mare – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E’ per questo che sono pulp le religioni? https://www.carmillaonline.com/2021/12/08/e-per-questo-che-sono-pulp-le-religioni/ Wed, 08 Dec 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69517 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Storie del mare, Gog Edizioni 2021, pp. 240, 17 euro

È inappropriato chiamare questo pianeta Terra, quando chiaramente è Mare. (Arthur C. Clark)

Questa è la domanda che si pone l’autore al termine del secondo capitolo del libro appena uscito per le edizioni Gog. Raccolta di saggi e riflessioni collegati tra di loro dalla presenza del mare, dei suoi dei e dei suoi eroi. Un testo che rivela ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, come Diego Gabutti possa essere definito una versione in chiave “pop” di Roberto Calasso, recentemente scomparso.

La stessa vasta erudizione, [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Storie del mare, Gog Edizioni 2021, pp. 240, 17 euro

È inappropriato chiamare questo pianeta Terra,
quando chiaramente è Mare.
(Arthur C. Clark)

Questa è la domanda che si pone l’autore al termine del secondo capitolo del libro appena uscito per le edizioni Gog. Raccolta di saggi e riflessioni collegati tra di loro dalla presenza del mare, dei suoi dei e dei suoi eroi. Un testo che rivela ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, come Diego Gabutti possa essere definito una versione in chiave “pop” di Roberto Calasso, recentemente scomparso.

La stessa vasta erudizione, lo stesso spirito di osservazione, la stessa curiosità intellettuale, soltanto applicate, oltre che a temi cari anche allo scomparso direttore editoriale di Adelphi (in questo caso, per esempio, le figure di Gilgameš, Simbad e Utnapishtim), anche alla fantascienza, al fumetto, al cinema (alto e basso, Steven Seagal compreso) e, passando anche per Bob Dylan, allo sterminato e diversificato immaginario pop e pulp.

L’autentico “frullato” di cultura alta e bassa, vorticosamente mescolate in ogni pagina, serve a delineare una storia dell’immaginario riconducibile al mare, dalle origini ai nostri giorni, che disvela al lettore come il “mare” non abbia soltanto costituito il primo elemento di quel “brodo primordiale” biologico da cui è sorta ogni forma di vita del pianeta che abitiamo, ma anche l’ambiente mitopoietico da cui, direttamente o indirettamente, hanno preso forma gran parte delle narrazioni elaborate dagli uomini fin dal delinearsi nell’antichità delle prime società complesse. Un autentico Oceano dei fiumi dei racconti, come Somadeva scrittore indiano originario del Kashmir, definì la sua vastissima antologia, Kathasaritsagara, composta fra il 1063 e il 1081, vera e propria collezione dell’intera novellistica indiana a lui precedente e coeva.

Dal diluvio universale che caratterizza le narrazioni sulla rinascita del mondo dopo una immane punizione divina, sia nelle tradizioni sumeriche che in quella biblica o in quella greco-antica, fino a Odisseo e al vecchio marinaio della ballata di Samuel Coleridge; dalle avventure filosofiche di Gulliver ai calcoli di “fattibilità” del naufrago-imprenditore Robinson Crusoe e dai mostri di Lovecraft fino a Moby Dick, il mare costituisce non solo lo sfondo narrativo o un espediente narratologico, ma rappresenta anche il caos che circonda, minaccia e, talvolta, distrugge le civiltà.

Spesso costituisce lo strumento con cui dei beffardi, crudeli, iracondi e vendicativi, sostanzialmente così simili ai villain della tradizione pulp, puniscono gli uomini, non soltanto per i loro peccati presunti o reali ma anche, come nel caso di Ulisse-Odisseo, per aver osato sfidare la loro volontà, anche solo per riuscire a salvarsi dalle mani violente e dalle fauci di un antropofago come Polifemo, figlio, appunto, del dio del mare, Poseidone.

