecnica e conoscenza che si è costituita nel fiume del suo sviluppo, con cui ci si deve obbligatoriamente rapportare per l’evoluzione del pensiero e della pratica; ed allo stesso tempo si nota una straniante somiglianza con l’arte, per le sue sottigliezze, per l’intuito soggettivo che precipita nell’istante, nella capacità di sconvolgere il campo delle emozioni umane.
Eppure, c’è un di più che non permette di assorbirla in nessuna di queste discipline, un’eccedenza che fa della politica una disciplina a sé, ne segna l’irriducibile autonomia e taglia distintamente la figura del suo professionista, che non può essere un freddo tecnico o scienziato, confinato alla sua accademicistica e pedante indagine dei fenomeni e al vuoto riprodurre tecnicismi e formule nelle sue stanze, scoloriti burocrati senza nemmeno più partito; né può essere l’artista, coi suoi edonistici individualismi e le sue vanità, con l’incapacità di distinguere il confine tra reale e desiderio, tra necessità collettiva e sentimento personale; il tempo delle soubrette della politica è durato fin troppo e troppe macerie ha lasciato dietro di sé per non essere archiviato definitivamente.

È all’animale politico che spetta la disciplina di cui parliamo o, più prosaicamente, al militante, quella drammatica forma antropologica emersa dal fango dei campi e forgiata negli altiforni delle officine, per essere scagliata nel maelstrom del ‘900, con la sua immensa tragedia, fatta di assalti e tentativi, con in mezzo una immensa vittoria del partito ed infine una devastante sconfitta del movimento operaio. Con un dopo che non è ancora passato, in cui la categoria rivoluzione e il soggetto militante annaspano ancora tra le sabbie mobili del capitale, in cerca di una via d’uscita, una rinnovata riemersione della forza.

Strana creatura, l’animale politico, chiamato ad abitare una doppia dimensione.
Da un lato la necessaria solitudine contemplativa, una dimensione di profondità, in cui si è osservatori, nel senso più creativo del termine, del divenire storico, dei processi sociali che determinano la vita oggettiva, un luogo dove il pensiero si può sviluppare liberamente, radicalmente, fino all’estremo, e indurirsi nella prospettiva lunga, quella della strategia, del punto di vista irriducibile, della volontà capace di recidere i compromessi anche col proprio stesso ambiente. È la cittadella interiore dove si addestra l’animo a sempre maggior forza, perché ci si vota all’organizzazione del conflitto, ma si deve sempre coltivare un sereno distacco, per mai affezionarsi alle proprie creature, alle forme contingenti dell’agire piuttosto che alla sua essenza, per non esserne egotici schiavi.
L’altra dimensione, che potremmo definire di ampiezza, è quella sociale, collettiva.
È infatti sul piano collettivo che la battaglia si dispiega e la forza cresce, perché a restar troppo soli nella propria profondità poi ci si scopre inutili e inesplicabili come un geroglifico. Si può, si deve, ben conoscere il nemico, e tuttavia non lo si combatte senza l’amico. E l’amico è la propria parte, il soggetto subalterno in cui ci immergiamo, che viviamo, o dovremmo vivere, con disincantata internità.
La militanza è anche una redenzione soggettiva, riscatta l’umano da una vita mutilata tramite una libertà difficile ma immediata, ma certo non si fa politica per sé stessi, è sempre questione di appartenenza. E non la si fa efficacemente se non si cercano le risposte per le strade e negli ingranaggi del modo di produzione, con le sue umanità alienate e fratturate. Nel piano sociale il militante cerca le piste da seguire, apprende il gioco della tattica, cerca gli amici (politicamente intesi, non fraintendiamoci, per carità!) e con essi il profilo di quella figura storica chiamata classe, mai data in partenza ma sempre da contendere e strappare al dominio del capitale.

Profondità e ampiezza, le due dimensioni esistenziali del politico. Entità differenti, mai separate e mai sovrapponibili. Poli magnetici mantenuti in un permanente rapporto dialettico, veicolato sugli elementi di ricerca e di lotta, che non giunge mai a risoluzione definitiva ma solo all’apertura di nuovi problemi e tracce da seguire, una dialettica che d’altronde non può mai essere risolta, pena lo scadere nell’autoreferenzialità del praticismo o nell’autocompiacimento del teorico, in ogni caso nell’innocuità.
È da qui che discende un particolare tipo di sapere, una saggezza, che non è intellettualistica e soddisfatta, ma pratica, solida, inquieta soprattutto, perché ancorata al reale della propria esistenza, ed al suo essere di parte, orientata al combattimento ed all’imposizione di una verità che ribalta la serenità ottusa della democrazia capitalista, alla continua ricerca di una via d’uscita da essa.
È una saggezza ruvida che parla la lingua della plebe ma sa maneggiare lo stile alto, aristocratico.

Lo stile alto. Un punto da riconquistare, una posizione di forza da cui stracciare questo insopportabile nanismo della politica che ci tocca subire.
Tanto quello della politica mainstream, di palazzo, in mano ad un’umanità talmente scadente da far risaltare di luce propria perfino quei grigi amministratori, mandati a gestire le leve del comando con la benedizione dell’interesse generale. Quanto quello di un antagonismo sciatto, fatto di parole vuote stampate su insipidi volantini, teorie di bassa lega e accaniti particolarismi, più polverosi di un paio di sandali birkenstock ad un rave.
Saper pensare bene, fare bene, parlare, scrivere, finanche vestire bene; ma essere capaci di ponderare e agire anche il male quando necessario. Portarsi quindi ad una altezza sempre maggiore, perché questo richiede la missione del politico, la sfida alla Storia, e la medesima cosa esigono il rispetto ed il riscatto di quella storia lunga, antica e nobile, che è il moto di liberazione degli oppressi che ci si carica sulle spalle. Questo, lo stile alto che tocca disseppellire, qualcosa da imporre ed imporsi.

“La saggezza della lotta”. Sono poche pagine per dire tanto, e d’altronde non servono fiumi d’inchiostro per tirare fuori l’essenziale, anche quando questo è un abisso.
E Mario Tronti, superata la linea d’ombra dell’età dei patriarchi, scava nell’essenziale e mette insieme un dono prezioso, raccolto in un’esperienza lunga quasi un secolo, il secolo delle guerre civili, di cui porta nel presente il carico drammatico e prolifico della politica al suo zenit di inimicizia, di contrasto socialmente organizzato e di pensiero schierato come arma, il carico del militante come soggetto della frattura.
Ma questo non è il grande ‘900. E ancora non si vede la via d’uscita da questo incidente della storia che chiamiamo oggi, una gabbia di imbonitori, pagliacci e ballerine; eppure sommovimenti tellurici giungono in superficie, come terremoti alle volte, più spesso come flebili scricchiolii. Questa saggezza della lotta ci è ancor più necessaria allora, perché ci aiuta ad attraversare il nostro maledetto tempo ostile, con i piedi ben ancorati a questa terra che trema e lo sguardo a scrutare, oltre e al di sopra della cronaca, i punti deboli di un’epoca che urge affondare.

