Mario Draghi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Se non son dittatori buoni non li vogliamo (e Giulio Regeni?) https://www.carmillaonline.com/2022/08/29/se-non-son-dittatori-buoni-non-li-vogliamo-e-giulio-regeni/ Mon, 29 Aug 2022 21:55:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73821 di Francisco Soriano

In questi giorni convulsi l’establishment politico italiano, ai suoi più alti livelli, sta cercando di fronteggiare la più grave crisi energetica degli ultimi anni, soprattutto per gli eventi bellici scatenati in Europa da Putin. Qualche mese fa prima del conflitto bellico in corso, il premier italiano Mario Draghi definiva, più o meno, Recep Tayyip Erdoğan come “un dittatore con il quale si è obbligati ad avere relazioni”. Questa affermazione era stata determinata dell’atteggiamento scortese di quest’ultimo nei confronti di Ursula von der Leyen, in visita nella capitale turca, interpretato [...]]]> di Francisco Soriano


In questi giorni convulsi l’establishment politico italiano, ai suoi più alti livelli, sta cercando di fronteggiare la più grave crisi energetica degli ultimi anni, soprattutto per gli eventi bellici scatenati in Europa da Putin. Qualche mese fa prima del conflitto bellico in corso, il premier italiano Mario Draghi definiva, più o meno, Recep Tayyip Erdoğan come “un dittatore con il quale si è obbligati ad avere relazioni”. Questa affermazione era stata determinata dell’atteggiamento scortese di quest’ultimo nei confronti di Ursula von der Leyen, in visita nella capitale turca, interpretato “legittimamente” come lesivo nei confronti delle donne. L’incidente capitato alla leader europea era stato presto definito come “sofagate” e, la difesa di Draghi, aveva determinato una crisi diplomatica fra l’Italia e la Turchia con tanto di convocazione dell’ambasciatore italiano ad Ankara. La presa di posizione di Draghi aveva sorpreso per la durezza e, senza dubbio alcuno, ci aveva fatto percepire quanto il leader italiano concepisca l’ipocrisia “in politica” come un dato effettivamente accettabile e ampiamente elaborabile. Una affermazione, la sua, che ci confermava la sua impostazione tecnocratica e utilitaristica nell’affrontare le questioni.

 

Dire che, “in qualche modo”, si deve e si può avere a che fare con un dittatore, definisce bene il perimetro delle relazioni immaginate dal primo ministro italiano. Infatti, l’affermazione non significava affatto superare l’ipocrisia tipica e comunemente accettata in politica internazionale fra stati, come invece la maggioranza della popolazione aveva immaginato ma, in un certo senso, la sdoganava alla luce del sole. Qualche italiota, con scarse conoscenze geopolitiche e una certa inclinazione a una non meglio definita revanche sciovinista, aveva salutato la frase di Draghi come (finalmente), una coraggiosa presa di posizione da parte di un vero leader, forte e inflessibile all’arroganza dell’altro, il nemico necessario, questo sì, su cui far ricadere il proprio frustrante sentimento di impotenza da provinciale nazionalista. La stretta di mano fra Mario Draghi e Recep Tayyip Erdoğan di qualche giorno fa, invece, definisce il perimetro in cui si muovono i nostri leader politici, interessati agli affari, alle buone relazioni, all’accettazione neppure silente che la violenza e la prevaricazione dei dittatori sui dissidenti e sulle persone che esprimono diversità e dissenso possono essere serenamente comprese e taciute. Che male ci sarebbe, si direbbe, in vista delle gravi difficoltà nell’approvvigionamento di risorse e nella necessità prevalente di fare degli inverni al caldo, di calmierare i prezzi dei combustibili, di frenare l’inflazione sui beni di prima necessità e quant’altro? In fondo, dicevano i nostri padri, pecunia non olet!

 

La questione risiede però, in questo caso, nella totale asimmetria delle posizioni nei confronti di chi perpetra violenza e persecuzione in una dimensione tipica dei regimi dittatoriali seppur in sistemi “generalmente democratici”. Il giudizio nei loro confronti è negativo in alcuni casi, in determinati periodi storici, in certe aree del pianeta e in riferimento ad alcuni leader autoritari; al contrario, in altri casi, l’opinione torna ad essere assolutamente positiva, certi comportamenti da condannare vengono sorprendentemente accettati e, il giudizio sui protagonisti dei misfatti, derubricato alla “necessità” e “pragmaticità” della politica e dell’economia. Infatti, Draghi era stato chiaro non per amor patrio ma, perché il nostro leader, per struttura ed attitudini ha sempre molto a cuore le questioni finanziarie ed economiche delle quali si è spesso trovato a fronteggiare nei vari ruoli che ha ricoperto a livello internazionale. E questo si nota evidentemente in Italia, dove la sua visione politica liberista, decisamente riscontrabile nei suoi atteggiamenti di approvazione ai modelli sociali ed economici statunitensi, provoca e incrementa sacche di povertà, disagio sociale, aumento delle diseguaglianze, arricchimento sempre maggiore di alcune categorie di cittadini senza che nessuno si permetta, se non timidamente, di criticare la deriva sociale alla quale andiamo incontro. Una situazione in totale simmetria con l’ipocrisia atavica ben radicata nel nostro Paese che, nelle sue fasi storiche spesso convulse, ha dato prova di insensibilità alle questioni sociali e alle richieste degli ultimi.

 

Per ritornare alla dialettica sui “dittatori” (seppur capi di stato in Paesi dove esistono “strutture democratiche elettive”) e alla politica internazionale italiana, la polemica si è scatenata, ad esempio, più o meno consapevolmente in alcuni passaggi dopo le dichiarazioni di Joe Biden nei confronti di Vladimir Putin. Si è compreso e percepito dai vari esperti commentatori (così come la guida statunitense solare e intangibile nella sua sacrale aurea democratica impone), che esistono dei dittatori assetati di sangue, assassini, invasori, dei killer assoldati per uccidere oppositori e scienziati, dei leader autoritari che ordinano di torturare e bastonare (è successo al nostro Giulio Regeni) e, altri, che sarebbero colpevoli delle stesse mostruosità, ma in “forme e condizioni accettabili”. Nel conflitto fra Russia e Ucraina, ad esempio, non vengono considerate (molto raramente da analisti subito tacciati di “putinismo”) le ragioni della deriva bellica che risiedono nei comportamenti assolutamente coincidenti e con una stessa fonte comune costruita sull’intolleranza, l’appropriazione e lo sfruttamento delle persone e dei territori, la mancanza di rispetto verso gli accordi e il disconoscimento dei diritti umani e del dissenso di giornalisti, partiti e sindacati. Una seria e serena lettura della storia dei due Paesi, dagli accordi di Minsk a oggi, aiuterebbe invece a capire cosa stia succedendo, considerando anche la non trascurabile pressione militare della NATO su un Paese con un complesso di accerchiamento abbastanza tangibile. Questa mia considerazione si basa sui comportamenti e sulle prese di posizione dei nostri leader e rappresentanti politici, in vari contesti internazionali e pubblici, nei confronti dei dittatori d’Egitto, della Turchia, del Mozambico, dell’Algeria, dell’Arabia Saudita, dell’Iran e di altri innominabili Paesi con strutture autoritarie (ripeto, democratiche solo sulla carta) e immorali con i quali non si dovrebbero avere neppure relazioni telefoniche. Sono, in definitiva, dittatori “ragionevoli” con i quali si possono avere relazioni commerciali e diplomatiche.

 

Il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un percorso politico connotato, da sempre, da sobrietà e senso delle istituzioni, ha tradito la sua inviolabile intangibilità politica, probabilmente per “ragioni di Stato”, per ragioni necessarie e “davvero ineludibili”. É volato in Mozambico al fine di esaudire il fabbisogno di gas della nostra nazione, cercando personalmente di stabilire relazioni commerciali. Il concetto e il sacrificio sono chiari. Tuttavia, ricordare che cosa sia questo Paese, è forse doveroso. Un sacerdote portoghese e non un pericoloso rivoluzionario comunista, padre Ricardo Marques, ha definito qualche tempo fa sulla stampa nostrana la situazione sociale e politica del Mozambico: famiglie spezzate, persone scomparse (in migliaia), tortura come sistema e strumento di deterrenza contro i dissidenti, uomini e donne giustiziati per strada e sgozzati. Inoltre, il parroco quantifica con numeri catastrofici, la deriva “dittatoriale” del Mozambico: “più di 3.000 morti ed oltre 800.000 sfollati in tutta la provincia del nord del Paese negli ultimi sei mesi” in cui, “la maggioranza della popolazione si rifugia nella boscaglia, fuggendo da morte certa; inoltre ci sono persone che non sanno dove si trovino i loro parenti, se sono ancora vivi o morti”. Combattimenti continui, traffici di armi e di altro imperversano nel Paese fra gruppi di miliziani, fra i quali i jihadisti di al-Shabaab e civili, che fuggono da un luogo all’altro. Dalla città costiera di Palma sono stati costretti alla fuga 11.000 civili e molti sono rimasti intrappolati e giustiziati in città. Inutile affermare che la maggioranza dei fuggitivi sono donne e bambini, arrivati a Nangade, Mueda e Montepuez in vari momenti e a più riprese: “Non conosciamo le motivazioni di quello che sta succedendo” dice ancora il missionario che, aggiunge, “con l’escalation della violenza si stanno riaccendendo vecchi rancori. Non possiamo far cadere quanto sta avvenendo in questa parte di mondo nell’oblio. È necessario un intervento urgente, prima che sia troppo tardi. Mi appello, quindi, a tutte le autorità e alle persone di buona volontà, affinché si trovi presto una soluzione che metta fine a questa guerra devastante”. Gli appelli sono chiaramente caduti nel vuoto e gli unici a prestare soccorso e aiuto sono sacerdoti e suore cattoliche che vivono da anni in Mozambico. Continuare la narrazione della devastazione in questo inferno terrestre sembra essere quasi impossibile per orrore e dolore.

 

Mario Draghi si è invece recato in Turchia. Una stretta di mano al califfo fotografata e ben mostrata in tutto il mondo, soprattutto per le polemiche di mesi fa, scatenate dal succitato “caso” von der Leyen/dittatore necessario. Anche in questo caso bisognerà ricordare che cosa rappresenti la Turchia, in pieno Mediterraneo, agli occhi del democratico occidente. Un Paese che intende far parte, a pieno titolo, della nostra Comunità europea ed è membro della NATO. Recep Tayyip Erdoğan è uno dei leader più improponibili al mondo per aver favorito e rafforzato nel proprio Paese la più massiccia e sistemica violazione dei diritti umani.  Migliaia di morti e deportati dopo il tentato golpe, una buona scusa per liberarsi di tutti i dissidenti una volta per tutte, affamando le famiglie dei “sovversivi”. Sotto il suo governo di matrice dittatoriale, con evidenti atteggiamenti di tipo califfale, si attenta continuamente alla vita di giornalisti e dissidenti politici, con la tortura si terrorizza la popolazione, praticata in tutte le carceri e luoghi di detenzione. Incredibilmente, disprezzando ogni più elementare principio giuridico, vengono arrestati i legali e i difensori nei processi penali eletti a difesa dei propri imputati. Il sultano turco lede, viola e non tiene in alcun conto le norme internazionali in merito al rispetto delle etnie, delle comunità minoritarie e linguistiche, perseguitando con le proprie milizie e l’esercito, il popolo e i territori curdi, che bombardano, massacrano, uccidono su mandato, stuprando le donne e deportando i maschi, non disdegnando l’invasione di spazi oltre confine come è spesso capitato con la Siria. Anche in questo caso ricordare i casi di morti in carcere per lo sciopero della fame, prigionieri dissidenti alcuni dei quali componenti di gruppi musicali e giornalisti, è emblematico e spiega bene il clima di violenza nel Paese.

 

La politica estera italiana dai primi anni novanta del secolo scorso è stata connotata da gravissime e ignobili posizioni: noi, sempre dalla parte dei più forti e contro le popolazioni e gli stati in chiaro affanno e bisogno. Avremmo preferito che un leader come Draghi fosse stato finalmente in grado di reggere un comportamento abbastanza lineare nei confronti delle gravi intromissioni, centinaia, degli Stati Uniti d’America nello scacchiere internazionale. Ad esempio, sulla guerra per procura in Ucraina, fra Usa e Russia, silenzio assordante. I crimini commessi dagli americani sono stati spesso elencati e narrati, le derive umanitarie provocate dagli USA in Medioriente sono sotto gli occhi di tutti. Le posizioni imperialistiche al fine di procacciare risorse e commerciare in armi hanno una evidenza cristallina. Per non parlare delle violazioni dei diritti umani nel proprio territorio, che avvengono all’ordine del giorno: uccisioni indiscriminate degli afroamericani, tendenze di arianesimo nazista di alcuni estremisti e derive golpiste come la presa di Capitol Hill; poi le leggi che cancellano la possibilità alle donne di interrompere la gravidanza, le limitazioni al diritto di ospitare derelitti che spingono ai confini, le esecuzioni in base alla legge sulla pena di morte, le giurisdizioni speciali dove viene consentita la tortura “legale” come nel caso delle carceri di Guantanamo, sono solo alcune delle “distorsioni democratiche” di questo Paese.

