Mario Martone – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La lunga notte del capitale: Leopardi, la natura e il senso ultimo della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2021/12/15/leopardi-la-natura-il-capitale-e-la-lotta-di-classe/ Wed, 15 Dec 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69556 di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che [...]]]> di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che politico, nonostante il suo nome sia pur sempre considerato di grande rilevanza culturale: Giacomo Leopardi.

Un autore “classico” che, nonostante lo sforzo di aggiornamento fatto con il bel film del 2014 di Mario Martone e interpretato da Elio Germano, Il giovane meraviglioso, viene ancora troppo spesso definito semplicemente pessimista piuttosto che, come sarebbe più corretto, materialista.

Ma se qualcuno chiede cosa può ancora insegnarci, oggi, lo scrittore-filosofo di Recanati, la prima cosa che occorre sottolineare è l’atteggiamento che lo scrittore assunse nei confronti della Natura “matrigna”.
Stiamo attenti: matrigna e non nemica, una differenza non di poco conto, poiché nel primo caso si tratta di una madre acquisita che deve distrattamente occuparsi di creature non volute né, tanto meno, volutamente cercate; mentre nel secondo caso opererebbe per colpire volontariamente l’uomo, danneggiarlo, farlo soffrire di proposito e, soprattutto, con un cosciente e ben definito proposito.

Secondo Leopardi, se la Natura risulta nemica all’uomo questo è dovuto soltanto al carico di illusioni con cui l’Uomo interpreta la propria condizione esistenziale.
Ciò potrebbe sembrare un tema distante da quelli riguardanti la lotta di classe, eppure, eppure…

Pur facendo sua l’interpretazione poetico-romantica della Natura, in cui questa assume una posizione centrale nell’interpretazione simbolica del mondo e dei paesaggi interiori dell’individuo, Leopardi contribuisce a oggettivarne l’essenza reale in due tra le sue opere più significative: Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), tratto dalle Operette Morali, e La Ginestra o il fiore del deserto (1836), tratta dai Canti e composta nel corso dell’ultimo anno di vita del poeta.

Nella prima delle due opere, di fronte alle lamentele avanzate sulla condizione umana dall’infelice Islandese, che è fuggito dall’ambiente aspro in cui è nato soltanto per finire tra le braccia della stessa Natura nel cuore dell’Africa, ove si è rifugiato, la Natura risponde, senza batter ciglio:

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

E’ una risposta secca, priva di malevolenza, che indica esattamente la posizione che la “matrigna” ha riservato per la creatura anzi, meglio, per tutte le creature del cui destino non intende assolutamente farsi carico. Di cui, però, l’Islandese non si accontenta, poiché domanda ancora:

Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo?

Cui la Natura non può far altro che rispondere:

Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.

L’indifferenza, la necessità della produzione e distruzione di ogni essere vivente e della materia stessa dominano la logica con cui il povero ed illuso Islandese deve fare i conti. Senza alcuna via d’uscita, come dimostra il finale dell’operetta.
Ancor più vasto è lo sguardo proposto nella Ginestra sulla condizione umana, ma in questo caso, poiché la visione leopardiana è maturata socialmente, all’interno della sua ultima poesia l’autore propone anche una possibile soluzione, senza chiedere alcunché alla matrigna.

Dopo aver descritto il paesaggio lunare e di rovina delle pendici del Vesuvio, su cui sorgevano un tempo le ville dei patrizi romani e pascolavano gli armenti, tutti e tutto spazzato via dall’eruzione del vulcano nel 79 d.C., l’autore dirige immediatamente i suoi strali contro le illusioni che gli uomini, e soprattutto i filosofi fiduciosi nel progresso del suo secolo, hanno contribuito a creare.

A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

Per poi proseguire, con lo stesso tono:

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
[…] Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci dié. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

L’idealismo del secolo sembra voler cacciare, agli occhi di Leopardi, il materialismo degli antichi, riscoperto nell’età della ragione, dall’orizzonte politico-culturale dell’epoca e nel fare ciò illude se stesso e gli uomini tutti di essere in possesso di conoscenze e abilità destinate a far affermare la volontà del singolo sulla Natura e su tutti coloro che allo stesso non vogliono piegarsi.

Superbo e sciocco, sogna e promette la Libertà, ma in realtà vuole solo allontanare da sé la paura di essere scoperto nella sua viltà e debolezza, schernendo e ignorando coloro che si oppongono alle sue vacue ed irrealizzabili promesse.

Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor […]
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contro l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

In quest’ultima parte il poeta delinea quale deve essere il compito di una nobile natura, ovvero quello di rivelare le superbe fole-menzogne che impediscono agli uomini di riunirsi in social catena per ridare vita alla comunità umana, sempre in lotta per evitare di essere dispersa in nome dell’egoismo individuale e dalla propria fragile condizione, nascoste sotto un mare di parole inneggianti (inutilmente e falsamente) alla possibilità, per la miriade di individui in cui la comunità è stata dispersa e frantumata, di raggiungere una personale libertà dal bisogno e dal legame sociale.

Lo sforzo di oggettivazione della Natura e della condizione umana svolto da Leopardi, in antitesi al vano ottimismo borghese, è di portata rivoluzionaria. Qui, in questi versi e nei brani estratti prima dal Dialogo della Natura e di un Islandese, si rivela il vero motivo per cui il poeta è stato relegato, ormai da quasi duecento anni, al ruolo di pessimista, ingobbito dallo studio e quasi accecato dalle letture notturne a lume di candela.

In effetti, di fronte alla menzogna dell’ottimismo capitalistico e borghese, ogni forma di materialismo antico, illuministico o dialettico, appare come una forma di pessimismo o di pensiero negativo. E, in tal senso, la negazione leopardiana della cultura vacua del suo secolo è quanto di più simile alla negazione dell’esistente che sarebbe esplosa nelle lotte di classe di quegli anni e nel passaggio dal socialismo utopistico a quello di Marx ed Engels (anche se scrisse quasi tutte le sue opere prima che Marx avesse raggiunto la maggior età, mentre il Manifesto del Partito Comunista sarebbe stato scritto nel 1848, undici anni dopo la sua morte).

Per questo motivo il suo messaggio, indirizzato per forza di cose ai posteri, ha “dovuto” essere distorto, anche in grazia di una filosofia e cultura cattolicheggiante con cui il filosofo e poeta di Recanati si trovò già in aperta polemica mentre era in vita. Riscoprirlo, pertanto, non significa far opera di restauro di un monumento poetico del passato, ma ritrovare alcuni passaggi fondamentali della critica dell’esistente.

Traslare il discorso leopardiano da quello oggettivante la Natura a quello sul capitalismo odierno significa, infatti, acquisire coscienza del fatto che la fiducia che sembra accompagnare ogni discorso sulla possibilità di miglioramento generalizzato dell’attuale sistema di sfruttamento e accumulazione delle ricchezze private assomiglia sempre più alle promesse del cristianesimo (di vita eterna nell’aldilà) e del positivismo borghese (di crescita illimitata dei benefici effetti dello sviluppo). Promesse che come solo intento hanno quello di far perdere di vista l’essenza ultima e reale dell’attuale modo di produzione dominante.

Sì, perché il capitalismo non ha due facce, una buona e una cattiva.
Anzi, il suo vero volto non corrisponde affatto a uno dei due aggettivi usati.
Come la Natura, il Capitalismo è indifferente alle sorti dell’uomo e del pianeta che abita e che ha contribuito a trasformare. Indifferente non soltanto alle sorti di coloro che subiscono le sue angherie e il suo sfruttamento, ma anche a quelle di coloro che agli occhi dei più sembrano essere i veri profittatori del suo funzionamento: gli imprenditori, i finanzieri, i rentier, i politici e i governanti di ogni grado, risma e latitudine. Null’altro che funzioni, ancor più che funzionari, destinati ad essere travolti anch’essi alla prima crisi economica oppure a causa di una guerra perduta o di un errato calcolo personale e/o politico.

Crisi, guerre, epidemie non sono il frutto di calcoli strategici ben o male eseguiti, di raffinati progetti o di un Great Complotto. No, sono i terremoti, le eruzioni vulcaniche, il manifestarsi dei movimenti geologici e profondi dell’enorme tettonica a zolle costituita dalla corsa continua, ed inesorabile (per nessun altro modo di produzione il detto chi si ferma è perduto è stato così vero) al profitto e alla concentrazione proprietaria. Fin dalle sue origini.

Solo in tal senso e alla luce di ciò è possibile comprendere come per il capitale e i suoi funzionari ogni occasione possa essere buona per estrarre pluslavoro, plusvalore e rendita. Le cieche ruote dell’oriuolo, oggi affiancate da ancor più ciechi algoritmi decisionali e profilativi, girano in una sola direzione, scandendo implacabilmente il tempo di rotazione del capitale, della produzione e se necessario della distruzione di ciò che è già stato prodotto o accumulato (insieme ai suoi momentanei detentori) e ad ogni scatto di lancetta qualcosa può e deve avvenire.

Come affermano Carla Filosa, Gianfranco Pala e Francesco Schettino nella Premessa al loro recente Crisi globale. Il capitalismo e la strutturale epidemia di sovrapproduzione (Lad, 2021), la “realtà” del capitale è indissolubilmente legata

al perseguimento del fine “miserabile” e contraddittorio della produzione di plusvalore, quale unico fine di questo sistema. La involontarietà poi, quella che invece viene moralisticamente scambiata per crudeltà od anche brutalità, sta a significare qui la incapacità, non individuale ma proprio del sistema, a far emergere una responsabilità umana cioè razionale delle azioni impiantate, unicamente soggette invece alle leggi di sviluppo precipue della produzione di merce in quanto valore, e indipendentemente dal valore d’uso, che viene così a costituire uno scarto da non considerare. Ѐ chiaro che i comportamenti individuali degli operatori possano essere repellenti od anche riprovevoli, ma il problema non concerne i molti singoli resi subalterni, bensì la centralizzazione sempre crescente del comando sulla forza-lavoro e la classe che ne gestisce il pluslavoro, secondo modalità, ritmi, efficienza, comportamenti indotti, anche valutabili come criminali e disumani.
[…] Se dunque l’accumulazione decresce anche per la saturazione dei mercati esistenti, si deve intensificare lo sfruttamento sia delle risorse inorganiche sia di quelle animali e umane, tutte eguagliate nell’unica accezione di merce, cioè veicolo di valore. Per promuovere inoltre tali condizioni che svelerebbero i fini indicibili del sistema, questo deve ammantarsi di rappresentazioni ideologiche rassicuranti in cui si proclamano ed esaltano benefici per tutti, nascondendo i danni che da questi si producono, finché non appaia la contraddizione reale, imponderabile o magari anche messa in conto, ma che non dovrà mai intaccare – al momento – i profitti attesi che si appelleranno all’“emergenza”.

E’ soltanto la lotta di classe ad inceppare talvolta il meccanismo ad orologeria di cui nessuno ha però le chiavi ultime. E il ruolo dei rivoluzionari non potrà mai essere quello dei “buoni” che combattono contro i “cattivi”, ma quello di essere “altri” , portatori di un altro paradigma: Alieni che, dopo migliaia di avvistamenti e dopo essere stati toppo spesso negati, demonizzati o ridicolizzati, si manifesteranno con tutta la potenza di una negazione radicale destinata, più che a migliorarlo e renderlo più umano, ad oggettivarlo completamente nel suo essere, per comprenderne a fondo le leggi di funzionamento, il suo corso catastrofico, e accompagnarlo così, nella maniera più rapida possibile, alla sua inevitabile fine.

Un compito non tanto diverso da quello che Keplero, Galileo, Newton e Einstein, insieme ad una miriade di altri scienziati meno noti, si diedero nel cercare di comprendere le leggi di quella Natura e di quell’Universo con cui la specie deve fare i conti fin dall’alba del suo apparire sul pianeta, e che Marx ha continuato in ambito sociale, senza mai pretendere che ogni scoperta o intuizione potesse essere l’ultima e definitiva1.

Mentre ogni piagnisteo sparso sull’autoritarismo, la repressione e il mancato rispetto dei diritti “fondamentali” non fa altro che rinnovare la credibilità delle promesse del capitale e del suo funzionariato economico, politico e culturale: democrazia rappresentativa parlamentare, libertà, uguaglianza e universalità dei diritti, diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto alla vita e condanna della concorrenza “sleale” non costituiscono altro che specchietti per allodole. Anche se, poi, gli stessi creatori e manipolatori del meccanismo produttivo e riproduttivo hanno finito col credervi in prima persona.