Che si tratti di divinità antiche, come quelle che da sempre abitano il pianeta in incognito secondo quanto narrato nel romanzo di SF The Time Masters di Wilson Tucker1, oppure più vicine a noi, come il dio della Bibbia o gli dei dell’Olimpo; che si tratti quindi di Yahweh, «dio malmostoso», o degli dei detti Anunnaki che ha cacciato dai deserti compresi tra il Mediterraneo e la Mesopotamia, come Nergal e Ishtar, Ea e Ereshkidal, Enki e Marduk oppure, ancora, delle divinità litigiosissime dell’Olimpo, pare che ad ogni piè sospinto il maggior divertimento possibile, per le stesse, sia quello di ricordare all’uomo e alla sua stirpe che egli non è altro che un grumo di sangue e carne, dominato dalla e con la paura, il cui unico destino è quello di soccombere, possibilmente nel più atroce dei modi possibili. Tranne poi salvarne uno, il marinaio Noè che ha sostituito il superstite Utnapishtim della tradizione mesopotamica, per ridare inizio al gioco, in un continuo e mai interrotto lancio di dadi sul tavolo verde divino. In tal modo è sempre un oscuro navigante a dare inizio a un nuovo capitolo della storia universale.

Un capitolo destinato a popolarsi di sempre nuovi marinai, tutti destinati a misurarsi, come il primo tra loro, con l’ineffabile e il divino in qualche sua forma, per lo più spaventosa. Ne cito qualcuno, apparentemente a caso: Aladino, Lord Jim, Odisseo, Popeye, Fletcher Christian del Bounty, Corto Maltese, Barbanera, il Capitano Nemo, Emilio di Roccabruna signore di Ventimiglia, Achab di Nantucket, Francis Drake, Gordon Pym, Cristoforo Colombo, Marlow, Kurtz, Capitan Blood, Charles Darwin, Jenny dei pirati, Samuel Gulliver, Vasco da Gama, James Cook. Senza dimenticare gl’innumerevoli marinai senza nome o lignaggio che nei millenni trascorsi tra l’Età del bronzo e oggi hanno preso il mare sfidando gli dèi del vento e delle maree, a cominciare dai marinai ittiti, i quali praticavano il culto del dio delle tempeste, che era contemporaneamente il dio dell’ordine (come Two-Face, il nemico di Batman, e come Giano, dio delle porte e dei passaggi: ogni storia ha due facce). C’erano marinai ammutinati sulle navi inglesi e sulla Corazzata Potëmkin. Furono i marinai di Kronštadt i primi a ribellarsi contro i tiranni bolscevichi. Un marinaio americano, George Mendonsa, decretò la fine della Seconda guerra mondiale, il 14 agosto 1945, scoccando un bacio a una ragazza incontrata a Times Square. Anche Martin Eden, l’eroe di Jack London, era un marinaio; e così Sandokan, Sean Connery in Caccia a Ottobre rosso, le piratesse Anne Bonny e Mary Read, Long John Silver, Humphrey Bogart nell’Ammutinamento del Caine e in Acque del sud, film tratto da Avere e non avere di Ernest Hemingway (autore anche di Il vecchio e il mare: un Moby Dick dei poveri). Ci sono oceani privi d’acqua, come quelli che Peter O’Toole, nella parte di Lawrence d’Arabia nell’omonimo kolossal del 1962, illustra all’Emiro Feysal (Alec Guinnes) citando un po’ a spanne il Corano: «Il deserto è un oceano in cui non affonda il remo. E in questo oceano i bedù vanno dove vogliono e colpiscono dove vogliono». Fate caso infine a Donald Duck, da noi Paolino Paperino: è vestito da marinaio2.

L’avventura, sembra suggerire il testo, è sempre costituito dall’attraversamento di un mare, spesso burrascoso, caratterizzato da onde gigantesche e abitato da terrori informi e innominabili che sorgono, prima di tutto, dalle profondità della psiche. E non sono soltanto i testi compresi in Storie del mare a suggerirlo, se è vero che lo stesso Dante costruì l’intero XXVI canto dell’Inferno, quello di Ulisse e Diomede, senza aver mai letto o consultato l’Odissea, ma solo sulla scorta della memoria mitica che ne era stata tramandata fino ai suoi tempi.

L’avventura, dunque, consiste nell’iniziare o, perlomeno, nel tentare di tornar a dare vita a qualcosa: che sia una speranza o un mondo intero poco importa. Così come, tutto sommato, dal punto di vista delle narrazioni antiche o moderne poco importa che le religioni non siano altro che un sottogenere della narrativa fantastica, «esattamente come l’horror cosmico di H.P. Lovecraft o l’hard boiled californiano sono un sottogenere della narrativa d’evasione».