 

La politica estera del nostro Paese non si è mai distinta per coraggio. Vari e molteplici i governi capeggiati da Silvio Berlusconi e i suoi sodali che, ad esempio, orchestrava ricevimenti in favore dei dittatori buoni: si ricordano ancora quelli adornati da giovani donne con in braccio il corano, in chador e minigonna, pagate per rendere onore allo sceicco Muhammad Gheddafi in territorio italiano. E poi le barzellette e le pacche sulle spalle, gli affari e le foto ricordo con Vladimir Putin, quel leader che Joe Biden oggi definisce un macellaio. I populismi cominciarono proprio allora, ridefinendo il ruolo del Parlamento, sacro avamposto democratico, alla mercè degli spettacoli televisivi, divenuto presto uno spazio eletto rimpinguato da giullari e saltimbanchi, soubrette e amici di lusso, mortadelle e fiaschi di Chianti. Dopo la deriva culturale e antropologica insieme, ecco l’astro nascente: il populista Renzi, del quale pochi ricordano la sua dialettica a tratti violenta: “basta con i vecchi e i professionisti della politica”, quelli che siedono da sempre sugli scranni del Parlamento, richiamando a una doverosa dimissione in caso di “cambio-casacca”; e poi la “rottamazione”, come se si parlasse di frigoriferi o autovetture, ormai inutili, se non buoni in vista di una rivalutazione commerciale per il nuovo. Era il nuovo che avanzava e, se non fosse stato concesso il passo, diceva, “ci faremo da parte perché un mestiere noi ce l’abbiamo”. Sono tutti in stretta ed eroica resistenza sulle proprie postazioni di potere e guadagno. Ancora le invettive, poi, contro quelli che rubano, che scappano quando “fanno gli incidenti stradali”, e altre cose di questo genere che avrebbero influito negativamente sulla democrazia di questo Paese. Renzi non è sfuggito alla sua “grandezza” in politica estera, rendendosi davvero insuperabile, lui, fiorentino di Rignano, a dichiarare che il Rinascimento è ormai affare saudita, facendoci vergognare più che arrossire. Neanche si era finito di parlare del povero giornalista fatto a pezzi in un consolato e trasportato in sacchetti di plastica in Arabia Saudita. Per onore di cronaca molto spesso, con malcelata umiltà, Renzi ha sperato di essere nominato a capo della NATO, questa entità che ha tolto sovranità al nostro Paese, collocando sul nostro territorio missili nucleari di cui non possediamo i codici. Chapeau!

 

Oggi, invece, il Parlamento doveva diventare una scatoletta di tonno. Le parole per chi scrive hanno un valore superiore, probabilmente, a quello (il significato, l’etimo e infine il valore) che i parlanti (politici?) intendono dare, ma questo lessico esprime bene lo stato deteriore del Paese. Discretamente meglio, il linguaggio si è denotato per moderazione quando la narrazione voleva il Palazzo come “un cristallo”, così trasparente in cui tutto poteva essere visto: infatti lo spettacolo in termini di indecenza nei comportamenti dei rivoluzionari populisti ha superato ogni più fervida fantasia.

 

Noi però non dimentichiamo la storia di Giulio Regeni. I populisti non sono stati in grado di compiere nessun passo nei confronti dell’Egitto governato da un dittatore necessario. Non c’è riuscito nemmeno il tecnocrate, l’uomo della provvidenza. L’ennesimo: Mario Draghi.

 

Questo giovane intellettuale italiano è stato bastonato, torturato e ucciso, gettato come uno straccio in uno spiazzale fra i rifiuti di una autostrada. Questa è la verità. Non esistono altre discussioni, opinioni, idee, dialettiche. Noi vogliamo la Verità e la Giustizia per Giulio Regeni. Noi vogliamo che l’Italia interrompa i rapporti commerciali e diplomatici con l’Egitto, vogliamo che questi due Paesi non abbiamo più rapporti anche al prezzo di interrompere la circolazione delle persone per qualsiasi intento.

 

Noi i dittatori non li vogliamo, anche quelli necessari.

 

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Il nuovo disordine mondiale / 10: il biglietto che è esploso https://www.carmillaonline.com/2022/03/30/il-nuovo-disordine-mondiale-10-il-biglietto-che-e-esploso/ Wed, 30 Mar 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71203 di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 ) “Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022) “E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere. Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo [...]]]> di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 )
“Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022)
“E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere.
Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo di calcolo eseguito per stabilirlo, potenza economica mondiale; dall’altro le considerazioni di un funzionario importante del governo dell’esistente che indica le più che probabili conseguenze della situazione venutasi a creare con la crisi pandemica, prima, e lo scoppio della guerra in Ucraina, poi.

Sintomo, al di là delle squallide diatribe politiche interne, non soltanto di un paese privo ormai di qualsiasi strategia governativa che non sia quella di approfittare delle occasioni, ma anche di un’Europa, mai stata realmente unita dal punto di vista politico ed economico, ormai entrata, nonostante le pompose e sussiegose dichiarazioni che ne accompagnano ogni riunione, più o meno straordinaria, dei propri maggiori rappresentanti e ministri, in una fase di vistoso declino del proprio peso politico su scala internazionale.

La stessa insignificanza dei suoi due maggiori rappresentanti, Ursula von der Leyen e Charles Michel, rende evidente come un’entità politica nata con aspirazioni planetarie (si pensi soltanto all’istituzione dell’euro come possibile sostituto del dollaro e poi ridotto a strumento di controllo della riduzione della spesa pubblica interna di ogni singola nazione), l’Unione Europea, stia sostanzialmente sfiorendo senza aver portato a termine nessuno degli obiettivi immaginati all’atto della sua fondazione.
In un percorso ormai sempre più evidentemente disastroso in cui gli incitamenti, nemmeno troppo mascherati, al far da sé e al si salvi chi può sembrano aver sostituito, finanche nella sostanza, i precedenti appelli all’unità di intenti e di propositi.

Se il capitalismo, come si è già ribadito in infiniti altri interventi, è il regno delle possibilità e delle opportunità da afferrare, in cui la prontezza di riflessi è più importante di qualsiasi tentativo di programmazione e in cui la forza e la capacità di appropriarsi, in qualsiasi frangente, di ciò che il caso o la necessità mettono a disposizione del predatore più rapido, risultano determinanti per il successo sia nelle iniziative economiche che politiche, la situazione creatasi dopo l’inizio delle ostilità in Ucraina ha visto i maggiori paesi europei perdere terreno rispetto alle iniziative diplomatiche, militari ed economiche non soltanto degli Stati Uniti, ma anche di paesi come l’India, la Turchia, Israele e vari altri diversamente collocati sullo scacchiere mondiale1.

La riunione del Consiglio europeo tenutasi a Bruxelles, in occasione della visita del presidente Biden in Europa, ha messo perfettamente a fuoco la situazione di divisioni e differenti interessi che ormai segnano i percorsi e le politiche dei membri fondatori.
Così mentre l’obiettivo della difesa europea, di cui si vagheggia da anni, si scontra con le scarse risorse che le sarebbero messe a disposizione e un numero di soldati (5.000) francamente inappropriato alla bisogna, si nota con sempre maggior evidenza uno smarcamento della Germania dallo stesso progetto nel momento in cui il governo tedesco ha deciso una spesa di 100 miliardi di euro per favorire il riarmo nazionale.
Un riarmo che, come afferma il quotidiano «Handelsblatt» nel numero del 29 marzo 2022, richiederà:

Più munizioni, nuovi carri armati, aerei e navi da guerra – e ora anche uno scudo missilistico da miliardi di dollari: dopo il cancelliere federale Olaf Scholz (SPD), anche il leader della CDU Friedrich Merz ha segnalato l’approvazione per un possibile appalto del sistema israeliano “Arrow 3”, noto anche come “Iron Dome”.
Nel 2020, la grande coalizione aveva fermato lo sviluppo di una difesa missilistica tedesco-americana. Ma l’attacco russo all’Ucraina e la mancanza di prontezza operativa della Bundeswehr stanno ora cambiando le priorità. Gli acquisti devono essere effettuati in tutto il mondo dove i sistemi d’arma completamente sviluppati possono essere consegnati rapidamente.

Ciò si rende necessario, perché le capacità di molte aziende tedesche produttrici di armamenti sono già pienamente utilizzate, poiché, secondo la volontà espressa dalla Nato e dai paesi dell’UE, l’Ucraina dovrebbe essere rifornita di armi aggiuntive il più rapidamente possibile deviando le esportazioni di armi tedesche verso l’Ucraina per conto di paesi terzi.

Questo però non toglie dall’orizzonte la possibilità di un altro smarcamento che, nonostante le parole spese dal presidente di turno Macron, contraddistingue anche l’operato francese in ambito militare. E’ infatti impossibile credere che la Francia rinunci di punto in bianco ai sogni di autonoma grandeur che hanno sempre contraddistinto la sua politica militare e diplomatica. Confermata dalla condanna espressa da Macron nei confronti degli epiteti rivolti da Biden a Putin, durante il discorso tenuto a Varsavia, in vista della continuazione dei funambolismi diplomatico-umanitari francesi nel conflitto ucraino. Mentre il Regno Unito, oggi separato dall’UE a seguito della Brexit, continua allo stesso tempo il suo gioco diplomatico e militare nella regione baltica che, di sicuro, non può vedere di buon occhio il riarmo tedesco, soprattutto navale.

All’interno di tutti questi “giochi di guerra”, occorre ricordare che l’attivismo italiano, che ha spinto molti a considerare l’attuale capo del governo Draghi come un falco filo-americano, non fa altro che confermare lo spirito di vassallaggio che anima le politiche italiane fin dall’avvento della seconda repubblica, nata priva di quella relativa libertà di azione economica e diplomatica che aveva caratterizzato le politiche democristiane in ambito mediterraneo.
Un vassallaggio che tenta di approfittare dell’attuale situazione di necessità bellica per rilanciare su grande scala la produzione e l’esportazione di armamenti che, nel corso degli anni, ha visto scivolare l’Italia al settimo e al nono o decimo posto nella classifica mondiale dei produttori ed esportatori di armi.

Proposito oggi ancora virtuale se si considera che la cosiddetta “cittadella dell’industria degli armamenti” prevista a Torino, con tanto di uffici di rappresentanza Nato, è ancora ampiamente da realizzare, mentre nel settore aeronautico, così spesso pubblicizzato per quanto riguarda l’”eccellenza” italiana, per ora l’industria della difesa nazionale deve accontentarsi di funzionare come un’autentica “maquilladora” per il montaggio degli F-35 a Cameri. Aerei cui gli stessi Stati Uniti stanno iniziando a rinunciare in favore di altri armamenti più evoluti e sofisticati.

Propositi, però, che richiedono per ora il pieno sostegno alle iniziative statunitensi in Europa orientale e l’accoglimento di ogni richiesta di Zelensky, compresa magari anche quella di fornire truppe e impegno per garantire domani, sul territorio ucraino, l’integrità nazionale e l’autonomia difensiva del paese oggi investito dalla guerra. Davvero una gran brutta gatta da pelare, in prospettiva, qualsiasi siano i risultati del conflitto in corso.

Se sul fronte militare l’unità europea è una chimera, ancora di più lo è sul piano dei rifornimenti strategici di materie prime, in primo luogo di gas e petrolio, compresa la diatriba sul loro eventuale pagamento in rubli, come richiesto da Putin.
E’ proprio in questo settore, oggi delicatissimo vista la dipendenza europea dal gas e dal petrolio russo, che si è assistito infatti ad un’autentica corsa a far profitto da parte degli stati europei che hanno a disposizione tali risorse, come ad esempio la Norvegia che ha ignorato gli appelli di altri al fine di contenere i prezzi, oppure il differente approccio alla proposta americana, tutt’altro che disinteressata, di sostituire il gas russo con quello di produzione statunitense e di rinunciare al petrolio in arrivo dalla Russia per sostituirlo con altro la cui provenienza è ancora in gran parte da definire (considerato anche l’interesse di Arabia Saudita ed Emirati del Golfo a far affari con la Cina, magari in yuan).
Cosicché anche il tentativo maldestro di Giggino Di Maio di avvicinamento alle risorse del Qatar, si è risolto di fatto in un fallimento, diplomatico ed economico.

Sempre la Germania, evidentemente alla ricerca di una più libera e autonoma politica diplomatica ed economica, si è apertamente dichiarata contraria alla rinuncia totale e quasi immediata al petrolio russo e, al recente G4 convocato da Biden, addirittura favorevole a una riduzione progressiva delle sanzioni adottate nei confronti di Mosca (qui); mentre nel settore del gas si presenta ormai in diretta competizione con l’Italia proprio sul tema della caccia ai rigassificatori, o meglio nella corsa all’acquisto di quelle poche navi già disponibili ed attrezzate per convertire il gnl americano in gas utilizzabile in Europa. Cosa che, va ricordato, aumenterebbe mediamente del 30% il costo del gas rispetto a quello trasportato dalle linee provenienti dalla Russia.

E’ anche alla luce di questi elementi che andrebbe interpretata la svolta politico-diplomatica e militare sottesa alla visita e al discorso di “Sleepy Joe” Biden in Polonia. Discorso di un presidente anziano che riflette simbolicamente, nella sua persona, la stanchezza e le difficoltà di una grande potenza in declino che può ancora minacciare, ma non più affascinare o convincere. Svolta che si potrebbe definire storica se non fosse per l’attenzione che i media embedded hanno rivolto più agli insulti di Biden al presidente russo che non ai fatti che quel discorso e quella comparsata rappresentavano di fatto, ovvero il radicale riposizionamento militare americano nell’Europa dell’Est.

Gli osservatori più attenti da tempo segnalavano che l’ingresso nella Nato dei paesi dell’Europa Orientale un tempo appartenenti al Patto di Varsavia e il loro progressivo inserimento dell’Unione Europea rappresentavano per la politica di Washington non soltanto la costruzione di un muro ostile nei confronti di qualsiasi manovra russa verso occidente, ma anche, e forse soprattutto, un modo per imbrogliare le carte dei giochi di un’Unione più strettamente federata, sotto l’egida tedesca e forse anche francese, per impedirle di assurgere a ruolo di potenza autonoma sul piano internazionale.