«Finora – scriveva Marx in una lettera a Kugelmann del 27 luglio 1871- si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso, La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti una volta se ne potessero costruire in un secolo».
Secol superbo e sciocco… oggi oltre tutto rafforzato dal dilagare dei social e del loro sconsiderato uso individuale.

Rincorrere l’emergenza-capitale equivale, soltanto e sempre, a riproporre all’infinito la promessa del miglioramento universale insito nel discorso capitalistico, continuando l’esperienza della socialdemocrazia, e del revisionismo in essa insito, che uno dei suoi principali teorici, il tedesco Eduard Bernstein (1850 – 1932), riassunse in un unico principio: «il movimento è tutto, il fine nulla», poiché l’importante era costituito, a suo avviso, dall’iniziare a riformare e migliorare poco a poco il sistema. Discorso che è continuato fino ad oggi, inficiando di sé, purtroppo, anche tanto “antagonismo riformistico” attuale. Di cui le attuali suggestioni sul tema no green pass costituiscono, oggi, l’aspetto più contraddittorio.

Per contribuire al superamento della prassi e della mentalità immediatista e riformista, è necessario ribadire che la futura rivoluzione dovrà basarsi su un radicale rifiuto del paradigma capitalista ed esprimerne in pieno la negazione. Tema che però, riapre la vecchia diatriba con tutti coloro che ritengono che la semplice negazione dell’esistente non basti e occorra invece proporre iniziative da realizzare subito. Ovvero ancora la riforma dell’esistente per contribuire a mantenerlo ancora in vita.

E’ difficile, per coloro che sentono la necessità di “fare qualcosa subito”, comprendere come la negazione sia già di per sé nucleo programmatico. Se nego, a titolo di esempio, la merce e il denaro, la proprietà privata dei mezzi di produzione e il lavoro salariato già introduco, con il loro rovesciamento, il programma di una società altra. Se nego la necessità di continuare a cementificare e plastificare il mondo oppure quella di sviluppare ancor di più la produzione industriale di beni inutili e dannosi, pongo seriamente il tema della transizione ecologica e ambientale. Ma per realizzare tali programmi occorrerà passare attraverso un processo rivoluzionario che distrugga e non rovesci soltanto il paradigma capitalistico e i suoi apparati.

Certo ottenere qualche accordo locale, qualche diritto momentaneo (condito da qualche bella frase fatta) è più semplice. Così come ammantare i discorsi di contenuti politically correct o liberal; motivo per cui continua a trionfare, anche là dove meno lo si aspetterebbe, il conformismo, mentre sarebbe, invece, l’ora di affermare che «il movimento senza il fine non è nulla» e che separare l’azione politica dal fine non fa altro che indebolirla e annullarne l’utilità.

Certo, questa seconda ipotesi è più faticosa, meno immediata e meno soddisfacente sul piano dell’ego. Soprattutto, la negazione, obbliga a prendere atto che i settori che lottano non possono rivendicare soltanto per sé, come propri, i risultati acquisiti. E questa potrebbe nell’immediato rivelarsi un’amara sorpresa per coloro che rincorrono la faciloneria del risultato immediato.

Se gli uomini, come specie, devono riunirsi in social catena, non possono farlo in nome di uno specifico diritto, di classe, genere, generazionale, etnia o nazionalità. Banale errore in cui continuano a cadere tutti i rappresentanti di una singola causa, quasi sempre ritenuta universale, qualunque essa sia.

Errore fortemente rimarcato dal fallimento di tante (tutte?) rivoluzioni “nazionali” che, pur richiamandosi al socialismo sul modello sovietico-stalinista, non hanno fatto altro, in mancanza di un allargamento internazionale dei moti, che portare al potere una classe, un partito o una élite non tanto diversa da quella che governava in precedenza e che, come quella, ha finito col perseguire il proprio arricchimento o quello di una parte del capitale internazionale.

Insomma, se ho subito dei soprusi, violenze e discriminazioni oltre che lo sfruttamento economico e lavorativo da parte del sistema in cui vivo, non posso immaginare di ricreare un sistema a mia immagina e somiglianza che faccia poi pagare ad altri gli errori e i soprusi subiti in precedenza.

Per chiarirere ulteriormente il concetto: la classe operaia non dovrà riprodurre un mondo operaio, in cui le macchine e gli strumenti di produzione saranno esclusivamente nelle sue mani. Dovrà fracassare quel modello e quel sistema di produzione, per liberarsi e liberare la specie insieme a lei, negando, prima di tutto se stessa. Il proletariato nel suo insieme non potrà accontentarsi di riprodurre un mondo “proletario”, ma dovrà autodistruggersi, distruggendo il modo di produzione attuale, come affermano Marx ed Engels in un testo mai abbastanza apprezzato:

Proletariato e ricchezza sono termini opposti. Essi formano come tali un tutto. Essi sono entrambi forme del mondo della proprietà privata. Si tratta della determinata posizione che assumono nell’opposizione. Non basta spiegarli come due lati d’un tutto.
La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a conservare in esistenza se stessa e con ciò il proletariato, cioè la propria antitesi. Essa è il polo positivo della contraddizione, la proprietà privata soddisfatta di se stessa.
Il proletariato, invece, come proletariato è costretto ad abolire se stesso, e con ciò la sua antitesi determinante, che lo muta in proletariato, cioè la proprietà privata. Esso è il polo negativo della opposizione, l’agitazione in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi.
La classe possidente e la classe del proletariato esprimono la medesima “straniazione„ umana. Ma la prima classe si sente in questa straniazione a suo agio e confermata, intende la autoestraniazione come la propria forza, e possiede in essa l’apparenza di un’esistenza umana; la seconda si sente nella estraniazione annullata, scorge in essa la propria impotenza e la realtà di una esistenza inumana. Essa è, per adoperare una espressione di Hegel, “nell’abbiezione la rivolta contro l’abbiezione”, una rivolta alla quale è necessariamente condotta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisiva e generale di questa natura.
Nel seno dunque della contraddizione il proprietario è il partito conservatore, il proletario è il partito distruttore. Da quello promana l’azione della conservazione dell’antitesi; da questo l’azione del suo annullamento.
La proprietà privata veramente nel suo movimento nazionale-economico tende da se stessa alla propria dissoluzione, ma solo attraverso uno sviluppo da essa indipendente, inconscio, che si pone contro la sua volontà, e che è determinato dalla natura delle cose, solo in quanto essa produce il proletariato come proletariato che sappia la miseria della sua miseria spirituale e fisica, sappia il suo abbrutimento, e perciò l’abbrutimento che tende ad abolire se stesso. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata fa pendere su se stessa con la produzione del proletariato, come esso esegue la condanna che il salariato fa pendere su di sé producendo la ricchezza degli altri e la propria miseria. Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché egli vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità (Menschlichkeit), nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile.2.

E’ importante, oggi come non mai, vista l’immensa ristrutturazione sociale in corso, legata all’impoverimento diffuso su scala globale, l’utilizzo del termine proletariato, perché al suo interno sono racchiuse e comprese tutte le contraddizioni reali; anche se il suo essere dovrà, per forza di cose, passare attraverso una riorganizzazione “politica” interna lunga e, probabilmente, dolorosa.

Infatti, ogni separazione identitaria mina, inevitabilmente, l’unità del colosso e se questa affermazione offenderà la sensibilità di alcuni o molti, pazienza, poiché nel suo essere proletariato lo stesso racchiude in sé tutte le forme dell’emarginazione, della repressione, dello sfruttamento e della discriminazione, che contribuiscono a trasformarlo nella classe universale destinata a seppellire il capitalismo, le sue malattie sociali e pandemiche, il suo Stato e i suoi infiniti ed iniqui apparati, in nome della Gemeinwesen o comunità umana.

La società presente in tutte le sue manifestazioni ha l’impronta dell’individualismo. Nonostante che le necessità della vita ed i mezzi di cui attualmente si dispone per soddisfarle (ossia i mezzi di produzione e di scambio) abbiano raggiunto tale stadio da rendere necessario una collaborazione sempre più intrecciata, la minoranza borghese ha interesse a conservare la costituzione individualistica della società, sebbene questa causi i disordini della produzione e l’insufficienza di questa ai bisogni della stragrande maggioranza (Marx).
L’egoismo economico produce una morale (intendiamo per morale un sistema di norme proposte o imposte dalla minoranza dominante), una morale di tipo egoista, tracciata di quell’umanitarismo e di quella filantropia che non sono che arti subdole per celarne la vera essenza, mezzi di difesa contro gli strappi che a quella morale tenta di fare la maggioranza oppressa.
Come la classe borghese vuole, per necessità della propria conservazione, il regime della libera concorrenza tra capitalisti, così avrebbe interesse a che la stessa concorrenza si svolgesse tra i salariati. Per quanto le è possibile la borghesia cerca quindi, col mezzo dell’educazione, che è suo monopolio, di riflettere sul proletariato la sua anima individualistica3.

Individualismo dei diritti e delle libertà singole che è prodotto, oltre tutto, dal sistema mercantile che è proprio del modo di produzione e distribuzione capitalistico e che illude costantemente i singoli proponendo loro, e sempre più oggi per mezzo della rete e dei suoi giganti, oggetti del desiderio indirizzati al soddisfacimento illusorio di ogni loro “specifico bisogno”. Come scriveva già Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844:

Nell’ambito della proprietà privata […] ogni uomo si ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza. […] La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari.
[…] E’ così, come l’industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto prodotta ad arte e di cui, pertanto, il vero godimento consiste nell’autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno4.

E’ dalla dipendenza dal denaro che nasce ogni altra dipendenza, è dall’estraniazione dalla specie che nasce ogni individualismo vagheggiante soluzioni personali per problemi che personali non sono affatto. Ed è dall’individualismo di stampo liberale, e dalla sua rivendicazione di un’impossibile privacy nell’era della pervasività dei social, che sorge ogni ulteriore alienazione dalle attività e dalle necessità della specie; ogni ulteriore, illusoria e menzognera spiegazione delle contraddizioni dell’esistente. Perché, in fin dei conti, complottismo e riformismo non sono altro che le due facce di una medesima, fasulla medaglia, che racchiudono entrambe la speranza di cambiare qualcosa, magari soltanto a vantaggio di pochi, affinché nulla cambi.

Con tutto ciò non si vuol affermare che momenti in cui lotte specifiche non possano rendersi necessari e inevitabili, e nemmeno che da tali lotte non possano sorgere movimenti più ampi e vasti, ma soltanto ribadire che il senso ultimo della lotta di classe non può essere riconducibile a specifici diritti, ma soltanto a quello di tutti gli oppressi di farla finita, una volta per tutte, con un modo di produzione iniquo, dannoso e superato. In nome di una Gemeinwesen che non rappresenta altro che la capacità di tornare a riunire la maggioranza dell’umanità nella social catena tanto cara a Leopardi.

Così mentre certuni si attardano a cercar di cavalcare tematiche irrimediabilmente azzoppate, dissertando ancora di diritti costituzionali e libertà individuali, questo intervento è anche dedicato a tutti coloro che, vittime delle stragi sul lavoro o dei licenziamenti dovuti alla delocalizzazione produttiva messa in atto dalle aziende, vivono davvero, quotidianamente e sulla propria pelle, la lunga “notte del capitale”.


  1. Per Marx stesso le riflessioni contenute nel Capitale non dovevano costituire l’immagine definitiva della realtà, ma un modello per meglio comprenderla e contribuire al suo ribaltamento rivoluzionario  

  2. K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845  

  3. Amadeo Bordiga, La nostra missione, «L’Avanguardia» n. 273 del 2 febbraio 1913  

  4. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968, pp. 127-134  

]]>
In fondo alla scrittura c’è ancora la notte https://www.carmillaonline.com/2018/12/29/in-fondo-alla-scrittura-ce-ancora-la-notte/ Fri, 28 Dec 2018 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50221 di Paolo Lago

Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura. Calvino Pasolini Bazlen Parise Cattafi, Le Lettere, Firenze, 2017, pp. 175, € 18,00.

Il recente, interessante saggio di Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura, trae il suo titolo dal romanzo di Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte (1932). Se il finale del romanzo di Céline – quel “termine della notte” – non coincide con l’arrivo del giorno ma con il persistere di una “zona di crepuscolo”, rimanendo in sospeso come il percorso esistenziale del protagonista, “compiere un viaggio al termine della [...]]]> di Paolo Lago

Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura. Calvino Pasolini Bazlen Parise Cattafi, Le Lettere, Firenze, 2017, pp. 175, € 18,00.