Il fatto che, nelle infinite possibilità offerte dalle narrazioni scritte o orali, la fine del mondo non sia stata possibile solo attraverso l’affogamento dello stesso, ma possa essere avvenuta o avvenire in altri modi, non cambia poi molto. Se gli scritti biblici: «Attribuiscono, infine, la grande inondazione a uno scatto d’ira del loro Iddio ombroso e diffidente, Yahweh delle piaghe, signore delle Leggi, delle punizioni e delle colpe (più spesso presunte che comprovate, come lamenteranno in futuro gli eretici)»3, questo non potrà impedire che

non sempre si riparta dal Diluvio. Forse, come dicevamo all’inizio, qualche volta è un incendio smisurato, o una scossa spaccatutto di terremoto, oppure è un meteorite fine del mondo, come quello che cancellò in un istante i dinosauri dalla faccia del pianeta ottantacinque milioni d’anni fa. Vedi mai che il prossimo begin again non venga affidato ai tirannosauri ermafroditi di Jurassic Park, o allo scienziato che per caso o per colpa genererà un buco nero giocando con l’acceleratore di particelle del CERN di Ginevra. E chissà, nel caso, a chi sarà affidato il compito di rigenerare il mondo dopo la catastrofe cosmica provocata dall’espansione a sorpresa d’un buco nero. E di chiunque si tratti, chissà come assolverà un simile compito, per quanto assistito dagli onnipotenti. Come Elvis Presley, nella parte del marinaio che nell’Idolo di Acapulco (1963) si tuffava dalla scogliera prima che l’acqua rifluisse lasciando scoperte le rocce trentacinque metri più sotto, il prossimo Deucalione si tufferà, famiglia e tutto, nell’orizzonte degli eventi del buco nero alla ricerca di mondi paralleli da popolare?4.

Se, come il sottoscritto, passerete in riva al mare qualche giorno delle prossime festività, questo è sicuramente il libro da portarsi appresso, ma, anche se sarete in pianura o in montagna, preparatevi almeno con una buona lettura come questa, visto che, con il riscaldamento globale in atto, prima o poi il mare arriverà a raggiungervi o a sommergerci. Forse, per una volta tanto, non soltanto per volontà degli dei.


  1. In italiano Signori del tempo, Urania n. 45 del 30 marzo 1954  

  2. Diego Gabutti, Solo superstite, un marinaio, Prologo a D. Gabutti, Storie del Mare, Edizioni Gog 2021, pp. 9-10  

  3. D. Gabutti, op. cit., p. 12  

  4. ibidem, p. 11  

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Pucette e la luna di Timbuctù https://www.carmillaonline.com/2019/07/21/pucette-e-la-luna-di-timbuctu/ Sat, 20 Jul 2019 22:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53561 di Paolo Lago

Alla fine dell’Ottocento, la vita africana era tormentata da una terribile piaga: la tratta degli schiavi. Le lotte tribali, le razzie organizzate da popolazioni guerriere, le guerre degli stati che si erano costituiti in diverse regioni alimentavano largamente il traffico di uomini. Timbuctù, lungo il corso del Niger, era uno dei centri di smistamento degli schiavi: stipati su piccole imbarcazioni, essi venivano portati fino alla costa per essere imbarcati sulle grandi navi negriere europee, dirette verso le Americhe. Una di queste terribili notti di deportazione, c’era la luna quasi piena: Ousmane si trovava su una di queste barche, [...]]]> di Paolo Lago

