Mario Bava – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Diabolik”, un’estetica dello spazio sovversiva https://www.carmillaonline.com/2021/12/27/diabolik-unestetica-dello-spazio-sovversiva/ Mon, 27 Dec 2021 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69800 di Paolo Lago

Nelle prime sequenze di Diabolik (2021), dei Manetti Bros., vediamo la Jaguar nera del protagonista che, dopo una rapina a una banca, percorre a tutta velocità una galleria pedonale sotto un palazzo del centro per poi immettersi sulla strada principale ed essere subito inseguita dalle auto della polizia. La strada è circondata da entrambi i lati da palazzoni grigi e cubici, che sembrano delle enormi scatole e tutto l’inseguimento avviene in questo rigido percorso obbligato, come se si trattasse dello spazio di un tunnel. Del resto, anche la precedente versione [...]]]> di Paolo Lago

Nelle prime sequenze di Diabolik (2021), dei Manetti Bros., vediamo la Jaguar nera del protagonista che, dopo una rapina a una banca, percorre a tutta velocità una galleria pedonale sotto un palazzo del centro per poi immettersi sulla strada principale ed essere subito inseguita dalle auto della polizia. La strada è circondata da entrambi i lati da palazzoni grigi e cubici, che sembrano delle enormi scatole e tutto l’inseguimento avviene in questo rigido percorso obbligato, come se si trattasse dello spazio di un tunnel. Del resto, anche la precedente versione cinematografica tratta dal fumetto di Angela e Luciana Giussani, diretta da Mario Bava (1968), iniziava con l’inquadratura di due palazzoni cubici che rappresentavano una banca. L’estetica e la rappresentazione dello spazio, nel film dei Manetti Bros., appare sapientemente giocata su un contrasto ed un’alternanza di spazi stretti, angusti e ‘tunnellizzati’ e di spazi caratterizzati invece da ariosità ed aperture. Se l’eroe, già nelle tavole dei fumetti delle sorelle Giussani, si muoveva in luoghi angusti, stretti e cunicolari, il film sembra giocare su questa opposizione in modo nuovo ed inedito.

Lo sfondo dell’immaginaria città di Clerville si trasforma nella greve rappresentazione iconica e monumentale dell’oppressione di un potere rigido e geometrico. L’auto di Diabolik, nelle prime sequenze, percorre uno spazio cunicolare e ‘tunnellizzato’, serrato da case grigie e tetre che sembrano quasi appartenere ad una distopica società del futuro gravata da una pervasiva e crudele dittatura. Possono venire in mente certe sequenze de I cannibali (1970) di Liliana Cavani, in cui vediamo le strade di una grigia Milano del futuro ricoperte di cadaveri, silenziose e allucinate. La Clerville di Diabolik è ricostruita fra Bologna e Milano (nella fattispecie, le immagini dell’inseguimento iniziale sono state girate a Bologna, fra gruppi di palazzoni anni Cinquanta e Sessanta1) e, soprattutto nei momenti in cui assistiamo agli inseguimenti notturni, appare come una città abbandonata, segnata quasi da una catastrofe post-apocalittica. E allora si potrebbe pensare anche agli sfondi urbani romani ‘svuotati’ e catatonici (soprattutto un raggelato Eur) che incorniciano gli spostamenti dell’unico sopravvissuto a una terribile epidemia che ha trasformato tutti gli altri esseri umani in vampiri, in L’ultimo uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona.

L’estetica dello spazio che sta alla base del film dei Manetti Bros. inquadra i palazzi degli anni Cinquanta e Sessanta (secondo una didascalia che compare all’inizio del film ci troviamo a Clerville, alla fine degli anni Sessanta) come se fossero dei vuoti monumenti alla solitudine e alla desolazione, come in certi momenti di L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni. Se in quest’ultimo film i palazzoni del boom economico italiano rappresentavano l’emblema di un potere che, in nome dell’edilizia selvaggia, cominciava a devastare gli spazi verdi delle città, nel film dei Manetti Bros. i palazzi e l’architettura rappresentano i monumentali fasti di un grigio e oscuro potere, incarnato dal viceministro Giorgio Caron, ricattatore e corrotto. D’altra parte, bisogna anche notare che gli sfondi della Clerville anni Sessanta (che allude chiaramente a spazi urbani italiani dell’epoca) sono stati ricostruiti in modo pressoché perfetto, così da essere paradossalmente quasi più ‘credibili’ di quelli del precedente Diabolik, girato proprio negli anni Sessanta.

I palazzi del potere, come anche l’albergo di lusso nel quale alloggia Eva Kant, sono tante scatole nelle quali si riproduce l’oscuro e vuoto discorso del potere, dove gli stessi rappresentanti di quel potere  si muovono discutendo di futilità mondane, come nei film dell’ultimo Buñuel. Dopo l’inseguimento iniziale la scena si sposta proprio negli ambienti dell’alta borghesia e della nobiltà di Clerville, in una sontuosa località montana ricostruita a Courmayeur: gli interni sono quelli in cui si ripete inesausta la parola contemporaneamente lugubre e canzonatoria della classe sociale che detiene il potere. Nei discorsi che i principali esponenti di questa classe rivolgono a Eva Kant, appena arrivata col suo prezioso diamante rosa, la figura di Diabolik appare come un personaggio che si situa al di fuori della società, il pericoloso bandito e criminale sovvertitore dell’ordine costituito. Egli è un vero e proprio personaggio “del fuori”, che si situa al di là del potere che cataloga e che divide, che crea le griglie urbane della moralità e della legge. Il criminale mascherato, in quanto simbolo del lato oscuro della società, del lato che sta in ombra, sembra appartenere a quella «esperienza del fuori» messa in luce da Michel Foucault, quando il pensiero «diviene pensiero del limite, della soggettività spezzata, della trasgressione; con Klossowski, e l’esperienza del doppio, dell’esteriorità dei simulacri, della moltiplicazione teatrale e demente dell’io»2. Diabolik è l’alfiere della soggettività spezzata, facitore dell’esteriorità dei simulacri, creatore di inquietanti maschere di gomma che riproducono fedelmente i volti di quegli stessi personaggi del potere, a cominciare dal suo acerrimo nemico, l’ispettore Ginko. Diabolik giunge dal ‘fuori’ di quegli interni borghesi, dediti al potere e ai suoi fasti, trama e agisce nella notte e nell’oscurità, da un limite oscuro difficilmente raggiungibile se non si è trasgressori totali. Egli si muove in quello spazio ‘tunnellizzato’, inscatolato, segnato dalla greve materia architettonica del potere solamente per distruggerlo ed annientarlo. Non è un caso, infatti, che Diabolik riesca a sfuggire all’inseguimento iniziale di Ginko uscendo dallo spazio-tunnel fra i palazzi, imboccando una strada periferica piena di curve. Alla linea geometrica e rigida della strada cittadina, egli oppone la linea ondulata e serpentina della strada periferica aperta, dietro la quale si staglia un panorama notturno e nella quale, letteralmente, ‘sparisce’. Infatti, per rifarsi alle teorie sullo spazio di Bertrand Westphal, si può affermare che «la trasgressione interviene quando si disegna un’alternativa alla linea diritta del tempo, alle figure troppo geometriche dello spazio civilizzato»3.

Diabolik è abitatore del ‘fuori’ anche nel senso che appartiene alla terra, sbuca misteriosamente da cunicoli nel giardino dell’elegante villa che usa come copertura. Con la sua Jaguar nera si insinua in reconditi cunicoli scavati nella roccia, lungo un’anonima strada di periferia, per mezzo di marchingegni che mirano ad inceppare l’onnipresente, lugubre marchingegno del potere. Egli appartiene al sottosuolo, non allo spazio elegante e luminoso della villa che, col falso nome di Walter Dorian, abita insieme alla fidanzata. Il film gioca abilmente anche sul contrasto tra Diabolik mascherato e Diabolik senza maschera, come se l’uno fosse il doppio speculare dell’altro. Se il primo appare soprattutto di notte ed è legato ad ambienti cunicolari e ‘inscatolanti’, il secondo appartiene alla luce del giorno e ad ambienti aperti e luminosi. La figura di Walter Dorian, senza maschera, si staglia sulla grande vetrata della propria villa mentre parla con la fidanzata Elisabeth oppure quando, a Ghenf, prepara il suo piano insieme a Eva, avendo alle spalle una vetrata che si apre sulla libera spazialità del mare. Diabolik mascherato, invece, è l’abitatore della notte e del buio, dei suoi misteriosi rifugi o dei cunicoli sotterranei della città di Ghenf, del caveau blindato della banca la cui rappresentazione spaziale appare sullo schermo sotto forma di ricostruzione grafica.

Ed è alla luce del sole, in uno di quegli interni sfarzosi del potere – il lussuosissimo albergo – che il personaggio subisce il fascino perverso della bellissima Eva Kant, che porta «un nome che è un omaggio al grande filosofo amato da Angela Giussani»4. Il film si ispira infatti, per la maggior parte, all’episodio L’arresto di Diabolik, in cui Eva Kant compare per la prima volta come una donna dal passato misterioso, vedova di un Lord Anthony Kant ucciso da una pantera. Come nel fumetto, anche nel film fra Diabolik e Eva Kant «si stabilisce una storia d’amore basata sulla simmetria totale e sulla condivisione piena di ogni esperienza»5. Essi si configurano come una coppia eroicizzata al negativo e «il loro combattere la legge proviene da una forza arcaica, brutale e animalesca, del tutto antisociale e distruttiva»6. Di fronte alla bellissima Eva, Diabolik non esita a togliersi la maschera del malcapitato cameriere del quale aveva assunto l’identità e che, nell’albergo, avrebbe dovuto servire esclusivamente la ricchissima donna. Nello spazio luminoso della stanza d’albergo il personaggio appare perciò senza maschera e, invece della sua tuta nera, indossa un completo bianco da cameriere.

Gli spazi del potere, nel film, sono quelli del denaro e della politica. Le banche e il ministero sono i luoghi che Diabolik cerca di sabotare per mezzo delle sue potenzialità arcaiche e distruttive, legate al campo semantico della notte. La banca è lo spazio eterotopico perfetto da sabotare, da distruggere, da mandare in tilt secondo precisi calcoli millimetrici. Tutti gli strumenti che la società, guidata da quell’oscuro potere, utilizza per catalogare, separare, discriminare le ricchezze delle classi sociali benestanti devono essere mandati in frantumi. La banca di Ghenf è il vuoto involucro di quel potere, lo spazio-scatola che deve essere scardinato e devastato. Nello stesso modo, devono essere sabotati gli spazi della politica: gli interni del ministero, austeri e monumentali, nascondono un ufficio in cui si accumulano le scartoffie burocratiche di un potere che si tiene in piedi solamente grazie all’inganno e alla corruzione. Ma c’è un altro spazio che deve cadere sotto la distruttiva e notturna vendetta di Diabolik, ed è quello della prigione, del carcere, di una spazialità imprigionante fra le cui oscure mura si eleva la lama del supplizio della ghigliottina. Per combattere le dinamiche imprigionanti del «sorvegliare e punire», il personaggio non utilizzerà la sua versatile abilità fisica ma una forma di catatonia che manderà in tilt la logica del potere. ‘Zombificato’ e quasi ‘mummificato’ in un macabro doppio, Diabolik riuscirà ad evadere dal carcere assestando un duro colpo a quel geometrico e corrotto potere. Le rigide geometrie della prigione e i suoi cunicoli, infatti, assomigliano troppo alla rigidità dei fastosi palazzi della politica e alla cubica perfezione del caveau della banca: prigione, ministero e banca, infatti, non rappresentano altro che le escrescenze materiche di un potere che grava sulla quotidianità dell’immaginaria Clerville ma anche su quella di molti altri luoghi reali.

Dopo spazi imprigionanti e cunicolari, la fine del film sembra offrire nuove aperture: nel simmetrico faccia a faccia fra Ginko e Diabolik (interpretati, rispettivamente, da due bravi Valerio Mastandrea e Luca Marinelli) con lo sfondo ‘aperto’ del golfo notturno e illuminato di Ghenf (ricostruita a Trieste) ma soprattutto nelle sequenze finali sulla barca che vede Diabolik e Eva (interpretata da Miriam Leone) in viaggio verso nuove avventure, avvolti dalla libera spazialità del mare. La luminosità del sole offre di nuovo un Diabolik senza maschera, emerso da un’infernale lotta con un potere meschino e corrotto. Al suo fianco, adesso, c’è Eva Kant e quello spostamento nomadico nella vastità del mare verso nuovi orizzonti probabilmente sta a indicare che la loro lotta trasgressiva e demonica non avrà mai fine.


  1. Cfr. E. Giampaoli, Attenti, c’è Diabolik in via Marconi, su “bologna.repubblica.it”, 8 ottobre 2019. 

  2. M. Foucault, Il pensiero del fuori, trad. it. SE, Milano, 1998, p. 20. 

  3. B. Westphal, Geocritica. Reale Finzione Spazio, trad. it. Armando, Roma, 2009, p. 65. 

  4. M. Fusillo, Eroi dell’amore. Storie di coppie, seduzioni e follie, Il Mulino, Bologna, 2021, p. 44. 

  5. Ibid. 

  6. Ivi, p. 48. 

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 66 https://www.carmillaonline.com/2015/01/15/divine-visioni-porno-66/ Thu, 15 Jan 2015 22:00:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19961 di Dziga Cacace

Lo vedi quante cose che ci sono da salvare, con la guerriglia culturale? (A.F.A.)

ddv6601732 – Tant’è, Flags of Our Fathers è un film destrorso di Clint Estwood, USA 2006 Ormai ‘sta faccenda dell’idolatria sbarazzina e manifesta di Eastwood mi pare cominci a diventare proprio una veltronata pericolosa. Perché ci risiamo anche stavolta: come in Salvate il soldato Ryan di Spielberg, qui si racconta tronfiamente dell’ultima guerra “giusta” degli Stati Uniti e, siccome viviamo in anni in cui – tanto per cambiare – gli USA si ritengono in missione per conto di Dio a menare mazzate per il mondo, alla fine l’assunto [...]]]> di Dziga Cacace

Lo vedi quante cose che ci sono da salvare, con la guerriglia culturale? (A.F.A.)

ddv6601732 – Tant’è, Flags of Our Fathers è un film destrorso di Clint Estwood, USA 2006
Ormai ‘sta faccenda dell’idolatria sbarazzina e manifesta di Eastwood mi pare cominci a diventare proprio una veltronata pericolosa. Perché ci risiamo anche stavolta: come in Salvate il soldato Ryan di Spielberg, qui si racconta tronfiamente dell’ultima guerra “giusta” degli Stati Uniti e, siccome viviamo in anni in cui – tanto per cambiare – gli USA si ritengono in missione per conto di Dio a menare mazzate per il mondo, alla fine l’assunto autoassolutorio è che se avevamo ragione da vendere allora – con nazi e musi gialli –, vuoi che abbiamo torto marcio oggi con quegli arabi isterici e puzzoni? E son mica io che mi faccio i film, eh, è Clint, perbacco! Flags of Our Fathers ci racconta di come una foto (quella celeberrima della conquista del monte Suribachi, in quell’isolaccia vulcanica di merda che è Iwo Jima) abbia significato moltissimo per la vittoria finale alleata e per risparmiare vite, anche giapponesi. E allo scopo ci si servì pure della menzogna e della più bieca propaganda… e questa sarebbe la parte più interessante e problematica del film, sennonché c’è una retorica di fondo – le immagini della bandiera, gli sguardi persi nel vuoto, la voce interiore del protagonista – che tutto appesantisce, calcando la mano su aspetti patriottici ed esistenziali che non avevano alcun bisogno di essere spiegati e dispiegati come una gigantesca stars and stripes. E anche il montaggio e la costruzione a incastro della vicenda, con le progressive scoperte e i dolorosi ricordi che affiorano, non mi son piaciuti per niente: meccanici, prevedibili e sempre un po’ fuori luogo. E non mi han fatto impazzire neanche le facce degli attori e la fotografia. E… insomma: ‘sto film mi ha fatto proprio cagare, diciamolo dritto come va detto, esteticamente e politicamente. A proposito della foto famosa, tra l’altro: l’autore, Joe Rosenthal, si è battuto una vita per difendersi dalla diceria che la foto fosse organizzata ad arte. Tutto nasce da un equivoco: il reporter ha visto dei marines che innalzavano la famosa bandiera. È accorso sulla cima del vulcano e ha fotografato un secondo gruppo di soldati che ripeteva (autonomamente) il gesto e dopo gli ha chiesto di posare sotto la bandiera. Quando Rosenthal ha spedito i rullini (non sapendo come avesse fotografato, mica c’erano le digitali, pora stella) ha fatto una sommaria descrizione del materiale e credendo che la foto migliore fosse quella in posa, l’ha indicata come tale. E da lì l’equivoco, corroborato dai sospetti di altri giornalisti e rilanciato più volte nel corso degli anni, al punto che alcuni hanno anche suggerito di ritirare il Pulitzer vinto con lo scatto. E invece era una bella fotina originale, brutti infingardi. Ma ribadisco: il film è confuso, non riuscito, destrorso e imperialista, tiè. (Dvd; 19/1/09)