Il recente, interessante saggio di Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura, trae il suo titolo dal romanzo di Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte (1932). Se il finale del romanzo di Céline – quel “termine della notte” – non coincide con l’arrivo del giorno ma con il persistere di una “zona di crepuscolo”, rimanendo in sospeso come il percorso esistenziale del protagonista, “compiere un viaggio al termine della scrittura” – scrive Bertelli – “significa sapersi trattenere in una zona ugualmente incerta: quella in cui la vita di chi scrive, avanzando secondo gradi diversi di consapevolezza, testimonia l’impossibilità di un suo compimento formale”. Opera letteraria come vita, finale come morte sono alcune delle suggestive analogie messe in gioco dal saggio, il quale si configura come uno studio incentrato soprattutto sugli aspetti formali delle opere analizzate: Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Italo Calvino, Petrolio (1992) di Pier Paolo Pasolini, Il capitano di lungo corso di Roberto Bazlen (1973), L’odore del sangue (1997) di Goffredo Parise e i diari inediti di Bartolo Cattafi. Tutti i testi presi in esame (un romanzo pubblicato in vita, tre opere postume e una serie di diari inediti) si situano in un arco di tempo compreso fra il 1973 e il 1979. Quello degli anni Settanta è un periodo, come nota l’autore, in cui lo strutturalismo da un lato e le teorie della ricezione dall’altro “provocano un depotenziamento enorme della figura dell’autore e della sua autorità”.

Il saggio di Bertelli pone a confronto fra di loro delle opere di indubbio fascino, delle opere che rappresentano in sé il magma della vita stessa e la cui scrittura si inerpica nelle suggestive volute degli esperimenti formali. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino è un romanzo costituito da dieci incipit di possibili romanzi: un’opera che si sfalda e contemporaneamente si riafferma di continuo in una dimensione potenziale, in cui il lettore diventa il protagonista nel momento stesso in cui legge. Petrolio di Pasolini è un romanzo al quale l’autore stava freneticamente lavorando al momento della sua uccisione, nel 1975, ed è uscito postumo solamente nel 1992. Si tratta di un’opera ‘sperimentale’, costruito come “l’edizione critica di un testo inedito”, un “Satyricon moderno”, un vero e proprio “metaromanzo menippeo” (cioè un romanzo-saggio che riflette sugli stessi meccanismi letterari, legato alla linea culturale dell’antica satira menippea) in cui Pasolini inserisce delicati rimandi alla politica e alla società degli anni Settanta. Il capitano di lungo corso di Bazlen è un romanzo incompiuto e mai pubblicato, la cui parziale diffusione fu limitata a un circolo ristretto di amici. Il romanzo, elaborato in circa un ventennio (dal 1944 al 1965, anno della morte di Bazlen) si configura come una continua amplificazione di note esplicative data l’impossibilità, a detta dell’autore, di scrivere libri. Così, infatti, scrive lo stesso Bazlen: “Io credo che non si possano più scrivere libri. Perciò non scrivo libri – quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina”. L’odore del sangue di Parise, invece, è stato pubblicato postumo nel 1997 e nasce da un’esperienza di morte vissuta in prima persona dall’autore, dall’essersi trovato davanti la Gorgone e non aver chiuso gli occhi, come scrive Cesare Garboli nella prefazione al romanzo. Quest’ultimo è stato scritto da Parise nell’estate del 1979, subito dopo un infarto. Dopodiché venne sigillato dallo stesso autore e ripreso in mano e riletto solo nel 1986, poco prima della morte. I diari inediti di Bartolo Cattafi sono stati scritti dal 1971 al 1979 e interrotti soltanto dall’aggravarsi delle condizioni di salute del poeta. La scrittura diaristica di Cattafi tende alla concretezza e finisce per coincidere con lo stesso scorrere della vita, in un “viaggio al termine della scrittura” che è anche il termine della vita.

Vorrei concentrarmi adesso soprattutto su due fra le opere analizzate da Bertelli nel corso del suo ampio e ben articolato saggio. Si tratta di due romanzi molto diversi fra loro che però risultano straordinariamente vicini, sia dal punto di vista formale che, per certi aspetti, di contenuto: Petrolio di Pasolini e L’odore del sangue di Parise (dal quale Mario Martone, nel 2004, ha tratto un film). In entrambi i romanzi gli autori narrano una sorta di discesa all’inferno entro la cornice italiana di un preciso periodo storico, quello degli anni Settanta. Un periodo oscuro, attraversato da diverse contraddizioni ma connotato anche da ideali propositivi di lotta contro un sistema imposto dall’alto, falcidiati dal successivo decennio degli Ottanta. Sia Pasolini che Parise compiono una discesa nell’inferno della progressiva degenerazione sociale dell’Italia, un abbrutimento reazionario e meschino, lo stesso preso di mira dal movimento del Settantasette, il quale era invece mosso da istanze di liberazione del desiderio. Entrambi i romanzi sono l’estremo lascito testamentario e postumo di due vivaci intellettuali, due scrittori poco inclini a chinare la testa in ruoli precostituiti e irreggimentati. Petrolio si configura sostanzialmente come un romanzo politico, incentrato sulle oscure trame politiche ed economiche a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, in un periodo in cui l’economia e l’azienda stavano rapidamente scalando la vetta del potere politico. L’Italia e Roma – siamo soprattutto nel 1974 e 1975 – sono presentati come un luogo infernale in cui l’abbrutimento fascista imperversa ogni dove, in cui i giovani, resi afasici ed inespressivi, sono ormai involgariti dalla pubblicità televisiva e dal conformismo delle mode. C’è una serie di appunti (Petrolio è infatti costituito da una congerie di appunti), intitolata “Il Merda” in cui è descritto un vero e proprio viaggio infernale (in uno schema modellato sull’Inferno dantesco) del borgataro Merda e della sua ragazza Cinzia, all’interno delle nuove periferie degradate. Il culmine di tale visione è la città di Roma che, vista dall’alto, assume la forma di una croce uncinata, a simboleggiare l’avvento di un nuovo nazismo, quello della degenerazione delle coscienze livellate dal progressivo benessere economico. Lo spazio urbano della Capitale è connotato da squallore e sporcizia mentre le strade sono invase dai rifiuti. Nell’Appunto 70, “Chiacchiere notturne al Colosseo”, le vie che circondano il Colosseo sono caratterizzate da squallore e solitudine, dal traffico incessante e da rifiuti e cartacce che vengono portati via dal vento.

Ne L’odore del sangue di Parise viene tratteggiato un impietoso affresco della Roma fine anni Settanta, specchio dell’intera Italia. A un certo punto, il protagonista io narrante si reca, di notte, sotto casa della moglie Silvia, irretita ormai nella relazione con un giovane fascista, e lo spazio che si trova dintorno possiede dei cupi risvolti infernali. Così sono descritti i giovani che percorrono le vie notturne della città: “Eccoli, erano loro, i giustizieri della notte, quelli che avevano assassinato Pasolini, quelli che avevano bruciato un somalo dormiente su un letto di cartoni, «per scherzo». Intravedo le loro facce, anche nella velocità della corsa. Parevano facce americane, alcune bionde e butterate, altre nere dai capelli ricci, di arabi americanizzati. Erano, nella loro anonima e meccanica criminalità, le facce di Roma”. Come in Petrolio, la città notturna è attraversata da “spazzatura vagante” mentre in lontananza si erge “un riverbero rossastro e fumoso come di incendio”, “vari piccoli incendi di mondezza accesi da ragazzi intorno a prostitute e travestiti che battevano in quella zona”. La città, che diviene quasi specchio e simbolo dell’intera Italia, è connotata da marcati tratti infernali, come nel romanzo postumo di Pasolini. Non a caso, Cesare Garboli, nella prefazione scrive che, ne L’odore del sangue, “c’è un inferno, e un romanziere che lo racconta”.

Petrolio e L’odore del sangue, formalmente simili perché ‘monumenti’ letterari postumi, non rifiniti, non conclusi definitivamente, escrescenze magmatiche della penna ancora calda dello scrittore, mostrano anche metaforicamente il baratro in cui stava precipitando la società italiana. Se il primo è esplicitamente un romanzo politico che racconta un momento delicato di passaggio e di mutamento del potere, anche per mezzo di immagini molto crude di carattere erotico, il secondo, mostrando gli abbrutimenti sadomasochistici cui si sottopone il personaggio di Silvia nella relazione col giovane fascista spregiudicato, mostra anche la progressiva degradazione dell’intera società, catturata perversamente dal benessere e dal qualunquismo galoppanti. Parise scrive il suo romanzo nel 1979: solo un anno dopo inizieranno gli anni Ottanta, gli anni del disimpegno, del rampantismo sociale, dell’eroina, della “Milano da bere”, del berlusconismo e delle televisioni private. Come scrive Bertelli al termine del suo saggio, tirando le somme della sua rigorosa disamina comparata, da un punto di vista formale “l’unico viaggio possibile al termine della scrittura è quello di chi sa trattenersi in una zona incerta, la quale è anche la più carica di attesa, perché a essa corrisponde la paradossale suggestione degli inizi”. Ma forse, se guardiamo in fondo alla scrittura di Petrolio e de L’odore del sangue, troviamo ancora la notte, una notte fonda che, agendo in profondità, ha obnubilato le coscienze negli anni del disimpegno fino ai più tetri risvolti politici e sociali della contemporaneità, dei giorni che proprio adesso ci troviamo a vivere.

]]>
Estetiche del potere. Visibilità televisiva ed invisibilità cinematografica del potere politico italiano https://www.carmillaonline.com/2017/03/07/31133/ Mon, 06 Mar 2017 23:01:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31133 di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre [...]]]> di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) esplicita come la forza del Re Sole risieda nelle immagini che lo rappresentano; egli è il polo di attrazione dello sguardo della sua corte. Il film mostra come il potere del re risieda nella suo essere visibile sempre ed ovunque, anche grazie alla sua effige sulle monete. Nell’opera rosselliniana il potere non si esplica per via impositiva ma rendendo desiderabile ai sottoposti l’essere ammessi al suo cospetto ed il far parte del suo cerimoniale.

Un’ottima riflessione circa le modalità con cui la cinematografia nazionale ha affrontato i potenti la si ritrova all’interno del monumentale saggio Lessico del cinema italiano (a cura di Roberto De Gaetano), Volume II (Mimesis, 2015) [su Carmilla]  grazie allo studioso Gianni Canova che, nell’occuparsi proprio della voce “Potere” riferita al cinema italiano, indica nel film Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio una delle più lungimiranti riflessioni su di esso realizzate in Italia all’inizio del nuovo millennio.

In questo film i politici italiani sembrano totalmente delocalizzati; vagano «fra l’etere e il nulla» e, secondo lo studioso, soltanto nella scena in cui si mettono in posa per la foto istituzionale davanti ad uno schermo che mostra immagini di manifestazioni della loro formazione politica e del loro leader, «essi sentono in qualche modo di inverarsi, di uscire dall’indeterminatezza, dalla mancanza di ruolo e di identità. Ma nello stesso tempo, così facendo, trasformano i loro corpi in schermo, e fanno di sé il luogo in cui le immagini si manifestano e si concretizzano» (p. 429).

Secondo Canova questa sequenza «ci dice come i corpi “veri” non siano che il supporto su cui far vivere le immagini. Non sono più – come nel Novecento – il profilmico che lascia traccia e impronta di sé nell’immagine filmica, ma – molto più radicalmente – il supporto senza cui le immagini non sarebbero visibili. Detto altrimenti: i corpi non generano le immagini, le accolgono» (p. 429). Il film suggerisce come il potere sembri ormai risiedere «nell’ibrido generato dal connubio fra corpi e immagini, e come proprio lì, e solo lì, si materializzi la possibilità di incontrare e di vedere ciò che il potere è diventato, e di riconoscere le maschere con cui si nasconde, e di capire il gioco con cui colonizza i corpi per far vivere se stesso nelle immagini che lo costituiscono e, al tempo stesso, lo inverano» (p. 430).