Già nel settembre del 2015, chi scrive aveva affermato, proprio su «Carmilla», a proposito delle diatribe sull’accoglienza e sulle quote dei migranti da distribuire tra i differenti paesi europei:

quello a cui stiamo assistendo, con buona pace delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III conflitto mondiale di cui da tempo vado scrivendo.
La gestione del problema migratorio di centinaia di migliaia di profughi, esattamente come quello del possibile default o meno della Grecia, non risponde infatti a categorie di ordine morale o umanitario e, tanto meno, a quelle di carattere sociale o del pubblico bene. Risponde però, nel precipitare di una crisi economica, geopolitica e militare sempre più vasta a livello mondiale, alla domanda su chi debba comandare in Europa ovvero in una delle aree del globo con la più alta concentrazione di ricchezza accumulata e su come tale ricchezza accumulata debba essere investita e ricollocata all’interno della competizione inter-imperialista mondiale.
Al centro di questa domanda, e delle risposte che ne conseguiranno, non vi è l’interesse dei “popoli”, ma lo scontro tra due modelli diversi di sviluppo capitalistico: da un lato quello anglo-americano e dall’altro quello germanico. Modello quest’ultimo che già ha guidato due volte la Germania, nel coso del XX secolo a cercare di istituire un vasto territorio “vitale” per i propri interessi economici ed industriali che si estendeva e si estende, idealmente, dall’Atlantico al Volga e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Un autentico lebensraum che, se nel corso del secolo passato ha assunto la forma dell’occupazione militare vera e propria, oggi cerca di manifestarsi principalmente attraverso il disciplinamento di ogni attività economica, finanziaria ed amministrativa, così come della forza lavoro, europea.
[…] l’attuale costruzione di muri e la susseguente chiusura delle frontiere, così come il braccio di ferro sulle quote, non possono preludere che ad altre guerre per ridefinire il comando capitalistico su economie, territori ed esseri umani, migranti e non. Anche qui, nel cuore dell’Europa. E il gran rifiuto opposto a Bruxelles dallo schieramento dei paesi dell’Europa dell’Est alle proposte di Jean Claude Juncker non costituisce soltanto un episodio di calcolo politico elettoralistico ispirato dal populismo e dal razzismo, ma un ulteriore passo in quella direzione (qui ).

Così, mentre nuove folle di migranti e profughi si accalcano alle frontiere d’Europa e gli amministratori dell’esistente si appellano, come Mario Draghi, al buon cuore dei propri cittadini per far dimenticare loro che in un prossimo futuro si potrebbero trovare in una situazione simile o peggiore, spostando l’attenzione mediatica da ciò che è essenziale a ciò che più facilmente colpisce le coscienze individuali, tutto quello che all’epoca si poteva già intuire, oggi si è trasformato in tragica realtà quotidiana.

Biden, a Varsavia, ha promosso, con parole comunque sempre calibrate sull’obiettivo, la Polonia a “nuova frontiera” della Nato e delle attenzioni americane per un’Europa non più a sola conduzione germanica; scegliendo di fatto un paese in cui l’orgoglio nazionale e nazionalista ha sempre determinato sia l’inimicizia con la Russia che una scarsa simpatia nei confronti della Germania. Nazioni viste entrambe come nemiche o, perlomeno, avverse per i propri interessi territoriali. Paese, la Polonia, che però non ha mai rinunciato a mire espansionistiche verso est, sia in nome dei territori da cui è stata separata dopo la prima e la seconda guerra mondiale, compensati con territori un tempo appartenenti alla Germania, che di altre ben più antiche aspirazioni, risalenti fino al periodo a cavallo tra tardo medioevo e prima età moderna, di cui è rimasta traccia anche nella cultura letteraria russa attraverso le pagine del Taras Bulba di Nikolaj Gogol’, ambientato per l’appunto nel XVI secolo.

Rispolverando, in sostanza, il progetto politico Intermarium, esposto fin dagli anni Venti dal polacco generale (e dittatore) Józef Piłsudski, «volto a creare un blocco di paesi che andava dal Mar Baltico al Mar Nero, nel tentativo di contenimento delle due forze imperialiste: tedesca a occidente e russa ad oriente»2. Strada già perseguita da Donald Trump che, nel luglio del 2017, partecipò al Vertice Trimarium di Varsavia.

Con il consenso degli apparati strategici statunitensi, dove alcuni immaginano di chiudere il cerchio del Mar Nero, includendo nel blocco deputato ad allargare la distanza fra Mosca e Berlino persino ciò che resta della Moldova, Ucraina e Georgia, così conferendo al Trimarium un retrosapore antiturco. […] Nei laboratori dell’intelligence statunitense circola il possente volume dello storico polacco-americano Marek Jan Chodakiewicz sull’Intermarium. Per l’autore, concezione di origini medievali, quando lo spazio dei Tre Mari3 «era solido difensore della civiltà occidentale» contro i mongoli. Oggi «culturalmente e ideologicamente più che compatibile con gli interessi nazionali americani». Non basta: Chodakiewicz designa la «cultura politica americana erede della libertà e dei diritti derivati dalla tradizione del Commonwealth Polacco-Lituano-Ruteno». E invita gli Stati Uniti a usare l’Intermarium/Trimarium da “trampolino” per trattare” tutti i paesi ex-sovietici, «Federazione Russa inclusa». L’«impero» polacco come devastante braccio regionale della potenza a stelle e strisce?4

Polonia, che potrebbe diventare sede di una prossima e potente base Nato, che a sua volta potrebbe esplicitare la posizione e la vicinanza delle forze armate statunitensi nei confronti sia dell’orso russo che di un’eventuale riottosità germanica (economica, diplomatica, militare e quindi geopolitica) futura. Raccogliendo attorno a sé tutte quelle aree in cui la Germania primeggia ancora
come primo partner commerciale5 e rafforzando la posizione polacca all’interno del Gruppo di Visegrád e nei confronti dell’Ungheria, fino ad ora contraria alle sanzioni verso la Russia e che ha fino ad ora impedito sul suo territorio il passaggio di armi occidentali destinate agli ucraini.

A questa scelta americana di sviluppare una maggiore influenza politica e presenza militare nei paesi dell’est europeo, a partire dalla Polonia letteralmente incoronata come genuina paladina dei diritti e delle libertà occidentali in quella stessa area, va affiancata la decisione della presidenza statunitense di incrementare ulteriormente la spesa militare per l’anno a venire, portandola alla cifra complessiva di 813,3 miliardi di dollari. Tale previsione di spesa, se promulgata, potrebbe essere la più grande di sempre nell’ambito della “difesa”.
Con una manovra che è stata definita, sia in patria che in Europa, come un’autentica manovra economica di guerra. «E’ un budget di guerra in tempi di pace – almeno sul suolo statunitense – quello che la Casa Bianca ha proposto ieri inviando numeri e tabelle, progetti e richieste al Congresso. La cifra totale del bilancio americano per l’anno fiscale 2023 è di 5800 miliardi di dollari. Ed è la voce sicurezza nazionale a prendersi la fetta più consistente dei fondi. Per la macchina della difesa Usa, la Casa Bianca chiede 813,3 miliardi di dollari, un incremento del 4% rispetto allo scorso anno: di questi 773 sono destinati al Pentagono»6.

Ma, com’è facile immaginare, non è soltanto la necessità di rispondere “energicamente” all’azione di Putin in Ucraina a giustificare l’aumentata richiesta di fondi.

La finanziaria, come ha detto Kathleen Hicks, numero due del Pentagono, «tiene a mente l’Ucraina», ma non si ferma nel cuore dell’Europa. Ha riassunto con efficacia la visione Usa, il capo della divisione finanziaria del Pentagono, Michael J. McCord: «La minaccia russa è molto acuta, ma la priorità è contrastare le ambizioni della Cina nel Pacifico».
Biden ha proposto «uno dei più grandi investimenti nella storia, con fondi necessari per garantire che l’esercito Usa resti il meglio preparato, addestrato ed equipaggiato al mondo». Non si tratta solo di conservare, ma di innovare: infatti una fetta record dei soldi – 131 miliardi- andrà alla ricerca e sviluppo per nuove armi. Al Pentagono sono rimasti impressionati dai passi in avanti che russi e cinesi hanno fatto sui missili ipersonici, mentre i test Usa recenti in tale settore non sono stati un successo.
[…] La lista delle priorità disegna il futuro delle forze armate Usa: detto dei maggiori investimenti in armi sofisticate e della rinuncia a 24 F-35, Washington ha individuato nella costruzione di nuove fregate e navi, nel sistema missilistico e nelle armi spaziali i mezzi per monitorare e intimidire la Cina. […] Washington allarga il campo di azione del futuro, ma già oggi resta impegnata su più fronti. Il contenimento russo ha nella missione iniziata in marzo 8000 uomini in Alaska uno dei capisaldi Usa, mentre sono iniziate le esercitazioni con l’esercito filippino nell’Estremo oriente: ci sono 9mila uomini, truppe anfibie, aviazione e mezzi navali. Avvertimento questo alle ambizioni cinesi su Taiwan7.

Se si osserva che per finanziare tale budget il presidente Biden si è dichiarato favorevole ad un aumento delle tasse sui patrimoni dei più ricchi (fino al 20% per quelli superiori ai 100 milioni di dollari) e, allo stesso tempo, ad una riduzione delle richieste a favore della spesa sociale8, si capirà che ci si trova davvero davanti ad un’autentica manovra “da guerra”.
Nel riportare tutto ciò, non vi è alcun narcisismo geopolitico o economicistico, quanto piuttosto la necessità, come già sottolineato altre volte, di segnalare l’imminenza di una guerra allargata cui il principale imperialismo si va preparando da tempo, soprattutto dopo il ritiro tutt’altro che elegante e vittorioso dallo scenario afghano.

Chi, oggi, si accontentasse ancora dei risultati che potrebbero essere conseguiti dalle trattative in corso tra russi e ucraini, oppure della fin troppo sbandierata data del 9 maggio per vedere un segnale di ritorno alla normalità e di scampato pericolo, commetterebbe un grave errore. Abbassando ancora una volta la guardia nei confronti degli avversari, che sono tanti ad Est come a Ovest.
La rapacità capitalistica e imperiale di cui le maggiori forze in campo sono espressione non darà più tregua, procedendo di vittoria in vittoria o di sconfitta in sconfitta verso la catastrofe finale destinata a ristabilire il vecchio ordine occidentale oppure uno nuovo9 su scala planetaria, ma che difficilmente potrebbe prevedere ancora l’attuale multipolarismo, dovuto più al processo di invecchiamento dell’ordine americano che ad una scelta ben precisa e ponderata.

Ad anticipare i disastri che verranno, soprattutto per i lavoratori e la gente comune di tutto il mondo, ci hanno pensato non soltanto le dichiarazioni del governatore della Banca d’Italia posta in esergo a questo intervento, ma anche il «Financial Times» del 29 marzo, con un editoriale intitolato I britannici affrontano uno “shock storico” per i loro redditi, avverte il governatore della BoE, in cui il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, afferma che l’invasione russa dell’Ucraina esacerberà la crisi del costo della vita nel Regno Unito.

Bailey ha detto che i britannici stanno affrontando uno “shock molto grande per aggregare entrate e spese reali” dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni importati. E, a un evento organizzato dal think-tank Bruegel, a Bruxelles, ha ancor affermato: “Questo è davvero uno shock storico per i redditi reali”. Bailey ha detto che l’invasione russa dell’Ucraina ha esacerbato lo shock dell’approvvigionamento energetico, aggiungendo: “Lo shock dei prezzi dell’energia quest’anno sarà più grande di qualsiasi singolo anno dal 1970. L’avvertenza è che gli anni 1970 hanno avuto una successione di anni difficili e speriamo vivamente che non sia il caso ora. Ma come singolo anno, questo è uno shock molto, molto grande”. L’inflazione del Regno Unito è salita vertiginosamente durante gli anni 1970 dopo che i membri arabi dell’Opec, il cartello dei produttori di petrolio, hanno imposto un embargo sul greggio ai paesi che avevano sostenuto Israele nella guerra dello Yom Kippur. Bailey ha detto che il Regno Unito e l’eurozona stanno affrontando uno shock energetico simile, perché entrambi si affidano allo stesso mercato del gas, aggiungendo che è diverso per gli Stati Uniti a causa della loro maggiore offerta interna. […] La scorsa settimana, l’Office for Budget Responsibility, il cane da guardia fiscale della Gran Bretagna, ha previsto che il reddito reale delle famiglie britanniche quest’anno si contrarrà nel modo più grave da quando sono iniziate le registrazioni nel 1950. Bailey ha dichiarato: “Ci aspettiamo che causi la crescita e il rallentamento della domanda. Stiamo iniziando a vederne la prova sia nei sondaggi tra i consumatori che in quelli aziendali”.
[…] Nel frattempo il cancelliere Rishi Sunak ha detto al comitato ristretto del Tesoro della Camera dei Comuni di essere determinato a frenare l’indebitamento e la spesa pubblica, temendo che una politica fiscale più accomodante potesse alimentare ulteriormente l’inflazione. Sunak ha detto che un aumento di un punto percentuale dell’inflazione e dei tassi di interesse potrebbe “spazzare via” il margine di manovra che aveva incorporato nei suoi piani fiscali e di spesa in vista delle prossime elezioni10.

Facendo così pensare che i 100 milioni di nuovi poveri di cui ha parlato Visco, potrebbero essere non soltanto nei paesi “già” poveri ma anche, e forse soprattutto, qui, nel cuore dell’impero, fortemente provato dalla pandemia e dai suoi effetti economici, dove il biglietto che molti avevano creduto di acquistare per un viaggio in prima, o al massimo in seconda classe, è letteralmente esploso tra le mani degli acquirenti. Annullandolo insieme ai privilegi che si pensavano “acquisiti” e alla stessa destinazione immaginata. Trasformando la prevista trasferta verso una qualsiasi Disneyland dell’immaginario occidentale in un’autentica discesa negli inferi novecenteschi, tra i demoni che li abitano e che non sono mai del tutto scomparsi.

Mentre soltanto noi, se saremo conseguenti una volta acquisita la coscienza del fatto che ogni guerra ha anche sempre un suo fronte interno, che non segue linee verticali di divisione tra le nazioni ma soltanto orizzontali tra le classi, potremmo decidere come dirottare questo treno degli orrori verso una nuova e imprevista destinazione.