ddv6602733 – L’isterico Cani arrabbiati di Mario Bava, Italia 1973
Straculto inedito per 25 anni che non riesco ad apprezzare granché (perché lo trovo interessante sì, ma anche bruttino, ecco perché) e che i critici estrosi portano in gran stima, come concentrato pulp ante litteram di efferata ultraviolenza, turpiloquio scatenato e generale insensatezza criminale, cose che – non si discute – 40 anni fa erano decisamente una bella botta. Però del primato me ne frega assai (a me importa chi fa le cose bene, come Pelé col Brut 33, non per primo) e questa regia di Bava padre è lontanissima dal suo classico tocco magico e sognante: è iperrealistica, sadica e compiaciuta di una rozzezza registica sicuramente programmatica ma per nulla affascinante nel suo sgangherato pauperismo. Dunque: c’è la classica rapina a mano armata che va subitissimo in vacca, con strascico di morti e fuga con ostaggio femmineo sulla macchina di uno sfigato che sta portando all’ospedale il figlio malato. Il “Dottore” sembra saperla lunga però si accompagna a due psicopatici, l’esuberante “Trentadue” (al cui confronto i 24 centimetri di Siffredi sono una bazzecola) e il sanguinario “Bisturi” (un inedito Don Backy, che sembra il giovane Stallone, isterico e sudato, tanto quanto il film stesso). Recitazione non particolarmente curata, montaggio scomposto, dialoghi acidi, fotografia lattiginosa, musica di Stelvio Cipriani pessima. Molta azione (anche psicologica) e ritmo non disprezzabile in un’Italia che sembra arcaica: il finale è riuscito, abbastanza inaspettato seppur intelligentemente anticipato dai titoli di testa, ma il film – nel complesso – mi pare che appaghi il gusto per la rarità di certi cinesegaioli piuttosto che essere un capolavoro misconosciuto come si va dicendo. (Dvd, gennaio 2009)

ddv6603734 – Viva Viva Santana! di Tom McQuade, USA 1988
Siccome mi sono imbarcato nella missione impossibile di raccontare la storia dell’incompreso compagno Carlos Santana, non posso esimermi dal vedere alcuni dvd che aspettano nella mia videoteca da eoni. Questo è un documentario che nel 1988 celebrava i vent’anni di carriera della band del magico chitarrista, con tante clip (dal 1969 fino al 1987) tratte da concerti o apparizioni televisive. Ogni tanto Carlos commenta e racconta e magari copre una splendida Samba Pa Ti del 1973 (argh!). Però l’idea è carina, le immagini incredibili, i completini del leader atroci. Per uno come me è il Nirvana, per qualunque altra persona non so. La cosa migliore è il pezzo conclusivo di un concerto tenuto a Santo Domingo nell’arena tipo teatro greco de La Romana (già di per sé una location kitschissima: l’ho visitata con imbarazzo primomondista quindici anni fa e i locali si vantavano che lì si fosse esibito Nicola Di Bari, per dire): un improvviso e violento acquazzone tropicale costringe a chiudere la baracca prima che qualcuno ci rimanga secco, fulminato attaccato allo strumento. Ma i Santana non mollano, le percussioni impazzano, la chitarra è senza freni e il pubblico è galvanizzato e balla nella pioggia, riparandosi con dei cuscini rettangolari che sembrano delle pizze da consegnare. A fine brano l’organizzatore nervosissimo annuncia che il concerto è finito per garantire l’incolumità dei musicisti ma dalle facce contrariate capisci che la band sarebbe andata avanti a rischio scossa mortale. Eccezionale: se il buon gusto latita nell’abbigliamento e in certe esagerate soluzioni musicali, comunque Santana rimane uno dei più grandi di sempre. Siccome non è cool nessuno lo ricorda mai, anzi, semmai ne mette in evidenza i peccadillos, ma per me nessuna musica rock ha corazon y cojones come la sua. Se voglio l’epica vado con lo Springsteen del 1978; se voglio salire a un livello diverso di percezione del reale datemi gli Allman Brothers del 1971; se devo sfogarmi, urlare e ballare prendo i Deep Purple del 1972. Ma se voglio tutte queste cose assieme, un po’ di jazz e anche una spruzzata di orgogliosa cafonaggine, beh, c’è solo Carlito. (Dvd; 23/1/09)

ddv6604735 – Il pessimo Signore e signori, buonanotte di Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola, Italia 1976
Un orrendo film a episodi firmato oltre che dai registi anche dai più grandi sceneggiatori nostrani (Age e Scarpelli, Pirro, Maccari, De Bernardi, Benvenuti) tutti riuniti in militante cooperativa e interpretato – tolto Sordi – dai senatori della commedia all’italiana Gassman, Tognazzi e Manfredi, più Villaggio e Mastroianni. Ma il risultato è deludente, freddo, pretenzioso e fuori misura: non fa ridere quasi mai (salvo forse l’episodio “di costume” del Disgraziometro – a me il Villaggio carogna diverte sempre), non fa granché pensare quando c’è un intento satirico esplicito ed è minimamente più interessante solo quando emerge una vena poetica (Tognazzi barbone, per esempio) o semplicemente realistica. L’ideale palinsesto di un futuribile terzo canale – che dà l’ossatura al film – risulta perlopiù una raccolta di sketch e barzellette di scarsa efficacia politica e credibilità, una sorta di qualunquismo “di sinistra” facilone che riesce difficile accettare come impegno reale, anche quando se ne avverte una sincerità (seppure mal espressa, vedi l’episodio napoletano Sinite Parvulos). Per quel che mi riguarda ritrovo quel cinismo di certo cinema italiano anni Settanta, greve e strafottente, col solito umorismo sui dialetti, sui morti di fame, sui difetti fisici, per non parlare delle tette messe lì perché fanno allegria a noi maschiacci che denunciamo i fascisti, la CIA, la chiesa, la tivù, le forze dell’ordine e i politici ma alla maniera nostra, da cazzoni. Mah, una fetecchia di film: solo un anno dopo un film commerciale senza pretese – vituperato dalla critica parruccona – come Il… Belpaese racconta e satireggia gli anni Settanta molto meglio, anche senza vantare i galloni autoriali di questa porcata. E non mi metto a citare neanche i primi Fantozzi, dài. (Dvd, febbraio 2009)

ddv6605736 – Bellissimo, lo ammetto, Letters from Iwo Jima di Clint Eastwood, USA 2006
Più intenso, umano, delicato – e decisamente riuscito – del film dedicato ai soldati americani a Iwo Jima, questo Letters nobilita il dittico di Eastwood. Però non illumina a posteriori Flags of Our Fathers mentre esserne l’ideale controcampo in qualche maniera gli nuoce, perché il dietrologo che s’annida in me ne vede la funzione equilibratrice e democristiana. Là guerra necessaria e giusta, qui guerra imposta e salvata solo dal proprio onore, ma comunque guerra sbagliata. Però dico sempre un sacco di vaccate, per cui non son neanche tanto sicuro di essere d’accordo con ciò che ho appena scritto. Letters from Iwo Jima è narrato pacatamente ed è atroce, lirico e commovente. È bella la struttura, funziona il montaggio, abbacina la fotografia e splendono gli attori, tutti in parte. Bello e straziante, sofferta e doverosa lode a Clint. Boh. Sarà che sono stremato dal sonno. Infatti Elena è molto simpatica, di giorno: amabilmente grassa e ridanciana. La notte però è meno gradevole. Ieri sera è andata a letto alle 20.10 e si è addormentata in pochi minuti in braccio a me che le cantavo Nebraska di Springsteen. Siccome non so andare oltre la seconda strofa, forse è per sapere come va a finire la murder ballad che s’è svegliata alle 21.00. L’ha riaddormentata Barbara, ma alle 22.15 la piccina ha urlato come Bruce Dickinson degli Iron Maiden. Da genitori responsabili l’abbiamo lasciata fare e si è riaddormentata di nuovo. Alle 23 è ripartito l’urlo Scream for me Long Beach che stavolta ci ha un po’ turbato, avendo nervi ormai fragilini. Però Barbara l’ha nuovamente assopita. A mezzanotte invece è stata un po’ più dura e son serviti 40 minuti per calmarla mentre io divoravo furiosamente a morsi un Negronetto. Avete presente il libro d’auto aiuto Fate la nanna? L’ha scritto un argentino (secondo me un nazista in fuga) senza figli, molto rigido con genitori e neonati, e non serve veramente a un cazzo, ecco. Alle 2 e 40 Sofia ha un attacco di tosse degna di Sandro Ciotti ed Elena viene prudenzialmente spostata in camera nostra per non farla svegliare. Cosa che però accade pochi minuti dopo, tanto che ne approfitta per ciucciare una tetta di Barbara che è troppo stravolta per far resistenza come consigliano tanti pediatri belli riposati perché la notte dormono, loro. Siccome alle 6 la palla di lardo richiede ancora latte bisogna darglielo se si vuol provare a sonnecchiare ancora un’oretta. Infatti alle 7 e 30 Elena si sveglia fresca come una rosa, sorridente e gutturale, pronta a una nuova giornata di borborigmi entusiasti. Siamo stremati. (Dvd; 8/2/09)

ddv6606737 – Gli imprevedibili turbamenti erotici di Cenerentola di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson e Hamilton Luske, USA 1950
Il classico dei classici che mai avevo visto prima. Esilino però ben costruito, fiaba perfetta per Sofia. Devo dire che l’ho visto pensando ad altro, anche perché grazie a Elena ho raggiunto nuovi traguardi cognitivi e ho capito cos’ha provato Padre Karas nella famosa scena del vomito verde de L’esorcista. Vabbeh. Dove lavoro ormai siamo in tanti a esser diventati genitori per cui spesso, a pranzo, si finisce a parlare della figliolanza. E di cinema per bimbi, praticamente l’unico che vediamo. Ci scambiamo pareri e dvd e siccome siamo una redazione di zozzoni (e mi assumo la responsabilità più alta) ci siamo ridotti ad eleggere la miglior CILF, cioè il Cartoon I’d Like to Fuck. Personalmente voto sempre la Jasmine di Aladdin, conturbante bellezza orientale profumata di spezie. Trilli di Peter Pan non mi attizza per niente anche se essere una gnocca tascabile potrebbe rappresentare un bel vantaggio. Della Sirenetta ho già detto, paventando l’ipotizzabile connubio ittico-genitale. E questa Cenerentola? No, non mi attizza per niente, tutta in ordine, borghesissima, buonissima, con gli occhioni sgranati. L’unico momento in cui mi suscita pensieri sporchi è quando le sorellastre Anastasia e Genoveffa le stracciano addosso l’abito da sera impedendole di andare al gran ballo del principe. E in questa scena degna di un lesbo prison-movie, Cenerentola, scarmigliata, coi capelli mossi e il respiro affannoso ha un suo perverso perché. Ma solo lì, eh. Ragazzi, io devo tornare a dormire, prima o poi. (Vhs; 17/2/09)

ddv6607738 – Accontentiamoci di Asterix e i vichinghi di Stefan Fjeldmark e Jesper Møller, Francia 2006
Devo dare un’educazione alla piccina che va per i 4 anni: a casa mia Asterix è un totem da adorare e procedo con la proposizione di un film recente che ha radici antiche, infatti la storia ricalca l’albo Asterix e i normanni del 1966, ma sposta l’azione anche nelle terre del Nord dove vivono gli ottusi vichinghi che mangiano tutto condendo con panna e salmone. Alla trama si aggiunge una vicenda d’amore tra il giovane Spaccaossix (nel fumetto era Menabotte) e Abba, nuovo personaggio figlio di Grandibaff. Spaccaossix è vegetariano, pacifista (ergo smidollato) e gli piace la musica dance, mentre nel ‘66 era un capellone che amava il beat (da ascoltare rigorosamente all’Olimpix di Lutezia!). Accetto i tradimenti a Goscinny e Uderzo e trovo il film passabile nonostante certi giovanilismi (il linguaggio gergale atroce, il piccione SMS, la moglie di Grandibaff Ikea… tra vent’anni sarà obsoleto anche questo cartoon). Più che altro apprezzo la fedeltà del disegno, dai personaggi agli sfondi, anche nella resa tridimensionale; le musiche ruffianeggiano tra cover d’annata e qualche botta di modernità. Sofia ne rimane entusiasta, io – da vecchio fan – approvo sornione e generoso. Ma a parte francesi, bimbi e vecchi rincoglioniti (come me), a ‘sto film non trovo un pubblico. (Dvd; 14/03/09)

ddv6608739 – L’investimento piramidale in Lost – Quarta serie di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2008
Innanzi tutto, attenti agli spoiler, perché mi scapperanno. Dunque: sette mesi dopo la terza serie, ci buttiamo sulla quarta non appena la piccola Elena ce lo permette. Apro un inciso, doloroso: siamo arrivati anche a 13 sveglie notturne e a 3 notti bianche consecutive (il Festival del Samba di casa Cacace) ma adesso va leggermente meglio: ho deciso di dormire in camera col mostro. A intuito ho cominciato a intimarle degli ssssh, appena lei prende a lamentarsi nel sonno, perché la carogna non si sveglia mai però sbadiglia, piange, urla, singhiozza mentre dorme: forse è un precoce pavor nocturnus, forse sono i postumi della sesta malattia, forse l’anticipazione dei denti che stanno uscendo, forse è una bestemmia che non voglio qui riportare. Boh. Io più o meno sto sveglio fino alle 5 del mattino quando passo la palla a Barbara che s’è fatta nel frattempo circa 7 ore di sonno. Io ne dormo 3 e poi si riparte. Ho la faccia ridotta come un cesto di vimini, per capirci. Però – come dicevo – qualche mezz’ora si trova ed è sempre un piacere tornare a perdersi sull’isola, un piacere enorme. E anche un gran casino: adesso abbiamo anche i flashforward e i viaggi nel tempo che si sovrappongono a flashback di diversa “profondità” temporale, giocando spesso sull’equivoco se siano ambientati prima o dopo il crash landing che ha dato avvio alla storia. Ogni puntata ha in serbo qualche tranello e tu abbocchi all’amo se non stai attentissimo a tutti i particolari, come un cellulare troppo grosso per essere post salvataggio… cose così; una sfida continua ai tuoi sensi di spettatore, alla tua conoscenza dei meccanismi narrativi, alla tua credulità portata sempre più a livelli esasperanti. L’apparato tecnico è clamoroso come sempre (non pensi mai: è televisione; lo vedi sempre come cinema e a un livello superiore). Gli attori hanno facce eccezionali, a parte Evangeline Lilly, Kate, che mi irrita perché sembra un coniglio farcito di botox. Il cuore della serie è il fatto che c’è un futuro in cui è stato fatto credere che il volo 815 sia finito in fondo all’oceano e si siano salvati solo sei persone (gli ormai popolarissimi Oceanic Six). Ma come si arriva a tutto ciò? Chi ha organizzato la messinscena? Chi sono i sei? E gli altri? Fioccano anche le ipotesi teologiche. L’incredibile manipolatore Benjamin è Dio. O forse no, ma l’isola è il Paradiso. O l’Inferno. E sono tutti morti. O gli spettatori sono tutti morti. Io sono morto, su questo non ci piove. Non capisco veramente più una minchia, ma se E.R. è il drama televisivo per eccellenza, e 24 è il thriller perfetto, allora Lost condensa action, thriller complottistico, fantascienza e tutta la pop culture degli ultimi 40 anni in maniera sublime, realizzando la fiction perfetta, che ti fa prigioniero sull’isola che non c’è. Perso, per sempre, in attesa che ci spieghino cosa cazzo è successo. (Aggiungo: il finale della serie fa presagire brutte cose, e tempero l’entusiasmo di questo parere: all’improvviso mi son sentito come quelli che aderiscono ingenuamente a un programma di investimento multilevel, o comunque una di quelle truffe piramidali dove continui a versare soldi – e qui coinvolgimento spettatoriale – in attesa del riscontro finale… oh, non è che questi fanno crac e a me rimane in mano un pugno di mosche? Mah). (Dvd; aprile 2009)

ddv6609740 – L’esotico Kiriku e la strega Karabà di Michel Ocelot, Francia/Belgio 1998
Fiabona africana molto serena che a Sofia piace da impazzire: credo che l’avrà vista venti volte tra aprile e maggio. Lo dessero ora in un cinema, potrei salire sul palco e recitarne a memoria alcune scene, tipo Rocky Horror Show. Kirikù è un neonato da incubo che parla e cammina come un adulto e appena uscito dalla pancia di mammà decide di rimettere le cose a posto perché l’efferata strega Karabà ha ammazzato tutti i maschi del villaggio, gli ha tolto l’acqua e pretende i gioielli delle donne. Insomma una Totò Riina della giungla al cubo. Ma Kirikù, con la sua intelligenza, i consigli del nonno e l’aiuto degli animali scopre perché Karabà è così cattiva e incazzata. E risolve: lei diventa una gnocca maestosa, lui uomo fatto e presto vivranno tutti felici e contenti, copulando allegramente ai margini della savana. Film poetico e coloratissimo, dal ritmo pacato ma steady e accompagnato da belle musiche etniche di Youssou N’Dour. Il disegno sembra semplice ma è evocativo e ricchissimo di texture e composizioni geometriche e cromatiche. Karabà ha la voce di Veronica Pivetti, ma visto il perenne grugno sarebbe stata più giusta Irene. (Dvd; tutto aprile 2009 e oltre, aiuto)