Il cinema italiano sembrerebbe aver affrontato il potere politico a partire da un’idea negativa; esso viene tratteggiato come qualcosa che ha a che fare con l’inganno, l’intrigo, il complotto ed i suoi uomini tendono ad essere rappresentati come maschere grottesche e/o dispotiche. Nel corso del Ventennio fascista, Mussolini è riuscito ad occupare la scena tanto nel “paesaggio reale” che nell’immaginario degli italiani «non solo e non tanto esercitando il potere, quanto piuttosto recitandolo» (p. 435), ed il cinema in tutto ciò ha avuto un ruolo fondamentale. L’arma cinematografica lo ha spesso presentato come figura monumentale circondata da gerarchi o dalla folla. Se per il Re Sole di Rossellini «la conquista del potere coincide con la conquista dell’immagine», dunque si rende necessaria l’espulsione dei sudditi dall’inquadratura, nel caso di Mussolini, invece, è necessario il bagno di folla; «Il duce si fa ritrarre fra la gente. Vuole che il cinema mostri il popolo che lo guarda. L’atto del guardare il duce (e dell’ammirarlo, adorarlo, apprezzarlo) fa parte dello spettacolo» (p. 437). Canova propone alcuni esempi di come il registro della visibilità non rappresenti però l’unica strategia di raffigurazione del potere da parte del fascismo; nel film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, ad esempio, l’immagine di Mussolini è soltanto evocata, la sua presenza è avvertita, anche grazie al sonoro, ma non si vede.

Nel dopoguerra il confronto del cinema italiano con il potere politico diviene difficile, per certi versi è come se i registi non trovassero il modo di rappresentarlo in un sistema democratico. «Per il cinema italiano del dopoguerra – quanto meno, per la maggior parte di esso – il potere reale è quasi sempre osceno: agisce cioè – letteralmente – fuori scena, si esercita al di là della sfera del visibile […] Si preferisce inseguire una visione del potere come Leviatano nascosto, come Moloch crudele, come rete invisibile di interessi e di complicità […] Il potere è opaco. Resiste allo sguardo. Non si lascia osservare» (pp. 441-442).

pot_001Nella cinematografia nazionale non di rado il potere è stato messo in scena attraverso i luoghi in cui si manifesta e, non di rado, maggiore è la visibilità dei luoghi, minore è la sua visibilità. Canova porta come esempio di totale identificazione tra potere e luogo in cui risiede L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci. In questo caso «la Città Proibita suggella un’idea di potere come dispositivo separato e distaccato dal luogo in cui si esercita: il potere dell’imperatore infatti risiede nel palazzo, ma si esercita fuori da esso, in un “fuori” di cui l’imperatore non solo non ha accesso, ma non ha neppure conoscenza e visione: quando l’avrà, ciò implicherà automaticamente anche la perdita del potere» (p. 443). Nella Città Proibita di Bertolucci non è il potere ad essere spettacolo per la corte, come avveniva nel Re Sole di Rossellini, ne L’ultimo imperatore il potere diviene spettatore dello spettacolo organizzato dalla corte per lui.

Marco Ferreri nel film L’udienza (1972) tratta la questione dell’invisibilità del potere attraverso la storia di un individuo ossessionato dal voler parlare col pontefice che, in tutto il film, non si vede mai se non attraverso immagini televisive. In lungometraggi come questo è ai palazzi del potere che spetta il compito di surrogare l’invisibilità del potere.

Anche le scenografie giocano un ruolo importante nel cinema italiano che intende rappresentare il potere; sono diversi i film in cui esso si esprime attraverso la scenografia, si esprime mettendosi in scena, allestendo la propria visibilità, come avviene ad esempio in Galileo (1968) di Liliana Cavani ed In nome del Papa Re (1977) di Luigi Magni.

In diverse opere, ricorda lo studioso, al potere si allude ricorrendo a figure allegoriche. Nel film Il potere (1972) di Augusto Tretti il potere, nelle sue diverse articolazioni, si nasconde dietro le maschere di belva indossate da tre personaggi, in Prova d’orchestra (1979) di Federico Fellini il compito allegorico è affidato ad un grande maglio che entra in scena sul finale distruggendo tutto, mentre, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, è la villa degli orrori a funzionare da ambientazione in cui si muovono i quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana. In questo ultimo caso il film suggerisce come il potere politico prenda forma e si strutturi nel rituale e nelle relazioni «che i quattro potenti inscenano nella villa con l’aiuto delle loro vittime, ma anche dei collaborazionisti, dei servi e delle meretrici da bordello che fungono da narratrici» (p. 452).

Nel suo contributo a Lessico del cinema italiano, Canova traccia una “mappa tipologica” dei potenti messi inscena nel cinema nazionale. La prima tipologia individuata è quella “dell’affarista cinico” ed a tal proposito viene citato il lungmetraggio Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi come opera che mostra come il fine ultimo del potente sia la conservazione e la perpetuazione del proprio potere.

Una seconda tipologia viene indicata nel “corrotto corruttore” ed in questo caso lo studioso porta come esempio Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, film che sottolinea come il potere sia tale anche grazie a chi ne è privo.

Come terza tipologia Canova indica quella “dell’astuto naïf” facendo riferimento a film come Benvenuto Presidente! (2013) di Riccardo Milani, Viva la libertà (2013) di Roberto Andò e Viva l’Italia (2012) di Massimiliano Bruno che suggeriscono come soltanto i personaggi ingenui siano oggi in grado di conferire al potere credibilità.

La quarta categoria individuata dallo studioso è quella del “mellifluo untuoso” ed il film Todo modo (1976) di Elio Petri viene segnalato come uno dei pochi esempi in cui, in un sistema democratico, il popolo (lo spettatore) venga indicato come sostanzialmente responsabile del potere che ha contribuito a creare.

Come quinta tipologia viene indicato “l’insabbiatore mimetico”, figura esemplarmente interpretata da Ugo Tognazzi in uno degli episodi de I mostri (1963) di Dino Risi, in cui, dietro alla maschera di devota rispettabilità del potere, si cela la capacità di farla franca sempre e comunque.

“Il pharmakon grottesco” rappresenta una sesta tipologia e qua Canova, oltre ai classici Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli ed Il federale (1961) di Luciano Salce, si sofferma sulla figura interpretata da Antonio Albanese nei film diretti da Giulio Manfredonia Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012). A proposito di tale personaggio lo studioso afferma che «Nella sua opulenza cafona, Cetto La Qualunque non è solo un monumento alla volgarità italiana. È un pharmakon, o un parafulmine. Scarichiamo su di lui tutta la negatività che ci insidia e ci assedia. Ce ne liberiamo. Forse, nel vuoto sospeso del raccapriccio che ci si insinua sotto la pelle, quando ridiamo compiamo un esorcismo. E ci assolviamo dal timore di essere anche noi come lui» (p. 465).

La settima categoria indicata è quella del “fantoccio ridicolo” e, secondo Canova, un film come Forza Italia! (1978) di Roberto Faenza finisce con l’applicare ai politici «quelle categorie della derisione e dello scherno che sono da sempre al centro dell’atavica propensione degli italiani a ridere di tutto e di tutti […] che alla fine tutto assolve e tutto dimentica, e rende tollerabile o tollerato nella realtà quel medesimo potere che viene carnevalescamente irriso nello spazio dello spettacolo e della finzione» (p. 466). Inoltre, sostiene lo studioso, «Da un film come Forza Italia! alla satira televisiva del nuovo millennio, un filone importante della cultura italiana si è ostinata a fare dell’uomo di potere, al tempo stesso, un mostro e un pagliaccio. Col risultato paradossale di assolverlo: perché il mostro annulla il pagliaccio, e il pagliaccio neutralizza il mostro» (p. 467).

Il saggio di Canova sottolinea, inoltre, come tra le patologie del potere, il cinema italiano abbia scelto di concentrarsi sul tradimento, il trasformismo, l’arbitrio e alla presunzione di impunibilità. Per quanto riguarda il trasformismo ed il tradimento lo studioso, oltre che su Senso (1954) ed Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, si sofferma su Noi credevamo (2010) di Mario Martone, individuando in tale opera «un film imprescindibile per rintracciare la retorica e l’ideologia del potere nel cinema italiano perché […] drammatizza uno scontro di poteri: da un lato il vecchio potere che muore, dall’altro un nuovo potere che nasce e che ambisce a scalzare e a sostituire in fretta il vecchio. Il punto di vista di Martone sposa e adotta […] il punto di vista di chi non ha il potere e ambisce a conquistarlo: quel “noi credevamo” non solo insiste sulla dimensione collettiva dell’adesione a un progetto di conquista del potere, ma sottolinea anche – con forza – la dimensione fortemente fideistica che anima l’azione dei giovani rivoluzionari […] Forse non si è ancora ragionato abbastanza sul ruolo talora fondamentale della passione nell’agone politico, e il film di Martone ha il merito di conferirle una centralità precedentemente impensabile» (p. 473).

Per quanto riguarda l’arbitrio Canova cita In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi e Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy come esempi di film in cui la giustizia viene esercitata arbitrariamente ed in maniera vessatoria nei confronti del cittadino. In questi film, come in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio e Tutti dentro (1984) di Alberto Sordi, il potere si esprime col medesimo volto: «Arcigno, severo, vessatorio, feroce. Un potere che non si esercita quasi mai nella legalità ma quasi sempre nell’arbitrarietà e nell’impunità» (p. 478).

Circa l’impunibilità, lo studioso non poteva che soffermarsi su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, film che «Ribadisce la teatralità del potere e fa della maschera il linguaggio necessario ad affermare se stesso in quanto forma del dominio» (p. 480). Canova, ragionando sul doppio finale dell’opera, si concentra sul fatto che le tende vengono ad un certo punto chiuse celando all’osservatore il contenuto della stanza in cui convergono i diversi interpreti del potere: «Non è dato di sapere cosa accadrà realmente nella stanza in cui il potere si è riunito. Abbiamo visto cosa è accaduto nella camera da letto (che non è più da tempo luogo proibito allo sguardo), ma l’interdetto a vedere si è spostato e trasferito nella camera del potere. Che ancora una volta celebra se stesso, e perpetua la propria fantasia di immunità e di impunibilità, in un regime di fatale e impenetrabile invisibilità» (p. 482).

pot_002Nel cinema degli ultimi decenni film come Vincere (2009) di Marco Bellocchio, Il divo (2008) di Paolo Sorrentino ed Il caimano (2006) di Nanni Moretti, hanno fatto ricorso a maschere su un registro espressivo allegorico-grottesco al fine di mettere in scena, rispettivamente, Mussolini, Andreotti e Berlusconi.

Il film di Bellocchio, secondo Canova, è un «atto d’accusa nei confronti dell’eterno fascismo italiano: cioè quella disposizione – antropologica prima ancora che psicologica, ideologica o sociale – fatta di ribellismo anarcoide e di succube servilismo, di velleitarismo arrogante e di tracotante narcisismo […] di odio nei confronti del diverso e di disprezzo nei confronti delle donne, che da qualche secolo a questa parte attraversa la nostra storia (e il nostro sentire) e che periodicamente produce quei rigurgiti collettivi che portano buona parte dei maschi italiani a farsi possedere dalla smania irrefrenabile di andare in giro per le strade indossando camicie dello stesso colore, organizzando ronde punitive contro chi indossa camicie diverse, contro chi pensa in modo diverso, contro chi adora altri dei o chi si illude ci siano altri, possibili modi di amare» (pp. 490-491). Il regista in questo caso mette in scena «lo scompenso che si crea fra una donna che è e resta corpo (fremente, piangente, ferito) e un maschio che – grazie al potere che incarna – da corpo si trasforma in fantasma di pietra, perennemente assente e al tempo stesso sempre incombente, pesante, castigante, oppressivo. Vincere rilegge il fascismo come pratica di annientamento dei corpi e come colonizzazione fraudolenta delle menti» (p. 491).

L’opera di Sorrentino mette invece in scena i meccanismi del potere e la sua immortalità. Il regista qui «predilige una maschera in bilico fra il folclorico e il cinefilo: quella del vampiro. […] gli dei, come i vampiri, non muoiono mai. Hanno bisogno del sangue e delle vite degli altri, e se le prendono. E aborrono la luce. Il divo Giulio, non a caso, vive di notte. Non dorme mai. Gira con la scorta per le vie deserte di una Roma fantasma in lunghe e solitarie passeggiate notturne. E passa il tempo a spegnere gli interruttori di casa sua. I veri divi non sono quelli che godono all’accendersi delle luci, ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere» (p. 487). L’Andreotti di Sorrentino è dunque la quintessenza della segretezza e dell’inaccessibilità.

Infine, il film di Moretti affronta «l’inafferrabilità di Berlusconi in quanto ipostasi del potere e, al contempo, la difficoltà di rappresentare l’Italia contemporanea» (p. 484). Canova sottolinea come il film trasmetta la sensazione della disgregazione, gli stessi diversi Berlusconi che compaiono risultano scollegati l’uno all’altro.