(10 – continua)


  1. Su questi ultimi si veda qui  

  2. Si veda in proposito: Le teorie geopolitiche di Pilsudsky per l’Europa centro-orientale: prometeismo e Intermarium, in Giorgio Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci editore, Roma 2021, pp. 210-217  

  3. Mediterraneo, Baltico e Mar Nero  

  4. Meglio un muro che la guerra, in Trimarium tra Russia e Germania, «Limes» n° 12/2017, p.23  

  5. Nell’ordine, la Germania rappresenta il 29,6% del commercio totale della Slovacchia; il 29,4% di quello della Repubblica Ceca; il 27,5% di quello polacco; il 27% dell’Ungheria; circa il 18% di quello sloveno e ancora il primo partner per la Croazia, la Bosnia Erzegovina e la Bulgaria  

  6. Alberto Simoni, Biden, manovra di guerra. “Per la difesa 813 miliardi”, «La Stampa», 29 marzo 2022  

  7. A. Simoni, cit.  

  8. Biden’s Budget Calls for Increase in Defense Spending, «Wall Street Journal», March 29, 2022  

  9. Come il recente incontro tra i rappresentanti di India e Cina, proprio nei giorni in cui Biden era in Europa, potrebbe far pensare, visti i gravi screzi che hanno caratterizzato da anni i rapporti tra le due potenze asiatiche  

  10. Valentina Romei-George Parker, Britons face ‘historic shock’ to their incomes, BoE governor warns, «Financial Times», 29 marzo 2022  

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Il nuovo disordine mondiale /3: i discorsi della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/03/02/il-nuovo-disordine-mondiale-3-i-discorsi-della-guerra/ Wed, 02 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70714 di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse [...]]]> di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse che hanno premiato le industrie produttrici di armi o collegate al settore degli armamenti e, infine, sulle ritorsioni di carattere economico adottate dall’Occidente nei confronti della Russia putiniana e delle loro possibili conseguenze sul piano interno russo e su quello militare, guerra nucleare compresa. Compreso, last but not least, un sintetico commento sul linguaggio di guerra dei media di ogni parte coinvolta e di quelli occidentali in particolare.

Linguaggio, propaganda e guerra sono assolutamente indivisibili poiché mentre le esigenze dell’ultima rimodulano obbligatoriamente i primi due elementi, questi, a loro volta, foraggiano e rivitalizzano in continuazione la stessa. In un girotondo in cui i termini tecnici perdono il loro reale significato, distorto a scopo propagandistico, e l’emozionalità sostituisce la razionalità di qualsiasi discorso inerente ai fatti reali. In cui la costante denigrazione e demonizzazione del “nemico” avviene in un contesto in cui, come già affermava Hannah Arendt ai tempi della guerra in Vietnam e dei Pentagon Papers, la “politica della menzogna” è destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale1.

Iniziamo, quindi, da ciò che con sempre maggior frequenza viene presentato come uno degli elementi certi del fallimento di Putin in Ucraina: la guerra lampo. Dopo sei giorni di guerra infatti, al di là della girandola di cifre, spesso iperboliche, sulle perdite e i danni subiti dai russi, ma molto più “contenute” per quanto riguarda quelle subite dalle forze ucraine, si sentono e si leggono sempre più spesso, ma lo si sentiva già dopo due o tre giorni, affermazioni riguardanti il fallimento militare russo nell’ambito della guerra lampo. Bene, cotali esperti e cronisti dimenticano due o tre cosucce riguardanti la stessa, sia sul piano storico che tecnico.

L’esempio classico di Blitzkrieg è sicuramente quello dell’occupazione tedesca della Francia nella primavera del 1940. Quell’operazione, che costituì l’esemplare applicazione dei metodi appresi dagli ufficiali tedeschi, durante la collaborazione tra Germania nazista e Russia staliniana dopo il patto Ribbentrop-Molotov del 1939, alla scuola di guerra sovietica e da generali innovativi come Michail Nikolaevič Tuchačevskij (poi eliminato durante le grandi purghe staliniste del 1937), iniziò il 10 maggio 1940 e raggiunse il proprio risultato, occupazione del territorio francese a seguito della capitolazione del governo e delle armate schierate sullo stesso, il 22 giugno dello stesso anno.

All’incirca 45 giorni di quella che fu definita la guerra strana, balorda se non addirittura “buffa” (drôle in francese) per assumere il pieno controllo di un territorio appena un po’ più grande di quello ucraino attuale2. Durante la quale le colonne corazzate e meccanizzate tedesche si rifornivano direttamente ai distributori di carburante incontrati e sequestrati sul loro cammino, mentre le truppe britanniche venivano costrette ad evacuare rapidamente e disordinatamente le spiagge di Dunkerque tra il 27 maggio e il 2 giugno.

Vanno sottolineati questi aspetti perché alcune fonti di informazione mainstream hanno sottolineato come i mezzi russi abbiano “razziato” i distributori di carburante ucraini, scandalizzandosene. Mentre il vero scandalo, per l’occhio attento di chi un po’ di storia militare l’ha studiata, è dato dal diffondere l’idea che una guerra lampo possa durare 48 o 72 oppure 150 ore. Fatto ancora più scandaloso se si considera che le stesse fonti hanno appoggiato incondizionatamente guerre come quelle in Iraq e in Afghanistan dover gli occidentali e la Nato sono rimasti impantanati per vent’anni senza ottenere alcun risultato se non la distruzione di economie, Stati e di un numero esorbitante di vite umane, soprattutto civili.

Diffondere, dunque, l’idea di un fallimento della guerra lampo russa a nemmeno due settimane dall’inizio costituisce per questo motivo soltanto un elemento propagandistico ad uso degli spettatori e lettori occidentali per tranquillizzarli sulle possibili conseguenze e i possibili sviluppi di una guerra appena iniziata. Così come l’insistere sulle difficoltà dell’avanzata russa significa nascondere il fatto che, dal punto di vista della dottrina militare russa, un avanzamento di 30-35 chilometri al giorno costituisce di per sé un fattore di successo, mentre nei primi giorni del conflitto le truppe russe hanno, in diversi casi, ampiamente superato le distanze effettivamente percorse. Senza dimenticare, infine, che l’intensificazione dei bombardamenti sulle reti di comunicazione e gli obiettivi sensibili distribuiti sul territorio ucraino potrebbero indicare che la “vera guerra” è iniziata solo ora.

Sullo scandaloso fatto, inoltre, che le operazioni militari russe continuino durante le trattative intavolate tra le due parti a partire del 28 febbraio, occorre semplicemente osservare che, storicamente, è proprio durante le trattative che le operazioni militari vengono intensificate dai contendenti, proprio per portare al tavolo delle stesse risultati destinati a porre i negoziatori su un piano di maggior forza. Naturalmente ignorando sempre il punto di vista della maggioranza dei civili, per cui la soluzione migliore è sempre rappresentata dalla cessazione delle ostilità o, come sta avvenendo anche oggi, dalla fuga per cercare rifugio in aree non ancora coinvolte dagli scontri e dalla guerra, alla faccia della retorica che vorrebbe tutti gli ucraini intenti a fabbricare molotov e ad arruolarsi nelle milizie volontarie. Tutto il resto è chiacchiera e, per giunta, nemmeno così tanto umanitaria come si vorrebbe invece dare a intendere.

Il solito rivoluzionario dagli occhi da tartaro affermava che «la verità è sempre rivoluzionaria» e per una volta tanto non aveva affatto torto. Perciò le righe che precedono e quelle che seguiranno avranno infatti questa intenzione, quella di disvelare, ancora una volta poiché ce n’è purtroppo bisogno, il cumulo di menzogne e falsità che coprono l’attuale conflitto e le sue possibili conseguenze future, mentre non hanno affatto quella di giustificare le imprese militari di Putin oppure enfatizzare le scelte del suo avversario Zelensky.

Se le fotografie dei danni apportati a numerosi mezzi russi attestano un uso massiccio di droni e armi tecnologicamente avanzate impiegate sul terreno dalle forze ucraine, fino ad ora probabilmente fornite dagli americani in precedenza (insieme ai droni turchi forniti da un’azienda specializzata in tale settore tra le più grandi del mondo, di cui proprio il genero di Erdogan è a capo ), è anche vero che la possibilità per i russi di creare colonne di mezzi lunghe decine di chilometri sulle strade ucraine attesta l’inagibilità dello spazio aereo per l’aviazione ucraina, così come dichiarato dalle fonti russe e come attestato dal fatto che alcuni aerei militari ucraina abbiano trovato rifugio in Romania.

Grande è il disordine quindi sul terreno dell’informazione e della propaganda, ma anche su quello delle alleanze, considerato che lo stesso Erdogan, che ha rifornito gli ucraini di droni, ha permesso un abbondante traffico di mezzi navali militari russi nello stretto del Bosforo che attraversa la stessa Istanbul, dividendola in parte europea ed asiatica. Il cui governo, nonostante le dichiarazioni di Zelensky che aveva dato per scontata l’idea di una Turchia vicina all’Ucraina, deve ancora accertare sul piano giuridico se quella in Ucraina sia davvero una guerra, mentre ha già affermato di non voler applicare sanzioni contro la Russia. Questione non del tutto indifferente se si considera che, non soltanto in teoria, la Turchia costituisce la seconda forza militare della Nato.

Rimanendo ancora sul terreno del linguaggio della propaganda e della necessità di creare consenso intorno alla guerra va notato come per Putin stesso le attuali operazioni militari non costituiscano un’aggressione militare, ma un’operazione “speciale” di ordine pubblico e disarmo internazionale, così come già tante guerre dichiarate dalla Nato e dall’Occidente hanno nel recente passato assunto la denominazione di “missioni di pace” oppure di “polizia internazionale”. Cambiano quindi i promotori, ma non il linguaggio utilizzato, cosa che dovrebbe sempre far drizzare le orecchie di chi ascolta tali fandonie, qualsiasi sia la fonte da cui sono espresse.

Il secondo elemento, che è stato prima anticipato, è quello del riarmo europeo, indice sia della frenesia di guerra che è sotteso sia al discorso sulla “pace” che della necessità di trovare uno sbocco produttivo sicuro per settori importanti dell’industria pesante, ma non solo, europea cui evidentemente la promessa del rinnovo del mercato dell’auto attraverso versioni ibride o elettriche della stessa non da ancora sufficienti garanzie di sviluppo dei profitti, mentre, soprattutto in Germania, fa già prevedere un’enorme riduzione di posti di lavoro nel settore, anticamera di possibili conflitti sociali che vanno sopiti ancor prima di un loro possibile inizio.

Da qui discende un passo che non bisogna esitare a definire “storico”: il riarmo tedesco annunciato dal cancelliere federale Olaf Scholz, con una previsione iniziale di spesa di cento miliardi di euro.
Una decisione che non può essere stata presa a sorpresa e soltanto a causa della situazione venutasi a creare sulle frontiere orientali, ma che deve covare da tempo nel governo e nella direzione economica del capitale tedesco. Decisione che prelude non solo alla necessità della “difesa” degli interessi tedeschi ad Est, ma inevitabilmente ad una ripresa, in chiave forse più aggressiva e marcata, della politica di potenza germanica, condotta fino ad ora soltanto con strumenti di ordine finanziario e legislativo oggi forse ritenuti non più sufficienti.

Considerazioni che non possono, oltre tutto, essere slegate dalla lentezza e dalle difficoltà che hanno invece caratterizzato qualsiasi provvedimento economico europeo nei confronti della pandemia e delle spesso drammatiche esigenze sanitarie, sociali ed economiche che ne sono derivate. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’andamento delle borse in questi giorni dove, solo in Italia sia Leonardo che Fincantieri, aziende coinvolte nel settore degli armamenti e della cantieristica militare, hanno visto crescere i loro titoli di più del 15% in un solo giorno.

Ancora più significativi appaiono, poi, i provvedimenti di ordine economico e militare presi da numerosi stati europei della Nato, italietta nostalgica in testa. Un autentico gettarsi a capofitto nella fornace della guerra, che richiama una somiglianza con l’affermazione marinettiana «guerra sola igiene del mondo!», che perde però la carica provocatoria del primo manifesto futurista e sembra assumere una carica messianica di risoluzione e cancellazione dei problemi politici ed economici, oltre che potenzialmente sociali, che attanagliano i governi, e in particolare e su tutti i fronti quello italiano.

Governo che, PD in testa, dopo aver posto ogni possibile e irragionevole fiducia nell’azione di un deus ex-machina come Mario Draghi, l’ha prima affondato nelle elezioni presidenziali e l’ha visto poi sparire dall’orizzonte internazionale, nonostante le trionfalistiche dichiarazioni a favore del suo operato diplomatico venute da un “genio politico” quale Romano Prodi; unico tra i maggiori leader politici europei a non essersi recato a Kiev e Mosca, per lasciare il posto ad un tizio di nome Luigi Di Maio, inadeguato anche soltanto a preparare un caffè. Atto caratterizzato dalla tipica furbizia gesuitica ed italica che, nella sostanza, avvicina l’operato dell’attuale presidente del consiglio a un servilismo atlantico mai neppure lontanamente immaginato o voluto dalla DC di Giulio Andreotti più che a quello di un grande statista, come egli stesso si vorrebbe invece rappresentare.

Cosa che non gli ha impedito di rivendicare la necessità della riapertura delle centrali a carbone, e forse anche ad oli combusti, e la decisa affermazione della necessità di inviare altri soldati e mezzi ai confini orientali d’Europa e rifornire di armi il regime di Kiev, aggirando la legge 185 approvata nel 1990. Cose che, a parte le finte svenevolezze cattolicheggianti di Salvini sulla questione delle armi letali (ne esistono forse di non letali, a partire da scarponi e manganelli considerate le esperienze della Diaz e d ei detenuti massacrati troppo spesso tra le mura delle carceri italiane?) ha trovato tutti i rappresentanti della democrazia parlamentare uniti e saldi nell’urlare armiamoci e partite!3. Opposizione compresa, anzi più scalpitante che mai nel volersi rappresentare come degna erede del fascismo. E che proprio per questo, messa da parte la stagione della protesta contro il green pass, non si scandalizza certo più per l’ulteriore prolungamento dello stato di emergenza fino alla fine di settembre per motivi legati alla difesa della sicurezza nazionale.