ddv6610741 – Il rivelatore Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris, USA, 2006
Molto carino e molto amaro. Sotto la buccia agrodolce c’è il veleno di una nazione che vuole e deve essere vincente e sta perdendo tutto da anni. Little Miss Sunshine è un film intelligente che molti sempliciotti hanno visto come una curiosa commedia dal piglio indie, ma così non è, non solo. Seguitemi nel mio carruggio: è l’autoanalisi di un paese abitato da bambini che non vogliono o non sanno diventare adulti, che desiderano a ogni costo un premio che li gratifichi, anche in modo vicario. Soldi, sesso, fama, e talvolta semplicemente affetto. Capito? Bene. Solo che non ho voglia di aggiungere altro, semmai vi vorrei parlare di un’altra cosa: Barbara e io ci stiamo avvicinando all’anno senza sonno, causa la piccola Elena. Quando sento gente entusiasta delle notti bianche che ormai qualunque sminchiatissima Pro Loco organizza, lo vorrei invitare a passarsi qualche seratina a casa mia. Siamo avvolti in una perenne nebbia mentale, ma ci sono alcune cose che ho imparato e voglio trasferire ai futuri padri. Allora: posso affermare con sicurezza che i bimbi sotto un anno non dormono, ma nel caso miracoloso che ciò avvenga bisogna evitare alcune cose che provocano la loro immediata sveglia. E sono:
A) L’accensione di una meritata sigaretta. Di solito il neonato attende esattamente la prima boccata, poi fa capire rumorosamente la sua disistima per il genitore fumatore e se si potesse tradurre la lallazione individuereste parole come “polmoni”, “cardiocircolatorio” e “cancro”, son sicuro.
B) La telefonata, specialmente se improcrastinabile e per lavoro. Mentre il segnale dà libero si può già apprezzare qualche singulto del piccino, ancora equivocabile per un’allucinazione sonora. Nel momento in cui il chiamato risponde, avete la certezza che invece il bimbetto è sveglio e quando provate a spiegare la situazione per richiamare più tardi, il neonato sta probabilmente urlando in maniera che non servano ulteriori delucidazioni.
C) L’accensione del PC. La casa tace nel buio e vi dite: potrò adesso concedermi un rilassante solitario sul PC? Potrò magari controllare la posta? Scrivere due righe? Sì, evvai! Accendete il PC e fin lì tutto bene. Ma se aprite un programma cominciano i guai. Il top del pericolo si raggiunge con l’apertura del gioco Hearts. Il demonio a orologeria strepita improvvisamente mentre state realizzando un cappotto epocale. Vi distrae, dimenticate il conto della carte e vi prendete una fracassata di punti. E dovete pure riaddormentare lo stronzetto.
D) La cosa più pericolosa: la defecazione. Siete sulla tazza, finalmente rilassati, in una fin troppo a lungo rimandata seduta espulsiva. Sta cominciando il download ed esattamente a metà strada avvertite l’urlo disumano della Belva che vi costringe a rimangiarvi tutto o a troncare a metà il discorso.
Tutte queste belle cose, per dirvi che nottetempo io ormai evito di fumare, telefonare, accendere il computer e sommamente cagare. Di solito finisce che mi rifugio in cucina dove ingurgito bulimicamente Caprice des Dieux interi, che sbuccio come banane e divoro tali e quali, ecco come son ridotto. (Dvd; 16/4/09)

(Continua – 66)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 55 https://www.carmillaonline.com/2013/11/07/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-55/ Thu, 07 Nov 2013 22:41:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10525 di Dziga Cacace

Altro non sa, quell’uomo qualunque che è il vostro papà

ddv5501536 – Scomodo revisionismo per Frantic, di Roman Polanski, USA 1987 La memoria fa brutti scherzi e la nostalgia ci fa idealizzare tutto quanto sia legato alla nostra gioventù. Frantic era un film che, all’epoca, aveva goduto di grande stima critica e di pubblico. Io me lo ricordavo bello, “classico”, comunque movimentato, con delle idee. Tanto che me lo sono procurato di nuovo: una sorta di “usato sicuro” da vedere in attesa dell’arrivo della piccina, con la gravidanza di Barbara ormai in scadenza. E invece rivisto [...]]]> di Dziga Cacace

Altro non sa, quell’uomo qualunque che è il vostro papà

ddv5501536 – Scomodo revisionismo per Frantic, di Roman Polanski, USA 1987
La memoria fa brutti scherzi e la nostalgia ci fa idealizzare tutto quanto sia legato alla nostra gioventù. Frantic era un film che, all’epoca, aveva goduto di grande stima critica e di pubblico. Io me lo ricordavo bello, “classico”, comunque movimentato, con delle idee. Tanto che me lo sono procurato di nuovo: una sorta di “usato sicuro” da vedere in attesa dell’arrivo della piccina, con la gravidanza di Barbara ormai in scadenza. E invece rivisto adesso, diciott’anni dopo la prima volta, è uno dei thriller più lenti della storia dei film lenti, con una partenza con retromarcia e freno a mano che mi ha fatto visualizzare i miei testicoli in un tino mentre Emmanuelle Seigner me li schiaccia allegramente. È tutto artificioso e il film decolla solo dopo un’oretta di lamentele mie e della compagna, quasi dovessimo digerire un montone crudo. Ma non si trova mai il ritmo giusto: quello che un tempo si poteva ritenere sapiente costruzione oggi risulta solo inutile inasprimento della pena. Un film invecchiato malissimo che si porta dietro come una zavorra tutta la paccottiglia degli anni Ottanta (le capigliature, la fotografia iperrealista, la musica finta e pure Grace Jones…). Harrison Ford è un bambascione poco a suo agio nel ruolo drammatico; la Seigner ha un faccione da adolescente e una sola espressione (che evidentemente ha convinto ben bene Polanski: i registi che fan recitare le fidanzate son sempre forieri di catastrofi interpretative). Plot dalla semplicità irritante, complicato da un sacco di fregnacce, altro che Hitchcock. Colonna sonora sintetica di Morricone e montaggio avaro e retrò. Grande delusione: Frantic mi ha sfranto le palle, altroché. (Dvd; 17/4/05)

BIP! Breve interludio paterno (in qualche maniera, un film)
Siccome questo è un cinediario – che un attore abbastanza noto di cui non voglio fare il nome ha definito “la più grande innovazione critica degli ultimi vent’anni” – non posso che burocraticamente informarvi che l’attesa è finita e lunedì 25 aprile, giorno della Liberazione, alle 3 e 07 è arrivata Sofia. E ho visto tutto: un piccolo Gollum antifascista che non piangeva. Barbara stava benissimo, io distrutto. E per aderire agli stereotipi di tante brutte pellicole ho ripreso a fumare.

ddv5502537 – Il liberatorio Soul to Soul di Denis Sanders, USA 1971
Non vedo film da un sacco di tempo, ma con buoni motivi, come potrete immaginare. Sofia è un bombardone da 3 chili e mezzo che frigna, mangia, caga e dorme. È tenera e calda e le si perdona tutto. Quando sentivo gli altri genitori dirmi che, con un neonato, diventava tutto impossibile (un cinema, un libro, un disco) pensavo che mancassero di buona volontà. E invece i poveretti qualche ragione l’avevano. Leggiucchio qui e là, ma film, ahimé, è durissima. Due ore di libertà e la disponibilità mentale per concedersi una proiezione sembrano traguardi irraggiungibili. In più la nuova casa è semivuota e non possediamo ancora un divano, elemento d’arredo deputato allo svacco più atroce e all’assunzione di qualunque tavanata televisiva, tipo un film da venerdì sera su Italia1. Urgono però le consegne dei pezzi per le mie gloriose collaborazioni editoriali, ergo mi scoppio felice un dvd musicale, questo Soul to Soul di cui segue arguta e stringata recensione per i tipi di Rodeo. “Un paese africano, il Ghana, fresco d’indipendenza e orgoglioso, e dei musicisti afroamericani alla ricerca delle proprie radici. Nasce così uno di quei concerti epocali, Soul to Soul, dove neanche i protagonisti si rendono conto dell’importanza dell’evento. Ce lo ricorda un fantastico Dvd, prezioso documento perché in diretta, non ricostruzione a posteriori. È tutto naif in maniera commovente, il film e il concerto di Accra, in riva all’oceano, e non si sente la consueta puzza di business o carità pelosa. L’incontro fra due culture (ormai) estranee e unite solo dal ritmo, produce momenti umani e musicali emozionanti e inattesi: Ike e Tina seducono, Wilson Pickett trascina, Santana travolge e il pianista soul jazz Les McCann conquista tutti jammando sul palco con un giovane stregone locale. L’Africa giovane e curiosa, i neri americani alla ricerca di un’identità, senza la spocchia del primo mondo: tutti uniti in una danza sfrenata per un film mai retorico, coloratissimo, da ballare. Nero è il velluto della notte, ed è bellissimo. Extra sfiziosi, parecchi commenti, bonus tracks e anche il cd con la colonna sonora. Cosa volete di più?”. Aggiungo che Ike e Tina erano due burini mica da ridere, però clamorosi, con le sensuali Ikettes di contorno. Lui freddo band leader, con un vibrato chitarristico da brivido, lei una panterona sensuale. Grandiosissimo Santana, ma lo so inconsciamente dal 1970, quando mio padre comprò Abraxas e le note vibranti di Black Magic Woman mi entrarono in zucca. Eccezionali le voci di Mavis Staples e di Les McCann e trascinante il groove di Pickett, con africani che zompano sul palco e inventano lo stage-diving almeno vent’anni prima dei biancuzzi punk. Film veramente emozionante. In modo distratto, ma non senza esserne colpevolmente intrigato, ho pure visto Signs a brandelli, in passaggio Rai. Costruito da Shyamalan con la consueta furbizia, merita una visione completa per una più seria trattazione, anche perché se l’avessi visto in condizioni normali, cioè senza un sonno boia e il cervello in pappa, l’avrei valutato una grossa cazzata. Perché è una grossa cazzata. Ma siccome dopo agosto smetto di imbrattare fogli elettronici con recensioni che nessuno legge, dubito che i posteri sapranno quali rivoluzionarie idee ho elaborato su extraterrestri, cerchi nel grano, credulità popolare e altro. Sappiate solo che il film mi ha divertito e che non siamo mai stati sulla Luna. Oh yeah. (Dvd; 19/5/05)

ddv5503538 – Red, White and Blues del solito incompetente, USA 2003
Sulla carta, il Dvd merita e non me lo faccio sfuggire: l’evoluzione del blues britannico, attraverso interviste ai protagonisti. Dimenticata in America, la musica popolare nera venne adottata da una schiera di giovanotti britannici che la fecero diventare l’idioma musicale delle masse mondiali e la riportarono a casa, regalando qualche anno di gloria agli anziani bluesmen originali. Non mi spaventa che il regista sia quel deficiente di Mike Figgis, già responsabile dell’immondo Via da Las Vegas, ma sbaglio, perché una grande storia e l’opportunità di farsela raccontare da chi l’ha scritta, vengono buttate nel cesso con puntuale incapacità. Non c’è un’organizzazione di racconto coerente, ci si perde in inessenziali e puntigliose spigolature e si dimentica la trama generale. Come per il Wenders di The Soul of a Man, anche questo capitolo di The Blues, il progetto voluto e prodotto da Scorsese, è insoddisfacente per manifesta ignoranza dell’autore. Ne viene fuori un documentario che di televisivo ha la banalità, lo scarso approfondimento e la cattiva (ed eterogenea) qualità delle riprese ed è un delitto, perché buttare via le testimonianze di Eric Clapton, John Mayall, Steve Winwood, Peter Green e tanti altri è proprio da stronzi, stronzi grossi e grassi. Ci sono lampi isolati, dovuti alla genialità di chi risponde, ma perlopiù le domande sono sbagliate, oziose, che non centrano il cuore delle questioni, mancando di prospettiva storica. Ancora una volta del blues non viene trasmesso il calore, il dolore, l’intensità erotica, il divertimento, l’ironia. Niente. In mezzo a tanto spreco, la ripresa di diverse session con Tom Jones (eh!?), Lulu (EH!?) e Van Morrison (mah) che producono esecuzioni un po’ ingessate, sicuramente meno interessanti delle esecuzioni di prima generazione (nere) e di seconda (bianche e britanniche). Unica consolazione musicale l’accompagnamento della terrificante chitarra del sessantenne Jeff Beck, un giovinotto che dimostra quanto il blues possa avere un futuro se solo si decide di rimescolare le carte. Non bastasse il contenuto del film, i sottotitoli italiani sono obbligatori (hard subtitles, mi dicono, bella stupidaggine) e densi di strafalcioni che denunciano la totale incapacità dei curatori. Buona parte degli extra, inoltre, (con quell’impunito di Figgis protagonista) sono in 16/9 NON anamorfizzati, per cui Jeff Beck e tutto il cast sembrano usciti da un quadro di Munch. Una bella porcata di Dvd, insomma. Ma Scorsese avrà mai visto Mississippi Blues di Tavernier? Umile, faticoso e intensissimo, realizzato viaggiando nel sud degli States, mica rimanendo col culo posato. Bah! Ma succedono anche cose peggiori: il 22 maggio, con questi occhi, ho visto Mal batterista e cantante di Smoke On the Water nel “Meglio di Buona Domenica”. Con lui anche Dino e altre due cariatidi di cui non so e non voglio sapere il nome. (Dvd; 25/5/05)

ddv5504539 – L’Odissea di Franco Rossi e di noi italiani, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1969
Ulisse manca da casina da vent’anni e Penelope è insidiata dai Proci, una torma di sibaritici fannulloni che pretende il trono di Itaca, nonché il fringe benefit della regina chiavabile. Telemaco non ci sta e va a cercare il padre che nel frattempo approda nella terra dei Feaci dove lo accoglie la futura signora Starr, Barbara Bach nella parte di Nausicaa. Ulisse le racconta dei sette anni prigioniero di Calipso, ninfa niente male che se lo deve essere succhiato come un’ostrica. Infine l’ha lasciato libero e dopo 17 giorni di mare aperto eccolo arrivare alla corte di Alcinoo. Ogni sera Ulisse si accende come un televisore e racconta le sue vicissitudini, tra le quali: la cortese visita al monocolo Polifemo (diretta da Mario Bava), il canto per niente melodioso delle sirene, l’episodio acido della visita a Eolo (conciato come un personaggio di Star Trek), la cattività in mano alla maga Circe, la discesa nell’Ade per ascoltare Tiresia (episodio francamente mortale). Alla fine Ulisse ottiene un passaggio a Itaca e lì si compie la vendetta, tremenda vendetta. Beh, che l’Odissea fosse un buon testo, non ci piove. La regia complessiva è perfetta, sobria e poetica nella sua semplicità, lavorando molto per allusioni, senza grandi effettacci. Lo sceneggiato inizia lentamente, poi prende più ritmo ed è bellissimo, con un passo composto che non conosciamo più, abituati a stacchi di montaggio continui e a narrazioni compresse ed ellittiche. Difeso da Atena e odiato da Poseidone cui ha ciecato il figlio ciclope, Ulisse rappresenta l’irriducibile ansia dell’uomo di conoscere, scoprire, imparare, sfidando il volere degli dèi. L’eroe ha la faccia da Cutugno di Bekim Fehmiu di cui, da bambino, mi colpiva che fosse apolide. Penelope ha il volto severo di Irene Papas mentre gli altri sono illustri sconosciuti, ma dai volti incisivi, tant’è che li ricordavo quasi trent’anni dopo. Musiche talvolta psichedeliche, più spesso minacciose, ed efficaci scenografie barbariche: credo che una visione dell’Odissea con additivi chimici potrebbe regalare intense sensazioni, altro che canna e Teletubbies. La nostra visione, tra pappe, sonni interrotti e altro, s’è spalmata in un arco di tempo imbarazzante, proseguendo fino a luglio. Nel frattempo abbiamo visto anche altre cose, come l’italico film horror del referendum sull’aberrante Legge 40, quando tre quarti del popolo italiano ha preferito occuparsi d’altro. Le votazioni si sono strategicamente tenute il week end in cui finivano le scuole con i bravi papà e mammà – improvvisamente cattolici – che friggevano dall’ansia di scappare dalle città. Per lenire l’incazzatura, abbiamo anche visto pezzi sparsi dell’immortale Fantozzi contro tutti (la sempre clamorosa scena della coppa Cobram, con il rag. Ugo che prende “la bomba”); Straziami ma di baci saziami con Tognazzi sordomuto; il lercio e notevole telefilm The Shield, che sembra un Ellroy girato Dogma-style e infine Dillo con parole mie, un incredibile film di Luchetti, senza trama, con attori inconsistenti e poco simpatici e situazioni e battute da far tremare i polsi. Chissà perché. (Vhs originale; giugno e luglio 2005)