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Tra soggetto e oggetto, la classe operaia di Panzieri https://www.carmillaonline.com/2021/02/10/tra-soggetto-e-oggetto-la-classe-operaia-di-panzieri/ Tue, 09 Feb 2021 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64791 di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa [...]]]> di Fabio Ciabatti

Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni rossi”. Alle radici del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 138, € 10,00

L’opera intellettuale e l’attività di organizzatore culturale di Raniero Panzieri (Roma 1921 – Torino 1964) sono il punto di avvio del marxismo italiano che si sviluppa al di fuori delle organizzazioni storiche della classe operaia negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e in particolare dell’operaismo, grazie soprattutto alla fondazione della rivista “Quaderni Rossi”, pubblicata dal 1961 al 1966. L’operaismo sarà successivamente associato principalmente ad altre figure intellettuali come Mario Tronti e Toni Negri, anche a causa della prematura scomparsa di Panzieri, avvenuta all’età di 43 anni. A cento anni dalla sua nascita vale la pena recuperare il contributo originale del pensatore romano, troppo spesso relegato al ruolo di semplice precursore. A tal fine torna utile il libro scritto da Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni Rossi”. Alle origini del neomarxismo italiano, pubblicato da DeriveApprodi.
Dirigente del Partito Socialista, direttore della rivista Mondo operaio, traduttore del secondo libro de Il capitale di Marx, Panzieri si caratterizza da subito per un marxismo non ortodosso, sostenendo l’idea della democrazia diretta e la concezione del partito-strumento. La pubblicazione delle Sette tesi sul controllo operaio, scritte nel 1958 con Lucio Libertini, segna il punto di svolta nella biografia intellettuale di Panzieri e avvia il suo allontanamento dal Partito Socialista. Si trasferisce l’anno successivo a Torino dove lavora fino al 1963 per la casa Editrice Einaudi e dà vita alla rivista cui il suo nome è indissolubilmente associato. La vecchia capitale sabauda rappresenta un osservatorio privilegiato per studiare il cuore del “neocapitalismo” italiano: la grande fabbrica fordista-taylorista e la nuova composizione di classe formata da quello che sarà successivamente definito operaio massa.

Il libro di Cerotto, dopo aver delineato la biografia politico-intellettuale del pensatore romano e la storia redazionale dei “Quaderni rossi”, dedica un lungo capitolo alla ricostruzione del dibattito teorico-politico nell’ambito del marxismo italiano del dopoguerra fino alla fine degli anni Cinquanta. Il panorama è dominato dallo storicismo marxista del Partito Comunista di Togliatti che, utilizzando il pensiero di Gramsci, vuole ricongiungersi all’eredità del neoidealismo italiano per mostrare la politica della classe operaia come continuatrice e innovatrice della cultura nazionale, operazione funzionale alla predisposizione di una politica di alleanze. L’analisi del modo di produzione capitalistico e delle sue leggi segna il passo a favore della ricerca di una egemonia politica tarata sulle particolarità economico-sociali e culturali italiane. Tra le conseguenze, sul piano teorico, ci sono la sottovalutazione del grado tecnico-scientifico raggiunto dal processo di produzione e l’indifferenza verso i possibili contributi della sociologia e delle nuove scienze sociali. Lo forze produttive, nel loro sviluppo, sono considerate senz’altro il polo positivo, razionale, oggettivo, mentre i rapporti di proprietà costituiscono il polo negativo che, attraverso l’anarchia del mercato, limita e perverte le potenzialità dei progressi tecnico-produttivi. A questo si può porre rimedio con le riforme di struttura ovviando all’incapacità del capitalismo nazionale di realizzare autonomamente uno sviluppo economico accessibile a larghi strati della popolazione. Si delinea così la via italiana al socialismo.
Come si pone Panzieri nei confronti di questo articolato panorama teorico-politico?  Possiamo partire da una sua citazione, tratta da Plusvalore e pianificazione, opportunamente riportata da Cerotto.

Di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà), concepiti come involucro che a un certo grado dell’espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere perché semplicemente divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono state ‘plasmate’ dal capitale. E ciò consente allo sviluppo capitalistico di perpetuarsi anche dopo che l’espansione delle forze produttive ha raggiunto il suo massimo livello. 

Insomma, il dispotismo capitalistico è inestricabilmente intrecciato con esigenze razionali di tipo tecnico-produttivo. Questo rapporto si materializza concretamente nelle macchine. Esse non si sviluppano esclusivamente con il fine di aumentare la produttività del lavoro, ma con quello di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Esse sono portatrici certamente di una razionalità nell’ambito dei processi produttivi, ma di una razionalità specificamente capitalistica. In breve ogni stadio dello sviluppo tecnologico costituisce un rafforzamento del potere del capitale, del suo dispotismo sulla forza-lavoro vivente.

Questo rafforzamento significa anche, secondo Panzieri, la progressiva estensione del principio di pianificazione non solo all’interno della fabbrica, che si ingigantisce grazie ai fenomeni di concentrazione e centralizzazione del capitale, ma anche all’esterno del processo produttivo vero e proprio. La pianificazione capitalistica, sostiene Panzieri, diventa un elemento basilare per il mantenimento della struttura di potere capitalistico, superando le contraddizioni derivanti dall’anarchia del mercato, tipica della fase concorrenziale del capitalismo. Anche a discapito della ricerca immediata del massimo profitto, ciò implica la necessità di aumentare notevolmente investimenti e produttività. Questo a sua volta richiede la più completa disponibilità della forza lavoro che può essere garantita da un accordo con i sindacati e con le altre organizzazioni della classe operaia.
Secondo le elaborazioni dei “Quaderni Rossi”, la politica di piano che si sviluppa nei primi anni Sessanta del Novecento non mira a subordinare le scelte economiche al potere politico, ma assegna allo stato la responsabilità di stimolare certi investimenti privati tramite un apposito sistema di incentivi. Le punte più avanzate del capitalismo italiano, pubblico e privato, convergono a grandi linee sugli obiettivi della pianificazione e non a caso sostengono la costituzione del centro-sinistra (nel 1962 il PSI entra nell’area di governo e a fine 1963 per la prima volta partecipa direttamente all’esecutivo). I settori più arretrati si oppongono ad entrambi. La conflittualità interna al fronte capitalistico contribuisce a mascherare il riformismo subalterno delle organizzazioni operaie da politica rivoluzionaria. Anche la conflittualità operaia, se mantenuta entro un certo livello, può giovare allo sviluppo capitalistico perché impedisce ai suoi settori più arretrati di fare affidamento esclusivamente sul basso costo della forza-lavoro costringendoli a investire e innovare.
La strategia delle riforme di struttura, secondo Panzieri, non prevedendo un intervento diretto nella sfera produttiva esclude la rottura rivoluzionaria del sistema favorendo soltanto catene più dorate per tutta la classe operaia. Già nelle Sette tesi Panzieri, ponendo in evidenza i caratteri innovativi del recente sviluppo del capitalismo italiano, sostiene la necessità di spostare l’asse dell’intervento politico nei luoghi della produzione dove hanno origine le principali contraddizioni della dicotomia classista e dove risiede la reale fonte del potere. In altri termini, solo prendendo di petto il luogo dove si svelano le reali contraddizioni del sistema capitalistico, la lotta in fabbrica innalza i lavoratori a reali protagonisti della politica.