L’accumularsi in questo paese di quelli che, non senza ipocrisia, vengono definiti “misteri irrisolti”, ha contribuito a creare una filmografia nazionale caratterizzata dall’idea che «dietro a ognuno di questi fatti si celino la volontà inconfessabile e la strategia delirante di un potere segreto, impunito e spietato: una sorta di “dietrologia” ossessiva e compulsiva che evoca incessantemente la presenza fantasmatica di un “burattinaio” non identificabile […] come per rimuovere o giustificare l’incapacità della società italiana di individuare i responsabili reali di quei crimini e di trovare una spiegazione razionale per ognuno di quei “misteri” irrisolti» (p. 493).

Un caso esemplare di incidenza del complottismo nella rappresentazione del potere riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; si pensi ad esempio, a lungometraggi come Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara o Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli. La teoria del complotto si è venuta costruendo su effettive pagine oscure della storia italiana ma, osserva Canova, «l’idea che nessuna verità sia possibile, e che dietro ogni fatto di cronaca ci sia una trama oscura inaccessibile e indecifrabile per l’opinione pubblica democratica è talmente diffusa e pervasiva, e coinvolge tanto il cinema dei grandi autori […] tanto la ricognizione sul passato […] da configurare davvero una visione del potere – e forse perfino un “sentimento” del potere, e un immaginario del potere – segnati paranoicamente dall’opacità, dalla segretezza e da una impenetrabilità che tanto più vengono riconfermate quanto più si tenta (o si finge) di volerle infrangere e illuminare» (p. 495).

Come esempi di film che invece evitano di ricorrere al complottismo, Canova segnala Diaz – Non pulire questo sangue (2012) di Daniele Vicari e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio. Nel primo caso il lungometraggio «si stacca dalla cronaca, o dall’idea di film-requisitoria, per costruire una scena del crimine che è tanto più sconvolgente quanto più addossa le responsabilità del massacro non a questo o qual funzionario-carogna, ma a un sistema che può permettersi impunemente la sospensione delle garanzie democratiche come forma perversa di controllo e di repressione violenta del dissenso sociale […] Vicari non cade nell’errore di confondere la sala cinematografica con un’aula di tribunale, né pretende di affidare al suo film una sentenza giudiziaria. Piuttosto cerca di mettere in scena i meccanismi (ma anche i linguaggi, i fantasmi, le mitologie, i fraintendimenti, le ideologie) attraverso cui uno Stato di diritto (e gli uomini che lo rappresentano) possono arrivare a usare la tortura esercitata su persone indifese come mezzo di dominio» (p. 497).

Buongiorno, notte affronta invece il “caso Moro” evitando il registro del realismo ed il regista «non insegue il “feticismo del documento” caro al cinema complottista, né sbandiera dossier esclusivi su cui edificare improbabili controinchieste. Il suo film sceglie piuttosto la strada dell’apologo e dell’immaginazione poetica, fin dal titolo» (pp. 498-499). Nell’opera di Bellocchio, che evita dietrologie, la narrazione adotta il punto di vista di una brigatista che sogna un finale diverso per la vicenda ed il racconto è confinato all’interno dell’appartamento-prigione mentre alla televisione spetta il compito di far entrare tra le mura gli eventi esterni. Così facendo, «riducendo la realtà storico-politica a una sorta di fuori campo, Bellocchio si concentra cioè sui gesti, gli sguardi e le relazioni chiasmiche che si intrecciano all’interno dell’appartamento fra il prigioniero (il dominante divenuto dominato) e i suoi sequestratori (i dominati che aspirano a essere dominanti)» (p. 499). Il registro del doppio, suggerisce lo studioso, attraversa l’intero film; il potere ed il contropotere che prende il suo posto, la protagonista che conduce una doppia vita, il mondo tra le mura dell’appartamento ed il mondo esterno che appare sullo schermo televisivo, il registro del reale ed il registro onirico e visionario.

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volCome Luigi XIV nel film di Rossellini, «anche il potere democratico contemporaneo vuole che la sua vita si svolga tutta sempre sotto gli occhi dei cittadini/sudditi: ed è la Tv a inverare questa volontà. Come Re Sole, la Tv è sempre lì, perennemente accesa, e incessantemente pronta a mostrare i riti e le cerimonie del potere. A renderle autorevoli e desiderabili. Il potere sa di essere lì, nelle immagini che lo presentificano e lo diffondono, lo espandono e lo celebrano. E lì, spudoratamente, si mette in scena» (p. 503). Canova individua alcuni film che prendono atto del ruolo televisivo e, dopo decenni di invisibilità ed irrapresentabilità del potere sul grande schermo, «da qualche anno a questa parte il cinema italiano ha constatato la propria ontologica impossibilità di competere con la Tv nel rendere visibile in tempo reale la quotidianità del potere (e, in fondo, anche la sua ordinaria banalità) e ha deciso – con lungimirante saggezza – di ripartire da qui. Dalla comprensione che il potere è ormai prima di tutto nelle immagini che quotidianamente lo visualizzano. Così il cinema ha iniziato, sempre più intensamente e convintamente, a lavorare su queste immagini. A riesumarle. A rimontarle» (p. 503).

L’archivio televisivo diviene una fonte da cui attingere ed a tal proposito Canova indica film come La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif – Pierfrancesco Diliberto e Belluscone. Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco.

Nel primo caso l’autore «non è ossessionato dalla necessità di mostrare il volto del potere: l’ha già fatto la Tv. Il suo film si limita a usare le immagini già prodotte e a risemantizzarle grazie a un ready made che le porta ad esprimere “altro” rispetto a quello che avrebbero dovuto esprimere quando furono realizzate. In questo modo il cinema, scalzato dalla televisione (e ora anche dagli altri media digitali) nella capacità di dare un volto al potere, recupera il proprio ruolo centrale nel sistema dei media rivendicando la capacità di rivedere e risignificare le immagini che altri media hanno prodotto» (p. 503).

Nell’opera di Maresco il potente Silvio Berlusconi, evocato e deformato sin dal titolo, è presente nel film solo a livello catodico, come fantasma dell’etere. «Una storia siciliana è un racconto di ascesa e caduta: comincia con la caduta (Berlusconi annuncia in Tv le sue dimissioni da Presidente del Consiglio […] e finisce con il ricordo sbiadito dell’ascesa (con un Berlusconi di 20 anni più giovane che pronuncia il celebre discorso della “discesa in campo”)» (p. 505). Alle immagini di repertorio è affidato il compito di riflettere sul fantasma di Berlusconi e sugli effetti del berlusconismo. Per certi versi è davvero come se Berlusconi vivesse soltanto all’interno delle immagini televisive che ne hanno costruito il mito e dal film, sostiene Canova, si evince come siano le immagini ad aver preso il potere tanto che l’immaginario berlusconiano continua ad influenzare l’immaginario collettivo anche dopo Berlusconi. «È a queste immagini che bisogna ricorrere, ed è su di esse che bisogna lavorare, per cercare di capire qualcosa di quel potere che esse disincarnano e, al contempo, rendono immortale» (p. 505).

A conclusione del suo scritto, Gianni Canova, si chiede se «il cinema italiano non ha saputo rappresentare la democrazia perché non è mai riuscito a capirla o – al contrario – perché ha capito fin troppo bene la sua essenza, e ne è rimasto traumatizzato?» (p. 505). Nel complesso, probabilmente, ciò è avvenuto per entrambi i motivi ma, da parte nostra, siamo portati a credere che, nonostante alcune e significative eccezioni, nella maggioranza dei casi, il cinema italiano, al pari del resto della cultura nazionale, si è accontentato di raccontarci dell’opacità del potere e di oscuri ed innominabili burattinai. Forse, se da una parte il sonno della politica – il non voler vedere e parlarne – negli intellettuali italiani ha contribuito a generare mostri (di comodo), dall’altra, la televisione ha talmente sovraesposto i politici nazionali da renderli poco appetibili al grande schermo. E forse lo stesso pubblico cinematografico non è stato, e non è, così desideroso di vederseli spuntare, oltre che in casa, quotidianamente ed a tutte le ore, anche nel buio di una sala su schermi monumentali che i politici nostrani oggettivamente faticano a riempire.

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 73 https://www.carmillaonline.com/2015/10/01/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-73/ Thu, 01 Oct 2015 20:02:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25013 di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010 Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla [...]]]> di Dziga Cacace 

ddv7301E pensare che io, fosse per me, chissà cosa farei

812 – Incazzarsi dibbestia per Noi credevamo di Mario Martone, Italia/Francia 2010
Noi credevamo che fosse un bel film. Perché quando è uscito in poche copie c’è stato il piagnisteo generale sulle pagine ufficiali della cultura di tutti i rispettabili quotidiani borghesi di questo paese: «Ma come! Questo film va visto! Anzi: va fatto vedere!», e del resto il reato di tortura non è ancora contemplato dal nostro ordinamento giuridico. Qualche critico altolocato e diversi colleghi hanno parlato di capolavoro penalizzato dalla miopia nazionale e vai con la solita lagna – dove andremo a finire, signora mia! – che non sappiamo valorizzare le nostre opere e qui e là. La verità, la mia verità, però, è che Noi credevamo è un film inerte, intorcinato, plumbeo, girato in spazi angusti (perché pensato angustamente), senza rispetto per lo spettatore, pensando a sé come autore che fa un po’ il cazzo che gli pare coi soldi dello Stato e poi so’ cazzi tua capire cosa voglio dire. Che non è difficile intuire subito: il Risorgimento nasce in un clima torbido, tra attese e tradimenti, e questo continuo gioco sotterraneo e insincero è la base dell’Italia, un albero dalle radici marce. Solo che a raccontarlo così ti marciscono anche i coglioni e fin dai primi minuti. Allora: un film è un racconto, ma se fai di tutto perché non ti ascolti nessuno, amico mio, allora diventa un soliloquio e il problema è tuo, eh. E mica voglio limitare la voglia di sperimentare con la narrazione o di essere ostico, ci mancherebbe. Però se mi porti nel tuo carruggio e mi fai fare questo giro tortuoso, poi voglio arrivare davanti a un panorama magnifico. E invece qui è come se camminassimo per tre ore sotto il sole a picco, tra sterpi, merde di capra e vipere per arrivare a vedere Punta Perotti. Le vicende narrate precise ve le cercate in Rete – in due parole: tre giovani fanno il Risorgimento, con esiti diversi e comunque comune delusione – vi dico solo che il commissario Montalbano in una precedente incarnazione è stato Francesco Crispi, mafiosetto e coinvolto nell’attentato a Napoleone III che costò la vita a Orsini. Forse (io ci ho sempre creduto, m’è bastata la parola di quell’ira di Dio di Carlo Di Rudio, ecco). Comunque: a me è mancato clamorosamente una narrazione coerente e un’idea di cinema. Ho visto del teatro filmato e neanche bene, senza equilibrio nel racconto. Attori bravi, direi. Ma manca troppo altro: due ore e quaranta di un’opera che si voleva anche didattica, che sapesse celebrare criticamente l’unità d’Italia; e invece abbiamo una pallata, involuta, ostica, respingente. Non ho trovato neanche – perché poi son capace di accontentarmi di un po’ di plasticità, io, che diamine – alcuna invenzione visiva, nessuna immagine che mi abbia fatto sgranare gli occhi: tutto piattissimo, senza vita, inanimato. Che poi, no, qualche bella inquadratura c’è, ma proprio le conti sulle dita e su questa durata è pochissimo: io voglio notare quando l’inquadratura è sciatta, non il contrario. È come se andassi al ristorante e lo chef non si preoccupasse della freschezza delle materie prime, dell’uso dei condimenti e della cottura… a fine cena cosa dico? Però i grissini, buoni? Eddai, Marto’, eh. Giancarlo De Cataldo, cospiratore col regista, nel suo romanzo I traditori – che con Noi credevamo ha molto in comune – usa delle furbizie (sesso e carnazza, duelli etc.), degli accorgimenti, ma anche un controllo astuto della materia narrativa: le storie si aprono e si chiudono. Certo che col romanzo è più semplice, ma nessuno ha ordinato di farne un film: qui è tutto triste ed esangue, ripetuto mille volte, con alcune parti girate praticamente come 24, in tempo reale… C’è un episodio ambientato in un carcere che – giuro – potrebbe essere l’espediente per estorcere confessioni (l’episodio, non il carcere). Vabbeh: gli è venuto male? Forse. E non sarà un problema (anche se sulla faccenda dei soldi pubblici ci sarebbe da discutere, ma lo facciamo un’altra volta). O magari il problema è nostro, penso durante la visione, di fianco a Barbara che sbuffa anch’essa. E poi, all’improvviso, cosa ti vedo sul grande schermo? Una bella struttura scheletrica in cemento armato, a metà Ottocento. Non scherzo. Mi dico: no, un errore non può essere, sarebbe veramente al di là del bene e del male. E allora capisco: la METAFORA (bestemmione da scomunica censurato). L’Italia è il paese la cui edificazione è rimasta a metà, capisci?, coi tondini arrugginiti che escono ancora dai pilastri, aspettando di tirar su le pareti e di completare la costruzione. E allora quando ghigliottinano Orsini e percorrono una scalinata in griglia metallica con cent’anni di anticipo sulla sua concezione, lì, la metafora qual è? Che i francesi avevano direttori di cantiere avantissimo? O sono sciatterie che da Autori ci possiamo permettere, tanto chi se ne frega? Ecco, lì ho perso la testa, lo confesso. M’è venuto lo s’ciupun e ogni cosa, a quel punto è diventata fonte di irritazione, come la prima dell’Hernani o i garibaldini che nella vita combattono e recitano e lo fanno notare più volte… Martone, mabbasta! La mistica del teatro e il pubblico con la sciarpetta che partecipa al rito borghese e poi si va a scofanare un piatto de cozze, a te t’ha rovinato, credimi. Una consolazione, almeno, l’avrò trovata? Massì, la nasuta Francesca Inaudi, qui contessa di Belgiojoso, con quel collo da cigno, il petto affannato e l’aria smarrita come in una tela di Boldini… A tanto mi riduco. (Cinema Ariosto, Milano; 7/1/11)