ddv5505541 – La strana coppia di Gene Saks, USA 1968 e l’inutile Live8
Serve un’abulica domenica di luglio per rivedere un film così, la cui prima volta si perde nella notte dei tempi: 1983 (credo), con zia Luisa. Mi era piaciuto tantissimo e oggi metto alla prova la memoria. Tratto da un’opera teatrale di Neil Simon, la regia s’impegna poco a rendere originale la messa in scena e tantissime volte c’è la fastidiosa impressione della quarta parete, quella invisibile che divide palco da spettatori. Ciò detto, il testo alterna momenti clamorosi ad altri più mosci, ma le interpretazioni eccezionali fanno brillare anche i dialoghi meno incisivi. Oscar (Matthau) è un divorziato impenitente, disordinato, infantile, cinico e casinista. Condivide con altri amici la passione per il poker, ma una sera all’appello manca Felix (Lemmon), il preciso, rigoroso, maniacale, ordinatissimo Felix. Praticamente il cagacazzo universale. Dopo dodici anni s’è lasciato con la moglie ed è una tragedia. È talmente in stato confusionario che non riesce neppure a suicidarsi ed emergono tutte le sue nevrosi e allergie, la borsite, la sinusite, gli spasmi nervosi al collo, tic assortiti e pure il colpo della strega. Com’è ovvio finisce a casa del diametralmente opposto Oscar. I due caratteri cozzeranno mettendo a repentaglio l’amicizia, ma in un finale agrodolce ci sarà un’inaspettata ricomposizione del conflitto. La partenza è strepitosa, sorretta anche dai caratteristi di contorno. Un diluvio di battute e situazioni che, man mano, va scemando: quando la strana coppia convive suona tutto già un po’ anticipato e si ride di meno. La vicenda diventa statica e si arriva al finale un po’ stracchi. Succede anche nelle migliori commedie, ma non importa. Avevo voglia di farmi due risate e La strana coppia ha assolto il compito, complice anche Sofia dormiente per l’esatta durata del film. Ieri biblica diretta tivù su RaiTre, divisa tra i palchi di Londra, Roma e delle altre città coinvolte in Live8, l’evento organizzato da Bob Geldof vent’anni dopo Live Aid. Una veejay esornativa continuava a chiamare il concerto LaivOtto “perché siamo in Italia”. Seee, buonanotte: semmai VivOtto, babbea. Poi, posto che i destinatari della beneficenza sembravano i cantanti che ingombravano il palco di Roma (di fronte a un pubblico immoto) l’impressione è che il concerto capitolino sia stato un pianto, con pochissimi artisti capaci d’inventarsi qualcosa d’originale. Che nel finale fossero assieme Zero, la Pausini e Baglioni la dice lunga (con Zero che invocava “non dimenticateci!”: e come sarebbe possibile? Avrò gli incubi per qualche lustro). A Londra ho visto degli Who potenti e dei Pink Floyd magari non in forma eccelsa (la voce di Waters era dylaniata) ma comunque emozionanti. Hanno detto che risuoneranno assieme per la pace tra Israele e Palestina. Probabile come un ritorno sulle scene di Lucio Battisti. A Toronto, poi, hanno suonato anche i Deep Purple ma nessuno s’è degnato di farmeli vedere. In compenso ho ascoltato tanti giovanotti inglesi e americani osannati dai media come nuovi rocker: dei finti ribelli vestiti per benino che mi hanno fatto sinceramente cagare a spruzzo. Il concerto doveva muovere le coscienze e ricordare ai signori della guerra riuniti al G8 che c’è un mondo intero a guardarli: eh, paura. (Diretta RaiUno; 3/7/05)

ddv5506543 – Bastardi Compagni di scuola di Carlo Verdone, Italia 1988
Vent’anni dopo la maturità, una festa che riunisce tutti i compagni di classe di un liceo romano. C’è chi è invecchiato male tanto da essere irriconoscibile, c’è chi ha fatto i soldi (onestamente o meno) e chi si arrangia con mille mestieri, c’è chi lavora e chi fa il politicante. E poi c’è il Patata, il povero Verdone prof di liceo privato, ossessionato da moglie buzzicona e volgarissima e innamorato di una sua studentessa ingenua. Fin troppo. E poi un finto paralitico, una madre sola, una psicanalista stufa di psicanalisi. Due storie mi sembrano più deboli (quella della Giorgi e Natoli e quella del breve incontro dei due che si amano da sempre), ma l’impianto generale e le singole caratterizzazioni sono riusciti. Soprattutto c’è una sana cattiveria. I Compagni di scuola sono carogne, falliti, egoisti e invidiosi e ne viene fuori il film di Verdone meno piacione: amaro, feroce, senza calamenti di braghe o strizzamenti d’occhio al pubblico. Aiutato in sceneggiatura da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, si compone un ritratto generazionale quasi livoroso in cui si fanno i conti con i merdosi anni Ottanta, senza il qualunquismo con sospensione di giudizio (che è implicita adesione) dei Vanzina. Buona commedia, dài. Intanto, dopo aver scatenato una guerra mondiale per il petrolio George W. Bush ha la faccia da culo di presentarsi al G8 dicendo che adesso bisogna tornare a investire sulle risorse energetiche alternative: il nucleare! Come al solito siamo antiamericani noi, eh, non coglione lui. (Diretta RaiDue; 5/7/05)

ddv5507545 – L’affilato Blade II di Guillermo Del Toro, USA 2002
Inchiodato dall’evidenza dei programmi televisivi sui quotidiani e dalla precisa richiesta di Barbara, non mi resta che sciropparmi questo horror immaginifico in cui Wesley Snipes interpreta con marmorea convinzione un mezzo vampiro che sa riconoscere i quasi suoi simili e coltiva l’hobby d’incenerirli. Lo chiamano “il diurno”, come un volgare albergo a ore, perché non soffre la luce solare. Al limite Blade ha una sete bestia di sangue, ma sa controllarsi. O quasi. Si parte salvando Kris Kristofferson, l’uomo che ha scritto Me & Bobby McGee, prigioniero dei succhiasangue e forse vampirizzato lui stesso. Blade dovrebbe ucciderlo ma ci pensa un po’, se no il film dura 15 minuti, e infatti il vecchio Kris sta benone. E allora quale avventura aspetta il tagliente supereroe? I vampiri gli chiedono di aiutarli contro altri vampiri, ma andati a male e ben peggio di loro. Ma sotto c’è qualche intrigo e il capo dei ciucciaplasma, tal Damaskino, non la conta giusta. Tra lame d’argento, trecce d’aglio e ferali raggi di sole, andrà a finire con un intrigo degno del rapporto edipico tra la Morte Nera e Luke Skywalker, per intenderci. Sembra un videogioco, ma con qualche bella svisata ironica. Non conosco il fumetto, ma il film è godibile, decisamente superiore al primo episodio. Passando ad argomenti frivoli: non aprite quel La Porta! Grazie a Blob scopro che Gabriele è vivo e lotta con noi. Non sono più aduso al palinsesto notturno e avevo perso da molto tempo le tracce del nostro eroe fulminato. Blob me lo fa vedere in forma clamorosa, con giacchetta di pelle nera manco fosse Bono, che sproloquia di Platone, Aristotele, Ibn Arabi, Averroé e Avicenna. Un grande. Ma adesso a fare i bagagli, ché tra due giorni portiamo Sofia nel posto più bello del mondo, Champoluc. (Diretta su Italia1; 28/7/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 55)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 49 https://www.carmillaonline.com/2013/06/12/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-49/ Tue, 11 Jun 2013 22:01:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6378 di Dziga Cacace

But Go Easy… Step Lightly… Stay Free (The Clash)

ddv4901481 – L’eversione ye-yé di Diabolik, di Mario Bava, Italia 1967 Film pop, coloratissimo, divertente, sfrenato e anarchico, eversivo con classe, sessantottino senza sapere che un anno dopo ci sarebbe stato il Sessantotto. Giusto per chi non ha mai letto il fumetto delle sorelle Giussani: Diabolik è un sofisticato criminale che si fa beffe dello stolido ispettore Ginko. Il tutato genio del crimine è un aitante belloccio e si accompagna alla fichissima Eva Kant (Marisa Mell), ambedue accecati dalla lussuria: non [...]]]> di Dziga Cacace

But Go Easy… Step Lightly… Stay Free (The Clash)

ddv4901481 – L’eversione ye-yé di Diabolik, di Mario Bava, Italia 1967
Film pop, coloratissimo, divertente, sfrenato e anarchico, eversivo con classe, sessantottino senza sapere che un anno dopo ci sarebbe stato il Sessantotto. Giusto per chi non ha mai letto il fumetto delle sorelle Giussani: Diabolik è un sofisticato criminale che si fa beffe dello stolido ispettore Ginko. Il tutato genio del crimine è un aitante belloccio e si accompagna alla fichissima Eva Kant (Marisa Mell), ambedue accecati dalla lussuria: non appena il colpo è compiuto (uno dei tanti, la trama non sceglie la consequenzialità come requisito) si va a far bisboccia trombando in mezzo a un mare di banconote, felici come un Paperon de’ Paperoni ingrifato. Tutto il film è attraversato da questa frenesia erotica e irriverente, in un montaggio schizzatissimo, tra scenografie psichedeliche e dai colori violenti e al suono di Morricone, che insaporisce con spezie indiane. Una gemma dove il lavoro onirico di Bava dei precedenti horror (quelli che conosco, perlomeno) trova naturalissima collocazione anche in un’opera artigianale che risulta tutt’altro che un fumettone. Bravo Bava e ottima La7 che con Alberto Crespi ha scelto il film per una prima serata, con un antipasto di mezz’ora con rivisitazione critica, interviste ai protagonisti e conservazione della memoria dei luoghi. Si tratta de La valigia dei sogni, uno dei pochi bei programmi (di cinema) in onda in tivù. (Vhs da La7; 1/9/04)

ddv4902482 – L’onanistico G3: Live in Concert di un cane, USA 1997
Ve lo dico prima: anno difficile. Vedrò una marea di titoli musicali per miei lavori recensorii. Parto con questo dvd prestato da Max che sa quanto mi piacciano le chitarre cafone. Trattasi di ottusa trasposizione su supporto digitale della prima tournée dei “Guitar 3”: in quell’occasione i tre chitarristi erano Joe Satriani, Steve Vai e Eric Johnson. La regia del concerto (di tal Jerry Bryant) è pedestre, poco aiutata da un lavoro di luci abbastanza casuale. Insomma: tecnicamente il prodotto fa cagare tipo aerosol. E la musica? Joe Satriani, pelato e con occhiali da mosquito, propone tre brani abbastanza melodici, anche se ricchi di svisate e tipici nitriti chitarristici. Divertente. Il timidone e pulitissimo Eric Johnson è il più raffinato del lotto: tre composizioni dove confluiscono jazz, blues e una puntarella di noia. E poi arriva Steve Vai, il supertamarro già protagonista di Mississippi Adventure. E anche qui il funambolo fa il pagliaccio: non metto in dubbio che sappia suonare cose turche e che diteggiare le partiture di Frank Zappa sia faccenda per pochi eletti, ma ascoltandolo sembra di essere a un saggio di chitarrismo ginnico degli anni Ottanta. Tapping frenetico, note iperacute e scale supersoniche su una chitarra a 7 corde, perché con 6 sarebbe troppo facile, ma musica quasi mai. Mah! Così sia: il pubblico, composto unicamente da caucasici nerd segaioli fanatici della sei corde, apprezza. Il Cacace, noto caprone allo strumento, soffre di invidia del pene, sì, ma rimane attonito di fronte a tanta esibita masturbazione. La jam finale vede i tre alle prese con brani storici: qui le canzoni ci sono e le svisate sembrano meno campate per aria. (Dvd; 1 e 2/9/04)

ddv4903483 – Rude Boy di Jack Hazan e David Mingay, Gran Bretagna 1980
Visione dovuta a urgenza professionale: beccatevi tosto il pezzo redatto per i tipi di Rodeo. A seguire ulteriori spigolature degno di cotesto contesto. “Coerente coi tempi, un guerrilla-movie che segue le gesta di Ray, sfaccendato, nichilista, amante della musica. Rude Boy è prodotto di pregio perché fotografa un’epoca e ci restituisce i Clash nel momento di maggiore impatto sonoro e mediatico, in un’Inghilterra scossa dall’esplosione punk, percorsa da sintomi fascisti e dall’insorgenza di quella gran sagoma della Thatcher. Inerti spettatori la già pagliaccesca monarchia e la vecchia sinistra parruccona. Film dalla gestazione travagliata, è per nulla agiografico e documenta la crescita della band, concerto dopo concerto, tra furbizie e ingenuità e grandissima carica agonistica, rossi come il sangue: strumentazione scarna, concerti da mezz’ora e Joe Strummer che si lava la maglietta con la scritta “Brigade rosse” in albergo, in proprio. Il plot è però noioso ed è sporco e sconnesso come le dentature dei primi veri four horseman. Film poco riuscito, ma maestoso proprio nel mettere in scena questo clima fragile, sull’orlo del precipizio, Rude Boy vive della musica straordinaria e i produttori del dvd, consapevoli della menata narrativa, hanno ideato un menu parallelo che permette di vedere soltanto le esibizione musicali, tralasciando il resto. Attenzione perché circola anche un’infame versione full-frame senza gli extra, qui tantissimi e gustosi. Un’ultima avvertenza dalla voce e dalla chitarra di Mick Jones: Stay Free”. Cosa posso aggiungere? Il film è quello che è, del resto Don Letts, i Clash l’avrebbero incontrato solo più tardi, e la band stessa contestò il risultato finale. Essenziale solo per chi ama la musica e la mitologia del quartetto, è un film-verità come se ne facevano un tempo, senza liberatorie, permessi e consensi alla privacy, armandosi di cinepresa a spalla e faccia tosta. Le immagini live sono straordinarie, senza stacchi, con la band sempre ripresa di spalle. Nel disordinato plot emergono alcune tragiche verità politiche ancora attuali (i fascisti che rialzano la testa, la disoccupazione che uccide, l’inutilità del Labour e l’inadeguatezza della sinistra militante) e si presagiscono i germi dell’allora futuro (da questo calderone politico/esistenziale nascerà il capolavoro assoluto London Calling). Comunque immensi Clash. Ah: da ieri Barbara e io aspettiamo un bambino. Se non è un teaser questo, eh? (Dvd; 4/9/04)

ddv4904484 – Caruccio, Below di David Twohy, USA 2002
Dal regista di Pitch Black, un soddisfacente thriller sottomarino parapsicologico, a discreta tenuta stagna. Ottima fotografia, buoni attori (tra cui l’intrigante Olivia Williams) e tensione sostenuta, ma se volete la trama ve l’andate a cercare in Rete, ché ora non ho tempo. Per affittarlo da Blockbusters ho fatto mezz’ora di coda, dopo averne persa un’altra a capire cosa si potesse vedere. Così imparo. A visione ultimata, scanalando pigramente tra i canali televisivi, becco dieci minuti di Anche gli angeli mangiano fagioli, monumentale gangster-spaghetti-movie con Bud Spencer e Giuliano Gemma. Non lo vedevo da 25 anni (primo film visto al parrocchiale di Champoluc, assieme a Pier Paolo e a tutta la fratellanza) e prima o poi me lo scoppio tutto intero, magari col bimbo in arrivo. E comunque ho riso come un fesso. E ne vado fiero, altroché. (Dvd; 6/9/04)

ddv4905485 – Gli occhi del testimone di Anthony Waller, USA 1995 e gli occhi pallati del Cacace
Billie è a Mosca, come truccatrice (muta) sul set di un film horror recitato da attori tremendi (la prima scena vede una morire peggio di Peter Sellers in Hollywood Party). A fine riprese tutti lasciano il set, ma lei ha dimenticato qualcosa. Torna indietro e assiste – non vista – alla realizzazione di uno snuff movie. Ma non può dirlo a nessuno, anche se gli assassini capiscono che c’è qualcuno che sa troppo. Prima mezz’ora da spaghetto vero, poi il film tiene bene e conclude con prevedibili colpi di scena a ripetizione, molto godibili. Da horror puro si trasforma in pastiche (anche con parti di commedia) e funziona meno. Però niente male: film di genere essenziale, ben teso, ricco di ideuzze, carico di letture triple incrociate con omaggi, plagi, citazioni (ce n’è per Carpenter, De Palma e pure Soavi), ammiccamenti e ribaltamenti arguti (che non so bene cosa significhi, ma avevo preso questo preciso appunto). Attori discreti, montaggio intelligente e una certa coerenza formale, anche se cinematograficamente dimostra più dei suoi dieci anni. Poi, complice una Vhs di Pier Paolo, ho visto con gli occhi gonfi come due uova sode le parti hot di Gocce d’acqua su pietre roventi di François Ozon, giovin regista che dopo l’insulso Otto donne e un mistero ho sempre evitato di recuperare. Ma ragazzi, qui si tratta di una pièce di Fassbinder, mica cazzi, e infatti eccovi la splendida ninfetta Ludivine Sagnier che regala dieci minuti d’antologia (o da infarto, dipende). Se una cosa così la becchi su Internet rischi l’arresto per pedofilia, ma questo è Cinema, signori, e Ozon è un Autore, per cui bando alle ciance e godetevi questa ventenne nuda con le grosse tette di marmo e il pelo irsuto, messa così in scena sicuramente per motivi artistici, eh. (Vhs da Retequattro; 8/9/04)