Questo spostamento comporta un doppio movimento. Da una parte, infatti, si deve indagare la sfera della produzione capitalistica che non è al suo interno indifferenziata. Essa presenta un’articolazione gerarchica. Esistono dei punti di maggior sviluppo che sono trainanti rispetto a tutto il resto. E tale articolazione del processo produttivo complessivo non è indifferente rispetto alle sorti politiche della lotta di classe. D’altra parte, con altrettanta forza, si deve affermare che il comportamento operaio non è una mera riflessione passiva della struttura del capitale. Quest’ultima condiziona lo sviluppo dell’antagonismo operaio, pone le condizioni e i limiti del suo possibile esplicarsi, ma non lo determina meccanicamente. Per questo è necessaria, utilizzando le parole di Panzieri riportate da Cerotto, “un’osservazione scientifica assolutamente a parte” sulla classe operaia. Assume cioè importanza l’inchiesta operaia, non solo come strumento di conoscenza, ma anche come strumento di intervento politico. La realtà osservata attraverso l’inchiesta non è un oggetto passivo, ma un’unità vivente che va colta nei suoi momenti di svolta, di repentino mutamento, soprattutto attraverso l’inchiesta “a caldo”, cioè quella effettuata durante i momenti più aspri del conflitto.
Proprio sulla necessità di tenere insieme questi due livelli dell’analisi e dell’intervento politico si consuma la frattura, nell’ambito della redazione dei Quaderni Rossi, tra i “sociologi di Torino”, raggruppati attorno a Panzieri, e i “filosofi di Roma”, guidati da Mario Tronti. Una rottura, argomento dell’ultimo capitolo del libro di Cerotto, che ha come oggetto immediato la valutazione degli eventi del luglio 1962 e le prospettive che si aprivano dopo la manifestazione esplicita di un elevato grado di insubordinazione della nuova classe operaia al piano del neocapitalismo.1 Per Panzieri le rivendicazioni operaie espresse nel fuoco acceso dello scontro, così come rilevate dall’inchiesta “a caldo”, contengono il massimo spirito anticapitalistico che, però, non può essere immediatamente generalizzato all’insieme della classe. Come si legge in una citazione riportata in epigrafe all’ultimo capitolo del libro di Cerotto, Panzieri accusa Tronti di sostenere una filosofia della storia hegeliana, una filosofia della classe operaia quando utilizza questi momenti alti dell’antagonismo per supportare la sua rivoluzione copernicana. Rivoluzione che consiste nella tesi, opposta a quella del marxismo classico, che è l’antagonismo della classe operaia a determinare lo sviluppo del capitale. Una tesi che giustificava la necessità di dare immediatamente espressione politica a questo nuovo soggetto operaio. Panzieri, invece, resiste all’idea di trasformare la rivista in un gruppo militante, in un nuovo partito, volendo limitare il suo contributo politico alla costruzione di un’“avanguardia interna” alla classe, dal momento che solo il susseguirsi delle lotte operaie avrebbe potuto determinare la loro progressiva organizzazione.

Personalmente sono convinto che ancora oggi sia necessario tenere insieme i due livelli di cui si è parlato a proposito di Panzieri: da una parte l’analisi della struttura del capitale quale fondamento materiale della soggettività proletaria; dall’altra la continua attenzione allo sviluppo del lato soggettivo che mantiene rispetto a questo fondamento un livello di indeterminatezza. La specifica riflessione sulle dinamiche di soggettivazione dei subalterni, aggiungo, può risultare tanto più feconda quanto più il punto di osservazione è interno ai conflitti e ai movimenti. In assenza del primo livello possiamo ottenere soltanto una una fenomenologia del conflitto che, per quanto preziosa possa risultare sul piano descrittivo, difficilmente può aiutarci a prefigurare un processo generale di ricomposizione delle disperse soggettività in campo. In assenza del secondo, invece, risorge immancabilmente lo spettro dell’autonomia del politico in cui non si dà ricomposizione, ma solo subordinazione, reale o immaginaria, delle concrete soggettività antagonistiche a una guida esterna.
Certo, se essere comunisti vuol dire essere la parte più risoluta dei partiti operai come indicava Marx nel 1848, questo significa porsi sulla frontiera più avanzata dell’antagonismo di classe, laddove si può dare la confluenza fra dimensione oggettiva e soggettiva; una frontiera a partire dalla quale, in altri termini, un soggetto collettivo è potenzialmente in grado di farsi mondo, di produrre una nuova oggettività. Da questo punto di vista è comprensibile il senso del gesto teorico di Tronti che, con la sua rivoluzione copernicana, mette al centro la classe operaia, come “motore mobile del capitale”. Gesto ripetuto in forme diverse dal successivo operaismo e post-operaismo. Ma se dimentichiamo che la tendenziale confluenza tra soggetto e oggetto si dà soltanto nei momenti più alti dell’antagonismo e pretendiamo di ritrovarla sempre e comunque nel nostro mondo dominato dal capitale, i costrutti teorico-politici che ne derivano rischiano di assomigliare sempre più a visioni lisergiche, come la moltitudine dell’ultimo Toni Negri.
Se vogliamo mantenere una presa sulla realtà e al tempo stesso non rassegnarci alla triste virtù del realismo con annessa autonomia del politico, come ben presto fece Tronti, non ci rimane che l’ostinata ricerca, pratica e teorica, delle vie sotterranee di una possibile ricomposizione delle molteplici forme di conflittualità sociali. Forme conflittuali che nella realtà continuano a darsi perché il capitalismo è un sistema basato necessariamente sull’incessante e crescente ricerca dello sfruttamento e perciò intrinsecamente antagonistico. E in questa ricerca la lezione di Panzieri ci può tornare ancora utile, 
anche ritornando a riflettere su cosa rimane oggi di una delle sue tesi fondamentali e cioè che una lotta generale contro il capitalismo non può prescindere dai conflitti che si verificano nella sfera della produzione e in particolare nei punti più avanzati dello sviluppo capitalistico.


  1. Il 7 luglio 1962, nel corso di uno sciopero dei metalmeccanici a Torino, si diffonde la voce che UIL e SIDA hanno firmato un accordo separato con la FIAT. Alcune migliaia di operai si dirigono a Piazza Statuto dove ha sede la UIL dando inizio a tre giorni di violenti scontri con la polizia. 

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La bolscevizzazione e la fine della rivoluzione russa https://www.carmillaonline.com/2019/09/04/la-bolscevizzazione-e-la-fine-della-rivoluzione-russa/ Wed, 04 Sep 2019 20:45:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54228 di Sandro Moiso

Antonio Senta (a cura di), Gli anarchici e la Rivoluzione russa (1917-1922), Mimesis edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 166, 16,00 euro

I dieci saggi che compongono il testo curato da Antonio Senta sul rapporto intercorso tra anarchici e Rivoluzione russa esplorano un tema già più volte affrontato dalla storiografia, non solo anarchica. In tale opera, però, i contributi scritti da Alexander Shubin, Marcello Flores, Giuseppe Aiello, Mikhail Tsovma, Selva Varengo, Pietro Adamo, Roberto Carocci, Lorenzo Pezzica, Davide Bernardini, Massimo Ortalli e dallo stesso curatore, rivisitano la questione da tutte le [...]]]> di Sandro Moiso

Antonio Senta (a cura di), Gli anarchici e la Rivoluzione russa (1917-1922), Mimesis edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 166, 16,00 euro

I dieci saggi che compongono il testo curato da Antonio Senta sul rapporto intercorso tra anarchici e Rivoluzione russa esplorano un tema già più volte affrontato dalla storiografia, non solo anarchica.
In tale opera, però, i contributi scritti da Alexander Shubin, Marcello Flores, Giuseppe Aiello, Mikhail Tsovma, Selva Varengo, Pietro Adamo, Roberto Carocci, Lorenzo Pezzica, Davide Bernardini, Massimo Ortalli e dallo stesso curatore, rivisitano la questione da tutte le angolazioni possibili offrendo così una ricca panoramica del punto di vista anarchico sui vari aspetti della Rivoluzione dal 1917 agli anni immediatamente successivi.

I testi costituiscono gli atti elaborati in occasione di un seminario promosso dalla Biblioteca Panizzi e dall’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, tenutosi l’1 e il 2 dicembre del 2017 presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e ci è sembrata particolarmente efficace la sintesi degli stessi elaborata dal curatore nella sua Introduzione, di cui riportiamo qui di seguito alcune parti.