ddv7302814 – Non è ancora domani (La pivellina) di Tizza Crovi e Rainer Frimmel, Austria/Italia 2009 e la mia intervista al Maestro Bernardo Bertolucci, o quasi
Film tenerissimo, quasi documentaristico: una messa in scena zavattiniana e minimale sovrastata da una ricchezza di sentimenti straripante. Nel quartiere di San Basilio a Roma la signora Patty trova una bimba abbandonata in un parco. Due anni di dolcezza innocente di cui si innamorano tutti, nel campo di roulotte dove Patty vive. E la pivellina cresce tra artisti di strada, improvvisati fratelli maggiori e Patty che vuole sapere di più. Grande intensità e nessun appeal commerciale, ma questo film sa aprirti il cuore, segnatevelo. Ah: in questi giorni s’è consumata una tragedia! Ricordo a quelli di Rolling Stone che il Maestro Bertolucci compie settant’anni a breve, il 16 marzo: urge articolo barra intervista barra celebrazione. Il direttore mi dice: bravo! Va e uccidi! Allora chiamo Bernardo a casa ed è gentilissimo, parla e ascolta il suo fan un po’ scemotto. Ci mettiamo d’accordo per un ulteriore appuntamento telefonico per definire giorno e ora, a Roma, per un’intervista vis-à-vis. Quando lo richiamo alla vigilia dell’incontro lo sento in grande difficoltà finché non mi chiede un po’ scocciato come funzionino le cose a Rolling Stone. Me lo chiedo anch’io, perché sarà Enrico Ghezzi a intervistarlo, nonostante io avessi già ottenuto consenso e stabilito tutto con la redazione. Grande imbarazzo – e di fronte a Ghezzi non mi metto certo a fare casino, anche se la sua intervista in ostrogoto sarà comprensibile a sole tre persone, BB, lui e io – ma il Maestro intuisce il mio disagio e anzi mi consola e mi racconta ancora, soddisfacendo ogni mia curiosità. Parlottiamo un po’ di tutto (anche di Jim Morrison e Agnès Varda o di Pink Floyd e David Gilmour a Sabaudia, suo ospite) però poi, a malincuore, tocca attaccare. Per cui, alla fine, è come se l’avessi intervistato, ma solo per me. Tiè, Ghezzi. (Dvd; 13/1/11)

ddv7303815 – Brutto forte, Jumanji di Joe Johnston, USA 1995
Film per bambini nonostante bordeggi l’horror (sempre per bambini). È ripetitivo, non simpatico, non coinvolgente, con effetti, trucchi e trucco – oltretutto – di scarso valore. La fotografia autunnale è bruttina e il cast presenta assortite facce da scemi su cui spicca Kirsten Dunst con la sua consueta espressione da procione, con gli occhi incavati. Robin Williams è un po’ Re pescatore, un po’ prof da Attimo fuggente, un po’ – insomma – lo stesso personaggio che interpreta sempre. A Sofia il film piace, a me per niente: spero di non doverlo vedere più di dieci volte. (Dvd; 15/1/11)

ddv7304816 – Per la serie “Cartoni che mi vorrei scopare”, Biancaneve e i sette nani di David Hand, USA 1937
La più bella del reame? Ma dove? Ma mille volte la Regina, mi piglio, io! Ma hai visto che occhietti sordidi, quella bella signora un po’ goth girl? E pure esperta in arti magiche… ma t’immagini i giochini che ti fa ‘sta qui se si beve il filtro? E la mela sai dove te la mette? E invece no, l’eroina è la benedetta Biancaneve che, a dispetto di un nome da cocainomane persa, è invece una verginella che rassetta casa, sempre con lo straccio in mano per togliere qualsivoglia filo di polvere, con gli occhioni sgranati e la boccuccia a cuoricino… giusto un principe necrofilo se la può baciare una così, una già morta dentro prima che addenti la renetta avvelenata. Naaa, no way, il Cacace non ci sta! Detto questo, il film è tecnicamente clamoroso, animato benissimo, con sfondi acquerellati da urlo e pieno d’invenzioni visive che danno ritmo a una vicenda esilissima e straconosciuta e comunque variata perché Disney vedeva lontano e conosceva bene la parola “adattamento”. L’avevamo negato a Sofia temendo reazioni scomposte (la cugina Anna non ha mangiato mele per un anno e diceva che mia nonna era la strega cattiva), invece è andata bene anche con la piccola Elena. Bisogna fortificarle fin da piccole, queste: non sanno cosa le aspetta là fuori. Il dvd è ricco di bonus e tra le diverse scene tagliate presenta anche quella clamorosa della gang bang dei sette nani con Biancaneve finalmente scatenata. No, scherzo, purtroppo. Comunque extra interessanti, se siete un po’ depressi e volete vedere come si realizza un cartone. (Dvd; 17/1/11)

ddv7305817 – Preferirei di no, ma Baciami ancora, di Gabriele Muccino, Italia 2010
Menami ancora, dovrebbe chiamarsi ‘sta roba, con riferimento particolare al regista. Non so neanche da dove cominciare… è il sequel de L’ultimo bacio e i difetti del predecessore sono esasperati fino al ridicolo. È tutto gonfiato all’inverosimile e risulta completamente fasullo, come il plot raccontato con nessuna attenzione alla crescita, allo sviluppo, alla definizione psicologica dei protagonisti in una successione di scene madri fuori controllo, montate velocissime, commentate da musiche mixate male, con un sacco di cantato che si sovrappone ai dialoghi. Abbiamo le corse forsennate sotto la pioggia, le urla disperate, i pianti a dirotto, i pentimenti accorati, Stefano Accorsi che canta la Vanoni o che in voce off enuncia perle come “è per la mancanza di cura nelle cose più semplici che facciamo gli errori più grandi” oppure “gli errori si pagano tutti”… Ma l’avete scritto scopiazzando dei Baci Perugina? Nei credits scopro che i cosceneggiatori del regista sono gli ineffabili Rulli e Petraglia, capaci di concepire una scena in cui una madre legge a un bimbo di dieci anni… Moby Dick. Giuro. Mica una versione semplificata, no, proprio Melville. Muccino e i due impuniti hanno presente Moby Dick? Letto a un bambino di dieci anni? E perché non l’Ulisse di Joyce, già che ci siamo? I fratelli Karamazov, no? Mah. (Gli farei l’assolo di Moby Dick, ma dei Led Zeppelin, in testa). Finisce in ulteriore vacca con parti concitate, promesse solenni e già la certezza che si faranno tutti nuove corna con annessi scazzi violenti, bimbi traumatizzati etc. etc. In questa corsa al ridicolo la regia infila due riferimenti kitschissimi a Il cacciatore (quando la compagnia di amici idioti canta in macchina e nelle scene della roulette russa), uno a C’eravamo tanto amati e un omaggio all’amico americano Will Smith, come a rimpiangere qualcuno che, almeno, sa recitare. Perché il vero crollo di un film ambientato in questa città magica, Roma, dove c’è sempre il parcheggio libero sotto casa, sono gli attori. Salvo per amore incondizionato Vittoria Puccini e per simpatia Pierfrancesco Favino, ma il resto del cast sembra una combriccola di amatori in gara per la peggiore interpretazione possibile. Ma non c’è gara, vince con distacco abissale Accorsi: “Quando un attore è stonato e senza talento viene definito cane… ecco il termine è perfetto nel caso specifico”. Infatti, meglio di così era impossibile sintetizzare ciò che si pensa dell’attore che questa frase la pronuncia, un Accorsi, appunto, con la faccia sempre perplessa, come se si chiedesse – giustamente – come sia finito lì. Quanto è carogna Muccino, a fargli enunciare questo epitaffio? Gli altri: il giovane Giannini, Adriano, recita sempre ingobbito, sembrando un incrocio tra sua padre Giancarlo e Silvio Orlando; Giorgio Pasotti è truccato come Giovanni di Aldo, Giovanni e Giacomo quando interpretava Johnny Glamour, ed è francamente inguardabile. Del resto Accorsi è pettinato come Donald Sutherland nel Casanova, per cui tutto torna. Ah: e poi c’è Valeria Bruni Tedeschi, il mistero gaudioso del cinema francese e italiano, l’imbarazzo puro, una che eviteresti di riprendere anche nel filmino delle vacanze. Un solo pregio consolatorio per il pubblico che ha speso i soldi del biglietto di questa troiata: lo vedi e ti senti tutto il tempo Einstein. (Dvd; 22/1/11)

ddv7306818 – Io non ho capito granché Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, Italia 2010
Film che ha ricevuto tanta simpatia critica e anche un discreto riscontro di pubblico. Lo proviamo in una sera in cui Barbara rifiuta i miei documentari bellissimi perché vuole ridere. Figurati! Un gruppo di amici suonatori decide di attraversare a piedi la Basilicata dal Tirreno allo Ionico (o il contrario, ho già rimosso) per arrivare a suonare in una festa di piazza. Contrattempi, amori, canzoni indolenti, incontri, destini che si incrociano e scoperte. Basilicata coast to coast è inerte e inoffensivo, ha lo scatto del ronzino che porta gli strumenti dei nostri eroi, ma come se gli avessero segato i garretti. È un film civile e come fai a parlarne male? Un inno alla Basilicata, alla sua gente discreta, alla sua cucina stratosferica, ai paesaggi clamorosi. Però, ragazzi, manca la storia, c’è solo l’idea. Non una battuta memorabile, canzoni gradevoli che ti passano senza lasciarti nulla, attori con belle facce, costretti da un copione senza nerbo a farci intuire tutto: è un attimo che ti cresca il terzo coglione, eh, e bello gonfio. (Vi do un consiglio: se volete una grande storia d’ambientazione lucana, e ridere e pensare, allora regalatevi un libro di Gaetano Cappelli, datemi retta). (Dvd; 24/1/11)

ddv7307819 – Basito di fronte a Il volatore di aquiloni di Renato Pozzetto, Italia 1987
Surreale è dir poco. Pozzetto (Urca; sì, si chiama così) vola in deltaplano dal suo Lago Maggiore verso il mare, ma rimane incantato da Milano (e avvelenato dallo smog) e atterra a San Siro dove para diversi rigori a Rummenigge. Da qui si dipana un viaggio/omaggio attraverso la città dove la concatenazione degli eventi ricorda più Entr’acte che altri film interpretati dal comico di Laveno. Qui Renato scrive e dirige e si sente: l’omaggio a Milano è personale, nel senso che per quanto si citino e si visitino le opere dei finanziatori (Rinascente, Cariplo – con la presentazione dello straordinario Bancomat! -, Montedison, Metro Milanese, Comune e Max Meyer) il racconto prende deviazioni fantastiche in cui non mancano atti d’accusa allo smog meneghino o alla mancanza di spazi per i bimbi, sempre espressi nel tono sognante e poetico del regista. Detto questo, poi, la pellicola (poco più di un’ora di durata) è pressoché indigeribile nella sua follia. Ci sono momenti più riusciti (la parte con Boldi, con una gara a chi raggiunge le più alte vette del nonsense) e altri sinceramente noiosi, con gag gelide e il ritmo questo sconosciuto. Però Il volatore di aquiloni (da una canzone di Jannacci) è una cosa talmente stramba che alla fin fine gli vuoi bene, come a un figlio scemo, e pure bruttarello. Uscì direttamente in vhs e credo che non l’abbia visto nessuno. (Dvd; 26/1/11)