ddv4906486 – E beh, Reservoir Dogs di Quentin Tarantino, USA 1991
Becco Barbara dell’umore giusto e, dopo breve corteggiamento da vero marpione, la gravida cede e accetta di rivedere in versione originale il film che ha lanciato Tarantino. La violenza, i dialoghi, la musica e il montaggio diventano stile: Quentin rimescola tutto in perfetta accezione postmoderna e dà valore a elementi e tecniche che, per definizione (errata), sarebbero propri del cinema di serie B. Succede così che vecchie hit sconosciute (e un po’ zarre) diventino in colonna sonora clamorose perché perfettamente abbinate. Lo smontaggio della trama e il rimontaggio con anticipazioni, misteri e accostamenti incongrui ridefiniscono il concetto di editing e i dialoghi oziosi di tutti i giorni assumono epicità nella loro leggerezza e tremenda importanza: perché Madonna si sente come una vergine, “come se fosse veramente la prima volta”? Rivisto, Le iene, soffre anche di qualche lentezza e non sempre i dialoghi sono eccezionali, ma qui c’è già tutto il geniale regista che verrà e che, per fortuna, non imparerà la sintesi, concedendosi quella magnifica indolenza che rende grande il cinema (e che molti hanno contestato nel secondo episodio di Kill Bill). E al di là di tutto è eccezionale la capacità di Tarantino di dirigere un cast scelto perfettamente. È clamorosa la prova di Tim Roth e struggente il rapporto filiale che instaura col duro dal cuore tenero Harvey Keitel. Non da meno sono Steve Buscemi, Chris Penn e lo schizzato Michael Madsen. Breve, ma molto significativa, la comparsata di Ed Bunker. Purtroppo il dvd in edizione speciale della Cecchi Gori sembra che l’abbia fatto proprio lui con le sue manotte grasse: soffre di un riversamento mediocre (fotografia troppo chiara, definizione non ottimale, qualche scattino); in compenso tantissimi gustosi extra. Affari di famiglia: prima ecografia e il bimbo è un fagiolino di 14 millimetri, e si sente il cuore che batte già. E batte rock, oh yeah. (Dvd; 19/9/04)

ddv4907487 – Splendida, La donna della domenica, di Luigi Comencini, Italia 1975
In una Torino assolata, Mastroianni è il commissario Santamaria, un sornione ispettore romano alle prese con la proverbiale falsità cortese dei gianduia: un viscido geometra è stato ucciso a colpi di un curioso oggetto (un elegante cazzo di pietra) e ci son molti sospettati. Tra di loro la bella e annoiata signora Dosio (Jacqueline Bisset): col poliziotto sarà amore, e con quegli occhi vorrei vedere come no. Tra oziosi dubbi linguistici e intrighi sotterranei, Comencini, assieme ad Age e Scarpelli sceneggiatori, restituisce l’ottimo giallo di Fruttero e Lucentini e lo vena di commedia e sensualità, con feroce ironia nei confronti della dormiente borghesia torinese. La fotografia è ingiudicabile (qui dominata da un verde bottiglia, in full frame), il montaggio nervoso (sgraziato, anni Settanta: non saprei come definirlo, ma è subito individuabile se appena conoscete un po’ di film di quel periodo) e la regia economica e puntuale: la si apprezza soprattutto nell’eccezionale direzione del cast. Grandissime le interpretazioni di Jean-Louis Trintignant, Lina Volonghi, Claudio Gora, Omero Antonutti e Gigi Ballista. La Bisset non viene sfigurata neanche da un’atroce acconciatura e non importa se e quanto sia brava, è splendida e basta. Per gli appassionati delle minutaglie statistiche assolutamente inutili, noto l’incredibile incrocio attoriale con diversi film coevi di Paolo Villaggio. Qui ci sono: Pino Caruso (futuro Ovidio Camorra ne Il belpaese), Mauro Vestri (il dirigente cinefilo Guidobaldo Maria Riccardelli ne Il secondo tragico Fantozzi), Giuseppe Anatrelli (lo storico Calboni dei primi tre Fantozzi), Antonino Faa Di Bruno (patrigno in Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno e Duca Conte Semenzara in Fantozzi) e soprattutto l’assoluto Ennio Antonelli (“Zio Antunello”, panettiere in Fantozzi contro tutti, cameriere nella trattoria “Gli incivili” in Fracchia la belva umana e qui nella parte del marmista che esclama: “mi hanno rotto diciotto cazzi!”). (Vhs da La7; 28/9/04)

ddv4908488/489 – The Godfather e The Godfather Part II di Francis Ford Coppola, USA 1972 e 1974
Ah, beh: masterpiece! Nello splendore del Dvd in lingua originale ci dedichiamo alla visione completa del mafia movie per eccellenza, secondo solo alla saga (e che gran saga!) di Concetta Licata. I fatti sono noti e noi, pubblico medio, rimaniamo irretiti dalla logica mafiosa che fa da motore alle vicende: la logica del legame familiare che è al di sopra della legge, il vincolo affettivo o puramente carnale che prevale su tutto. Coppola ci cattura con Michael (Pacino), il classico bravo ragazzo che esce dalla legalità per vendicare il padre e diventa il “buono” per cui tenere, contro mafiosi peggiori o poliziotti corrotti. Ed esattamente come certi protagonisti del film, anche noi perdiamo fiducia in Michael quando la legge degli affari prevale su quella degli affetti, al punto che fa uccidere il genero e il fratello Vito. È troppo e lo è esattamente nella logica mafiosa: i familiari non si toccano! Sublime ambiguità di Coppola che gode nel dipingere questo controverso affresco, ricco di personaggi memorabili, a partire dal carismatico Padrino (Marlon Brando con gote rimpinzate di cotone) fino al fisicissimo Sonny (James Caan). Splendidi anche i personaggi dell’avvocato fedele (Robert Duvall), di Kay moglie incredula (Diane Keaton) o della sorella viscerale e sottomessa (Talia Shire, non ancora Adrianaaaaa). Nel secondo episodio la saga viene approfondita: parallelamente alla scalata al potere di Michael – un potere che divora, annebbia e annichilisce –, Coppola ci fa vedere anche le radici della fortuna dei Corleone (in una sorta di prequel mixato al sequel). Il racconto ha la stessa atmosfera che puoi ritrovare nei capolavori epici di Leone, Bertolucci o Scorsese (giù giù, fino a De Palma). Non ricordo più chi lo avesse definito il “cinema italo-americano”, ma aveva perfettamente ragione. P.s. inutile, ma doveroso, se no finisce che son sempre troppo buono: il mio amato Bob De Niro è sinceramente legnoso e parla un tremendo finto siculo con accento americano. Ma con tutti i soldi spesi, un buon coach non potevate pigliarvelo?! Mah! (Dvd; 5 e 7/10/04)

ddv4909490 – Estenuante, La fuga di Delmer Daves, USA 1947
Una gran bella rottura di coglioni. Intendiamoci: fare un film che per una buona metà è in soggettiva è invenzione coraggiosa e meritevole. Ma il flirt con l’assurdo, tipo Detour (ma senza quel fascino malato) e la risoluzione eufemisticamente statica nonché ancor meno credibile del resto della vicenda, rendono l’esperienza piacevole come un istrice nei boxer. Il titolo cinetico, oltre tutto, è una menzogna perché trattasi di noir raccontato, tipo La squadra di RaiTre: azione poca e interpreti scultorei. In montaggio c’era l’abitudine di movimentare insertando primissimi piani assolutamente non in continuità, ma la pratica, al posto di dare vivacità, è oggi grottesca. Cacchio: per una volta che ho convinto Barbara a vedere un glorioso black and white di Fuori Orario, è uno smacco orrendo che pagherò caro. Humphrey Bogart è un capacchione enorme su corpo segaligno e non si capisce quale fascino potesse emanare, sia nella vita che nella finzione: fatto sta che Laureen Bacall si innamora di questo acromegalico addirittura prima di vederlo (e sapete perché? Perché era finito in carcere ingiustamente come suo padre… ma dove siamo? All’asilo?). Del resto lui è stato incastrato da una megera che gode a far del male al prossimo… così, alla cazzo. I critici seri vi diranno che film come questi restituiscono l’angoscia e l’indeterminatezza del primissimo dopoguerra, del crollo delle certezze e – siccome il protagonista è bendato dopo una plastica facciale – anche della mancanza d’identità. Però, credetemi, è un film storto come Cuccia e se faceva impressione vederlo in sala nel 1947, perché totalmente squinternato, oggi fa solo prudere le mani. La Bacall era molto elegante e non da meno gli interni art decò o gli esterni della solatìa San Francisco. Ma per queste cose c’è anche la rivista Architectural Digest, vi assicuro, ed è troppo poco per farmi appassionare a un film che gode di storica e immeritata fama, dovuta all’entusiasmo cinefilo di critici che mai rivedono i propri giudizi (e soprattutto i film). (Vhs da RaiTre; 6/10/04)

ddv4910491 – Bello!, Lavorare con lentezza di Guido Chiesa, Italia 2004
Finalmente riesco ad andare al cinema. E son contento, perché Lavorare con lentezza è un buon film che prende il Mito (Radio Alice) e ci costruisce intorno, lavorando ai fianchi, con intelligenza, humour e profondità, parlandoci degli anni Venti, del ’77 e del 2001, con Lo Russo morto come Carlo Giuliani, per prepotenza connaturata allo Stato. Belle facce, ottimo montaggio, musiche scelte benissimo (a parte gli Afterhours che – scusate – fanno ridicolo scempio degli Area. Sono già in parentesi aperta per cui proseguo: ma gli Afterhours… quale melodia, verso, assolo o arrangiamento ci lasceranno quando smetteranno di suonare e il Mucchio Selvaggio di sponsorizzarli? Io ci ho provato, con i dischi, più volte, ma proprio non capisco, non ci arrivo. Per me sono come le regole del baseball: incomprensibili). Film felicemente contraddittorio, veloce e poi lento, in magnifica armonia, con protagoniste tutte le anime (bianche e nere) degli anni Settanta, mai didascalico, mai agiografico, mai ideologico. Ma con le idee ben chiare: no ai capetti e ai professori, sì alla leggerezza e alla libido organizzata. A tratti divertito, in altri momenti tragico, Lavorare con lentezza mescola la Storia con le storie (come insegnano i Wu Ming, qui co-sceneggiatori) e l’alto con il basso, ma senza alcuna spocchia critica. Si sente il piacere di narrare, perché la vita è così, non è una sega intellettuale e può capitare che vicino a Bifo ci sia Pippo Santanastaso. E del resto, dei due protagonisti, Sgualo fa l’urlo di Chen mentre Pelo sente i Led Zeppelin. Purtroppo eravamo in pochi, in sala. (Cinema Ducale, Milano; 11/10/04)

ddv4911492 – L’epocale Dont Look Back di D.A. Pennebaker, USA 1967 e, già che ci siamo, Sono incinta di Fabiana Sargentini
“Hai 24 anni e sei in tour in Gran Bretagna, con la certezza che tutto quello che ti circonda è vecchio e non ti può capire. Sei solo con pochi amici e un manager, Grossman, dalla faccia bonaria e dai modi prepotenti, che sa pretendere i tuoi soldi. E c’è pure Joan Baez che ti accompagna, fedele come un usignolo; c’è Donovan che prova a piacerti (e non ci riesce); ci sono i fan che ti chiedono The Times They Are A-Changin’ e storcono il naso di fronte alle canzoni più recenti, troppo visionarie e già impregnate di profumo d’erba. E il pubblico che ti ascolta mai potrebbe tollerare il fatto che presto proverai altro. E che non ti consideri un attivista politico e le tue canzoni non portano alcun messaggio. Non vuoi essere considerato un musicista folk, tanto meno pop e dirti “rock” è ancora troppo presto. Ma non importa: a chi interessano le definizioni, se non ai critici? Tu sei già superiore, già cinico, già oltre. Il documentarista Pennebaker segue Bob Dylan nella sua tournée britannica del 1965 e ci regala un incredibile ritratto dell’artista da giovane, fatto con una sola cinepresa e tanto cervello. Incontri, scontri, blues improvvisati, fumo denso, una macchina da scrivere, Ginsberg sullo sfondo: più parlato che musicale, è un film lontanissimo dall’odierna grammatica del rockumentary, ma che dice molto, molto di più. In un B&N coloratissimo, Dont Look Back è difficile, ma remunerativo. Ottimi gli extra, ma mancano i sottotitoli: si astengano i non anglomuniti”. Poche aggiunte alla recensione per Rodeo: Pennebaker inventa con questo film un nuovo atteggiamento produttivo. La troupe è ridotta a due persone indipendenti (l’audio è sincronizzato con una maneggevole e leggerissima cinepresa a 16mm, ma senza cavi a legare i movimenti) e il regista si mescola agli artisti fino a diventare invisibile, la classica fly on the wall, che respira l’odore del mito mentre si va facendo. Del giovane Dylan tabagista senti tutta la puzza, l’insicurezza e la sublime tracotanza, come quando tritura con un flusso di coscienza inarrestabile lo sprovveduto (e fuori dal tempo) Horace Judson, giornalista di Time, dicendogli che lui sa cantare bene come Caruso. Ed è vero. In testa alla pellicola c’è la famosa sequenza di Subterranean Homesick Blues, con Bob che sfoglia i cartelli con le parole chiave della canzone mentre Allen Ginsberg parlotta sullo sfondo. Distribuito nel circuito pornografico di San Francisco, arrivò poi nelle sale mainstream, col suo titolo programmaticamente sbagliato (Dont al posto di Don’t). Bello, decisamente. Aggiungo che in serata ho visto – sentendomi tirato in causa – anche Sono incinta di Fabiana Sargentini (Italia 2004, visto in diretta su RaiTre), documentario intelligente e gradevole: 69 uomini raccontano la loro reazione alle fatidiche parole pronunciate dalla partner come da titolo. Si va dallo stordimento ottuso alla fuga codarda, sino alla gioia più solare: nessun giudizio, nessuna visione preconcetta, ma una comprensiva e calorosa visione “femminile”. Non so chi tu sia, ma brava Fabiana! (Dvd; 21/10/04)

ddv4912493 – The Godfather Part III di Francis Ford Coppola, USA 1990
Terza parte, realizzata a distanza di 16 anni dalla seconda. La finezza psicologica, la costruzione per piccole addizioni, la visione d’insieme del grande affresco, sono però qui perse, in un roboante racconto molto eighties. Michael cerca una nuova rispettabilità: ha mollato tutti gli affari sporchi ma viene immancabilmente risucchiato nel gorgo delle vendette incrociate e stavolta è molto più vulnerabile, con una figlia (Sofia Coppola, paffutissima) che non vuole credere a quello che sa di lui e un figlio che preferisce cantare piuttosto che immischiarsi negli affari di famiglia. C’è poi il nipote birichino e incestuoso: Vinnie (Andy Garcia), irruento come il padre Sonny. Il film è godibilissimo, ma Coppola va dritto al cash e la tragedia gli prende la mano, in un crescendo inarrestabile: quando arrivano un simil Marcinkus, un simil Andreotti e un simil Gelli, assieme a un vero Papa Luciani, immancabilmente buono e avvelenato, beh, il terzo atto diventa un ricamino sul tessuto della leggenda. Peccato. Peccato che ci sia un cannolo assassino e un finale sulle arie della Cavalleria rusticana dove ogni luogo comune sulla mafia e sulla tragedia operistica procedono a braccetto, con colpo in mezzo al cuore della figlia del boss. Peccato per quel finto Calvi appeso sotto un ponte a Londra, apoteosi del kitsch. Peccato che il sosia di Andreotti venga ammazzato dicendogli (sublime vaccata!) “il potere logora chi non ce l’ha”. E peccato che tutto ciò sia avvenuto solo nella finzione. Ad ogni buon conto ci sarebbe materiale per ulteriori sviluppi: Vinnie è il logico futuro Padrino e chissà che… Nel frattempo, come attore, Garcia è pressoché scomparso e lo si sente quando sbraita contro la Cuba castrista, mentre la Coppola è invece diventata regista, immagino dovendo lottare contro i tantissimi pregiudizi e le malevole accuse di essere una figlia di papà. Ma perché, dài! (Dvd; 24/10/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 49)

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Divine divane visioni (Urlando furioso 03/04) – 48 https://www.carmillaonline.com/2013/05/22/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0304-48/ Tue, 21 May 2013 22:01:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5865 di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare [...]]]> di Dziga Cacace