Alla fine dell’Ottocento, la vita africana era tormentata da una terribile piaga: la tratta degli schiavi. Le lotte tribali, le razzie organizzate da popolazioni guerriere, le guerre degli stati che si erano costituiti in diverse regioni alimentavano largamente il traffico di uomini. Timbuctù, lungo il corso del Niger, era uno dei centri di smistamento degli schiavi: stipati su piccole imbarcazioni, essi venivano portati fino alla costa per essere imbarcati sulle grandi navi negriere europee, dirette verso le Americhe. Una di queste terribili notti di deportazione, c’era la luna quasi piena: Ousmane si trovava su una di queste barche, incatenato e ammassato insieme ad altre centinaia di ragazzi e ragazze come lui. Aveva deciso che non voleva pensare alla sofferenza di quel momento né a quella che gli avrebbe riservato il destino, voleva soltanto guardare la luna: sembrava che quella grande luna bianca, quasi piena, potesse alleviargli il dolore e portargli un po’ di consolazione. Non spirava un alito di vento e c’era un caldo insopportabile. L’unico ristoro veniva da quella luce bianca, così lontana, così irraggiungibile. Eppure, gli sembrava che quella luce, chissà come, riuscisse ad accarezzare lui e tutti i suoi compagni di sventura.

Vicino alle coste africane, al largo delle coste della Nigeria, intanto, incrociavano diverse navi inglesi, portoghesi, olandesi, perlopiù bastimenti commerciali ma anche molte navi negriere. In molti casi, queste ultime, dovevano agire di nascosto, mascherandosi da normali navi commerciali ma è anche vero che il traffico degli schiavi spesso era incentivato da molte nazioni europee le quali, se così si può dire, chiudevano un occhio di fronte al traffico di esseri umani. In quel tratto di mare si aggiravano però anche molte navi pirata, come quella del capitan Barbaccia, intrepido corsaro nemico giurato dei bastimenti spagnoli. Col viso rugoso segnato dai libecci e una benda sull’occhio, Barbaccia era un vero e proprio mito dal Mar delle Antille fino all’Oceano Indiano. Ma in quel tratto di mare si trovava anche, in quel periodo di estate tropicale, anche la Vendicatrice dei Mari, la nave del conte di Montecesso, la quale era adesso comandata da Pucette. Il conte era impegnato in certi suoi affari a Marsiglia e Pucette era diventata la capitana della nave. Nella notte, sola sulla plancia di comando del suo veliero, era avvolta da una brezza marina e i suoi capelli, spinti dal vento, sembravano una nera cometa notturna che si apriva e danzava fino oltre il ponte della nave; il suo volto, illuminato dalla luna, era una silenziosa magia che incantava tutti i membri dell’equipaggio. Chissà, forse neanche il conte di Montecesso lo aveva mai saputo, ma forse Pucette era proprio la Luna che era scesa sulla Terra per donare malinconiche carezze di sguardi agli esseri umani.

E in quella notte nera di un tropico triste, Ousmane venne caricato su una nave inglese per essere portato sulle coste della Florida per poi, chissà, finire la sua vita schiavo in una piantagione di cotone degli stati del sud. Il comandante del bastimento inglese, Lord Hamilton, era un nemico giurato del conte di Montecesso: egli depredava ricchezze e diamanti dell’Africa e li nascondeva, insieme agli schiavi, in un doppio fondo della nave. Il lord era in combutta con il re del Dahomey che, nonostante avesse chiuso il suo porto alle navi europee, faceva un’eccezione per il ricco inglese il quale, in cambio degli schiavi, gli assicurava l’impunità del suo regno. Il conte di Montecesso, spesso, aveva depredato la sua nave ridistribuendo le ricchezze agli stessi popoli ai quali erano state depredate. Ma adesso, oltre ai diamanti e all’oro, la nave inglese nascondeva nei suoi più profondi interstizi anche un carico di schiavi.

Però, l’oscurità di quella notte era rischiarata da una grandissima luna piena. Ousmane, prima di essere portato nella stiva, era riuscito a guardarla per l’ultima volta e adesso pensava ancora alla sua luce, bianca e dolce, silenziosa e benigna, mentre si trovava nel ventre infernale della nave, senza aria, senza acqua e cibo, attanagliato da un caldo soffocante. Da lontano, dal suo posto di comando sulla Vendicatrice dei Mari, Pucette vide il mercantile inglese e riconobbe che si trattava della nave di Lord Hamilton. Subito, ordinò di attaccarla: la Vendicatrice puntò dritta verso la nave inglese e la arpionò. Pucette, come volteggiando su un tappeto di luna, saltò a bordo sguainando la spada, seguita dalla sua fedele ciurma. Non fu difficile avere la meglio sulle guardie inglesi e così Lord Hamilton si ritrovò con le spalle al muro. Nulla, però, lasciava presagire che la sua nave avesse, quella volta, un carico particolarmente prezioso: i pirati, guardandosi intorno, trovarono le solite mercanzie e cibarie, in realtà di scarso valore, che un comunissimo mercantile inglese poteva prelevare sulle coste africane. Ma un sottilissimo raggio di luna, penetrando attraverso i vecchi legni dei ponti della nave, giunse fino agli occhi di Ousmane il quale, in una mossa disperata, allo stremo delle forze, riuscì a sollevarsi e a battere con un pugno sul basso soffitto di legno della sua prigione. Forse, quella sua amica luna di Timbuctù poteva aiutarlo.