Essenziale nell’intendimento di questo lavoro è la distinzione tra rivoluzione russa e rivoluzione bolscevica. Purtroppo è ancora assai diffusa l’opinione che la rivoluzione russa coincida con quella bolscevica, o d’ottobre. Tale identificazione porta con sé il giudizio secondo cui Lenin sarebbe stato il protagonista massimo di tutto il processo rivoluzionario culminato con l’insurrezione dell’autunno del 1917 e con l’instaurazione del governo sovietico.
La rivoluzione russa è in realtà qualcosa di ben più lungo e complesso: iniziata nel 1905 con la “domenica di sangue” divampa fino al 1907, per placarsi fino al febbraio 1917, quando scoppia di nuovo, tuonando fino alla metà del 1921. Il periodo preso in esame da questo testo è quello che va dall’inizio del 1917 al 1921-1922, con alcuni accenni ed excursus ad anni precedenti e successivi. All’interno di tale periodo si succedono più fasi: la rivoluzione, insieme sociale e politica,liberale e plebea, del 1905-1907, quella di fatto spontanea del febbraio 1917, cui segue lo sviluppo del movimento rivoluzionario sotto il governo provvisorio, l’insurrezione di ottobre – che segna il trionfo della politica quale atto di volontà di una minoranza che riesce a mutare il corso della storia -, la guerra civile del 1918-1920, i tentativi di dare vita a una terza rivoluzione, sociale e sovietista, schiacciati nel sangue dal Partito bolscevico fattosi Stato.

[…] Un contributo, quello del testo che avete tra le mani, che intende concorrere ad arricchire la riflessione storiografica sull’anarchismo, settore che negli ultimi decenni ha avuto uno sviluppo quantitativo e qualitativo di cui è stato tratto un provvisorio bilancio1.
Esso si affianca alle varie pubblicazioni speciali, ai convegni e alle iniziative che si sono tenute in occasione del centenario. I più acuti tra i fautori dell’ottobre russo si interrogano oggi per capire se – cito dal discorso commemorativo di Mario Tronti in Senato del 26 ottobre 2017- “il vero punto di catastrofe dell’intero progetto” sia chi i soviet si siano “fatti partito”. Riflessione tardiva, certo, ma che potrebbe essere importante […]

Necessario, quindi, nel centenario mettere in evidenza la visione anarchica e la sua critica anticipatrice alle caratteristiche autoritarie della rivoluzione bolscevica e dei suoi esiti, in quanto caso concreto di una rivoluzione che si fa Stato. Tale critica si delinea già nel 1918-1919 e diventa patrimonio comune del movimento nel 1921, dopo la repressione violenta del movimento machnovista e della comune di Kronštadt. Alla morte di Lenin, nel 1924, Errico Malatesta scrive su “Pensiero e Volontà”: “egli, sia pure con le migliori intenzioni, fu un tiranno, fu lo strangolatore della Rivoluzione russa – e noi che non potemmo amarlo vivo, non possiamo piangerlo morto. Lenin è morto. Viva la libertà!”
A cento anni di distanza la visione libertaria degli eventi russi emerge nella sua ricchezza e perspicacia. Essa intende far sopravvivere la rivoluzione al bolscevismo, o meglio far vivere la rivoluzione facendo a meno dei due pilastri su cui poggia il bolscevismo: il partito e la polizia segreta. Nel fare ciò gli anarchici provano anche a metter e in moto processi, seppur frammentari di autogoverno popolare, appoggiando i soviet più radicali, come quello di Kronštadt, o l’autogestione delle campagne come nelle zone influenzate dal machnovismo.
Falliscono, schiacciati dal bolscevismo, dalle forze reazionarie e da un’insufficiente capacità di azione autonoma da parte delle masse, lasciando anch’essi insoluta la problematicità del rapporto tra la rivoluzione e la necessità della sua difesa militare, ovvero tra rivoluzione e guerra civile. Un rivolgimento radicale reca con sé un grado inevitabile di lotta militare, col suo portato di abbrutimento: bisognerebbe quindi rinunciare e accontentarsi di un gradualismo riformista incapace di intaccare alla radice i rapporti sociali? Immagino di no. Tuttavia queste e altre questioni scaturite dalla rivoluzione russa nel loro inestricabile intreccio tra tensione all’emancipazione e dolorosa perdita di libertà paiono ancora oggi irrisolvibili.


  1. G. Berti, C. De Maria, L’anarchismo italiano. Storia e storiografia, Biblion Milano 2016  

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LUDD ovvero dell’insurrezione permanente https://www.carmillaonline.com/2018/07/26/ludd-ovvero-dellinsurrezione-permanente/ Wed, 25 Jul 2018 22:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47303 di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta [...]]]> di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.

Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.

I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2

Se, però, l’esperienza dell’Internazionale Situazionista è stata in qualche modo parzialmente digerita dal sistema mediatico e politico attuale, ben diversamente potrà avvenire per una produzione testuale e, lo ripeto ancora una volta, per una pratica militante che fin dagli esordi furono tacciate sia dal PCI che dai gruppuscoli nati alla sua sinistra (in primis l’orrido Movimento Studentesco di Mario Capanna) come provocatorie, irresponsabili e, in alcuni casi, “fasciste”.

Anche se l’opera non intende affatto costituire una celebrazione di pratiche e militanti come Giorgio Cesarano, Riccardo D’Este, Eddie Ginosa, Gianfranco Faina, Mario Perniola e molti altri ancora, senza dimenticare la vicinanza con Danilo Montaldi, poiché come afferma Paolo Ranieri nella sua introduzione:

“E’ ora, infatti, di dire basta alla moltiplicazione incessante e interessata di manifestazioni “in memoria”. Come il Primo Maggio […] ideato per essere l’appuntamento annuale con quel vagheggiato sciopero generale che spostava la presenza potenziale dell’insurrezione possibile insieme con l’assenza di rivoluzione attuale: da quando, con l’iterazione e la corrosione del tempo passato e il sequestro della produzione di memoria da parte delle istituzioni, ci si è scordati di questo, si è definitivamente degradato in una sorta di Pentecoste, rito lagnoso di una neo-religione per schiavi, aspiranti schiavi e liberti, meritevole di essere fuggito come la peste […] E lo stesso si può affermare senza esitazioni per il 25 aprile, il 12 dicembre, il 14 luglio […] ciascuno con le precise specificità che gli valgono un posto in questo martirologio della laica religione della disfatta, celebrata senza posa e senza vergogna dai voltagabbana incartapecoriti dalla nostalgia e dai militanti del conformismo”.3

Come si può ben comprendere fin da queste poche righe, che danno la cifra esatta del discorso anti-retorico e di rottura che la critica radicale italiana ha portato avanti fin dai suoi albori, non vi è possibilità di mediazione, di reciproco seppur parziale coinvolgimento e neppure di pace armata tra una miserabile concezione della politica di “sinistra” che ha fatto della sconfitta e della collaborazione di classe la sua terra d’adozione ed una visione che dell’iniziativa rivoluzionaria ed insurrezionale dal basso, proletaria e giovanile, ha fatto la sua ragione di esistere.

Continua, anzi anticipa, poi ancora Ranieri:

“Non possiamo nascondere a noi stessi che operazioni-memoria come la presente – intese a isolare una vicenda del passato raccogliendone i documenti in un’edizione che, elaborata dai superstiti stessi, aspira a mostrarsi critica, completa, definitiva, TOMBALE – rappresentano uno dei mille espedienti che l’universo delle merci adotta per frenare la propria inarrestabile entropia”.4

Sì, perché è proprio l’universo mercantile, con la rapida diffusione della sua capacità di affascinare e addomesticare l’immaginario proletario e sociale, l’altro obiettivo della critica radicale che, però, non intende semplicemente destrutturarne le basi e i principi ma, molto più semplicemente, distruggerlo insieme ai rapporti sociali e di produzione che lo alimentano. La necessità potrebbe rivelarsi essere proprio quella, già enunciata da De Sade, che l’insurrezione debba costituire la condizione permanente di ogni repubblica.