B-B-B-Baby, you just ain’t seen nothin’ yet! (Bachman-Turner Overdrive)

ddv4801471 – Tutti Nudi verso la follia, di Angelo Rastelli, Italia 2004… e bye bye Reagan
Sono ancora a Genova dai miei e sfogliando FilmTv scopro che c’è questo documentario in onda su un canale di Sky. O quel che è, non ho ancora capito bene come funzioni ‘sta cosa, però papà ha preso questa diavoleria e io il film me lo devo registrare. Perdo mezz’ora a capire come far passare il segnale attraverso il videoregistratore e il decoder e dove infilare le prese scart senza far casino e alla fine ce la faccio. Infilo una vecchia videocassetta, schiaccio rec e già che ci sono mi vedo pure il film in diretta. Ed è un buon prodotto dove si racconta un periodo solitamente travolto dalla semplificazione storiografica, punitiva e negazionista, che preferisce parlare di generici Anni di piombo o che, in perfetta e speculare banalizzazione, li sputtana beandosi del riflusso (come col fazioso Anima mia, e de li mortacci sua). Era una stagione ricca, di lotta politica, certo, e di generosità, dove la voglia di confronto e di esperienze erano lontane da ciò che la società voleva imporre. Reducismo e vittimismo hanno fatto un cattivo servizio alla memoria ma il bel documentario di Rastelli – che utilizza materiali diversi, tra cui i famosi nastri di Alberto Grifi – evita questi sentieri fuorvianti e restituisce il sapore di quell’elettricità raccontando il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro del 1976. Si parla di ideologia, di utopia e della sua morte. Nudi verso la follia però non è un film concerto e la musica è un mezzo di comunicazione politica e sensuale. Tra gli intervistati Stefania Maggio (che all’epoca era giovanissima, autonoma, e naturalmente nuda), Fabrizio Passarella (uno degli organizzatori), Alberto Camerini, Eugenio Finardi e lo splendido Patrizio Fariselli degli Area. Bello! La mia testolina passa repente ad altro: ieri è morto Ronald Reagan, un mio nemico. Non vinse affatto la Guerra Fredda, come titola Repubblica, con una falsificazione emblematica (non son sicuro di cosa, ci devo pensare). Era invece un caprone manicheo, un assassino, un bugiardo, uno spione e pure un attore cane. Però aveva nel suo staff dei buoni battutisti: “La recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro. La depressione è quando tu perdi il tuo. La ripresa è quando Jimmy Carter perde il suo”. Non mi mancherà per niente: adesso aspetto sulla riva del fiume la Thatcher e Andreotti e poi posso spirare tranquillo. (Diretta su Canal Jimmy; 6/6/04)

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472 – Sempre un piacere, Angel Heart, di Alan Parker, USA 1987
Questo è un mio personalissimo cult: all’uscita lo vidi tre volte in sala. La prima con Pier Paolo, dopo il Natale 1987. Poi, poco dopo, con Ferro e l’ultima volta a Champoluc, con la consueta compagnia di amici vacanzieri: degenerò in lite finale su senso e qualità del film. La vicenda, all’epoca, ci sembrava un rompicapo, oggi è limpidissima, quasi lampante nella sua evidenza, ma il film non ha perso un briciolo del suo fascino malato, ricco di temi visivi ossessivi: scale, ventole, pioggia, sangue. Harry Angel è di Brooklyn e non sopporta i polli: a New Orleans lo aspettano tip tap sinistri e incesto, l’aspra cultura cajun e il potere ambiguo della radice di Guglielmo il Conquistatore. Siamo catapultati in una Louisiana umida e sensuale, al suono del blues, tra riti voodoo e patti col diavolo: cosa voglio di più? In più c’è un cast da infarto: De Niro – manierato, sardonico, inquietante – si presenta subito come Louis Chyphre, citando i Rolling Stones. Lisa Bonet è di una bellezza stratosferica e cancella ogni ricordo televisivo dei Robinson: il destino le riserverà qualche pestaggio da parte di Lenny Kravitz e l’oblio, purtroppo. E infine c’è Mickey Rourke, l’attore in cui avevamo riposto ogni fiducia: un corpaccione pesante, ancora lontano da chirurgia estetica e orchidee selvagge. Diede presto segni di squilibrio consegnandosi alla Cavani per il tremendo Francesco e la conferma che c’era qualcosa di sbagliato arrivò con la strampalata carriera pugilistica. Ma era e rimane un grande, anche suonato. Il film è un pastiche di diversi generi (noir, thriller, horror), ma funziona ancora e pur conoscendolo a memoria (e non lo vedevo da 15 anni!), m’è filato veloce come un treno. A voler essere pignoli, forse Lucifero poteva escogitare un modo più semplice e veloce per ottenere il tributo dovutogli, ma evidentemente gli piacciono le cose ben fatte e adesso Harry Angel brucerà all’inferno (arrivandoci in ascensore). Visto in lingua originale: grandissimo film e grandissimo regista, capace sempre di lavorare su più registri. (Dvd; 16/6/04)

ddv4803473 – Molta Sympathy For The Devil, ci mancherebbe, di Jean-Luc Godard, Gran Bretagna 1970
Credo in poche cose e Keith Richards è una di queste. Giusto per chiarire. Poi: ho cominciato da poco a scribacchiare delle veloci recensioni per un mensile chiamato Rodeo che si occupa di fashion e arte e viene distribuito gratuitamente a Milano. Il diretùr è Massimo Torrigiani, lo stesso di Boiler, magazine estremamente hip dove invece vengo tradotto in inglese e distribuito su scala planetaria a fianco di contributors come Pete Townshend e Madonna: Massimo mi ha chiamato e anche stavolta non ho saputo dire di no. Ecco cosa gli ho rifilato. “L’estrema coolness del rock: Keith Richards. Pantalone di velluto attillato, piedi nudi, foulard, collana e sigaretta perennemente in bilico dal labbro. E la chiara visione di come dev’essere inciso un brano leggendario. Jean-Luc Godard, uno che non batte mai strade risapute, mette in parallelo la nascita di uno dei capolavori del rock, l’inno Sympathy For The Devil, con le istanze cinemarxiste di fine anni Sessanta. Ne esce un film logorroico, confusionario ed estenuante, tra piani sequenza interminabili e inafferrabili discorsi concettuosi. Ma poi arrivano i nostri e Jagger insegna gli accordi a un Brian Jones visibilmente stordito. Il pezzo non decolla e allora Keith imbraccia il basso e in mano a Bill Wyman lascia le maracas. Il Fender Precision diventa il propellente ritmico del pezzo che ormai è un sabba musicale sottolineato dalle voci degli amici che fischiano “woo wooo” come un treno. Ciliegina sulla torta, un assolo bruciante che esce da una Les Paul Black Beauty. Film indigeribile per molti, ma di straordinario appeal visivo e sonoro. Come nasce la Rivoluzione? Come nasce un capolavoro? Ineffabile, anche Godard alla fine avrà canticchiato It’s Only Rock’n’Roll”. Un po’ leccatino, eh? Vabbeh: qualcos’altro da aggiungere a questa miniatura? Se non è già abbastanza chiaro, gli sproloqui di Jean-Luc risultano micidiali: ho resistito mezz’ora poi ho lasciato il mezzo svizzero al suo delirante collage sonoro e ho smesso di vedere, guardavo soltanto: una fotografia notevole al servizio delle interminabile inquadrature; un’edicola come paradigma del consumo contemporaneo; tanti black panthers arrabbiati; Anna Wiazemsky intervistata che risponde per monosillabi; slogan come “Freudemocracy” e “Sovietcong” scritti per le strade. Film antinarrativo, non è sottotitolato, ma non vedo come potrebbe. In settimana volo per lavoro a Roma e seduto due posti davanti a me c’è l’onorevole Ugo Intini, un acerrimo nemico dei miei vent’anni, quando era ogni sera in tivù a commentare entusiasticamente ogni uscita del cinghialone. Oggi è eletto nelle fila dell’Ulivo. Vorrei aprire uno sportellone e buttarmi giù. (Dvd; 2/7/04)

ddv4804474 – Nido di vespe, una vaccata di Florent-Emilio Siri, Francia 2002
È il colpo perfetto: un deposito nella banlieue di Strasburgo, pronto da svaligiare. Santino, Nasser e company si sentono già ricchi quando, inseguito da una milionata di balcanici incazzati e armati fino ai denti, arriva un blindato con dentro quattro flic e il loro preziosissimo prigioniero: il boss totale della mafia albanese. Diventa Fort Apache, con rapinatori e “buoni” che devono unirsi per salvare la pellaccia. Sparatorie, adrenalina e una discreta costruzione. Però il film crolla quando dovrebbe tirar fuori le palle: gli assediati costruiscono una sorta di fortino con dei container e questo momento epico viene buttato via, dimenticando la lezione di tutti i film d’assedio. E fin qui, passi. Ma lo scempio si compie con la liberazione. Secondo i sacri manuali tutto il film dovrebbe essere una lenta e sapiente costruzione dell’orgasmico “arrivano i nostri”. L’intelligenza del bravo sceneggiatore sta nel saper giocare con la prevedibilità della ricetta, inventando qualche variazione e aggiungendo qualche ingrediente nuovo. Qui – oltre a rubacchiare fin troppo da Carpenter – si fa presto: si evita la liberazione e si vede direttamente il dopo, dovendoci bastare il sacrificio di uno dei resistenti che si immola ammazzando un po’ di avversari. E chi sa se li ha fatti fuori tutti o no. Boh: la polizia è arrivata e i nostri eroi sono pronti per il ricovero. Zero psicologia, zero relazione tra i personaggi, neanche qualche banale legame o chimica interpersonale, niente. E i dialoghi fanno paura per pigrizia inventiva. Peccato. Film a parer mio scarsuccio, di cui ricordo invece ottime recensioni da parte di critici distratti o disperati. In questi giorni ho anche visto diversi episodi di Friends: c’è stato uno scambio tra drogati (con Nuria, che ha ricevuto i miei Sex and The City) e ho messo le mani sui Dvd della prima serie dell’epocale sit-com. Con la scusa dell’esercizio linguistico e qualche non meglio precisato interesse professionale del sottoscritto, Barbara e io abbiamo polverizzato i 4 dischetti. Oggi, delle ultime serie del telefilm, m’importa poco: vicende stanche e ripetitive, chiaramente aggrappate al bisogno di soddisfare l’audience e onorare contratti milionari. Conosco la solfa: the show must go on e Misery non deve morire. I protagonisti sono diventati insopportabili, ma nel 1994 erano dei twentysomething – non sempre credibili – alla ricerca di un lavoro e di una posizione sociale e sessuale. Gli episodi sono scoppiettanti e il kick off è da manuale: la viziata Rachel è in fuga dal matrimonio e piomba a New York, dall’amica Monica, il cui fratello Ross è appena stato lasciato dalla moglie scopertasi lesbica. Di contorno gli altri tre amici: il professionista Chandler, l’attore Joey e la scapestrata hippie Phoebe. I tic, le manie, i sogni, i timori di sei ragazzi che rappresentano perfettamente la nazione americana, eterna fanciulla che rifiuta di crescere e deve fare i conti con l’età adulta. E che la rappresentano anche come vorrebbe essere: sempre giovane, generosamente ingenua, bianca, lavoratrice, positiva, felice. Anche se nella versione originale le risate sono molto presenti, ci si abitua presto e – vi assicuro – è una gioia ottusa ridere in tanti. (Dvd; 11/7/04)

ddv4805475 – Keep calm, raga, ma ancora Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003, stavolta a Mantova
Mentre a Milano Fame chimica resiste in sala, la demenziale logica distributiva della Lucky Red è continuamente smentita dalle richieste di rassegne e cineclub: stasera sono assieme al regista Paolo a presentare il film a Mantova, in un attivissimo cinema d’essai, il Mignon. Lo anima Agostino, vecchio amico del mio mentore Davide Parenti, col quale anni fa organizzava rassegne. In qualche modo sembra di tornare a casa e la proiezione è all’aperto, con uno schermo che ricorda quello di Strategia del ragno. L’atmosfera è del resto bertolucciana fin dall’entrata del Mignon, con le foto di scena di Novecento, girato nei dintorni. Assieme ad Agostino c’è Claudio, suo compagno di ricognizioni cinematografiche. Questa è gente che vive di cinema: lo mangia, lo respira, lo sogna e non s’è ancora disillusa, nonostante distributori, produttori e spettatori distratti provino a rendergli la vita impossibile in ogni maniera. La sala resiste ed è un gioiellino, dove non è solo di prima qualità la scelta dei titoli ma anche la proiezione e il sonoro. E i mantovani devono saperlo: la città è deserta e fa un caldo sudanese, ma non c’è un posto libero. Durante la proiezione andiamo a mangiarci una pizza con gli organizzatori e si parte coi classici racconti da cineclub: le pellicole non arrivate o sbagliate, le tipologie di spettatori e le modalità di visione, gli abbagli critici, quell’esilarante volta che… e così via. Non posso esimermi dal raccontare della traduzione simultanea dei gelidi film tedeschi al Lumière (l’interprete, con la cadenza del Gabibbo, ci metteva una partecipazione nulla e aveva sempre la stessa intonazione, sia che fosse una scena comica o una sparatoria) o della volta che ho visto Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi di Lev Kulesov con le didascalie in cirillico e la voce affranta da fondo sala che continuava a chiedere: “ma non c’è qualcuno che sa il russo?”. Torniamo in tempo per i titoli di coda e il dibattito, quanto mai piacevole. Pubblico attento, curioso e pieno di domande. Ed è bello, perché si conosce della gente e le loro motivazioni: come si viene a sapere di un titolo, perché si decide di vederlo, come lo si commenta. Viva il pubblico, perché suo è il regno dei cinema! (Cinema Mignon, Mantova; 20/7/04)

ddv4806476 – Il fragile Unbreakable di M. Night Shyamalan, USA 2000
Se non l’avete visto, non leggete oltre. David (Bruce Willis) vive come narcotizzato: non comprende il mondo che lo circonda, è ai ferri corti con la moglie, non riesce a stabilire un ruolo nei confronti del figlio. Ed è l’unico sopravvissuto in un incidente ferroviario con un pacco di morti. Il culo, eh? Lo rintraccia un collezionista di fumetti (Samuel L. Jackson) che crede che la mitologia dei comics abbia più di qualche aggancio alla realtà e gli chiede quanti infortuni abbia avuto in vita sua. E David si rende conto che non è mai stato male. Il suo interlocutore, invece, è il più debole possibile: lo chiamano Mr. Glass perché le sue ossa si spezzano soltanto a guardarle. David non vuole essere scocciato da questo matto, ma il dubbio è stato instillato: e se fosse veramente un super eroe, come insinua l’uomo di vetro? Perché, quando sfiora qualcuno, ha delle premonizioni e capisce se faranno del male o no? È pura suggestione? È vero che anche lui ha un punto debole (l’acqua), come l’epica (anche fumettistica) insegna? Shyamalan tenta una cosa molto difficile: ragionare sui meccanismi della narrazione popolare costruendo al contempo una vicenda che possa essere fruita come tale, secondo gli archetipi della cultura media, comprensibile da tutti. Gioca con le ossessioni americane, con la cultura popolare yankee, con le leggende metropolitane, col Caso che non è mai casuale. Il film risulta più sciocco delle idee che lo animano e ha alti e bassi (una certa lentezza, tra l’altro), ma l’idea mi piace, per cui lo promuovo. Forse David è un super eroe: potrebbe, gli elementi ci sono tutti. Ma forse no: l’unico momento che non ha giustificazione logica è quando intuisce che l’addetto alla pulizia della stazione dei treni è un assassino. Tutti gli altri casi (quando individua un attentatore o sospetta di altri) risultano plausibili, vuoi per intuito, fortuna o mera possibilità: questo invece è il solo momento in cui la regia non trova una motivazione attendibile per l’operato del protagonista. E quindi il dubbio rimane: non è un errore, è un’incertezza voluta, direi. Bruce Willis è abbastanza ligneo, come da trademark, pur tuttavia simpatico in questi ruoli dolenti, dove soffre perché non capisce che cazzo ci stia a fare lì, con un regista che una volta lo fa morto e l’altra superman. (Dvd; 24/7/04)

ddv4807477 – Neanche troppe, Sei donne per l’assassino, di Mario Bava, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1964
Siamo a Brisino per una settimana, prima di dedicarci al Tour de Corse, e le serate sono perfette per quella straordinaria invenzione che è il Dvd. Considerato sia il primo body count che il primo slasher della storia del cinema, Sei donne per l’assassino è una sinfonia di morte, colori e musica clamorosamente orchestrata dal talento visivo di Mario Bava. Il plot è lineare e perverso ed è stato concepito e sceneggiato da quel Marcello Fondato già co-autore di Tutti a casa e poi insuperato regista di …Altrimenti ci arrabbiamo (un uomo, un genio, insomma): in una fashion house romana vengono fatte secche una modella dopo l’altra. Chi è stato, tra i tanti (uomini) che razzolano l’ambiente? Il mistero attizza e Bava sa come tenerti sulla corda: ogni uccisione è inventiva e raggiunge un nuovo grado di efferatezza. Dario Argento deve essere cresciuto su questo sacro testo che usa tutto alla perfezione per costruire un universo allucinato veramente de paura. Due anni fa mi aveva colpito l’incredibile irrealistica fotografia de La frusta e il corpo; qui il lavoro di Ubaldo Terzano è a livelli spaziali e ogni inquadratura è studiata nei minimi particolari cromatici, una tavolozza accesa da rossi violentissimi ma anche ammorbidita da luci di contrasto perfette. Rustichelli poi sottolinea il tutto con una musica inquietante e ineludibile. Certo, gli attori non son granché e la storia va via veloce, ma che pacchia per gli occhi e le orecchie: Bava si dimostra uno stilista eccezionale. Satisfaction! (Dvd; 25/7/04)