Andiamo in guerra ma non lo diciamo; spingiamo in quella direzione ma lo facciamo in nome della pace e della democrazia ci dicono i governanti europei ed in primis quelli nostrani. Sventolando un umanitarismo peloso che ricorda troppo le fake news che precedettero l’entrata nel primo conflitto mondiale, quando si raccontava sui giornali italiani che i soldati tedeschi, in Belgio, tagliavano le mani ai bimbi per poi inchiodarle sulle porte delle case. Oppure durante l’azione mercenaria in Congo, contro Lumumba e l’indipendenza africana, nel 1960, quando invece si raccontò che gli aviatori italiani uccisi a Kindu trasportavano giocattoli per bambini invece che armi per i ribelli secessionisti e filo-occidentali del Katanga che già si erano macchiati le mani con il sangue di Patrice Lumumba. Oppure, ancora oggi quando sulle pagine dei nostri quotidiani, appaiono le notizie di giocattoli esplosivi donati dagli “infernali” russi ai bambini ucraini. Benvenuti nel mondo della stampa democratica e liberale. Non soltanto italiana, se questo può consolare il lettore.

Liberale e democratica come l’Ucraina dove immigrati africani, asiatici e sudamericani devono lasciare il posto ai bianchi sui mezzi che possono portarli lontani dalla guerra (qui) oppure come i commenti sulla guerra in Europa, apparsi sui media occidentali, infestati di razzismo esplicito.

BBC: «E’ per me molto commovente vedere gente europea dagli occhi azzurri e dai capelli biondi venire uccisa» ( David Sakvarelidze – Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor,).

CBS News: «Qui non siamo in Iraq o in Afghanista, qui siano in una relativamente civilizzata città europea» (Charlie D’Agata – corrispondente estero)

BFM TV (Francia): «Siamo nel 21° secolo, siamo in una città europea e abbiamo missili da crociera che ci piovono addosso come se fossimo in Iraq o in Afghanista. Riuscite ad immaginarlo?»

NBC TV: «Per dirla schiettamente, questi non sono rifugiati siriani, questi provengono dall’Ucraina… Sono Cristiani, sono bianchi, sono molto simili a noi» (Kelly Cobiella – corrispondente di NBC News dalla Polonia)4.

Benvenuti sotto le bandiere della democrazia e della libertà!
Benvenuti sotto le bandiere dell’umanitarismo e della pace!
Benvenuti sotto le bandiere di un leader, Zelensky, che in nome della patria chiama, di fatto, il parlamento europeo a scatenare un intervento contro la Russia.
Benvenuti sotto le bandiere del reggimento Azov, formato da volontari neo-nazisti e asserragliato a Mariupol.
Benvenuti nella prossima guerra mondiale, che la retorica odierna, da una parte e dall’altra non fa che preparare.
Benvenuti, quindi, all’inferno!
Motivo per cui non vi è modo di sistemarsi a fianco di una delle due parti in lotta, come tanto antagonismo confuso trova spesso così semplice fare, approfittando di discorsi e movimenti già apparecchiati da altri (ma con ben diversi fini).

Detto questo è utile sottolineare come tutte le sanzioni e tutti i provvedimenti presi o previsti fino ad ora dai paesi europei e della Nato, da quelle economiche alle forniture di arsenali militari, dallo schieramento di nuove forze militari ad Est al permesso per il transito di volontari per le milizie ucraine son tutti passibili di essere interpretati come azioni “belliche” di fatto. E la vergogna maggiore è data dal fatto che la stampa nostrana si sia permessa di tracciare paralleli tra l’odierno volontariato nazionalista e mercenario5, di stampo in gran parte fascista, destinato ad essere integrato nelle milizie ucraine e i volontari internazionalisti che accorsero in Spagna non solo in difesa della repubblica, ma anche con la speranza, poi tradita e distrutta dall’azione di Stalin e dei suoi accoliti italiani (Togliatti e Vidali), di portare la rivoluzione in Europa. Dimenticando, inoltre, il trattamento riservato ai volontari italiani tornati dal Rojava, quasi tutti indagati e di fatto trattenuti ai domiciliari per lunghi periodi.

In questo caso lo schieramento è conservativo, non perché si opponga all’autocrate Putin, ma perché intende rafforzare e ristabilire l’ordine europeo ed occidentale del capitale imperialistico. In ogni modo e in ogni caso. Non c’è attualmente alternativa sul campo. Chiunque vinca, marciando sui cadaveri delle vittime civili e degli illusi di ogni tendenza, lo farà in nome di interessi finanziari, militari, geopolitici, economici e militari che rappresentano la negazione di qualsiasi cambiamento radicale degli assetti politico-sociali presenti.

Tutto ciò, compreso l’esplicito tentativo di rovesciare Putin “dall’interno”, costituisce il vero pericolo futuro, ovvero quello di un conflitto allagato a partire da provvedimenti che, minando la stabilità economica ed interna della Russia, potrebbero portare il leader russo a giocarsi il tutto per tutto in una battaglia a tutto campo. Motivo per cui la messa in allarme del sistema di deterrenza nucleare russo, della flotta del Pacifico e dei bombardieri strategici russi, non costituisce soltanto un’ipotetica minaccia come ai tempi dell’affare dei missili di Cuba nel 1962. Allora, infatti, si avevano margini di trattativa e spazi ancora da conquistare che oggi non ci sono più, per nessuna delle due parti in causa.

Tutto si svolge infatti sotto gli occhi di due potenze nucleari ed economiche, Cina e India, che per ora si astengono in attesa di approfittare degli errori dei due contendenti. Non vi sono alleanze sicure date, anche perché il grande blocco asiatico è costretto comunque a fare i conti con la necessaria continuità di presenza sul mercato mondiale. Di modo che se i paesi dell’heartland (Eurasia e Asia continentale) sono oggi interessati a non perdere i vantaggi di una possibile intesa che vada dai confini europei della Russia alla Corea del Nord e dalla Cina all’Oceano Indiano, passando magari per l’Afghanistan, allo stesso tempo, soprattutto la Cina, devono anche tenere d’occhio i loro interessi finanziari e produttivi globali.
Nello stesso tempo, i paesi del rimland (terre che limitano ad Ovest il grande continente euroasiatico e che cercano di limitarlo attraverso il controllo dei mari e degli oceani circondandolo) e della talassocrazia6 hanno ormai troppi punti di frizione da tener sotto controllo. Non ultimi proprio quella Crimea e quella Taiwan di cui tanto si parla quando si parla di guerra.

L’attuale frenesia di guerra da parte europea, ancor più che atlantica, dimostra la debolezza che sta alle basi di tali scelte. Così mentre si parla ad ogni piè sospinto della debolezza e dell’isolamento di Putin, a livello interno ed internazionale, il capitale europeo, schiacciato tra Stati Uniti e Cina, esigenze energetiche e difficoltà di rinnovamento, rivela tutta la sua fragilità7 lanciandosi, quasi inconsapevolmente, in un’avventura che potrebbe deragliare in una catastrofe senza precedenti. Ad accorgersene sembrano essere soltanto alcuni esperti di geo-politica e affari militari, mentre certi filosofi della politica incitano alla creazione di un autonomo arsenale nucleare europeo basato su quello francese, tra gli applausi dei giornalisti embedded dei media nazionali8.

Per noi, a cent’anni dalle mobilitazioni contro la prima guerra mondiale, rimane un’unica certezza ovvero la necessità non di chiedere pace, democrazia e libertà, parole vuote di significato reale se non accompagnate da una reale eguaglianza sociale ed economica, ma di anteporre a tutte le menzogne che la preparano quella spontanea opposizione alla guerra imperialista che mosse i pochi e coraggiosi rivoluzionari anti-militaristi che si incontrarono a Zimmerwal e Kiental, nella neutrale Svizzera, nel 1915 e nel 1916. In tutto 42 delegati nel primo caso e 43 nel secondo, una più che esigua minoranza anche per allora. Ricordando sempre che il primo nemico è comunque e sempre in casa nostra, ma con l’unica e significativa differenza che, oggi, anche la Svizzera non può più essere considerata neutrale dopo i provvedimenti approvati nei confronti della Russia e delle sue banche.

(3 – continua)


  1. Si veda qui  

  2. 675.000 km quadrati per la Francia contro i circa 604.000 dell’Ucraina odierna  

  3. Si veda qui, sulla frenesia europea e italica, un interessante articolo del magazine on line AD Analisi Difesa  

  4. Per altre “perle” del genere si veda qui  

  5. Si veda il tariffario delle ricompense in denaro promesse da Vladislav Atroshenko, sindaco di Chernihiv nell’Ucraina settentrionale: per ogni blindato da trasporto distrutto la ricompensa sarà di circa 4.400 euro, per ogni carro armato il premio sarà di circa 6.000 euro, per una cisterna mobile circa 7.500 euro. Mentre per ogni soldato russo “ucciso o catturato” il primo cittadino promette 300 euro (Fonte: https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ucraina-soldi-a-chi-infligge-perdite-all-esercito-russo-il-tariffario-della-resistenza/ar-AAUsEjw?ocid=msedgntp)  

  6. Si veda qui  

  7. Tipico il caso di Boris Johnson che non esita ad indossare la mimetica da combattimento per far dimenticare ai suoi elettori lo scandalo dei covid party  

  8. Anche se oggi, 2 marzo, sia Olaf Scholz che il ministro della difesa britannico, Ben Wallace, sembrerebbero iniziare a frenare su un più ampio coinvolgimento della Nato in Ucraina poiché, secondo lo stesso Wallace, una scelta del genere porterebbe direttamente alla Terza guerra mondiale. Mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, avrebbe avvertito l’Occidente che una terza guerra mondiale non potrebbe essere che nucleare.  

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Dare a Cesare quel che è di Cesare (e ai sindacati confederali quel che spetta loro) https://www.carmillaonline.com/2021/10/21/dare-a-cesare-quel-che-e-di-cesare-e-ai-sindacati-confederali-cio-che-spetta-loro/ Thu, 21 Oct 2021 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68768 di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, [...]]]> di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, il PD e il governo stesso si sono sperticati gola e mani nell’esaltazione dell’opera di pacificazione sociale portata avanti da CGIL, CISL e UIL e in particolare dalla figura, ormai prossima alla beatificazione, di Luciano Lama in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita.

Mentre si sorrideva, giustamente, della richiesta di Salvini a Draghi affinché il presidente del consiglio contribuisse a riportare la pace sociale in vista delle elezioni amministrative e dei successivi ballottaggi, molti, quasi sempre offuscati da qualsiasi superficiale richiamo alla mistica dell’antifascismo istituzionale, ignoravano o sembravano soprassedere sull’autentica e definitiva dichiarazione d’intenti manifestata dai leader sindacali, “unitari” nel sostenere la necessità di evitare qualsiasi tipo di conflittualità sociale al fine di permettere la ripresa economica promessa dal PNRR.

Certo non è la prima volta che i sindacati della concertazione, uscita pari pari dalla Carta del Lavoro di mussoliniana memoria, chiedono sacrifici e compartecipazione dei lavoratori in nome del supremo interesse nazionale. La storia degli ultimi cinquant’anni ne è piena, ma tale funzione di collaborazione spesso è apparsa più sfumata rispetto alle dichiarazioni attuali.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con le sue “opportunità”, o spacciate come tali ai giovani e alle donne soprattutto, appare come una sorta di novello Piano Marshall, cui è stato paragonato più volte. Un’occasione da non perdere sia per gli imprenditori che per i lavoratori e le lavoratrici e i disoccupati. Discorso che, basandosi sulla promessa della crescita del PIL, dovrebbe annullare qualsiasi altra reazione alle sue reali e differenti conseguenze per i primi e per i secondi.

Come ha scritto l’economista, saggista ed editorialista di Limes, Geminello Alvi: «La percezione del mondo in forma di Pil serve non alla conoscenza, ma alla retorica degli stati. […] Il Pil e i suoi abusi sono il più perfetto esempio […] di omologare chiunque, equalizzandolo alle proprie manie di benessere e di potenza […] Il Pil è un indice della potenza statale, e di una qualche vera efficienza solo in tempo di guerra.»1

Per questo motivo l’idea di reddito netto, che era nata nel Seicento proprio per misurare ed accrescere tale potenza, «evolvette a prodotto o reddito nazionale moderno durante la seconda guerra mondiale, per opera di mediocri burocrati ai quali neppure Keynes credeva[…] E cosa si propone oggi nel tanto dissertare sul Pil? Di renderlo ancora più comprensivo, della felicità e di indici ecologici alla moda. Quando si dovrebbe invece lavorare per restringerlo, indi per limitare l’economicizzazione omologante.»2

Il riferimento a Keynes non è casuale poiché proprio il teorico dell’intervento dello Stato nell’economia finì con l’essere il vero, anche se spesso indiretto, ispiratore delle politiche che finirono col caratterizzare le scelte delle maggiori economie uscite devastate dagli effetti della Grande Crisi o Grande Depressione.
Nella competizione allora in corso per uscire da quegli effetti e per la ridistribuzione di quote importanti del mercato e della ricchezza mondiale, sempre secondo Alvi, sulla base degli studi di Costantino Bresciani Turroni3:

il keynesismo hitleriano funzionò pure meglio del New Deal. Nel 1938 gli Stati Uniti producevano un reddito nazionale del 23% inferiore a quello del 1929, e la Germania hitleriana già nel 1938 aveva raggiunto un reddito superiore del 5% a quello del 1929. La svolta tedesca era certo dipesa dal riarmo che provocò inflazione ma anche da spese pubbliche non troppo diverse da quelle dei borgomastri che negli anni venti indebitarono la Germania: autostrade e stadi. Per non dire degli aumenti salariali4.

Il fatto che la ripresa definitiva dalla Grande Depressione fosse poi giunta soltanto con la guerra (mondiale) non può costituire altro che un corollario delle scelte basate su un incremento gigantesco delle spese statali destinate a “grandi opere” (tra le quali occorre inserire il “riarmo” delle maggiori potenze dell’epoca), maggiori consumi (e quindi maggior produzione di merci) e controllo e uso indiscriminato di risorse umane, naturali ed energetiche.