La sintetica ricostruzione storica della formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari fatta da Leonardo Lippolis permette al lettore-militante di riscoprire le origini di tali formulazioni ed ipotesi non solo a partire dalle occupazioni studentesche delle Facoltà universitarie fin dal 1967, che impressero una spinta decisiva in quella direzione, ma fin dalle insurrezioni operaie e proletarie di Berlino Est nel 1953, dell’Ungheria nel 1956 e nelle rivolte italiane del luglio del 1960 e di Piazza Statuto nel 1962 a Torino.

Insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava però sempre il fatto di come l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

Anche se proprio la scelta del nome del gruppo di cui sono raccolti principalmente i materiali in questo primo volume, LUDD, rinvia ad esperienze precedenti ed egualmente radicali. E’ proprio sulla tracci dell’interpretazione data dallo storico inglese Edward P. Thompson, nella sua opera più importante,5 del luddismo che si forma la convinzione che la rivolta spontanea del lavoratori delle campagne inglesi contro l’introduzione delle macchine fosse tutt’altro che una forma primitiva, arretrata e tutto sommato conservatrice di lotta di classe. Negando così un’interpretazione “progressista” del capitalismo che nelle sue conseguenze ha finito col trasformare i partiti “socialisti” o “comunisti” che la sostenevano in strumenti di conservazione politica, economica e sociale. Insomma i proletari inglesi dell’epoca delle guerre napoleoniche erano già più avanti di coloro, ad esempio i cartisti, che si sarebbero poi fatti loro portavoce e rappresentanti come tutta la deriva tradunionista, socialdemocratica e infine stalinista che ne sarebbe poi conseguita.

E’ proprio per questo motivo che i fondatori del movimento andarono progressivamente allontanandosi da quella componente operaistica di cui avevano inizialmente condiviso una parte del cammino. E che contribuì ad allontanare alcuni di loro anche da Raniero Panzieri che, proprio a proposito della rivolta di Piazza Statuto, in un primo momento aveva commentato la giovanile rivolta operaia come “quattro meridionali che tirano le pietre”. Questa memoria, contenuta nella ricostruzione di Lippolis, mi fa ha fatto tornare in mente che fu proprio in occasione di quella rivolta, e degli atteggiamenti assunti nei suoi confronti da Pajetta e dal PCI, che due proletari come Sante Notarnicola e Giuseppe Cavallero decisero di stracciare la tessera del Partito. Mentre esponenti dell’operaismo come Antonio Negri e Mario Tronti decidevano in quegli stessi anni di praticare una forma di entrismo nello stesso. Come dire che l’istinto proletario batte la riflessione filosofica 1 a 0.

“La Lega operai-studenti, che rivendicava l’eredità dei Consigli operai, insisteva invece sulla necessità di trovare nuovi canali di insubordinazione, non necessariamente legati alla fabbrica, rigettando l’impostazione gerarchica e centralizzatrice leninista. La Lega operai-studenti negava ogni valore alla lotta rivendicativa di natura economica a scapito di una critica radicale del lavoro salariato, bollato come inumano e assurdo […] «La critica rivoluzionaria – recita il significativo passaggio di un manifesto del gruppo – deve interessarsi di tutti gli aspetti della vita. Denunciare la disintegrazione delle comunità, la disumanizzazione dei rapporti umani, il contenuto e i metodi dell’educazione capitalistica, la mostruosità delle città moderne» (I 14 punti della Lega degli operai e degli studenti)”.6

I documenti riportati in più di trecento pagine sono innumerevoli ed interessanti: dai testi prodotti dalla Lega degli operai e degli studenti che si andò formando nella cerchia di militanti del Circolo Rosa Luxemburg a quelli prodotti dal Comitato d’azione di Lettere fino ai tre bollettini prodotti da LUDD e all’Appello al proletariato infantile contro l’infantilismo borghese passando per il testo di critica ai gruppuscoli scritto da Jean Barrot: Sull’ideologia ultrasinsitra.

Non costituiscono però tutto il materiale raccolto nel sito Nel Vento, nato a partire da un progetto contenuto nel preambolo a Psicopatologia del non vissuto quotidiano di Piero Coppo nel settembre del 2006. In cui si affermava:

“Dalla metà degli anni ’60 si è sviluppato in Italia un movimento che, sotto diversi nomi e sfumature differenti, ha condotto una battaglia teorico-pratica per l’affermazione di una rivoluzione che, nella propria concezione, non poteva che avere come base la critica della vita quotidiana. Precursori dei tempi, questi gruppi inquadrarono la questione della rivoluzione in termini anti-ideologici fuori e contro il militantismo caratteristico di quegli anni e del decennio successivo.
Le donne e gli uomini che si unirono in questi gruppi sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere il senso di un vissuto rivoluzionario diversi concetti che oggi sembrano evidenti […] Il Progetto Critica Radicale è di raccogliere e pubblicare i materiali prodotti dai gruppi e dagli individui che si sono riconosciuti in quelle idee”.

Idee, non dimentichiamolo mai, che non si espressero in spazi angusti o in eburnee ed intellettualistiche torri, ma sempre direttamente sul fronte del cambiamento esistenziale e politico, giorno per giorno nelle lotte e in una pratica che vedeva nel PRESENTE e non in un lontano passato oppure in un altro ancor più lontano futuro la possibilità di realizzare il cambiamento sociale necessario alla piena realizzazione dell’essere umano. Sia come singolo individuo, sia come specie.

Indispensabili, a parere di chi scrive, ancora oggi, nonostante alcune iperboli linguistiche ed alcune ammaccature dovute al trascorrere del tempo, per una discussione ed una pratica sociale e politica che non voglia rimanere chiusa all’interno della rappresentazione spettacolare dei valori borghesi travestiti da antagonismo e delle merci ideologiche che ne derivano.


  1. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1994  

  2. Potlatch. Bollettino dell’Internazionale lettrista 1954-57, Nautilus, Torino 1999  

  3. Paolo Ranieri, CRITICA RADICALE. GLI ANNI DI LUDD 1967-1970. Introduzione in La critica radicale in Italia, pag. 7  

  4. P. Ranieri, op.cit. pag. 5  

  5. Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1969  

  6. Leonardo Lippolis, L’occupazione definitiva del nostro tempo, in La critica radicale in Italia, pag. 35  

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Dell’utilità di leggere Michel Foucault https://www.carmillaonline.com/2014/10/29/sandro-chignola-foucault-foucault/ Wed, 29 Oct 2014 22:45:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18375 di Girolamo De Michele

Foucault_oltre_FoucaultSandro Chignola, Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, Derive Approdi, Roma 2014, pp. 208, € 17.00.

“Ne tombez pas amoureux du pouvoir” (Michel Foucault, 1977)

Sottotitolare “una politica della filosofia” una raccolta di studi che tira le fila di un lavoro più che decennale significa prendere precisi impegni con il lettore: tra i quali, una voluta delimitazione della quantità dei destinatari, in favore di una precisa selezione qualitativa. Una “politica della filosofia” è, in primo luogo, l’opposto di una moda filosofica, qual è la cosiddetta “Italian Theory”, quell’insipida [...]]]> di Girolamo De Michele

Foucault_oltre_FoucaultSandro Chignola, Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, Derive Approdi, Roma 2014, pp. 208, € 17.00.