ddv7308820 – Ancora agghiacciante: Children of the Stones di Jeremy Burnham, Trevor Ray, Peter Graham Scott, Gran Bretagna 1976
Questo Prigionieri delle pietre lo dava al pomeriggio RaiDue, credo nel 1979. Sul mitico televisore Voxson in bianco e nero avevo visto tutti gli episodi fuorché l’ultimo e la cosa mi bruciava da più di trent’anni, anche perché nessun mio coetaneo ne aveva un ricordo utile. Poi, con la magia della Rete ho ritrovato i sette episodi in una versione scintillante, con sottotitoli in italiano (e Dio ringrazi i volenterosi anonimi). Ricordavo poco dell’impianto narrativo generale, ma una marea di particolari che, puntualmente ho ritrovato: le musiche angoscianti (tutte sospiri asmatici e urla), il senso di mistero, le luci allucinate, il costante senso di smarrimento e pericolo. Trama: l’astrofisico Adam Brake e il figlio Matthew raggiungono il paesino di Milbury, un borgo da 50 anime sorto su un antichissimo cerchio megalitico. La popolazione è decisamente ebete e il circo è condotto dal sinistro astronomo Hendrick. Gli estranei si insospettiscono e tentano la fuga e… E mo’ vi cercate voi l’ultima puntata. Che questa roba che mescola paganesimo, buchi neri, altre dimensioni e bolle temporali fosse pensata per un pubblico infantile ha dello straordinario: da molti quarantenni inglesi (fonte Wiki https://en.wikipedia.org/wiki/Children_of_the_Stones) lo sceneggiato viene tuttora ricordato come un’esperienza terrificante. Discreta fattura (anche se le luci negli interni sono sempre smarmellate… “Everything open!” avrà detto il direttore della fotografia, alla Boris), attori bravi, inglese limpido, abbigliamento seventies semplicemente vomitorio, oltretutto cromaticamente rallegrato dal consueto buongusto albionico. Ambientato nel paesino di Avebury (che adesso non visiterei manco se pagato) gli episodi sono sette e durano 25 minuti, con pausa intermedia (!): generalmente Barbara cominciava a rantolare verso i 15 minuti per crollare presto prigioniera di un sonno di pietra. Ad ogni modo: mini-serie che è una figatina, anche dopo tutti questi anni e seppur indirizzato a un pubblico di ragazzini, come me, del resto. (Gennaio 2011)

ddv7309821 – Piccolo e bello: L’uomo fiammifero di Marco Chiarini, Italia 2009
Sincero, toccante, realizzato con poco – materialmente – ma mettendoci tantissimo cervello, idee, invenzioni. Fin troppe. L’universo fantastico di un bimbo che vive con un padre tanto distante quanto bestialmente affettuoso. Pannofino (il papà, già inarrivabile René Ferretti in Boris) è bravo anche in un ruolo drammatico, così come i piccoli attori (anche se ridoppiati). Dell’infanzia, questo film ci restituisce lo stupore per il meraviglioso, con effetti magici nella loro semplicità, come faceva certo cinema d’inizio secolo, ma quell’altro. È un film per bambini per adulti (è piaciuto più a me che a Sofia, per capirci) e non saprei come definirlo altrimenti, se non come intelligente e meritevole. Forse non riuscito fino in fondo ma molto più che dignitoso. Non è vero che il cinema italiano sia in crisi, sono in crisi gli italiani, spettatori e non al cinema. (Dvd; 28/1/11)

ddv7310822 – Truffa truffa ambiguità: Valzer con Bashir di Ari Folman, Israele/Germania/Francia 2008
La strage di Sabra e Chatila, come incubo rimosso. Non solo dal protagonista del film, anche dal regista, direi, che alla fine assolve se stesso e in qualche modo quella generazione di israeliani che combatté l’ennesima sporca guerra. Del conflitto sembrano non capirci niente lui e i suoi commilitoni, che assistono sgomenti al prevalere della follia, della paura e del cinismo dei generali. Il film è amaro, plasticamente splendido, inventivo, spiazzante e crudele e riesce a farti provare pietà e costernazione con dei disegni animati, forse l’unico modo impensabile per mettere in scena un orrore che ci si è rifiutato di vedere per troppi anni. Però la sensazione di un discorso autoassolutorio mi mette in difficoltà e nel cervelletto, incastonata come una pietruzza dell’Intifada, rimane parecchia insoddisfazione. In termini puramente estetici, il film è comunque notevolissimo. Saran contenti i palestinesi. (Dvd; 29/1/11)

ddv7311824 – Il disincanto sia con te: Guerre stellari di George Lucas, USA 1977
Questo l’ho visto la prima volta nell’estate del 1978 in un cinema di Rapallo, con mia madre. Dovevo, se no ero fuori dal dibattito. Non ero rimasto folgorato come invece era avvenuto a molti miei coetanei (però mia madre mi offrì cinquemila lire dell’epoca pur di uscire tra primo e secondo tempo e io rifiutai testardamente, rinunciando a una fortuna) e oggi son curioso di capire che reazione possa avere Sofia che però di anni ne ha due meno di me – all’epoca – ed è decisamente più sveglia – di me, oggi. E apprezza. E io? Mah! Film lineare, sempliciotto, con effetti speciali allora innovativi e oggi ingenui, continua a sembrarmi narrativamente troppo easy, ma anche popolare nel senso migliore: epico, archetipico, con diversi richiami alla cultura pop USA (Il mago di Oz, il cinema western – vedi Han Solo). Elegantissime le guardie imperiali, evidenti i rimandi iconografici al nazismo per le divise dei comandanti dell’Impero Galattico, molto anni Settanta le capigliature, squallido – quasi casual – l’abbigliamento dei ribelli, con una predominanza arancione da operaio dell’autostrada e caschi che sembrano dei wok rovesciati. Alec Guinness è il miglior Padre Pio della galassia, Luke esibisce un kimono felpato (ma a un certo punto tira fuori un poncho alla Eastwood) e la principessa Leila ha due grossi bagel di trecce sopra le orecchie. Non c’è mai sangue, mai mai mai, e aleggia una sottile tensione amorosa tra Luke e Leila che subito Sofia individua – ah, l’intuito femminile – e mi sa che qui ci scappano anche i due seguiti, maledizione. (Dvd; 9/2/11)

(Continua – 73)

@DzigaCacace usa Twitter male

Qui altre Divine Divane Visioni, pensate

]]>
Cari registi, cari scrittori https://www.carmillaonline.com/2015/01/21/cari-registi-cari-scrittori/ Tue, 20 Jan 2015 23:03:09 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20178 Una lettera agli autori della lettera contro il divieto di rappresentare l’uso delle sigarette nei film italiani.

di Mauro Baldrati

Tennessee-Williams-by-Irving-PennCari registi, cari scrittori,

sulla vostra lettera liberale, che io preferirei definire libertaria, la ministra Lorenzin ha detto che non intende vietare la rappresentazione del tabagismo nei film. E’ normale, i politici di professione sono altamente specializzati nel manifestare un’intenzione negandola. Quindi facciamo finta che sia vero. Poniamo che veramente il governo intenda promulgare una normativa che vieti le riprese di attori che fumano in scena.

A questo provvedimento vi opponete fieramente, [...]]]> Una lettera agli autori della lettera contro il divieto di rappresentare l’uso delle sigarette nei film italiani.

di Mauro Baldrati

Tennessee-Williams-by-Irving-PennCari registi, cari scrittori,

sulla vostra lettera liberale, che io preferirei definire libertaria, la ministra Lorenzin ha detto che non intende vietare la rappresentazione del tabagismo nei film. E’ normale, i politici di professione sono altamente specializzati nel manifestare un’intenzione negandola. Quindi facciamo finta che sia vero. Poniamo che veramente il governo intenda promulgare una normativa che vieti le riprese di attori che fumano in scena.

A questo provvedimento vi opponete fieramente, in nome della libertà creativa e del rifiuto dell’intervento di uno stato etico/confessionale nei comportamenti privati degli esseri umani. Scrivete: “Al cinema e alla parola scritta, si dovrebbe chiedere ed esigere soprattutto di raccontare la gioia, il dolore, la grandezza, la pochezza ed il mistero di cui siamo fatti.” E’ un’affermazione condivisibile. Apprezzo, e ho apprezzato molto il vostro lavoro, scrivendo delle vostre opere su questo sito, qui, qui, qui, qui. Per me rappresentate una interessante ricerca italiana per un nuovo brand cinematografico che non teme il mainstream, ma lo usa, contribuendo a creare quella che Gramsci chiamava “una nuova letteratura popolare”, una sovranità culturale che finalmente possa liberarci dalla dura colonizzazione americana, dall’invasione di prodotti americani per gli americani e per i sudditi del resto del mondo. Poi però arriva il punto critico, il cuore nero, se così possiamo definirlo, della vostra missiva: “E se per fare questo al nostro meglio sentiremo la necessità di inondare lo schermo di nuvole di fumo, come di altre cose in fondo molto più disdicevoli, continueremo a farlo, perché questo è il nostro lavoro.”

Ecco, non posso credere che siate ancora legati a filo triplo a questi miti, a queste estetica stantìa: l’eroe che fuma una sigaretta dopo l’altra, avvolto da una nuvola azzurrognola resa ancora più fascinosa da giochi di luce raffinati, l’eroe trasgressivo. Il tempo passa, sovrano, e si porta dietro una serie di sovrastrutture che diventano obsolete, se riproposte sine-die. Da qualche parte nella Crocifissione in Rosa Henry Miller descrive un ambulatorio di aborti, nella città tentacolare. E’ una discesa agli inferi, nella pazzia e nel massacro. Oggi è una scena semplicemente grottesca, dopo le battaglie e l’approvazione della legge 194. Ma è una sovrastruttura del suo tempo, e lui è un uomo del suo tempo. Però la grandezza della sua arte, e il suo messaggio di libertà restano intatti, e lo saranno anche fra cento anni. Così il mito di Hemingway cacciatore di leoni e di elefanti. Improponibile e ridicolo. Gli elefanti vivono in pochi esemplari nelle riserve, e così i leoni. Ma Hemingway resta un grande scrittore, anche quando abbatte un leone a fucilate in uno dei 49 racconti.

Così io non ci credo. Non credo che voi intendiate negare che una parte di pubblico si identifica coi suoi eroi, li ammira, li ama, li ascolta, li imita, li trasfigura, li paragona coi fantasmi che si porta dentro, li usa per mantenere vivi i personaggi che una vita intera ha creato nella loro immaginazione, e la cui genesi fantasmagorica risale all’infanzia. E non credo che siate indifferenti alle ferite che il fumo del tabacco industriale provoca negli organismi ancora in formazione degli adolescenti che stanno iniziando il “vizio”. E in nome di cosa? Non siete di “quella” generazione, coi suoi miti e le sue pazzie: quella nouvelle vague francese anarco-comunista, che si pippava una gauloise senza filtro dopo l’altra, e se tossiva era “tossire è bello”. Il tempo cosa passa a fare? E le riflessioni, e le idee nuove, e la liberazione da tutte le schiavitù?

No. Io credo qualcos’altro. Credo che la vostra lettera sia reticente. Che contenga un falso movimento. A mio avviso la realtà vera, nascosta tra le righe, potrebbe essere la seguente (il condizionale è d’obbligo): l’affermazione – o la rappresentazione – di un evento, serve per scaricare l’ansia (o la tensione) – spesso antica, irrisolta – che questo evento crea, o evoca. Forse tra di voi ci sono dei fumatori che usano i personaggi per entrare a gamba tesa nella loro tensione privata. Negli eroi del secolo scorso, nei cavalieri fumatori di un’epica con le ragnatele, nei parrucconi di una trasgressione subalterna ai padroni del cancro, voi rappresentate una parte di voi stessi, cercate il vostro piacere, e persino la vostra assoluzione.