Lo spesso declamato, ancor oggi da certa sinistra, keynesismo necessita di governi autoritari, oppure per usare un eufemismo “fortemente centralizzati”, spesso imposti attraverso la forza, il ricatto o l’inganno (e spesso da tutti e tre questi elementi insieme), in un contesto in cui: «Fare della statistica il criterio della verità è l’ipocrisia indispensabile di qualunque democrazia, la quale favorisce l’omologazione capitalistica.»5
E se qualcuno si stupisse del sentire parlare di democrazia in un contesto in cui si è parlato anche di nazismo, è sempre utile ricordare il fatto che Hitler andò al potere come cancelliere, nel gennaio del 1933, dopo aver vinto le elezioni del 6 novembre 1932 con il 33,1% dei voti (pur perdendo circa il 4% dei voti rispetto a quelli ottenuti nel luglio dello stesso anno) ed essersi alleato in parlamento col Partito Popolare Nazionale Tedesco (8,5% dei voti e 52 seggi).

In democrazia vincono i numeri delle maggioranze, vere o artefatte che siano, e da lì sembra derivare anche l’alto valore assegnato alle scienze statistiche come strumenti di “verità assolute” (Pil, numero dei vaccinati sulla popolazione, etc. solo per fare degli esempi). Pertanto oggi, anche se spesso il tema è rimosso ed ignorato, a farla ancora da padrone è lo schema keynesiano dell’intervento pubblico in economia, che si tratti di TAV, ponti sullo stretto, riarmo dell’esercito, dell’aviazione o della marina militare, reddito di cittadinanza a 5 (o meno) stelle o altro ancora.

Subissati di cifre e da una girandola di informazioni sulla ripresa o meno dei consumi, sull’aumento o diminuzione dei posti di lavoro, tutte basate su dati spuri e nudi che non tengono conto della qualità dei beni necessari ed effettivamente consumati o dei lavori riproposti a salario ribassato e orario inalterato, precipitiamo in un mondo indifferenziato di cittadini consumatori e utenti di servizi (sempre più spesso privati, ma finanziati col pubblico denaro come accade soprattutto per la sanità) in cui il problema delle “tasse” sembra sopravanzare quelli della “classe”6.

La democrazia rappresentativa, ovvero quella che ci ostiniamo a chiamare “borghese”, si nutre innanzitutto di cifre e se i numeri non ci sono, all’occorrenza, come nel caso dell’attuale governo o di quello Monti, si trovano. Gli utili idioti dei partiti, di ogni cifra e colore, disposti a tutto pur di restare a galla sugli scranni parlamentari, nonostante la presenza di quasi un 60% di cittadini non votanti, delusi, scazzati e arrabbiati, si troveranno sempre.
Talmente idioti da non rendersi conto di come questa ripetuta, ormai, tradizione di presidenti del consiglio non eletti, ma nominati, tutto sommato risalente in Italia fino al primo governo Mussolini, non contribuisce ad altro che a privarli ulteriormente di qualsiasi autorità e funzione reale.

Così, mentre si urla al lupo fascista e si convocano grandi manifestazioni di pensionati antifascisti (Che è…sarà mica che poi vengono quelli e ce decurtano la pensione e i diritti acquisiti. Daje, non pensamoce, cantamo n’altra volta “Bella ciao”…), il settore sindacale che conta ormai il più alto numero di iscritti ma di peso specifico politico ed economico pari a zero, l’autoritarismo si rafforza all’ombra della vulgata democratica e delle coperture finanziarie europee o straniere. Perché, lo si dica con chiarezza almeno per una volta, Draghi sembra ripetere i fasti di un altro “grande statista italiano”: Alcide De Gasperi.

Quello eletto con l’appoggio del Vaticano e del Piano Marshall, cui guarda caso oggi spesso si paragona il Recovery Fund europeo, l’attuale con alle spalle i voti delle burocrazie finanziarie europee e i fondi da distribuire con il PNRR. Entrambi autorizzati ad esercitare la loro autorità e portare a termine un disegno politico in nome di interessi altri da quelli della maggioranza dei lavoratori e dei cittadini meno abbienti. Evviva la ricostruzione! Evviva tutte le ricostruzioni post-belliche e post-pandemiche, sempre a vantaggio di pochi ma ripagate dal sudore, dal sangue (che diciamo a proposito del vertiginoso e vergognoso aumento dei morti sul lavoro?) e dai sacrifici di tutti gli altri, soprattutto se proletari, giovani disoccupati e donne.

Pil docet et impera. Tanto che anche il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, appena celebrato dai media nazionali con lo stesso clamore riservato ai vincitori di medaglie d’oro nelle competizioni olimpiche o paralimpiche, è stato bruscamente messo da parte e dimenticato appena ha osato affermare, criticando in parlamento questa misura delle prestazioni economiche di un paese, che incremento del Pil e lotta contro le cause del cambiamento climatico non possono essere compatibili7. Evidentemente per i soloni della politica e dell’informazione un fisico non può vantare competenze nel campo di scienze economiche sempre più attente al paranormale finanziario che alla quotidianità della vita della specie.

Il sindacato invece può farlo, eccome: basta che dica sempre sì e sia più realista del re nel promuovere la partecipazione dei lavoratori agli interessi dell’incremento del Pil e del capitale privato (spacciato per “nazionale”). Soprattutto se nel farlo invoca, come a Trieste ed ovunque vi sia anche soltanto il fantasma di una lotta, l’intervento delle forze dell’ordine contro i facinorosi, quasi sempre dipinti a prescindere come violenti e fascisti.

Per quanto riguarda la generazione cui appartiene chi scrive, si può tranquillamente affermare che diede una sonora ed inequivocabile risposta a tale scelta, sia a Roma in occasione della cacciata di Luciano Lama, gran promotore delle politiche dei sacrifici e della pace sociale insieme al suo sindacato, dall’Università che sulle scale delle Facoltà umanistiche di Torino, pochi giorni dopo i fatti romani. Era il 1977 e tanto basti per restare dell’idea che proprio ciò è quanto compete ai sindacati confederali, adusi a sedersi al tavolo delle trattative ancor prima di dichiarare scioperi o manifestazioni, per definire in partenza con i funzionari del capitale e dello Stato ciò che sia lecito richiedere ed attendersi.

Atteggiamento sindacal-confederale che, insieme all’opportunismo e alla vaghezza delle proposte politiche della sinistra istituzionale e limitrofa, ha finito col determinare la sconfitta del movimento operaio italiano. Nella riclassificazione del Pil italiano in profitti, rendite e salari, tentata da Geminello Alvi, lo stesso ha scritto:

Nel 2003 ai lavoratori toccava il 48,9% del reddito nazionale netto; nel 1972 era il 62,9%. La quota dei redditi da lavoro dipendente è regredita, ora è circa la stessa del ’51. dell’Italia prima del boom. Il che vuol dire, esagerando in furia del dettaglio, non troppo distante da quel 46,6% che era la povera quota del 1881. Siamo regrediti, e intanto però mi arresterei dal dire altro. Perché so che al nostro lettore verrebbe da eccepire: “ Bella forza, ma di quanto nel 2004bpartite Iva e indipendenti sono più numerosi di trentacinque anni fa? “. Lecita obiezione, che ha tuttavia pronta replica statistica: nel 1971 c’erano 2,13 lavoratori dipendenti per ogni indipendente, nel 2004 sono 2,15. Il che significa che i dipendenti sono addirittura cresciuti in proporzione rispetto a ventiquattro anni prima. Si può dire: la quota dei lavoratori dipendenti è regredita alle cifre di un’Italia della memoria, quella prima del boom8.

Dall’epoca dei dati appena ora citati molta acqua sporca e alluvionale è corsa sotto i ponti: crisi del 2008, ristrutturazioni aziendali, tagli alla spesa pubblica, riduzione dei lavoratori dipendenti o garantiti, trasferimento delle imprese all’estero o in mani straniere, crescita dei settori maggiormente caratterizzati dal lavoro precario e non garantito, automazione sempre più diffusa anche nel settore dei servizi, aumento della povertà assoluta, concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ristretto di mani. Eppure, come al solito, eppure…

Quei dati ci servono, forse ancora di più adesso, per mostrare come il taglio del personale nei settori produttivi, la riduzione dei salari e, per converso, una falsa redistribuzione delle ricchezze basata su “redditi di cittadinanza” ridicoli, se non offensivi per chi ne avesse realmente bisogno, fanno parte di quello stesso processo e stanno alla base delle attuali promesse di ripresa legate al PNRR.

Piano che, nonostante le sonore sberle pur affibbiate al ceto medio e ai lavoratori autonomi, continuerà a poggiare principalmente sull’incremento dello sfruttamento dei lavoratori produttivi e/o a basso reddito. La legge dell’estrazione del plusvalore non è cambiata mai, nonostante tutti gli artifici messi in campo per negarla o giustificarla, in nome dell’interesse nazionale, agli occhi di chi la subisce quotidianamente.

Nonostante le fasulle promesse del segretario della UIL di portare a “zero” le morti sul lavoro e la solita, retorica, citazione delle stesse ad opera di Landini durante la manifestazione romana oppure del presidente Mattarella e del presidente del consiglio Draghi, è inevitabile che gli omicidi sul posti di lavoro siano destinati ad aumentare. Motivo per cui, lasciatelo dire per una volta a chi scrive, sia la richiesta del Green Pass per accedere al posto di lavoro che la “fiera” opposizione alla stessa, in termini di vite dei lavoratori e di qualità del lavoro, non cambieranno nulla. Assolutamente nulla, anche quando si parla della difesa di “posti di lavoro”, in un senso o nell’altro.
La lotta di classe per la liberazione della specie dal giogo capitalistico si giocherà su altri fronti e in altre forme, al di fuori delle logiche confederali, dell’antifascismo istituzionale e delle logiche liberali e individualistiche.
Speriamo, prima o poi, di ritrovarle e, soprattutto, di saperle riconoscere.

Dixi et salvavi animam meam.


  1. Geminello Alvi, Il capitalsimo. Verso l’ideale cinese, Marsilio Editori, Venezia 2011, pp. 31-32  

  2. G. Alvi, op. cit., pp. 32- 40  

  3. Costantino Bresciani Turroni, Osservazioni sulla teoria del moltiplicatore, «Rivista bancaria», 1939, 8, pp. 693-714  

  4. G. Alvi, op. cit., p. 93  

  5. Ivi, pp. 70-71  

  6. Si vedano qui un interessante articolo uscito su Codice Rosso, oltre all’intervento pubblicato su Carmilla sabato 16 ottobre da Jack Orlando  

  7. Si veda qui  

  8. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite, Mondadori, Milano 2006, p. 9  

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Gli Aristocazzi https://www.carmillaonline.com/2021/02/28/gli-aristocazzi/ Sun, 28 Feb 2021 22:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65053 di Alessandra Daniele

Per amministrare i 2o9 miliardi del Recovery Fund, il padronato scende in campo personalmente col banchiere Mario Draghi, detto l’Atermico. Il suo governo è un insieme di tecnocrati e riciclati, Draghi ha piazzato i suoi nei posti chiave, e ha lasciato il resto all’appetito dei partiti. Tutti, tranne Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana. Leghisti, piddini, renziani, grillini, forzisti, centristi, leuini, tutti insieme, come nel circense girotondo finale di Otto e Mezzo. Senza differenza. Perché non c’è differenza. Si sono definiti “il governo dei migliori”, l’aristocrazia. Dopo Lega e PD, adesso il Movimento 5 Stelle s’allea anche con Forza Italia. [...]]]> di Alessandra Daniele

Per amministrare i 2o9 miliardi del Recovery Fund, il padronato scende in campo personalmente col banchiere Mario Draghi, detto l’Atermico.
Il suo governo è un insieme di tecnocrati e riciclati, Draghi ha piazzato i suoi nei posti chiave, e ha lasciato il resto all’appetito dei partiti.
Tutti, tranne Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana.
Leghisti, piddini, renziani, grillini, forzisti, centristi, leuini, tutti insieme, come nel circense girotondo finale di Otto e Mezzo.
Senza differenza. Perché non c’è differenza.
Si sono definiti “il governo dei migliori”, l’aristocrazia.
Dopo Lega e PD, adesso il Movimento 5 Stelle s’allea anche con Forza Italia.
Ormai è routine, non c’è niente che il M5S non sia disposto a trangugiare pur di restare al governo.
Difficilmente però stavolta riuscirà a toccare palla, il percorso del governo Draghi è già segnato e non prevede nessuna digressione grillina.
L’era Conte è finita.
Renzi è stato un sicario efficiente.
C’è da chiedersi se qualcuno in Italia creda ancora alla democrazia. Perché ormai è come credere alla fatina dei denti.
Il golpe di fatto è la norma. Il nostro vero sistema di governo.
I golpisti italici non assaltano il Palazzo come gli sciamannati di Trump, non ne hanno bisogno.
Loro sono gia dentro.
Come un patogeno cronico.
Sono connaturati al sistema.
Il plauso del media mainstream per Mario Draghi è unanime, un coro di osanna.
Si sono raggiunte vette di idolatria delirante.
I politici non sono da meno, da Matteo Salvini che chiede il ponte sullo stretto di Messina per poterlo chiamare “Ponte Draghi”, a Italia Viva che smette di chiedere il Mes perché “il nostro Mes è Draghi”.
Questi partiti non rappresentano più niente, se non il servilismo verso il capitale, e la miserrima fame di potere, o delle sue briciole.
Opporsi a questa “aristocrazia”, a questo grottesca accozzaglia di tecnocrati padronali e politici cazzari è un dovere basilare, non solo politico, ma anche igienico, per chiunque abbia ancora un minimo di rispetto per se stesso.