“Ne tombez pas amoureux du pouvoir” (Michel Foucault, 1977)

Sottotitolare “una politica della filosofia” una raccolta di studi che tira le fila di un lavoro più che decennale significa prendere precisi impegni con il lettore: tra i quali, una voluta delimitazione della quantità dei destinatari, in favore di una precisa selezione qualitativa. Una “politica della filosofia” è, in primo luogo, l’opposto di una moda filosofica, qual è la cosiddetta “Italian Theory”, quell’insipida minestra precotta e scaldata da chi dissolve la critica foucaultiana in una teoria buona per tutte le stagioni (e per tutti i prìncipi).
È l’opposto di una lettura “autoriale”, nella quale Foucault è messo sotto i riflettori in quanto «autore localizzabile in una miniera discorsiva unica», insomma trasformato in un feticcio accademico – al prezzo di disconoscere la rottura che la sua pratica filosofica ha prodotto1.
È l’opposto di quella classica modalità di lettura che trasforma l’interpretazione in una “piccola pedagogia” che «insegna all’allievo che non c’è niente al di fuori del testo»; che è quanto Foucault rinfacciava a Derrida2 ai tempi della polemica sulla Storia della follia.
Infine, il riferimento a una politica della filosofia significa intendere la filosofia come un fatto politico, come uno strumento per quelli che lottano, resistono e non accettano più lo stato di cose presente (p. 174): non solo e non tanto (come è stato scritto) come una “cassetta degli attrezzi”, ma come una sfida e, al tempo stesso, «una critica permanente al nostro essere storico». Uno stile o un’etica che, a dispetto di ogni presunta estetizzazione, consiste nel sentire «l’ethos della modernità» come uno stare sulla soglia, un «essere alla frontiera» (p. 11), su quei confini dai quali siamo continuamente attraversati.
Sentire l’ethos della modernità: caricarsi del compito di analizzare “ce qui se passe“‚ nelle relazioni di potere dalle quali siamo costituiti (p. 76), e alle quali al tempo stesso resistiamo.
L’attenzione al ce qui se passe si lega al “nous n’en sommes plus là” con cui Foucault prendeva le distanze dai situazionisti e dalla scuola di Francoforte (p. 82): la nostra società non è più quella. Ma il nous n’en sommes plus là assume il più ampio senso di uno strumento regolativo della ragione critica: il piede sul limite dell’attualità comporta non solo lo sguardo (mutuato da Nietzsche) “in favore di un tempo futuro”, ma anche una presa di distanze sia temporale che teorica.
In una battuta: acquisita la novità terminologica (nel Foucault degli anni ’77-’84, su cui si concentrano i saggi di Chignola) di concetti come “biopotere” e “biopolitica”, “governamentalità” e “soggettivazione”, “società dei governati” e “parrhesia“, perché assumerli come concetti?

Foucault_mapPartiamo da una questione in apparenza laterale: quella della verità. Sin dalla rinuncia di una fondazione strutturale della propria epistemologia (Le parole e le cose) e dalla sua sostituzione con un’Archeologia del sapere, su Foucault si è allungata l’ombra di un relativismo che sarebbe rafforzato dal suo debito – mai nascosto – con Nietzsche: se si è potuta fraintendere per un secolo e mezzo l’affermazione nietzscheana che “non esistono fatti, ma solo opinioni”, a maggior ragione può essere definito Foucault come pensatore disinteressato alla questione della verità. Al contrario: non c’è forse argomento che gli stia più a cuore della verità, delle sue condizioni di possibilità, del suo statuto. Ma la verità non è una “cosa”, non sta, immobile ed immutabile, in un qualche luogo etereo: «La verità, così come lo è il soggetto, è un prodotto. A ogni presa di parola corrisponde, in quella battaglia quotidiana che fa della realtà un conflitto, un posizionamento specifico e un’irriducibile parzialità, non l’irenica neutralità che spetterebbe di diritto a un’impossibile postura di sorvolo» (p. 20). Come ricorda in una delle sue ultime prese di parola, Foucault ha passato una vita filosofica a interrogarsi sul modo in cui il soggetto umano entra nei giochi di verità, e in quali rapporti entra con questi giochi. Non si tratta quindi di trovare la verità nascosta all’interno del mondo, ma – con un duplice, contemporaneo movimento – di svelare le strategie di potere che permettono di affermarla come tale, e di piantare una differente verità nel cuore delle cose stesse. La verità è una pratica, non un disvelamento di un qualcosa che abbiamo dimenticato in un qualche naufragio della ragione o del senso della vita: è essa stessa potere, e ha a che fare con le condizioni di esistenza del potere.
Di quel potere la cui natura è stata offuscata dall’ossessione statocentrica della teoria politica – altri direbbe: «l’orgoglio triviale della ragion di Stato» – che, da Hobbes in poi, ha concepito il potere come discendente da un centro statuale. Da cui l’equivoco del diritto – con la sua retorica liberale dei “diritti individuali” – come limite dello Stato e del potere, e non come uno strumento analitico del potere che «fissa il soggetto a una volontà “libera”, ma solo per piegarne le resistenze, costringerlo al lavoro, vincolarlo alla forma del salario» (p. 64). Per Foucault «lo Stato non ha mai avuto l’unità che gli viene attribuita. Né come “soggetto” della storia costituzionale, né come sintesi sovrana delle sue funzioni. Lo Stato è sempre stato un insieme di procedure e di tecnologie giuridiche ed extragiuridiche che solo l’incantamento filosofico-politico cui la modernità è soggiaciuta ha potuto imporre di pensare in termini unitari e di monopolio sovrano della decisione» (p. 36). Non è lo Stato a creare le condizioni che rendono possibili «i rapporti tra i soggetti in astratti rapporti di diritto»: allo Stato preesiste «un ambiente sfuggente ed opaco» – il circuito della circolazione e valorizzazione – nel quale esso Stato «cala i propri dispositivi di regolazione» senza poterlo controllare né piegare ai propri fini (pp. 160-61). Da qui la necessità dei concetti di biopotere – «l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’umanità, per quanto attiene alle sue funzioni biologiche e vitali, entra, a partire dal XVIII secolo, nel campo di intervento del potere» e di biopolitica – «la comparsa, nell’antropologia politica su cui l’economia si fonda, di un soggetto la cui cooperazione […] intreccia reti di valorizzazione che si indirizzano allo Stato solo indirettamente, per chiedere a esso di garantire le condizioni di libertà sulle quali rilanciare le dinamiche acquisitive e proprietarie, e che esprimono istanze e bisogni mai formalizzabili, antivedibili o totalizzabili dal punto di vista di quest’ultimo» (p. 37).