Pucette, mentre si trovava sul ponte della nave inglese, sentì un rumore provenire da lontano, dal basso, un rumore che sembrava un rimbombo del mare profondo. E così, insospettitasi, ordinò ai suoi pirati di armarsi di asce e di fare un buco sull’impiantito di legno dei normali ponti della nave. Venne allo scoperto non solo il doppio fondo in cui si trovavano le pietre preziose ma anche quello in cui si trovavano gli schiavi: uomini e donne, ragazzi e ragazze in condizioni terrificanti, alcuni dei quali già moribondi, nonostante il viaggio fosse praticamente appena iniziato. E Ousmane, allora, vide Pucette e in lei riconobbe la luna di Timbuctù, quella luna che donava carezze di sguardi: ed ella era proprio bella come la luna, nel suo vestito di notte, la vendicatrice degli ultimi del mondo. Subito, Ousmane e gli altri vennero soccorsi e fatti salire sulla nave pirata: si doveva agire in fretta, stavolta non c’era tempo per pensare alle pietre preziose. Stavano infatti arrivando a gran velocità delle navi da guerra inglesi che si trovavano nei pressi, allertate con delle segnalazioni da Lord Hamilton. La Vendicatrice dei Mari iniziò una folle corsa verso le Canarie: là si trovava uno dei porti franchi in mano al conte di Montecesso dove non esistevano le leggi liberticide degli stati europei e dove era garantita libertà per tutti. Pucette e la sua ciurma, veloci come fulmini, sbarcarono gli schiavi, che ricevettero prontamente delle cure, e trasportarono a terra le pietre preziose.

Però, la Vendicatrice dei Mari non poteva fermarsi nel porto sicuro delle Canarie perché Pucette voleva raggiungere immediatamente Marsiglia, dove si trovava il conte: voleva assolutamente rivederlo, dopo tanto tempo. Nel viaggio verso la Francia, purtroppo, venne accerchiata dagli incrociatori inglesi e Pucette venne arrestata e rinchiusa nella prigione della Torre di Londra. Arrestata ingiustamente per essersi posta contro leggi disumane che legalizzano la tratta degli schiavi, la povera Pucette venne rinchiusa nella stanza più alta della Torre. La stessa luna in cielo non aveva più lo splendore di prima: intorno ad essa si era come formato un alone di tristezza che la velava di un tenue pianto. Pucette, sconfortata, piangeva da sola piena di malinconia e il suo pianto e la sua malinconia salirono fino alla luna. Allora, da Marsiglia, non vedendola arrivare e guardando il cielo notturno, il conte si accorse che doveva esserle successo qualcosa e forse fu proprio la luna (ma questo non lo sapremo mai) a dirgli dove ella si trovava prigioniera. Senza pensarci due volte, il conte organizzò una spedizione per liberarla, insieme ai suoi più fidi pirati. E quale fu la sorpresa di Pucette quando, ormai in preda al dolore e alla solitudine, vide un arpione che si era agganciato alla finestra della sua prigione e poi, subito dopo, vide il Dritto, il più abile pirata del conte, che segava le sbarre. Subito dopo apparve il conte in persona che la abbracciò e, come in un sogno, forse volando nella notte, la portò via dalla sua cella. I capelli di Pucette, sui quali si erano depositate, come tante perle, le sue lacrime, erano allora una nera cometa che nella notte danzava e avvolgeva il conte coi suoi riflessi lunari. E pieni di luce lunare, sognarono e volarono, e furono liberi. E la luna sorrise e di nuovo Pucette sorrise, perché la luna che splendeva là, lontana, su Timbuctu, non poteva permettere che migliaia di esseri umani fossero incatenati e venduti come schiavi. E il sorriso di Pucette, abbracciata al conte, voleva dire che lei, piratessa e capitana, avrebbe vegliato ancora perché ciò non succedesse.