ddv4808478 – Il capolavoro, cosa te lo dico a fare?, Rear Window, di Alfred Hitchcock, USA 1954
Questo La finestra sul cortile me lo rivedo ogni volta che posso e la versione restaurata in lingua originale su Dvd è occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Il film è splendido e intelligentissimo (io molto meno e potrei contestare solo due o tre scelte di montaggio, con delle giunte sgradevoli) ed è molto più di un semplice thrilling. È un’incontestabile difesa della scopofilia: Jeff (James Stewart), altrimenti fotoreporter scavezzacollo, è immobilizzato su una sedia a rotelle e passa il tempo osservando i suoi vicini di casa che gravitano sul cortile del retro. È insofferente, vuole liberarsi del gesso e ricominciare a girare per il mondo. Ma c’è un altro ostacolo: l’altolocata ed elegantissima fidanzata Lisa (Grace Kelly) vuole impalmarlo e addomesticarlo. L’ossessione guardona distoglie la coppia dai bisticci: la massaggiatrice Stella e Lisa sono all’inizio indignate della curiosità di Jeff, poi vengono tirate dentro: c’è un delitto da smascherare! Ma il delitto è l’occasione per riflettere anche sul matrimonio e sui rapporti di coppia. Tutti i vicini rappresentano una diversa tipologia di vita condivisa (o meno): c’è la triste donna sola; ci sono gli sposini che ci danno dentro, la petulante zitella e la desideratissima ballerina. E poi c’è Burr che risolve il suo matrimonio in maniera drastica, dandoci letteralmente un taglio. Hitchcock è malizioso e tutto il rapporto tra Jeff e Lisa è attraversato da una forte tensione erotica. Lei se lo magnerebbe vivo, ma lui è immobilizzato, impotente, ingessato. E il premio per l’intraprendenza di Lisa (che aiuterà a risolvere attivamente il caso) saranno ben due gessi, con Jeff (forse) definitivamente prigioniero. Hitch misogino? Mah! Forse sul set, ma nei suoi film si divertiva un mondo a prendere per il naso il pubblico maschile, blandendolo e compiacendolo, per poi dimostrargli l’incontestabile superiorità femminile. Certo: la coppia Kelly/Stewart è un po’ improbabile… lei è una macrognocca, angelica nell’aspetto ma col fuoco nelle vene. Lui un vecchio gatto di ghisa, dal ciuffo tinto, per nulla ipotizzabile come avventuroso fotoreporter. Com’è possibile che lei sia innamorata di lui? E com’è che di fronte a questa irreale possibilità, lui, impiazzabile sul mercato, offra ancora delle titubanze? Che gran cosa il cinema! Film superlativo, buon Dvd, ottimi extra. (Dvd; 26/7/04)

ddv4809479 – Purtroppo, L’amore è eterno finché dura, di Carlo Verdone, Italia 2004
La residenza estiva a Champoluc viene santificata con una visitina al cinema che mi ha regalato capolavori come Fantozzi, Anche gli angeli mangiano fagioli e …Altrimenti ci arrabbiamo. L’unico film decente è l’ultimo di Verdone e andiamo a subire una cocente delusione. Intendiamoci: in quasi due ore di film ci sono almeno cinque scene molto divertenti, perché Carlo sa far ridere, eccome. Però punta più in alto: non gli basta il comico, vuole la commedia di contenuto, che sappia indagare il costume. Ci prova, ma non gli riesce: dopo la prima azzeccata mezz’ora L’amore è eterno… va spegnendosi, come il rapporto tra Verdone e la moglie Laura Morante, che è (tanto per cambiare) isterica, bidonata e imbidonita. Verdone la lascia e trova una nuova compagna (Stefania Rocca). Ma anche lì non filerà tutto liscio, perché le relazioni affettive sono terribilmente complicate. Verdone è attore fantastico, capace di tic, facce, espressioni assolutamente comiche. Come regista però è meno felice: musiche, montaggio, fotografia, direzione degli attori e soprattutto controllo della sceneggiatura e del ritmo della messa in scena sono molto discontinui, con frequenti cadute di tensione. Peccato. E da carogna noto anche l’utilizzo mal dissimulato di tappo di sughero in testa. Durante il mese d’agosto, mentre eravamo in Corsica, abbiamo anche visto la cerimonia olimpica inaugurale ad Atene, con invenzioni scenografiche semplici ma d’effetto. Emozionante la sfilata degli atleti: io mi commuovo sempre anche perché credo ancora a cazzate come la pace nel mondo, la solidarietà, l’onore sportivo etc. Poi, una sera abbiamo visto mezz’ora di Paz! e ci è parso tremendo, tutto sopra le righe: la regia insegue la geniale anarchia fumettistica di Andrea Pazienza. Ma se ci sono i fumetti che sono dei capolavori, che senso ha rifarli – e male – al cinema? Potrà mai venire bene un balletto di Béjart scolpito? (Cinema Sant’Anna, Champoluc; 18/8/04)

ddv4810480 – Maestosi Rush In Rio, di Daniel E. Catullo III, Brasile/Canada 2003
Siccome a metà settembre i Rush arrivano in Italia, mi metto avanti col lavoro, guardandomi un recente doppio Dvd che li riprende in concerto. Musicalmente è eccezionale, da un punto di vista produttivo è invece troppo montato. Il palco è buietto e non sempre la definizione è al massimo, ma è tale il coinvolgimento che chi se ne frega? A corredo c’è il bel documentario The Boys in Brazil che racconta come sia nata questa tournée carioca. Conosciamo la segreta alchimia del gruppo (al trio piace la zuppetta!), gli hobby personali e come venga vissuta l’estenuante routine del tour. Tra stadi zeppi, acquazzoni tropicali e commossi fan argentini e cileni, un bel modo di raccontare la musica. Ma chi sono i Rush? Eccovi il pezzo che scriverò tra un mese per Rolling Stone dopo averli visti in concerto a Milano (è un cortocircuito spazio-temporale, lo so: faccio miracoli, embeh?). “È l’ultima sera d’estate e 8000 persone hanno deciso di passarla assieme: sono progster, metalhead e nerd assortiti. Sono fan dei Rush: non una band, una fede. Cieca. Come dimostra anche il passato atteggiamento sartoriale del trio canadese: kimono, caffetani, pantacollant, vezzosi foulard e eyeliner. Oggi vestono come persone normali e vantano un’invidiabile autoironia, sconosciuta ad altri dinosauri del rock: si presentano sul palco con delle lavatrici (!), a centrifugare trent’anni di un repertorio che spazia schizofrenicamente dall’hard anni 70 fino al nu-rock (qualunque cosa significhi) del nuovo millennio, avendo costeggiato il pop synth anni 80 e soprattutto il progressive più fantascientifico. Geddy Lee è forse il frontman meno glamourous della storia del rock: brutto come pochi (sembra la strega Nocciola), segaligno e dotato di una voce incredibile, come se avesse i testicoli in una pressa. Mette subito le cose in chiaro: “suoneremo un milione di canzoni”. Lo accompagnano il pingue e pacioccone chitarrista Alex Lifeson e il very cool Neil Peart, tecnicissimo batterista attorniato da un kit rotante che sembra una centrale termoelettrica e farebbe la gioia di una decina di garage band. Amati in USA, di culto in Europa, i Rush devono la loro gloria a concept visionari (talvolta amabilmente cialtroni) e a una miriade di canzoni, ormai classici, decisamente imprevedibili. Come quella che racconta della lite nel bosco tra aceri e querce, per dire. Bellissima. Ma la vita è dura e al buon Peart, nel giro di un anno sono morte figlia e moglie. Dopo una comprensibile pausa lavorativa i tre amici si son guardati in faccia: questo san fare, suonare. E allora, via!: vai di tour, dischi e dvd. Loro si divertono e il pubblico – a giudicare anche dal successo della data milanese – anche di più: un vero show, generosissimo, divertente, vario, ricco di luci e immagini dai mega schermi. E tra i tanti loghi della band ne spunta anche uno vecchio come loro, ma altrettanto attuale: fate l’amore, non fate la guerra. Ed eviterete l’estinzione.” Bel Dvd, grandissimi musicisti e belle persone. Ma occupiamoci dell’Italia, va’! Cesare Battisti s’è dato alla macchia e ci son grandi polemiche, con la sinistra che – adesso – se la piglia con Castelli perché non è stato abbastanza cane da guardia. Siamo proprio un paese di merda. In Iraq è stato assassinato il prigioniero italiano Enzo Baldoni, pubblicitario, traduttore di fumetti, blogger, viaggiatore, reporter, volontario. Una persona curiosa che si intuisce splendida dal ricordo addolorato di tutti gli amici e conoscenti. Il foglio di merda che è Libero si distingue come al solito e non nasconde la soddisfazione che un pacifista sia finito ammazzato, un “amico dei terroristi”, uno “che se l’era andata a cercare”. Uno, aggiungo io, che il giornalista non lo faceva dalla poltroncina al soldo del padrone e con le agenzie embedded, ma andandoci, in Iraq, anche e soprattutto per aiutare. E à la guerre comme à la guerre, tutte le vite dei giornalisti di Libero non valgono dieci minuti dell’esistenza di Baldoni. Con rancore. (Dvd; 23/8/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 48)

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Divine Divane Visioni (Urlando furioso 03/04) – 47 https://www.carmillaonline.com/2013/03/22/divine-divane-visioni-urlando/ Fri, 22 Mar 2013 00:34:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4656 di Dziga Cacace

Io non so bene dove vado, ma mi muovo lo stesso, provo piacere nel farlo, amo camminare, amo la notte, amo le stelle Boccalone di Enrico Palandri, 1979

DDV4701.jpg462 — Ancora Fame chimica, lo so, abbiate pazienza, di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003

Vediamo di dare una mano, sù. Dopo le innumerevoli visioni in lavorazione e quella definitiva, ma ubriaca e onirica, a Venezia (vedi qui, #411), è venuto il momento di assumersi delle responsabilità dirette: prendere gli spettatori e portarli di peso in sala. Trascino meco Barbara, Alessandra e Pier (che il film l’hanno [...]]]> di Dziga Cacace

Io non so bene dove vado, ma mi muovo lo stesso,
provo piacere nel farlo, amo camminare,
amo la notte, amo le stelle

Boccalone di Enrico Palandri, 1979

DDV4701.jpg462 — Ancora Fame chimica, lo so, abbiate pazienza, di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003

Vediamo di dare una mano, sù. Dopo le innumerevoli visioni in lavorazione e quella definitiva, ma ubriaca e onirica, a Venezia (vedi qui, #411), è venuto il momento di assumersi delle responsabilità dirette: prendere gli spettatori e portarli di peso in sala. Trascino meco Barbara, Alessandra e Pier (che il film l’hanno già visto) e l’esordiente Eugenio. In questo momento il film ha il miglior rapporto italiano tra posti disponibili e biglietti staccati ed essendo in cartellone in due sole sale la cosa si spiega facilmente, ma non solo. Ieri sera, è stato il terzo incasso di Milano e a fronte di tanti blockbuster è un buon segno. Ho un po’ di timore a vedere con degli amici un film di cui poi potrei dovermi giustificare: spiegare il perché e il per come Fame chimica non sia venuto come doveva. E invece, a visione ultimata, dichiaro fiero: NO! Ci sono un po’ di cose che possono far storcere il naso, ma il film c’è eccome, ha drive, commuove ed esalta. E ne vado fierissimo! Mi rendo conto che ne scrivo sempre come se la storia fosse universalmente conosciuta. Dunque: Claudio vive col padre e lavora scaricando merce surgelata. Suo amico è Manuel, ragazzo di strada che si arrangia con lavoretti loschi. La panchina della piazza è il luogo d’incontro quotidiano, ma l’amicizia è messa in crisi dall’arrivo della bella Maja. Di contorno la perdita progressiva di diritti nel lavoro, le droghe, le discoteche e la violenza, lo spaesamento di fronte a un paese disorientato e fratturato, tra spinte xenofobe e normalizzazione socialdemocratica frustrante.

Vi dico subito le cose che, secondo me, non vanno granché. Il finale non è a regime: lo volevamo epico ed è in tono minore, quasi minimale. Poi il personaggio di Maja è sfuocato: troppi maschi in sceneggiatura! E ci sono anche alcune inezie, dei piccoli momenti che mi fanno freddo. Chessò, il rumore di un’esplosione sul titolo (una cafonata); l’arrivo della compagna di uno degli amici della panchina (attrice incapace, battuta falsa, inquadratura con luce brutta); la musica punkeggiante quando la polizia insegue Manuel e Claudio (la colonna sonora è in generale bella, ma i registi e il montatore non hanno sensibilità rock, è evidente) e il montaggio della stessa scena. Tutto qua. Ma sono intolleranze alimentari minimali a fronte di un film fatto con due lire. Invece i momenti in cui godo di bestia perché sento una prepotente emozione estetica sono molti. Parcellizzando: carrello sovietico in avanti sul volto di Manuel quando vede la prima volta Maja; un’esitazione di Claudio, dopo aver fatto l’amore ed essersi rivestito, nella scena della piscina, che vale il De Niro ubriaco al matrimonio de Il cacciatore, davanti a Meryl Streep (giuro!); Claudio e Maja, in moto, col montaggio audio asincrono; il dialogo di Claudio e Manuel dopo una notte brava, con una musica di Einaudi di poetica levità; la sgasata felice di Maja e Manuel dopo aver comprato della cocaina. E poi i primi piani, sempre (potevano addirittura essere potenziati e diventare una cifra stilistica); la fotografia, notturna e sgranata; l’incedere narrativo che non dà tregua; l’orgoglio e l’ironia degli zarri che occupano la panchina; Claudio che non balla quella musica, ma sta a distanza e osserva… Sono tutti molto soddisfatti, stasera, ma io di più: Fame chimica funziona con critica e pubblico, dice qualcosa di sinistra, non è apologetico né moralistico e possiede l’affetto e la serietà di chi sente ciò di cui parla. È bello, ne sono sicuro.
P.S.: Alcuni critici senza cuore fanno le pulci al film con generici rimproveri allo script: lo snobismo intellettuale atrofizza i sensi e non sapendo specificare quali siano i disequilibri, si sfottono i troppi sceneggiatori, prendendo per oro colato i credits. Se si fossero mai occupati fattivamente di cinema saprebbero che titoli di testa e coda sono il mezzo per distribuire burocraticamente meriti, ma anche ringraziamenti, affetto, qualche lira e un po’ di concessioni all’ego. Qualcuno crede che il regista di Radiofreccia sia, ehm, solo ed esattamente Ligabue? E come si fa a magnificare il modello produttivo del film, comunitario e condiviso, e poi criticare la folta partecipazione alla sceneggiatura? Finché sono maestranze va bene, ma a scrivere ci devono pensare solo pochi eletti? Boh. (Cinema Eliseo, Milano; 6/5/04)

ddv4702.jpg463 — L’eredità, mah, di Per Fly, Danimarca/Svezia 2003

Se ad Amadeus tocca L’eredità su RaiUno, a Christoffer spetta l’eredità di un impero industriale danese. Faceva la bella vita, aveva l’amore e un lavoro suo. Poi babbo si è suicidato lasciando una situazione tipo Parmalat. E allora Christoffer deve scendere dal pero e diventare un cattivone capitalista per salvare l’azienda. Apologo morale un po’ telefonato che, per portare alle estreme conseguenze il suo assunto, esagera distorcendo il personaggio. Il Capitale è cattivo, homo homini lupus e bla bla, ma non è drammaturgicamente credibile nel nuovo millennio che un tizio — da pacifico ristoratore innamorato — diventi un insensibile Agnelli shakespeariano pronto a sacrificare moglie, famiglia, operai, per avvelenarsi di alcol e subire le angherie della madre. E dài! Ed è molto più probabile che un capitano d’industria di tal fatta faccia un bagno di sangue e fallisca (portando i suoi operai allo stesso identico destino: la disoccupazione). Che volete che vi dica? Solo io so come andrebbe scritto un buon film. E per la cronaca, ieri a Milano Fame chimica ha totalizzato 750 spettatori ed è uno dei film più visti della settimana, nonostante il proditorio attacco critico apparso su un inserto del Corsera. Evidentemente c’è una lotta tra critici all’interno del quotidiano e Alberto Pezzotta liquida il film in dieci righe velenose, chiedendosi anche lui ironicamente se servissero così tanti sceneggiatori per una storia semplice come quella di Fame chimica. Cacace, dall’altra parte della barricata, stringe stizzito i pugnetti e chiede: è semplice il plot? E se fosse vero, da quando è un difetto? E c’è una regola matematica per cui: tanti sceneggiatori, tanta materia narrativa? Poi si critica l’indecisione tra film di genere o di puro realismo. Cacace again, in “Hysteria mode ON”: qual è il problema? ViviMilano non sa categorizzare il film per il lettore borghesuccio del Corriere? E infine, la tirata d’orecchi più straniante: il film paragonato a un musicarello perché Luca Zulù dei 99 Posse canta sui titoli di testa e di coda e a metà film (entrando e uscendo dalla narrazione). Eh?!?! Non conosco Pezzotta se non per averlo letto spesso (ed è bravo, effettivamente) ma una stroncatura così, senza elaborazione, mi puzza di vendetta privata. Cosa c’è che non so? (Cinema Ducale, Milano; 13/5/04)

ddv4703.jpg464 — Once Upon A Time In America, quasi un capolavoro di Sergio Leone, ma quasi, Italia/USA 1984