Questa lettura svela il Welfare State non come un correttivo al cattivo mercato che un potere “buono” pone in atto, ma come uno degli strumenti attraverso i quali il soggetto viene costituito in quanto libero per il mercato e assoggettato a un potere reticolare. Sia chiaro: non c’è in Foucault – mi si perdoni la banalità – alcuna pulsione al liberismo selvaggio. Si tratta piuttosto di comprendere il Welfare come strumento di controllo di un soggetto che si percepisce entro i limiti prefissati dalla sua costituzione – come incapace di ottenere quelle prestazioni che lo Stato sociale benignamente gli eroga; e soprattutto, tornando al ce qui se passe, di comprendere come l’odierna progressiva delegificazione e privatizzazione dei servizi e delle prestazioni sociali sia non un’anomalia o un pervertimento, ma una variazione delle relazioni resa possibile dalle stesse regole costitutive dei giochi di potere. Più in generale, il processo di decostituzionalizzazione – mantenimento delle costituzioni formali, e loro svuotamento materiale attraverso atti amministrativi improntati a criteri di efficienza, performatività e risparmio – non è un’aberrazione, ma una diversa, più funzionale modalità del rapporto tra Stato e mercato.
foucault_chatCosì come – per rispondere in modo serio a un’altra banalità – la società del controllo in cui si sostanzia l’esercizio del biopotere nelle sue forme di governance (la “governamentalità”) non consiste in una proliferazione di microspie e telecamere ad ogni angolo di strada, ma in una scomposizione analitica delle pratiche, dell’agire quotidiano che riduce la complessità della vita in dati discreti, numerabili, quantificabili (il culto della valutazione numerica che prende il posto della materialità dell’esistente, dall’istruzione all’erogazione di prestazioni vitali, fino alla messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente): riduzione attuata non per l’imposizione di un gendarme esterno, ma per l’azione di quel gendarme interno alla stessa costituzione del soggetto come docile e obbediente. Detto di sfuggita, ma non per caso: non dovrebbe stupire l’accorto uso retorico degli indici di valutazione quantitativi in quelle forme di “pastoralato dolce” – democratico o poetico – che tanta disillusione hanno causato in chi, per dirla con De André, è diventato così coglione da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.
Vale la pena di rileggere il confronto con Noam Chomsky del 1974, laddove Foucault non aveva problemi a dichiarare che «se per democrazia si intende l’esercizio effettivo del potere da parte di una popolazione non divisa né ordinata in gerarchie di classe», è evidente che viviamo «sotto il regime di una dittatura di classe, di un potere di classe»; ma proprio perché «questo dominio non è la semplice espressione di uno sfruttamento economico», è necessario saper riconoscere i luoghi e le forme in cui si esercita questo «potere di classe», pena il rischio di «permettere loro di continuare ad esistere e di vedere rinascere questo potere di classe dopo un apparente processo rivoluzionario»3.

Il potere, dunque, non «può essere univocamente imputato a istituzioni o cose». Il potere non è un “oggetto”, ma «un fascio di relazioni più o meno gerarchizzate, più o meno coordinate, costantemente minacciate dalla stessa libertà che esso cerca di domare e dalle forme di resistenza che lo attraversano». Lungi dall’essere un trascendentale, il potere è una «struttura anonima, silenziosa e sfuggente», multiforme ed eterogenea, che pervade la realtà, e che può essere analizzato «là dove esso si rende visibile. E cioè: a partire da ciò che gli resiste. La resistenza al potere (il corpo da disciplinare, l’individuo da educare, il folle da rinchiudere) deve essere assunta come il “catalizzatore chimico” che permette di tracciarne i profili e le traiettorie» (pp. 20-21).
Del potere non è possibile tracciare degli ideal-tipi: esso «non va analizzato rilevandone una supposta razionalità interna (una teleologia, un’intenzione, una linearità). Ciò che lo caratterizza, secondo i suoi differenti campi di applicazione, è piuttosto «la capacità o meno di risolvere confronti strategici», in un continuo «scontro bellicoso delle forze» con «la libertà, la resistenza, le eccedenze che debordano il suo codice», anticipandolo e precedondolo (p. 21).

Le conseguenze di questo denso grumo concettuale sono molte, e rilevanti. E costituiscono, nel loro insieme, un cantiere ancora aperto sia per la prematura scomparsa di Foucault, sia per l’attualità delle pratiche cui rimandano. Foucault non postula una ragione univoca che sarebbe stata pervertita nelle sue finalità (magari dalla tecnica o da un qualche oscuro oblio), ma una ramificazione molteplice e incessante della ragione (p. 144). Una continua scissione, che si manifesta nella contrapposizione fra la ratio della governance, dell’esercizio del biopotere, e la ratio, irriducibile e contrapposta, del soggetto che resiste – la ragione dei governati. Questa biforcazione costitutiva in forme antagonistiche assume la forma di una produzione e circolazione di forme della differenza, di una scissione sempre in atto e mai componibile secondo le forme della dialettica.
A queste altezze è possibile impostare un confronto tra Foucault e Marx libero dalle pastoie di letture che ne segnalavano una supposta incompatibilità. A dire il vero, non mancano i luoghi in cui Foucault puntualizzava il proprio rapporto com Marx – ad esempio in un’intervista del 1975: «Io cito Marx senza dirlo, senza metterlo tra virgolette, e siccome loro non sono capaci di riconoscere i testi di Marx, io passo per quello che non lo cita. Forse che un fisico, quando fa della fisica, prova il bisogno di citare Newton ed Einstein?»4. Ed è vero che comincia ad esserci un’adeguata bibliografia sul rapporto Marx-Foucault5: ma la questione non è riconducibile alla mera teoria.
Quale Marx è rintracciabile all’interno dell’analitica del potere di Foucault? Chignola richiama, con buone ragioni, il rapporto tra il «conflitto come tensore dell’analitica del potere» e l’azione delle tecnologie disciplinari che «prima ancora di una semplice funzione di garanzia in rapporto alla riproduzione del rapporto capitalistico di valorizzazione […] vengono a svolgere in rapporto all’organizzazione delle disposizioni a produrre alle quali deve essere assoggettato il corpo operaio» (p. 66). Siamo cioè all’intersezione fra i Grundrisse e il primo libro del Capitale, fra la descrizione della circolazione come distribuzione analitica delle relazioni di dominio e «il processo complessivo di fabbricazione della forza-lavoro come disposizione soggettiva oggettivamente uniformata alle condizioni di produzione» (p. 67): su quel terreno che ha il suo imprescindibile riferimento nel Marx oltre Marx di Negri. Vale ricordare che il negriano quaderno di lavoro sui Grundrisse è coevo alla schedatura degli scritti di Foucault dalla quale scaturì quel Sul metodo della critica della politica6, che resta uno dei più acuti studi sul “primo” Foucault.
Infine, l’individuazione di una “società dei governati” come luogo di resistenza alle relazioni di potere, come espressione di un punto di vista irriducibile alle figure della sovranità permette di tracciare la linea che al tempo stesso collega e distanzia il “punto di vista operaio” dell’operaismo dalla “parrhesia dei governati” in quello che è stato chiamato “post-operaismo”. È indubbio che un punto fermo, in una narrazione che è tutto fuorché retorica, sia stato posto in quella famosa pagina del 1964 nella quale si affermava che «a livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione»7. Ma è altrettanto vero, per ricordare una vecchia storia, che «Pat Garrett e Billy Kid erano due che facevano una loro battaglia contro i proprietari fondiari. Ma Pat Garrett era un legalitario: non gli piaceva che Billy ammazzasse i nemici anche alla festa di nozze quando lui aveva deciso per la tregua con l’esercito, la polizia, i proprietari. Pat fa la scelta e diventa sceriffo. A malincuore. Di fatto diventa alleato dei proprietari»8. Ed è vero che oggi Pat Garrett siede al Senato e vota la spending review: e quanto l’incapacità di liberarsi dall’ossessione statocentrica (sublimando lo Stato in partito) abbia contribuito ai suoi destini, non è difficile da cogliere. Nous n’en sommes plus là: comprendere il senso della distanza che intercorre tra quel 1964 e il ce qui se passe – a maggior ragione, quella che intercorre tra l’oggi e il 1905 – significa, come minimo, evitare di continuare a cercare la corazzata Potemkin dentro un qualsiasi meet-up grillino, e di scambiare un Walking Dead per il risorto pope Gapon.