Anche Ousmane, nel porto libero delle Canarie, guardava la luna e pensava a quella meravigliosa piratessa che lo aveva salvato. La luna ancora lo consolava ed ebbe nostalgia della sua Africa, del suo paese e della sua famiglia. Pensò che molti ancora avrebbero dovuto seguire quella terribile sorte, quella migrazione forzata in catene, lontano dal proprio paese e dai propri cari. Ma in quella luna c’era una speranza, c’era una forza di riscatto, c’era un sentimento di ribellione contro tutte le ingiustizie del mondo. Il ragazzo ricevette una carezza dalla sua luce, e sorrise.


Illustrazioni: il ritratto di Pucette è stato realizzato da Silvia Mannocci e il galeone da Fernando Miazon.

 

 

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“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

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Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

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Mahahual https://www.carmillaonline.com/2014/08/31/mahahual/ Sat, 30 Aug 2014 22:00:43 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17064 di Fabrizio Lorusso

Mahahual libro italiaPino Cacucci, Mahahual, Feltrinelli, 2014, pp. 128, € 12.

L’ultimo viaggio di Pino Cacucci si chiama Mahahual. Siamo sul Mar dei Caraibi, dove finisce il Messico e comincia il Belize e dove ancora non arrivano le grandi masse di turisti che popolano e, a volte, infestano il resto della famosa Riviera Maya, cioè il tratto di costa che va da Cancun a Playa del Carmen fino a Tulum. Mahahual è una cittadina caraibica con un migliaio di abitanti. Si trova all’estremo sudorientale della penisola dello [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Mahahual libro italiaPino Cacucci, Mahahual, Feltrinelli, 2014, pp. 128, € 12.

L’ultimo viaggio di Pino Cacucci si chiama Mahahual. Siamo sul Mar dei Caraibi, dove finisce il Messico e comincia il Belize e dove ancora non arrivano le grandi masse di turisti che popolano e, a volte, infestano il resto della famosa Riviera Maya, cioè il tratto di costa che va da Cancun a Playa del Carmen fino a Tulum. Mahahual è una cittadina caraibica con un migliaio di abitanti. Si trova all’estremo sudorientale della penisola dello Yucatan, nello stato messicano del Quintana Roo, a circa 140 km da Chetumal e dalla meravigliosa Laguna Bacalar. Per raggiungere il villaggio si deve percorrere una strada impressionante: oltre cinquanta chilometri in linea retta tra selve e lagune conducono a spiagge bianche, da cui si scorge la barriera corallina, e a immense estensioni di mangrovie e palmeti che quasi invadono il centro abitato.

Ho scoperto questi luoghi durante un paio di brevi soggiorni: nel 2008, dopo il passaggio dell’uragano Dean che distrusse le spiagge e rase al suolo buona parte delle abitazioni nei pressi della costa, e di nuovo nel 2013, per la seconda edizione del “Festival Mahahual Cruzando Fronteras” (“attraversando frontiere”), durante la quale Pino Cacucci ha presentato il suo libro su Mahahual e il Quintana Roo. Dopo la ricostruzione degli ultimi anni, l’aspetto del paesello e del porticciolo è tornato normale, con i suoi piccoli alberghi, le caffetterie in riva al mare, con le sue acque cristalline, l’ombra paziente delle palme sulle spiagge di sabbia finissima, le sue bellezze sottomarine e paesaggistiche. A tratti la zona del lungomare e alcuni ristoranti del centro appaiono più adatti ai gusti dei turisti tradizionali ed esigenti che a quelli dei viaggiatori-esploratori e dei backpacker, ma non intaccano comunque il carattere rustico del pueblo, né sconfinano nel cattivo gusto, come invece succede in molte altre località che in pochi anni di “sviluppo” diventano irriconoscibili e invivibili. Inoltre a Mahahual le costruzioni rispettano ancora l’armonia dell’ambiente circostante, a pochi passi dal centro regnano la tranquillità e la natura incontaminata e infine non mancano le opzioni economiche per accampare e nutrirsi.