Infine, diciamola tutta. Chiamiamo in causa anche la tecnica: nella concatenazione delle storie c’è bisogno di pause, di soste, e l’atto di accendersi la sigaretta è un espediente narrativo utile, perché permette allo spettatore di fare uno stacco, di raccogliere le idee. Ed anche è una macchina seriale di distruzione di emozioni, che serve per restituire quel senso di straniamento che spesso è alla base di tanta ricerca artistica moderna. Per esempio, l’uso del tabagismo di Sorrentino è simile a quello dell’alcol in Carver: ossessivo, come se stordisse i personaggi, come se li smembrasse.

balthus-paris-1948-irving-pennE allora avanzo la seguente proposta, che non vuole affatto essere provocatoria: perché ai vostri personaggi-alter ego non fate fumare le canne? Otterreste almeno due risultati importanti: 1) la soddisfazione del bisogno di rappresentare l’urgenza e la rabbia, generando quella scarica di energia non più disallineata che alcuni di voi cercano nelle opere; 2) un’evoluzione della mitopoiesi, allineandola al vostro/nostro tempo, liberando voi e noi da quelle parrucche incipriate che resistono a dispetto delle battaglie e delle conquiste mentali. Negli anni ’60, quando sulle tematiche di liberazione si sapeva non tutto, ma molto, le droghe venivano raggruppate in due meta categorie: le stupefacenti e le psicotrope. Le prime erano reazionarie, violente, perché obbligavano l’utilizzatore a una dipendenza da padroni più o meno occulti. Comprendevano gli oppiacei, l’alcol, gli psicofarmaci, le anfetamine e le sigarette. Le seconde, se utilizzate responsabilmente (e questa è un’elaborazione del nostro tempo) erano invece liberatorie, perché stimolavano la creatività e la socialità. Di queste, la cannabis era la regina. Fumare le canne, come gesto, non è certo un obiettivo di vita, ma in quanto rito anche sociale può superare la ripetizione edipica dell’eterno poppare, e quindi favorire l’uscita dal sistema autoritario di “un edipo troppo grande”, come lo definiva Deleuze. Pippare le sigarette è il contrario, è un rifiuto dell’azione, è un rifugio nell’isolamento della dipendenza.

Inoltre a livello scenico potreste usufruire di un espediente tecnico ancora più raffinato dell’accensione della sigaretta, una pausa più complessa, più articolata, e non vi priverebbe di quelle nuvole di fumo fascinose che vi stanno così a cuore.

Quindi, per concludere: d’accordo sulla non opportunità di divieti, perché difficilmente si ottiene la liberazione col proibizionismo e con la censura, ma voi avete il dovere di uscire dai vostri fantasmi privati e di essere generosi, e di accettare il fatto che gli eroi di oggi possono essere tali anche senza succhiare dal capezzolo fasullo di un seno ormai spettrale.

[Foto di Irving Penn. In apertura: Tennessee Williams; all’interno: Balthus]

]]>
Il giovane favoloso di Mario Martone https://www.carmillaonline.com/2014/11/01/giovane-favoloso-mario-martone/ Fri, 31 Oct 2014 23:15:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18401 di Mauro Baldrati

leopardiScrivere una recensione che riguarda Giacomo Leopardi è operazione delicata e rischiosa, perché è sufficiente un piccolo errore, una svista, un dettaglio invertito per scatenare l’indignazione dei leopardiani più attenti. I quali peraltro hanno perfettamente ragione: è un segnale di amore per il proprio poeta, amore, rispetto e precisione. Io, per esempio, una volta ho letto un articolo del critico musicale istituzionale del Corriere della Sera nel quale un pezzo dei Cream veniva attribuito a Jimi Hendrix. Non ci potevo credere. Non sono mai più riuscito a leggere un articolo del suddetto, che ai miei occhi aveva perso [...]]]> di Mauro Baldrati

leopardiScrivere una recensione che riguarda Giacomo Leopardi è operazione delicata e rischiosa, perché è sufficiente un piccolo errore, una svista, un dettaglio invertito per scatenare l’indignazione dei leopardiani più attenti.
I quali peraltro hanno perfettamente ragione: è un segnale di amore per il proprio poeta, amore, rispetto e precisione. Io, per esempio, una volta ho letto un articolo del critico musicale istituzionale del Corriere della Sera nel quale un pezzo dei Cream veniva attribuito a Jimi Hendrix. Non ci potevo credere. Non sono mai più riuscito a leggere un articolo del suddetto, che ai miei occhi aveva perso ogni credibilità.
Pertanto mi sento in dovere di chiedere scuse preventive per eventuali errori, precisando che il personaggio di cui parliamo, il poeta di nome Giacomo Leopardi, è l’interprete del film Il giovane favoloso, e lui solo, benché nelle intenzioni degli autori vi sia rispondenza, storica e filologica, col personaggio reale.

Lui, Leopardi, definì Bologna, nella quale soggiornò nel 1827, una città dove “tutto è bello, nulla è magnifico”. Ebbene, il film di Martone – dichiarazioni enfatiche e luoghi comuni dei recensori a parte – è magnifico. Le immagini, la poliedricità del personaggio, la ricostruzione storica, la recitazione eccellente ne fanno un’opera intensa, impegnativa. Al centro vi è la poesia, della quale tutto il film è permeato, come una creazione misteriosa – forse la più misteriosa dell’animo umano – che sembra scaturire, come la lava del Vesuvio nell’eruzione dell’ultima parte del film, dalla sofferenza e dall’infelicità.
“Sono un uomo infelice” dice Leopardi, quando fronteggia i critici “democratici” e liberali che gli hanno appena negato un premio letterario importante. Troppa malinconia, troppa infelicità, gli rimproverano. Si deve parlare di felicità delle masse, di cose positive. E lui ribatte: come possono essere le masse felici se sono composte da individui infelici? Sembra anticipare Antonio Gramsci, un altro grande intellettuale che per certi aspetti ricorda Leopardi, per gli stessi disturbi fisici, la scoliosi, la gibbosità, e la profonda depressione alla quale era soggetto. La rivoluzione, diceva Gramsci, è possibile solo a condizione che si crei un “uomo nuovo”. Il quale deve rivoluzionare anche se stesso, senza rifiutare l’umanesimo in nome dell’attività politica.
Gramsci, dal canto suo, reagiva alla propria condizione con l’attività politica totalizzante, col materialismo dell’estroversione, dell’impegno sociale. Leopardi invece ne era coinvolto come unione cosmica, ne era travolto. La costruzione dell’infelicità leopardiana, che potrebbe essere paragonata allo spleen del quasi contemporaneo Baudelaire, sembra scientifica, accurata, meticolosa, e risale alla giovinezza nella natale Recanati.

Leopardi3La prima parte del film è atroce. Il giovane Giacomo è prigioniero, ostaggio in una casa-sarcofago costruita in un paese-cimitero. La casa è popolata da spettri, o forse da demoni. Il ragazzo, taciturno, stravolto, è sempre chino sui tomi della enorme biblioteca del padre Monaldo, insieme al fratello e all’amata sorella Paolina. Fuori dalla finestra una vita sembra esistere, una vita popolare fatta di carretti, di cavalli, di grida. Una vita estranea, nel silenzio funebre della casa. Si è fatto un gran parlare, nelle recensioni, di Monaldo come di un padre “severo” ma che ama suo figlio, lo protegge. Insomma, tanto per non farsi mancare un po’ di buonismo all’italiana, una sorta di recupero della figura paterna. In realtà Monaldo è ben rappresentato per quello che è: un lugubre reazionario bigotto, che protegge e stima suo figlio solo se accetterà di trasformarsi in uno dei tetri abati letterati nerovestiti, cultori di una letteratura morta scritta da autori decrepiti (da loro stessi uccisi e mummificati). Lo ama e lo amerà solo se deciderà di rispettare la chiesa, la tradizione, la visione conservatrice antiliberale. E la madre è persino peggio: una mummia nera, “neversmiling”, punitiva, anaffettiva, minacciosa.
In questo contesto il giovane Giacomo non è un ribelle. E neanche un rivoluzionario. Si avvita nel suo destino, nella sua solitudine. Probabilmente sviluppa, o affretta, la propria malattia. Se vuole uscire dal sarcofago, lo fa chiedendo. Lo fa supplicando. Implora il padre, e il trucido, bigottissimo zio di lasciarlo andare. Di concederli la libertà. E avrà in cambio un rifiuto, mentre il coperchio del sarcofago sembra richiudersi, con una sinistra evocazione di E Johnny prese il fucile, di Dalton Trumbo.

Poi il film fa un salto temporale di dieci anni e ritroviamo Giacomo a Firenze, in compagnia dell’amico Ranieri. Dunque ce l’ha fatta a fuggire dalla tomba. L’uno scoppia di salute e di energia, passa da una nobildonna all’altra. Mentre Giacomo continua il suo cammino nell’aggravamento della malattia e sta a guardare. Sembra che viva la vita dell’amico, riflessa nella sua, come osservatore. In questa fase trova anche un po’ di spazio l’ironia leopardiana, a tratti graffiante, ma non vi è dubbio che una parte importante è occupata dai suoi infelici rapporti con le donne. Per dire, il soggiorno bolognese, del quale non c’è traccia nel film, è esemplare. Era innamorato perdutamente della contessa Malvezzi, che lo vezzeggiava, lo coccolava, probabilmente lo seduceva, finché il povero Giacomo, come probabilmente avrebbe fatto qualunque maschio al suo posto, non si dichiarò. Ottenendo in cambio un tremendo voltafaccia che lo scaraventò nella disperazione più nera, e nel rancore – giustificato? – verso la contessa. E qui come non ricordare la povera Janis Joplin, che ovunque andava era preceduta da una piccola corte di ancelle adoranti: poi “puntava” un ragazzo carino, perché, come Leopardi quando si confida col letterato Pietro Giordani, aveva solo bisogno d’amore, di calore, “di vita”. Ma il ragazzotto si appartava con una delle ancelle, sparivano insieme e Janis rimaneva sola, disperata, a smaltire la solitudine e la sconfitta con l’alcol e le lacrime.

Leopardi2Infine si va a Napoli, passando per Roma, con qualche frequentazione di salotti, storie d’amore di Ranieri con la contessa di turno, una città che sembra aliena, dove Giacomo trova da un lato allegria, amicizia, con quell’amore per i tipi del popolo che non può non ricordare l’attenzione di Proust per i “segni” popolari. Ma qui, a differenza della Ricerca, i “segni mondani”, così analizzati da Proust, così oggetto di sarcasmo, così futili, in Leopardi sembrano assenti. E’ tutto rivolto ai segni dell’arte, difficili da raggiungere in Proust, perché rappresentano il percorso finale, l’obiettivo di una vita di ricerca. Leopardi sembra puntare dritto a quelli, dichiarando più volte che detesta i salotti, che pure è “costretto” a frequentare, e la fama letteraria. E qui sono molto belle le recite poetiche di Elio Germano, che in effetti risulta l’attore forse più adatto in assoluto per questa parte. E Napoli diventa anche una discesa agli inferi. Emblematica la scena del bordello (potremmo definirlo “lupanare”), dove lo invia Ranieri per fargli finalmente conoscere l’amore carnale, dopo avere istruito a dovere le prostitute. Ma Giacomo, sempre più gobbo, e storto, viene crudelmente sfottuto e inseguito da un branco di scugnizzi e di “pulcinelli” che lo insultano e lo deridono, obbligandolo a fuggire.

Il “salto” è già avvenuto. Proprio come in Kafka. La malattia ha già preso il sopravvento, portando sofferenza, invalidità, ma anche una forma particolare di liberazione. A Kafka la malattia “serve” per allontanare certe prospettive di vita che giudica spaventose, come il matrimonio, la famiglia, la fine del celibato, l’unica condizione dove può realizzare la sua unica vocazione, la scrittura. Leopardi sembra subire questa condizione, perché vorrebbe una vita vera, ma non può. O non vuole? E’ costretto? E’ la condanna dei demoni neri che l’hanno rovinato nella mostruosa biblioteca tombale di famiglia? Questa potrebbe essere un oggetto di discussione infinita, anche con un’analisi dei testi. Ma non è questo il contesto. Abbiamo un Leopardi ormai totalmente invalido, che pur tuttavia riesce a camminare per la città devastata dal colera, osservando, esplorando, e la sua invalidità lo libera, per così dire, di una parte della sua sofferenza, come il rimpianto, il senso di esclusione, mentre la poesia avanza, occupa sempre più spazio, diventa ragione assoluta di vita.

Fino alla splendida, emozionante conclusione de La ginestra, il Fiore del Deserto, il suo penultimo poema, recitato magnificamente da Germano alle pendici del Vesuvio, durante il soggiorno finale di Torre del Greco, nel 1836:

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

]]>