Giusto per ricordarvi cosa succede (e dico tutto, per cui se dovete ancora vedere il film, cautela): anni Trenta, Noodles (De Niro) deve scappare da una fumeria d’oppio. Lo vogliono ammazzare. Il fraterno amico Max e altri due complici sono stati uccisi dalla polizia in un agguato, a causa di una sua soffiata. Trent’anni dopo, nel 1968, Noodles torna a New York. Accadono cose strane: la storica valigia dove dovevano rimanere i soldi della gang è vuota. Ma qualche giorno dopo si riempie, come acconto per un futuro lavoro. Noodles viene invitato al ricevimento del senatore Conway. Non lo conosce, ma sa dei suoi problemi con la giustizia. È Max, che s’è rifatto una vita e che oggi, piuttosto che pagare il suo debito, preferisce essere ucciso dal vecchio amico. Che non ne sarà capace: Max/Conway scomparirà in una camion della spazzatura. Forse. Come i ricordi, i rimpianti e i rimorsi, gli amori e gli odi: triturato dal tempo. Lungo 3 ore e 40, opera intensa, sforzo produttivo gigantesco, è l’opera definitiva di Sergio Leone. O perlomeno voleva esserlo. La verità è che a me e Barbara non è sembrato il capolavoro che ricordavamo essere, né quello che speravamo che fosse. Quasi, ma non fino in fondo. Intendiamoci: stiamo parlando di un’opera straordinaria, struggente, di soddisfazione, intensissima. Ma in questo Leone, sento un po’ la zappa. È come se gli mancasse la grazia, la musicalità. Penso a Bertolucci, alle similitudini tra i due autori: con BB c’è più leggerezza, ma anche più fisicità e — nell’universo filmico di questo autore — è plausibile, accettabile. È lirico, non stona. Con Leone, invece, sento sempre una forzatura, come se non fosse a suo agio. Nella violenza, nella sessualità, nei percorsi evolutivi dei personaggi. Perché Max diventa così iracondo da un momento all’altro (e parliamo di una storia che attraversa sessant’anni di storia americana)? Mentre su Noodles c’è un lavoro intensissimo di costruzione del personaggio, anche con le sue (plausibili) contraddizioni, non riesco a essere convinto per Deborah (l’eterna amata) e Max. Mi sembrano al servizio della trama e dello sviluppo del personaggio interpretato da De Niro, ma poco coerenti. Certo: potrebbe essere tutto un sogno oppiaceo di cui sorridere, con la logica spezzata dalle ellissi e dai misteri senza risposta, però, durante la visione, ho sofferto un po’ questa indeterminatezza, come se avvertissi l’incapacità di Leone a trattare un personaggio che fosse “vero”, realistico, credibile. Nella “Trilogia del dollaro” ci sono cliché e personaggi perfettamente riconducibili a stereotipi narrativi. La citazione diventa iperbole: un trattamento diverso da quello a cui il cinema western ci aveva abituato. È destrutturazione, è rivisitazione. In questo C’era una volta in America, il regista si confronta con un altro genere classico, provando a costruire un gangster movie proustiano. Ma è come se facesse fatica: forse saprebbe trasgredirne le regole, ma mi pare goffo nel provare a seguirle. Adoro Leone; apprezzo l’incredibile qualità registica, la messa in scena, l’enfasi, la capacità di dilatare le scene e costruire la tensione con il suono di un telefono o il tintinnare di un cucchiaino su una tazzina da caffè. E sono bellissimi gli interni, i movimenti di macchina (anche in combinazione con alcune zoomate), la fotografia, l’incastro temporale. In fondo, anche la musica (che talvolta trovo un po’ invadente o derivativa — Picnic a Hanging Rock o Mahler). Ma i personaggi, quelli no: li trovo meno convincenti, meno rifiniti, e questa mancanza incide sulla mia percezione del film. Bah. Ciò detto, Jennifer Connelly è stata la bambina più bella di tutti i tempi. (E poi l’adolescente, la ragazza e la donna). (Dvd; 14/5/04)

ddv4704.jpg465/466 — Kill Bill, vol.1 e vol.2, un “Royale with Cheese” di Quentin Tarantino, USA 2003/2004

Ci ha fatto aspettare per 5 anni, Quentin, ma n’è valsa la pena, perché Kill Bill è — come lo era stato Pulp Fiction — un film che sancisce lo stato dell’arte dell’odierna Hollywood, ne mostra il potenziale e i limiti e si permette di farlo con una grandiosa ironia. È il postmoderno all’ennesima potenza: nel frullatore dell’immaginazione tarantiniana finisce tutto, memoria cinefila dalla Champions alla serie Z e cultura pop. Ma del resto, cosa può servire d’altro per raccontare questo tempo? Con intelligenza e affetto, Quentin usa musiche, mitologie e luoghi comuni che magari qui, in Europa, vediamo con qualche snobismo culturale e là, in USA, invece, funzionano epidermicamente. Kill Bill è bello, alto o basso che si voglia, ed è capace di rendere una tuta gialla il capo d’abbigliamento più elegante dell’anno. C’è chi nel film ha visto il nulla, montato ad arte: per me non ha capito niente. Tarantino gioca, si diverte da matti; lo si vede. È come un musicista quando si lancia in un assolo e inventa senza soluzione di continuità e se sbaglia è per azzardo, mai per calcolo. Kill Bill è diviso in due per motivi commerciali, ma è un solo film, di lunga durata, con accelerazioni e pause, che acquista un suo ritmo ieratico man mano che si avvia alla conclusione, una saggia lentezza progressiva. Se Jackie Brown era un atto d’amore per Pam Grier, Kill Bill lo è per Uma Thurman, la sposa vendicatrice: la cinepresa accarezza Beatrix, la coccola teneramente e costruisce il film su di lei, su quegli occhioni intensi, su quel corpo flessuoso come un giunco e resistentissimo, su quelle manone enormi eppure eleganti. Ma c’è amore anche per Carradine, vecchio volto bruciato; per Daryl Hannah, dimenticata da Hollywood e tirata dai lifting, o per Michael Madsen, panciuto e pericoloso. Kill Bill è un film giocattolo, colorato, animato, musicato e doppio, il massimo per un bambinone come me: intrattiene e possiede anche una sua malinconica profondissima dolcezza nella parte che tutti hanno criticato e trovato debole, lo showdown della protagonista con Carradine, l’obiettivo della sua vendetta. È come se Quentin non volesse ucciderlo. Cosa ci costa vederlo vivo ancora un po’, anche se a spese dell’equilibrio del film e appoggiandosi a dialoghi non brillantissimi? Lo capisco, Tarantino: vuole bene ai suoi personaggi ed è per questo che indugia (sempre nel finale) sulla ritrovata maternità della Thurman. Kill Bill è il figlio suo e non vuole più lasciarlo. E presto (o tardi) forse nascerà un terzogenito, il volume 3, quando saranno cresciute le figlie di Uma e di Vivica Fox. E dove mettiamo la Hannah, ormai cieca ma sicuramente incazzata come un pitone? E siamo proprio sicuri che la mossa dei cinque movimenti funzioni così bene? Attendo trepidante. La prima parte l’ho recuperata in Dvd, la seconda l’ho vista il giorno dopo in sala, con aria condizionata ghiacciata e luci accese sui titoli; il pubblico evacua e resistiamo solo in quattro fino alla fine. Il regista — che ama il cinema e sa che chi ama il cinema guarda i film fino all’ultimo — ci premia con un’ultima inquadratura di Beatrix che, complice, ci fa l’occhiolino. Ah, oggi Mereghetti si sdilinquisce per Fame chimica sul Corriere. Chissà se cambierà anche il giudizio sul suo dizionario dei film, eh? (Dvd e cinema Orfeo, Milano; 15 e 16/5/04)

ddv4705.jpg467 — Toy Story, rimane un capolavoro di John Lasseter, USA 1995

E beh, che posso dire? Che è il consueto capolavoro che ho già visto troppe volte per parlarne ancora. Al film si accompagna un bel documentario con la spiegazione dell’evoluzione di storia e personaggi e di come quel genio di Tom Hanks abbia abbracciato la realizzazione del progetto. E poi c’è il corto d’animazione Tin Toy, premio Oscar e germe di Toy Story: come nella fiaba de Il soldatino di piombo, i giocattoli sono dotati di una propria intelligenza. Lo scatto di cattiveria della Pixar è che il mostro terribile da cui difendersi sia un bambino in pannolone. L’evoluzione portata da Toy Story è — al di là del miglioramento notevole dell’animazione — nella contrapposizione tra il bimbo che i suoi giochi li ama, li protegge, in qualche maniera gli dà vita, e il bimbo stronzo che invece gioca alla loro mutilazione e distruzione. Il trasloco, classico momento in cui tutti perdiamo giocattoli e ricordi, è il momento di crisi che funziona da motore narrativo: ogni balocco deve stare attento a non essere lasciato indietro. Fino alla prossima apertura di regali, quando rischierà di essere sostituito nel cuore del suo padroncino da un giocattolo più bello e moderno. Il lavoro di costruzione psicologica dei personaggi è azzeccato: in alcuni casi si estremizza ciò che ti aspetteresti (il salvadanaio “porco”, i soldatini disciplinati e ottusi), in altri si rovescia il ruolo (il dinosauro fifone) o lo si rende ambiguo (Woody, a tratti viagliacchetto o geloso). Comunque l’impressione è che si sia lavorato in modo molto trasversale: i giochi scelti sono sicuramente vecchi per i bambini di oggi, ma evocano il mondo infantile dei trentenni (chi ricorda ancora la lavagna magica?) e anche le citazioni sono un chiaro ammiccamento che compiace diversi gradi di cinefilia (I predatori dell’arca perduta è alla portata di tutti, Freaks sicuramente no). La morale è apparantemente conciliante e semplice (dalla diffidenza nei confronti del diverso, si arriva attraverso l’opposizione all’amicizia e alla solidarietà) ma quanto mai attuale e necessaria, specialmente per il pubblico adulto. Ieri, poi, ho visto un po’ di film di Ugo La Pietra, architetto, designer, cineasta, artista totale. Un geniaccio che ha sempre vissuto ai margini del Gran Mondo del mercato commerciale/accademico. Durante gli anni Settanta ha prodotto diversi cortometraggi, sbocco naturale della sua attività di agitatore culturale. La grande occasione, del 1972, dice tutto col titolo: gli architetti sempre alle prese con l’evento che dovrebbe lasciare il segno sulla cultura. Spazio reale o spazio virtuale (1979) realizzato con incarico squattrinato della Triennale, sono 21 minuti dedicati all’intellighenzia milanese, abbarbicata a uno spirito di casta grottesco. La Aulenti (si meriterebbe My Name Is Tanina) e la Sotis, più di altri, fan figura da bestie; appare anche un Aldo Grasso isterico. Paletti e catene, 1979, racconta in 9 minuti la città imprigionata da precarie divisioni fisiche. Indirettamente il corto è responsabile della micidiale invenzione di Enzo Mari, i famigerati dissuasori, anche conosciuti come “panettoni” o “tognolini”. La riappropriazione della città (1977) è forse il più poetico e dimostra come i luoghi vivano del senso di appartenenza che sanno suscitare nei cittadini. Sono film intellettualmente vivaci, con la lentezza tipica del periodo, ma anche illuminati da un umorismo irriverente, erede di quello spirito provocatorio, libertario e antigerarchico del situazionismo. Perché ve ne ho parlato? Perché questo è il mio diario Linus delle elementari, abbiate pazienza, eh. (Dvd; 18/5/04)

ddv4706.jpg468 — Lord of the Rings — The Return of the King di Peter Jackson, USA/Nuova Zelanda 2003

E tre. L’ultimo capitolo della saga parte blandamente o forse faticavo io a capire dove fossimo rimasti. O avevo mangiato troppo e l’abbiocco era in agguato, chissà. Poi il film ingrana e fila come un treno, con tre vicende parallele montate abilmente in un crescendo di climax. Soddisfacente, dài!, anche se alla fine l’episodio che ho apprezzato di più è stato il primo, per varietà di situazioni e per le continue invenzioni. Il secondo e il terzo hanno aggiunto poco in termini di sorpresa e sono risultati il naturale proseguimento dell’esordio: cambiavano gli antagonisti, ma lo schema rimaneva invariato. Non posso azzardare paragoni col libro: quest’estate ho provato ad affrontare il tomo di Tolkien ma dopo due frustanti giorni di tentativi ho rinunciato. A me ‘sta mitologia a base di nani, mostri e stregoni non prende per niente: complimenti a Peter Jackson che, tutto sommato, mi ha incollato allo schermo (stasera al video) per nove ore complessive: gli son valsi uno sbrego di Oscar. Se qualcuno prestasse al regista neozelandese il capolavoro letterario di Neal Stephenson, Cryptonomicon, potrebbe venirne fuori il film del secolo. Intanto a Cannes ha vinto Michael Moore con Fahrenheit 9/11, tra generali polemiche. Sembra che il film non sia granché (e neanche Bowling a Columbine lo era in assoluto) ma l’urgenza politica ha prevalso su quella estetica. Spiace che i tanti commentatori non si ricordino mai quanto fosse fresco, pieno d’idee, grottesco e ficcante Roger & Me. Non me lo avesse fregato Beppe Grillo, ve lo presterei. (Dvd; 31/5/04)

DDV4707.jpg469 — Fame chimica pure a Genova, sorry, di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003

Esordio genovese per Fame chimica, con presentazione di Paolo Vari e del sottoscritto in sala. Quando stiamo per partire da Milano, la ferale notizia: a Genova manca la copia! Andiamo a prenderla al cinema Anteo, mentre sotto il sole c’è una fila di maniaci in coda per procursi la tessera della rassegna dei film di Cannes, usuale pacco che consente ai fanatici di dire che “io l’ho già visto”, di qualunque stronzata si tratti. Sto divagando. Arriviamo a Genova con inusitata celerità, troviamo Franco Bocca (uno dei produttori) e con lui incontriamo Andrea Rocco che gestisce la Genova Film Commission, un organo comunale che aiuta tutti coloro che vogliono girare un film in loco, fornendo vitto, alloggio, location, sponsor, maestranze locali e quant’altro. Ci offre il suo aiuto futuro, ma noi siamo sprovvisti di progetti realizzabili o finanziati. Rivediamo il film per l’ennesima volta e io mi commuovo come sempre: mi colpisce la tenerezza “by those lazy italians” come Manuel, che si atteggia per sopravvivere ma in fondo è un ingenuone. Sullo sfondo migliaia di bandiere della pace che fotografano esattamente la primavera del 2003… forse le ricorderemo ancora grazie a questo film. Come si fa a non voler bene a Fame chimica, dài!? Presenti in sala (solo) una sessantina di persone, tra cui Renato Venturelli (scriverà un buon pezzo per il Lavoro), il mitico Aldo Padovano che non vedevo dall’inverno ’98 (non è stato silente un attimo, ma è una spassosa istituzione genovese) e anche un amico architetto di cui non ricordo il nome (so che aveva pessimi gusti e riteneva un gran film quella bestiale cazzata di Fino alla fine del mondo). E poi c’era anche quel curioso signore che ho incrociato migliaia di volte al Lumière: un tizio gentile con la faccia da tartarughina che si segna diligentemente tutti i dati del film, prendendoli direttamente dalla pellicola per non incorrere in errori. È stato l’Internet genovese prima di Internet. Il famigerato dibattito si risolve nell’accorata adesione di una spettatrice che ringrazia affettuosamente con apprezzata cadenza dialettale. Bocca racconta la storia produttiva del film, Paolo ha il discorso preregistrato sulla genesi (la frase dello zarro che dice: “abbiamo vent’anni, le nostre cose le abbiamo già fatte…” etc.). Io annuisco e non ho nulla da dire: sono il contributo locale all’opera e sono contento. Lo dico, ma lo si capiva già. E tanto basta. (Cinema Ariston, Genova; 3/6/04)

ddv4708.jpg470 — La maschera del demonio di Mario Bava, Italia 1960

Il primo film di Bava sembra — a prima vista, per un caprone come me — il classico horror con trama impostata su base letteraria ottocentesca, e invece è un sorprendente film di vampiri dove la morte (o la condizione di “non morto”) è affascinante, tanto che uno dei protagonisti si dona alla principessa Asa senza opporre resistenza e la cosa risulta pienamente credibile. Mio padre ha dormito come un “non morto” morto per davvero, Barbara s’è mediamente annoiata, respirando come Dart Fener. Io no, ma non ho gli strumenti critici per comprendere appieno la forza del film, così come ne parlano gli storici entusiasti. L’uso del bianco e nero e della musica sono comunque notevoli e il film ti cattura col suo fascino perverso. E poi l’ambientazione è curatissima: niente male, dài. In questi giorni, approfittando della tivù satellitare, ho rivisto quasi interamente L’era glaciale (sempre divertentissimo) e Casomai (sempre bruttino). Premetto: formato della pellicola mai veritiero, tale e quale alla tivù generalista. Ho poi dato un’occhiata a Hollywood Ending, salutato ancora una volta come il ritorno in forma di Woody Allen e invece ulteriore prova che l’abbiamo perso. L’idea, sulla carta, è formidabile (il regista “autore” costretto a fare un film per gli spietati Studios perde la vista durante le riprese), ma diventa presto un susseguirsi di battutacce e freddure che neanche all’asilo. A notte fonda ho assaggiato il peccaminoso Lucia y el sexo, film dalle premesse autoriali e dalle conclusioni terrene. La decantata Paz Vega è caruccia, ma mi ha colpito di più una comprimaria estremamente generosa di cui mai saprò il nome. Il film comunque m’è sembrato una stronzata, lunghissimo, estetizzante e porcello in modo ipocrita. Infine ho rivisto più volte Spinal Tap, che rimane un’autentica goduria, ma per saperlo non avevo bisogno di Sky. (Diretta su Sky; 4/6/04)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 47)

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