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La crisi di governo come spettacolo https://www.carmillaonline.com/2021/02/24/la-crisi-di-governo-come-spettacolo/ Tue, 23 Feb 2021 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64999 di Fabio Ciabatti

La triste commedia messa in scena dalla classe politica durante l’ultima crisi di governo è stata unanimemente e fortemente condannata dai media main stream. Siamo di fronte a una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si lamentano commentatori di ogni risma, e i partiti sono capaci soltanto di fare giochi di palazzo dimenticandosi dell’interesse generale. Vergogna! Alla gogna! Eppure la maniacalità con cui viene seguito ogni sussurro proveniente dalle stanze e dai corridoi del “palazzo” suscita molti dubbi sul significato reale dell’indignazione sbandierata da giornalisti e opinionisti. Se del [...]]]> di Fabio Ciabatti

La triste commedia messa in scena dalla classe politica durante l’ultima crisi di governo è stata unanimemente e fortemente condannata dai media main stream. Siamo di fronte a una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si lamentano commentatori di ogni risma, e i partiti sono capaci soltanto di fare giochi di palazzo dimenticandosi dell’interesse generale. Vergogna! Alla gogna! Eppure la maniacalità con cui viene seguito ogni sussurro proveniente dalle stanze e dai corridoi del “palazzo” suscita molti dubbi sul significato reale dell’indignazione sbandierata da giornalisti e opinionisti. Se del solito teatrino della politica si tratta, perché puntare ossessivamente i riflettori su questi attori di serie B? In realtà quello che è andato in scena con la complicità di giornali, televisioni e media digitali non è tanto una rappresentazione teatrale di pessima fattura quanto un vero e proprio spettacolo, nel senso che a questo termine attribuiva Debord.
“Lo spettacolo – sostiene il padre del situazionismo – riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato”.1 Per quel che qui ci interessa possiamo sostenere che lo spettacolo della crisi di governo ha riunificato, a suo modo, la sfera politica e quella economica; la prima intesa come l’istanza che si presume possa garantire l’interesse generale e la coesione complessiva di una società,  la seconda come l’ambito in cui i singoli capitali organizzano la produzione finalizzata al perseguimento del profitto. 

A questo proposito chiediamo un po’ di pazienza perché vorremmo ribadire, come si sarebbe detto un tempo, alcune banalità di base.  E ci piace farlo, a mo’ di omaggio, attraverso un testo di qualche anno fa di Ellen Meiksins Wood, importante esponente del marxismo politico, scomparsa nel gennaio di cinque anni fa.2 Ebbene, secondo l’autrice il sistema capitalistico è caratterizzato da una separazione senza precedenti della sfera economica da quella politica. Lo stato rimane essenzialmente separato dall’economia anche quando interviene in essa. In altri termini il capitalismo è caratterizzato da una divisione del lavoro in cui i due momenti dello sfruttamento capitalistico – l’appropriazione e la coercizione – sono separati: il primo viene assegnato a una classe privata appropriatrice, i capitalisti,  il secondo a una istituzione pubblica specializzata nella coercizione, lo stato.  Quest’ultimo, da una parte, ha il monopolio della forza coercitiva; dall’altra, attraverso questa forza, sostiene un potere economico “privato”, la proprietà capitalistica che è investita dell’autorità di organizzare la produzione. Un’autorità probabilmente senza precedenti storici nel suo grado di controllo sull’attività produttiva e sugli esseri umani impegnati in essa.
Ciò significa che l’appropriazione del surplus avviene nella sfera economica con mezzi economici. Data la separazione dei produttori diretti dalle condizioni di lavoro, la pressione diretta extraeconomica, l’aperta coercizione, per principio, non sono necessarie per costringere i lavoratori a cedere al capitale il loro pluslavoro, cioè il tempo di lavoro eccedente rispetto alla produzione dei beni necessari alla loro riproduzione. A tal fine è sufficiente il bisogno economico che si esplica nell’ambito dello scambio di merci, basato sulla relazione contrattuale tra “liberi” produttori. Le società precapitalistiche, invece, sono caratterizzate da mezzi extra-economici di estrazione del surplus: coercizione politica, legale, militare, vincoli e doveri consuetudinari, obbligazioni religiose, deliberazioni comunitarie regolano il trasferimento del pluslavoro ai signori privati o allo stato attraverso corvée, rendita, tasse ecc.
Il processo attraverso cui si afferma l’autorità della proprietà privata, unendo il potere dell’appropriazione con l’autorità di organizzare la produzione nella mani di un proprietario privato per il suo beneficio, può essere visto come la privatizzazione del potere politico, cioè l’assunzione da parte di un proprietario privato di funzioni che erano originariamente appannaggio di un’autorità pubblica o comunitaria. Allo stesso tempo, questo potere non porta più con sé l’obbligo di adempiere a funzioni pubbliche, sociali. In ogni caso la separazione tra economia e politica svaluta la sfera politica e di conseguenza il significato della cittadinanza che perciò può essere estesa, tendenzialmente, senza limitazioni. La cittadinanza si fa formale non potendo investire una vasta area delle nostre vite quotidiane: i luoghi di lavoro, la distribuzione del lavoro e delle risorse ecc.
Non vorremmo essere fraintesi. Meiksins Wood non vuole affermare una rigida separazione concettuale tra economico e politico, cosa che avrebbe la conseguenza di svuotare il capitalismo del suo contenuto sociale e politico. Sostiene invece che i rapporti di produzione devono essere presentati nel loro aspetto politico, come rapporti di dominazione, diritti di proprietà, potere di governare e organizzare la produzione e l’appropriazione e perciò come terreno di lotta. In questo senso le relazioni politiche e giuridiche non sono riflessi secondari o meri supporti esterni, ma  parti costituenti dei rapporti di produzione. Economico e politico vanno dunque intesi come momenti la cui unità interna si muove attraverso opposizioni esterne. Da ciò deriva una conseguenza: come sostiene Marx, “Se il farsi esteriormente indipendenti dei due momenti, che internamente non sono indipendenti perché si integrano reciprocamente, prosegue fino ad un certo punto, l’unità si fa valere con la violenza, attraverso una crisi”.3 E con ciò torniamo all’attualità. 

Quella cui stiamo assistendo in Italia, e non solo, è una crisi di sistema, già da tempo in incubazione ma accelerata dalle conseguenze della pandemia, mascherata da crisi politica. L’ossessiva attenzione nei confronti dei rumor di palazzo sono funzionali a un processo di villanizzazione della classe politica, cioè alla creazione del villain della storia, del cattivo colpevole di tutti i mali sofferti da una nazione che altrimenti sarebbe in grado di reagire all’attacco del virus e, come la Roma di Nerone/Petrolini, rinascere “più bella e più superba che pria”. Risulta allora chiaro che la separazione tra sfera economica e sfera politica, per quanto possa sembrare a prima vista una debolezza del sistema perché limita la concentrazione del potere, risulta in realtà un suo punto di forza in quanto consente di affrontare le sue crisi senza investire direttamente i suoi fondamenti, i rapporti sociali di produzione capitalistici. La politica diviene il perfetto capro espiatorio. A essa, infatti, viene attribuito il compito di risolvere i problemi socio-economici, ma al contempo ha limitate capacità di intervento in questi campi, fermi restando il potere di appropriazione del surplus e l’autorità di organizzazione della produzione nella mani dei singoli capitali.
Non è un caso, sostiene ancora  Meiksins Wood, che le moderne rivoluzioni si siano verificate laddove il modo di produzione capitalistico era meno sviluppato e coesisteva con più antiche forme di produzione, in particolare la produzione contadina. In questi casi, infatti, la coercizione extraeconomica esercitava un ruolo maggiore nell’organizzazione della produzione e nell’estrazione di pluslavoro e lo stato agiva non soltanto in appoggio alle classi proprietarie ma, similmente allo stato precapitalistico, anche come diretto appropriatore. In breve dove il conflitto economico e quello politico apparivano immediatamente come inseparabili e lo stato rappresentava un nemico di classe più visibile e centralizzato. Di contro, nei paesi a capitalismo sviluppato la lotta di classe, che nella storia ha sempre riguardato il potere sul pluslavoro, tende a convogliarsi nel luogo della produzione perché è lì che si concentra e si esercita questo potere. In altri termini la lotta di classe da politica diventa economica, trasformandosi tendenzialmente in qualcosa di locale e particolaristico. Una lotta che riguarda i termini e le condizioni di lavoro che, per quanto feroce possa essere, non mette direttamente in questione il rapporto tra capitale e lavoro, almeno finché non esce dalle mura dei luoghi di lavoro. 

A maggior ragione, come già accennato, il conflitto tra i diversi attori nella sfera politica, non potendo oltrepassare il suo limitato ambito di competenza, non è in grado di prendere di petto il tema del rapporto tra capitale e lavoro. Ma, a differenza del conflitto che si dà sul luogo della produzione, è in grado, per così dire, di sublimarlo. Proprio per questo nella sfera politica si può dare una ricomposizione spettacolare tra economico e politico. Una ricomposizione di cui abbiamo un esempio nell’esito dell’ultima crisi di governo. Non c’è nulla di più spettacolare, infatti, di un salvatore della patria cui vengono attribuiti connotati spudoratamente eroici: “Super Mario” Draghi, appunto. Un individuo straordinario che ha già mostrato le sue eccezionali capacità decisionali quando, come ci viene ripetutamente ricordato, affermò in pubblico che per salvare l’euro avrebbe fatto  “whatever it takes”. Frase che si concludeva così: “And believe me, it will be enough”. Una dichiarazione che starebbe bene in bocca anche al più coatto dei cowboy hollywoodiani.
Draghi è con ogni evidenza un esponente di spicco dell’élite economico-finanziario europea chiamato a rimediare al fallimento della politica nazionale. Non è perciò esagerato parlare di un commissariamento dell’Italia da parte del capitale finanziario continentale sotto lo sguardo attento dei poteri atlantici. Però, a ben vedere, c’è qualcosa di più da dire. La questione ripetutamente sollevata sulla natura tecnica o politica del suo governo, per quanto stucchevole, indica in modo confuso una difficoltà reale che affiora dalla profondità della crisi socio-economica in corso: è proprio l’andamento dell’economia, così come governato dal capitale, a costituire un problema. In altri termini, sebbene in modo tutt’altro che trasparente, affiora la necessità di scelte, propriamente politiche, che modifichino questo andamento interferendo con il governo capitalistico della produzione. Questo, per meglio dire, è il fantasma che va esorcizzato.

Prendiamo il caso della campagna vaccinale, uno dei compiti prioritari cui si dovrebbe dedicare il nuovo governo. E’ chiaro che le decisioni sovrane delle case farmaceutiche, basate ovviamente sulla ricerca del massimo profitto, sono un ostacolo fondamentale per una efficiente programmazione della campagna di immunizzazione di massa. Il potere e gli enormi profitti delle grandi imprese farmaceutiche sono normalmente giustificati dal loro ingente investimento nella creazione di nuovi farmaci. Ma le cose non stanno così. Con riferimento agli Stati Uniti, Marianna Mazzuccato rilevava qualche anno fa come tra il 1994 e il 2003 siano stati gli Istituti Nazionali di Sanità finanziati dal governo americano a condurre le ricerche che hanno portato a tre quarti dei nuovi farmaci (le cosiddette nuove entità molecolari), mentre le case farmaceutiche si limitavano ad investire prevalentemente sulle varianti meno rischiose (in termini di profitti attesi) dei farmaci già esistenti.4 Con la crisi pandemica l’impegno pubblico sarà con ogni probabilità ancora più significativo. Soltanto il governo statunitense, nell’ambito dell’Operazione Warp Speed, avrebbe inizialmente stanziato 9 miliardi di dollari per finanziare lo sviluppo e la produzione dei vaccini. Ma non è tutto. La scelta dei vaccini come arma principale, se non unica, per sconfiggere la pandemia non è un’opzione obbligata come dimostrano le efficienti strategie di contenimento messe in atto principalmente dai paesi asiatici (per non parlare di Cuba). Si tratta in realtà di una scelta dettata dagli interessi di Big Pharma che in tutto l’Occidente ha trasformato la medicina in senso ospedale-centrico e farmaco-centrico, trascurando prevenzione e medicina territoriale.5
E si tratta anche di una scelta che consente di alimentare una perniciosa illusione a beneficio del potere capitalistico complessivamente inteso: si può contrastare l’epidemia proseguendo nel nostro stile di vita quasi come se nulla fosse.
Business as usual. Avremmo a che fare, in altri termini, con un’opzione che, per sconfiggere la pandemia, non necessiterebbe, nel breve periodo, di adottare provvedimenti coercitivi sul governo capitalistico dell’economia evitando la limitazione del movimento di merci e persone (leggi lockdown) e, nel medio-lungo periodo, di ripensare un modello di sviluppo che stravolgendo gli ecosistemi planetari favorisce la possibilità del salto di specie dei virus.
Insomma proprio quando appare che alla politica venga richiesto uno sforzo straordinario per modificare il corso degli eventi nella realtà accade che le vengono negati gli strumenti per agire. Solo lo spettacolare intervento di un eroe ci può aiutare in un compito così disperato e al tempo stesso così importante. Vediamo dunque che tutto si raddoppia e si capovolge. La sfera economica invade quella politica, ma è la politica che deve apparire in grado come non mai di governare l’economia: la prassi sociale, direbbe Debord, si è scissa in realtà e immagine. In altri termini la politica può riprendere il comando solo negando se stessa. L’appoggio praticamente unanime al governo Draghi nega infatti uno degli elementi essenziali che si suppone debba caratterizzare la sfera politica moderna: quel politeismo dei valori che implica la possibilità di effettuare scelte diverse, o anche divergenti, nel governare il bene comune. 

E allora di fronte al fantastico mondo di Super Mario chiudiamo ribadendo di nuovo alcune banalità di base, utilizzando le parole di Meiksins Wood: “le battaglie puramente ‘politiche’ sul potere di governare e dirigere, rimangono incompiute finché non  coinvolgono oltre alle istituzioni dello stato anche il potere politico che è stato privatizzato e trasferito nella sfera economica. In questo senso, è proprio la differenziazione dell’economico e del politico nel capitalismo – la simbiotica divisione del lavoro tra stato e classe – ciò che rende propriamente essenziale l’unità delle lotte politiche ed economiche e che deve rendere sinonimi socialismo e democrazia”.6


  1. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, 2004, p. 62. 

  2. Cfr. Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism, Cambridge Universiy Press 1995. 

  3. Karl Marx,  Il capitale I, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 146.  

  4. Cfr. Marianna Mazzuccato, Lo stato innovatore, Laterza 2014. 

  5. Cfr. Alberto Burgio, “Dopo un anno di pandemia: ostaggi di Big Pharma?” in Oltre il capitale, anno III n. 5, gennaio 2015. 