Ma se la soggettività è terreno di perenne conflitto, non c’è il rischio di cadere nell’accettazione acritica o strumentale di qualsivoglia forma di attitudine polemica in nome di un’ingenua esaltazione dello spurio e del contraddittorio? Parimenti: non c’è il rischio di legittimare come parrhesia qualunque enunciazione o presa di parola? Dopo tutto, s’è pur sentita in tempi recenti la parola parrhesia sgocciolare in modo impudente dalle bocche di laudatori di Monti o Renzi.
Per rispondere, bisogna focalizzare cosa Foucault ha cercato negli anni in cui ha dedicato la parte prevalente della propria attività al mondo greco.
Nei greci, Foucault ha cercato forme di relazioni, di soggettivazione – di costruzione di soggettività e di pratiche del sé su di sé – anteriori alla nascita di quel potere pastorale che, sorto dal tardo cristianesimo, costituisce la matrice delle relazioni di potere nell’Occidente. profondo-rosso«La storia dei greci, scrive Chignola citando Nietzsche, è uno specchio che riflette sempre qualcosa che non sta nello specchio stesso». Come la famosa scena dello specchio in Profondo rosso, «ciò che essa ci restituisce, non è soltanto una parola che ci parla allo stesso tempo “dell’oggi e del ieri” […] ma anche qualcosa di più, di quanto sia in essa contenuto» (111-112): il “gioco serio” del dire platonico (ciò che Derrida fraintendeva come logocentrismo) non come dire all’ascoltatore – foss’anche il politico – cosa fare o come comportarsi, ma «di esistere come discorso filosofico e come veridizione filosofica» (p. 188); l’intuizione stoica di una dimensione del comune – l’uomo come koinōnikon zôon – anteriore all’individuazione; la sfida e il coraggio del dire il vero senza nulla omettere, assumendosene il rischio a fronte del potere, da parte dei cinici.
La parrhesia dei governati non è un mero atto locutorio o performativo interno alle forme della democrazia, nelle quali si dà un’indifferenziata presa di parola attraverso la quale chiunque pretende di parlare «non in quanto governato (e cioè: in quanto attestato su di una posizione che non è quella di chi governa; una posizione specifica, localizzata all’interno di circuiti parziali di potere, intimamente legata a bisogni o desideri che spingono la soggettivazione), ma in quanto “governante” […], avendo una pretesa di intervento e di competenza universale, che coincide con lo sguardo del sovrano e si identifica con la sua competenza di parola, e che lavora perciò al ricompattamento delle doxai sulle quali scivolano il senso comune, la chiacchiera, il discorso del potere, funzioni discorsive che non richiedono alcuna forma di coraggio, ma un istinto mimetico ripetitivo e gregario, e cioè perfettamente funzionale al pastorato» (p. 184): difficile non pensare alle attuali forme di perversione del “popolo sovrano” – che, come sottolineava Tocqueville, esce dalla servitù nel giorno delle elezioni per rientrarvi subito dopo aver indicato il proprio padrone – nelle retoriche della rivolta fiscale, del giustizialismo, della democrazia digitale, non a caso intrecciate con retoriche emergenziali e razzistiche, nelle quali si equivocano grilli per lucciole e lucciole per  forconi.
In questa cattiva parrhesia agisce l’illusione che la figura del governato possa sostituire quella del governante: che i due fuochi dell’ellisse – figura che descrive il perimetro delle relazioni di potere e resistenza – possano coincidere. Al contrario, nella parrhesia dei governati «ciascuno dei due fuochi si mantiene di fronte all’altro, e all’interno della quale si spazializza una tensione» (p. 100). Il governato non pretende che il governante dica la verità – ciò è di fatto impossibile: «Ciò che è possibile fare è piuttosto chiedergli di rendere conto delle finalità che persegue e di come esso lo faccia. Si tratta di interpellarlo, costringerlo al confronto; si tratta di imporre a chi governa le priorità e le agende politiche del governato, esprimendo in questi termini il potere, destituente e costituente insieme, della libertà» (p. 106). Sfuggendo al ricatto retorico che vorrebbe il governato costretto a dire ciò che si debba fare: compito del governato non è governare, ma delimitare, trattenere, controbattere il potere9.
Alle pratiche di assoggettamento, i governati oppongono pratiche di disindividualizzazione, di costruzione libera e autonoma del sé, di soggettivazione: si pensi, per tornare ancora a un tema attuale, alla questione omosessuale, rispetto alla quale Foucault opponeva alla richiesta di “diritti politici” per i gay la lotta per la costruzione di figure di soggettività nelle quali la sessualità non fosse elemento di individuazione e distinzione. «Non chiedete alla politica, scriveva Foucault presentando L’anti-Edipo, di ristabilire i “diritti” dell’individuo come sono stati definiti dalla filosofia. L’individuo è il prodotto del potere. Ciò ch’è necessario fare, è “disindividualizzare” attraverso la moltiplicazione e il dispiegamento dei diversi concatenamenti. Il gruppo non deve essere il legame organico che unisce individui gerarchizzati, ma un costante generatore di “disindividualizzazione”»10.

La parrhesia non è certo una prerogativa dei soli filosofi: nondimeno, è una pratica che, mettendo in gioco la vita stessa, mette in questione lo stesso statuto del “filosofo”. «Il gioco “serio” della filosofia non consiste nel dire o nel mostrare agli uomini come dovrebbero condurre le proprie relazioni secondo uno schema di socializzazione ideale, ma nel rammentare loro incessantemente […] che ciò che nella filosofia è “reale” è la pratica: “ces pratiques que l’on exerce sur soi” e sugli altri, quando si abbia il coraggio di affrontare la prova dell’ascolto». «Ciò che toglie la filosofia dalla sua inoperosità – vuota chiacchiera, dotta speculazione, prestazione accademica salariata», è il fatto che essa «si rivolge, può rivolgersi, ha il coraggio di rivolgersi a chi esercita il potere», e attraverso questo atto «la veridizione filosofica mostra la propria realtà» (98). Parafrasando Sally Field (che a sua volta parafrasava un filosofo serbo): filosofo è, chi il filosofo fa.


  1. Sto riferendo a Foucault le parole con le quali parlava dell’uso di Marx-autore in Questions à Michel Foucault sur la géographie (1976), in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001 [d’ora in poi DE], vol. II, n. 169, p. 39. 

  2. Al netto delle sue omissioni, elisioni e cancellazioni – fatto salvo lo sfondone di attribuire a Descartes le interpolazioni del suo traduttore. 

  3. Human Nature: Justice versus Power, in DE, vol I, n. 132, pp. 1363-64, trad. it. Michel Foucault, Noam Chomsky, Invariante biologico e potere politico, Derive Approdi, Roma 2005; il dibattito è visibile su YouTube qui (il passo citato ai minuti 39-41), con l’avvvertenza che il testo a stampa è stato rivisto dagli autori rispetto al dibattito. 

  4. Entretien sur la prison: le livre et sa méthode, DE, vol. I, n. 156, p. 1620. 

  5. Stéphane Legrand, Le marxisme oublié de Foucault, “Actuel Marx” n. 36, 2004/2, pp. 27-43; Pierre Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, ombre corte, Verona 2013; Sandro Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, manifestolibri, Roma 2014. 

  6. Antonio Negri, Sul metodo della critica della politica (1977), “aut aut” n. 167-168, 1978, pp. 197-212, poi in Macchina tempo. Rompicapi Liberazione Costituzione, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 70-84. 

  7. Mario Tronti, Lenin in Inghilterra, in “Classe operaia”, 1, 1964, poi in Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966, ried. Derive Approdi, Roma 2006, p. 87. 

  8. Pat Garrett e Billy Kid ovvero i consigli del sindacato e l’autonomia operaia, “Rosso” n. 10, maggio 1974. 

  9. Sul “ricatto della proposta” – «Ok, questa è la tua protesta, ma dov’è la proposta? Sai solo essere negativo o hai qualche idea costruttiva? Sai, non basta criticare il mondo, bisogna progettarne uno diverso, metterci la faccia…» correlata alla retorica del buonismo e della corresponsabilità, si veda Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere, Milano 2014 (la citazione è a p. 117). 

  10. Prefazione all’edizione americana di Deleuze-Guattari, L’anti-Edipo, in DE, vol. II, n. 189, pp. 135-136. 

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