  6. Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism, cit. p. 48, traduzione mia. 

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Cadaveri e papere https://www.carmillaonline.com/2020/07/19/cadaveri-e-papere/ Sun, 19 Jul 2020 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61456 di Alessandra Daniele

“Per bloccare la revoca della concessione autostradale ai Benetton dovrebbero passare sul mio cadavere” aveva promesso solennemente Luigi Di Maio nell’agosto 2018, mentre i social si concentravano sulle papere di Toninelli. La concessione non è stata revocata. Lo Stato ha promesso di ricomprarsela a rate dai Benetton, mentre i magliari si godono il rialzo in Borsa del titolo Atlantia. Non sul cadavere metaforico di Luigi Di Maio, ma sui cadaveri reali delle 43 vittime del Ponte Morandi. Perché, ormai è ovvio, non c’è promessa che il Movimento 5 Stelle non sia disposto a rimangiarsi e tradire, pur di restare [...]]]> di Alessandra Daniele

“Per bloccare la revoca della concessione autostradale ai Benetton dovrebbero passare sul mio cadavere” aveva promesso solennemente Luigi Di Maio nell’agosto 2018, mentre i social si concentravano sulle papere di Toninelli.
La concessione non è stata revocata.
Lo Stato ha promesso di ricomprarsela a rate dai Benetton, mentre i magliari si godono il rialzo in Borsa del titolo Atlantia.
Non sul cadavere metaforico di Luigi Di Maio, ma sui cadaveri reali delle 43 vittime del Ponte Morandi.
Perché, ormai è ovvio, non c’è promessa che il Movimento 5 Stelle non sia disposto a rimangiarsi e tradire, pur di restare al governo insieme a quel PD che lo stesso Di Maio definiva “il partito di Bibbiano”, e col quale giurava di non voler avere “niente a che fare”.
Diamo da sette anni – giustamente – del cazzaro a Renzi e Salvini, ma non ci sono peggiori cazzari dei cinquestelle. Dietro la cortina fumogena dei loro birignao finto ingenui e delle stucchevoli gaffe da neofita, si annidano livelli di cinismo, opportunismo, trasformismo e doppiezza degni della peggiore Democrazia Cristiana. Tradimenti reciproci compresi.
Di Maio già lavora a un governissimo con Mario Draghi premier e l’ex socio Salvini, che usava il tricolore per “pulirsi il culo”, e adesso per coerenza se lo mette in faccia, come mascherina.
Intanto Giuseppe Conte, “l’avvocato degli italiani” si prepara a vendere cara la poltrona, prorogando lo stato d’emergenza per poterli rimettere tutti agli arresti domiciliari.
Gli elettori del Movimento 5 Stelle dovrebbero organizzare una class action, e denunciare Grillo e Casaleggio per truffa aggravata. E dovrebbero farlo al più presto possibile. Prima della prossima porcata, e della prossima tragedia della quale il Movimento si renderà complice.

“Ogni menzogna che diciamo, contraiamo un debito con la verità. Presto o tardi quel debito va pagato”.
Valery Legasov, Chernobyl

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Carognavirus https://www.carmillaonline.com/2020/04/05/carognavirus/ Sun, 05 Apr 2020 20:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59101 di Alessandra Daniele 

Il conto ufficiale dei morti di Covid-19 in Italia s’avvicina ai 16 mila, però calcolata l’attuale impennata anomala della mortalità generale in tutto il lombardo-veneto, le vittime potrebbero in realtà essere tre volte tanto. Fabbriche, cantieri, stabilimenti, call center però continuano a restare aperti. Business as usual. Come sempre, il capitale se ne strafotte della vita umana, e questa pandemia ne sta puntualmente mostrando ulteriori abissi di criminale strafottenza. A Matteo Renzi, aspirante portavoce di Confindustria, però ancora non bastano, il Cazzarovirus pretende la piena ripartenza produttiva prima di [...]]]> di Alessandra Daniele 

Il conto ufficiale dei morti di Covid-19 in Italia s’avvicina ai 16 mila, però calcolata l’attuale impennata anomala della mortalità generale in tutto il lombardo-veneto, le vittime potrebbero in realtà essere tre volte tanto.
Fabbriche, cantieri, stabilimenti, call center però continuano a restare aperti.
Business as usual.
Come sempre, il capitale se ne strafotte della vita umana, e questa pandemia ne sta puntualmente mostrando ulteriori abissi di criminale strafottenza.
A Matteo Renzi, aspirante portavoce di Confindustria, però ancora non bastano, il Cazzarovirus pretende la piena ripartenza produttiva prima di Pasqua.
Magari il Venerdì Santo.
Matteo Salvini invece crepa d’invidia per il golpe a porta vuota di Victor Orbán.
Ci aveva provato anche lui ad ottenere pieni poteri, ma era estate, e la polmonite era ancora lontana.
Adesso è troppo tardi per rubare il Trono di Spade (cioè siringhe) a Giuseppe Conte, che la pandemia ha trasformato da sagoma segnaposto, a regista pulp del lockdown: Quentin Quarantena.
Così il Capitone cerca di rendersi comunque gradito al capitale proponendo un governissimo a guida Mario Draghi, e un condono edilizio come aiuto alle famiglie che non hanno più soldi per fare la spesa.
“Non hanno pane? Mangino parquet”.
Salvini, da crociato della Madonna Padana, ad aspirante scudiero di Draghi.
Quanto devono sentirsi coglioni i leghisti ad aver creduto alle sue cazzate populiste.
L’Italia è in rianimazione, e avere una classe dirigente di scarafaggi stercorari non l’aiuta a respirare.
Come non l’aiuteranno gratis i cravattari dell’Unione Europea, nonostante i sorrisi melliflui e cazzari della bionda regina di Frozen Ursula Von der Leyen.
I prezzi aumentano.
Le campagne pubblicitarie sfoderano lo stesso patriottismo truffaldino dei politici.
Il capitale non vuole “uscire dalla crisi”. Ci vuole guadagnare.
Come un batterio opportunista che approfitta dell’infezione virale per attaccare l’organismo già debilitato, e installare una superinfezione.
Business is business.
Ad esultare apertamente per la pandemia è l’editore Urbano Cairo, in un video indirizzato ai suoi agenti nel quale festeggia, gasato come un cumenda in un vecchio film di Vanzina, perché l’aver trasformato La 7 in Corona TV, con una programmazione fatta quasi esclusivamente di bollettini medici e chiacchiere via Skype sulla pandemia, gli sta fruttando un boom di audience e di contratti pubblicitari.
Blood in the Streets.
Come dicono a Wall Street, e a La7, è quando il sangue scorre per le strade, e la gente muore soffocata nelle terapie intensive d’emergenza e nelle case di  riposo moratorium, che si fanno gli affari migliori.

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La Fregatura https://www.carmillaonline.com/2018/07/22/la-fregatura/ Sun, 22 Jul 2018 17:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47385 di Alessandra Daniele

C’è qualcosa che in questo periodo spiazza profondamente i complottisti: hanno vinto le elezioni, e sono arrivati al governo. Questo naturalmente non quadra con la loro visione del cosmo, formatasi sulle vecchie stagioni di X Files, insieme alla fissa per l’invasione aliena. Alla fine di ogni episodio sulla Cospirazione, Mulder e Scully tornano sempre a casa scornati, non succede mai che vengano creduti, e promossi ai vertici dell’FBI. Cosa sta succedendo, si chiedono quindi i complottisti al governo, dov’è la fregatura, where is the catch? Sì, Mattarella è parso abbozzare un mezzo tentativo di bloccarli, ma è sembrata più che altro [...]]]> di Alessandra Daniele

C’è qualcosa che in questo periodo spiazza profondamente i complottisti: hanno vinto le elezioni, e sono arrivati al governo.
Questo naturalmente non quadra con la loro visione del cosmo, formatasi sulle vecchie stagioni di X Files, insieme alla fissa per l’invasione aliena. Alla fine di ogni episodio sulla Cospirazione, Mulder e Scully tornano sempre a casa scornati, non succede mai che vengano creduti, e promossi ai vertici dell’FBI.
Cosa sta succedendo, si chiedono quindi i complottisti al governo, dov’è la fregatura, where is the catch?
Sì, Mattarella è parso abbozzare un mezzo tentativo di bloccarli, ma è sembrata più che altro una di quelle cose che si fanno solo per poter dire d’averci provato. E secondo il leghista Giorgetti, Mario Draghi s’è subito occupato d’intercedere perché la crisi si risolvesse.
I complottisti sono al governo, e non riescono a spiegarsi come sia potuto succedere.
L’aver venduto il culo a Berlusconi non gli sembra una spiegazione sufficiente. Dopo la presidenza del Senato e il ministero chiave dell’Economia, hanno consegnato a Forza Italia e a Mediaset anche la Giunta per l’Immunità parlamentare, e la Commissione per la Vigilanza Rai. Eppure si ritengono ancora duri e puri nemici del Sistema.
Quindi a ogni ombra sobbalzano, e strappano una tenda convinti ci sia nascosto dietro un killer transgenico, trovandoci però soltanto un termosifone con due pantofole sotto.
È successo anche la settimana scorsa. Come richiesto dallo stesso governo, l’Inps ha fatto i conti in tasca al cosiddetto Decreto “Dignità”. Luigi Di Maio ha gridato al complotto, dicendo “me la sentivo!” E ha sferrato un calcio al termosifone dietro la tenda.
Intanto Savona della loro Squadra Antieuro finiva indagato per usura bancaria.
Questa non se la sentivano.
Come al solito i complottisti cercando dettagli nell’ombra, si perdono quello che è sotto gli occhi di tutti.
Con la fine di quest’anno si conclude anche il Quantitative Easing, l’espediente inventato proprio da Mario Draghi per preservare in animazione sospesa l’economia europea.
S’annuncia all’orizzonte una tempesta di merda che chiunque al governo dovrà affrontare, e i porti per la nave Italia saranno chiusi.
Non che ci sia stata una trappola, i populisti hanno messo la testa sul ceppo da soli, promettendo l’impossibile per vincere. Hanno voluto la bicicletta, e al ritorno dalle vacanze gli toccherà pedalare.
The catch is out there. La fregatura è là fuori.

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L’ultimo vaffanculo https://www.carmillaonline.com/2018/04/29/lultimo-vaffanculo/ Sun, 29 Apr 2018 20:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45273 di Alessandra Daniele

Gli elettori erano stati chiari: basta inciuci, basta PD. Cos’ha proposto il Movimento 5 Stelle? Un inciucio col PD. Quel Demostelle che tutte le élite chiedono fin dal 5 marzo, perché il PD è il garante dell’establishment, di quel pilota automatico di cui parlava Mario Draghi. E ormai è chiaro che non gli è affatto necessario sopravvivere alle elezioni per restare al potere. Così, dopo essersi insultati a vicenda per anni chiamandosi mafiosi, fascisti, assassini e zombie, grillini e piddini, se non fosse per Renzi, potrebbero allearsi, col PD che torna al governo [...]]]> di Alessandra Daniele

Gli elettori erano stati chiari: basta inciuci, basta PD.
Cos’ha proposto il Movimento 5 Stelle? Un inciucio col PD.
Quel Demostelle che tutte le élite chiedono fin dal 5 marzo, perché il PD è il garante dell’establishment, di quel pilota automatico di cui parlava Mario Draghi. E ormai è chiaro che non gli è affatto necessario sopravvivere alle elezioni per restare al potere.
Così, dopo essersi insultati a vicenda per anni chiamandosi mafiosi, fascisti, assassini e zombie, grillini e piddini, se non fosse per Renzi, potrebbero allearsi, col PD che torna al governo dopo l’ennesima sconfitta alle urne, riuscendo ancora una volta a spacciarlo come un sacrificio per il Bene del Paese, e il Movimento 5 Stelle che si rimangia anche l’ultimo dei suoi distinguo, dei suoi principi “non negoziabili”.
Non c’è da stupirsi che parte della base grillina sia in rivolta, c’è da stupirsi che non lo sia tutta.
Dopo aver raccolto per anni il voto di protesta solo per congelarlo, il Movimento 5 Stelle adesso vorrebbe consegnarlo al PD. Adoperare milioni di voti anti-sistema per mantenere al governo il principale garante del Sistema. Ed è stizzito dal rifiuto di Renzi.
È lo sputtanamento del secolo, ed è già irreversibile, a prescindere dall’esito della trattativa, perché Casaleggio e Di Maio sono pronti, e se l’inciucio salterà, sarà soltanto a causa di Renzi che ancora spera nel Governissimo, e nella Controriforma.
È lo smascheramento definitivo di un’opposizione farlocca, completamente funzionale al sistema di potere che millanta di voler abbattere.
Pur d’insediarsi sul trono di Re Sòla, il M5S attraverso il preservativo bucato d’un ridicolo “contratto alla tedesca”, s’è prima offerto ai fascioleghisti alleati storici di Berlusconi, che dopo averlo definito “Il mafioso di Arcore”, da 24 anni ne controfirmano tutte le peggiori porcate. E poi al PD del Cazzaro, responsabile del Jobs Act, del Salva Banche, della Buona Scuola, della Dottrina Minniti, del tentativo di smantellare la Costituzione.
“Il giorno in cui il Movimento 5 Stelle si dovesse alleare coi partiti responsabili della distruzione dell’Italia, io lascerei il Movimento 5 Stelle”. Parola di Alessandro Di Battista.
Se una delle due profferte a Lega e PD alla fine sarà accettata, cosa farà l’ala “movimentista” del Movimento, Lascia o Raddoppia?
Il voto del 4 marzo era stato definito “un terremoto”. “Niente sarà più come prima” avevano vaticinato gli editorialisti.
In realtà, votare serve solo a scegliere quale maschera indosserà l’establishment.
Grillo lanciò la sua “rivoluzione” cercando inutilmente di candidarsi alle primarie del PD. Oggi il cerchio si chiude. “L’era del vaffanculo è finita”, Beppe dixit.
Col PD o con la Lega, affanculo ci andranno la “rivoluzione” grillina, e tutti quelli che ci avevano creduto.

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