Nei racconti di Pino Cacucci, che mai si stanca di raccontare il Messico, le sue meraviglie ma anche le sue problematiche, Mahahual è un “paradiso non riciclabile”. Sopravvive in un equilibrio instabile e delicato, costantemente minacciato da tentativi di speculazione edilizia e gigantismo turistico, incompatibili con l’ecosistema e con la conservazione dell’intorno socio-culturale della zona, e dai rifiuti che minacciano la costa. “La corrente del mare porta al largo delle nostre coste i rifiuti di mezzo mondo, sono di continenti diversi perché vediamo bottiglie del Venezuela, della Spagna o degli USA, per cui il Festival è anche una riflessione su come affrontare il problema”, spiega Luciano Consoli, del comitato organizzatore di Cruzando Fronteras.

Mahahual 056 (Medium)Ma il nuovo vagabondaggio di Pino, autore di oltre venti romanzi quasi sempre legati al Messico tra cui ricordo Tina, Puerto Escondido, San Isidro Futból, La polvere del Messico e In ogni caso nessun rimorso,va oltre Mahahual e, infatti, il sottotitolo dell’edizione messicana, curata da Fundación Mahahual, è “Storie, leggende e aneddoti del Quintana Roo”. Si tratta di una zona del Messico di cui si conosce molto poco, anche se il suo passato è pieno di ribellioni, personaggi, memorie, lotte ed eventi molto interessanti. “Più conosco il Messico e più mi convinco che non basta una vita per assaporarlo tutto. Troppo vasto, troppo intenso, per giunta mutevole: mi capita di tornare in luoghi dove sono stato e riscoprirli diversi da come li ricordavo. Mahahual ha i ritmi sonnacchiosi di sempre, silenziosa e sgangheratamente genuina, il Messico come l’ho conosciuto trent’anni fa”.

Così esordisce l’esplorazione di Pino in uno Yucatan dimenticato, sempre in bilico nel corso della sua storia tra il più becero tradizionalismo sfruttatore, coloniale e patriarcale, e la ribellione dei popoli che lo abitano, maya in primis, e delle donne, dei lavoratori, così come della natura e del clima, così estremi e bizzosi in questa regione. A titolo di esempio basti pensare che, nei territori che oggi conosciamo per i siti archeologici della ruta maya, i tour sfrenati e i tragici pacchetti all inclusive, le spiagge bianche, gli ex porti di pescatori trasformati in città come Cancun e Playa del Carmen, fino a pochi anni fa vigeva ancora lo ius primae noctis o, in spagnolo, derecho de pernada, per cui i latifondisti delle piantagioni avevano il diritto di avere relazioni sessuali con le figlie dei mezzadri prima che si sposassero con un altro contadino.

Mahahual 062Antropologico, cronachistico ma soprattutto narrativo e storico, questo romanzo riscatta dall’oblio varie figure della vicenda storica locale, nazionale e mondiale: pirati, corsari, conquistatori, condottieri ribelli, indigeni e meticci, e soprattutto la gente della penisola dello Yucatan, una regione decisamente splendida e contraddittoria come tutto il Messico, soprattutto se si sconfina al di là dei circuiti tradizionali del turismo. E questo romanzo lo fa, esce dal sentiero stabilito e ci rende complici di nomadismi compulsivi nel tempo e nello spazio.

E quindi vi troviamo il rivoluzionario Felipe Carrillo Puerto e sua sorella Elvia, che fondò la Lega Femminista Contadina nel 1912. C’è Gonzalo Guerrero, spagnolo “rinnegato” che lottò e morì affianco ai maya che i suoi ex commilitoni vollero, invano, annichilire. C’è la denuncia dell’isola di plastica, estesa come il Canada, che naviga nell’Oceano Pacifico e che, sebbene in proporzioni diverse, ricorda il fenomeno del passaggio dei residui plastici e di altra natura, spesso ignota, al largo delle coste di Mahahual. E ci sono le persone che popolano questa terra con i loro aneddoti, le loro storie familiari, i ricordi e le curiosità tramandate di generazione in generazione. C’è lo strano caso dei Pesci Leone, voracissimi predatori, forse (?) fuggiti dal famoso acquario di Miami, che fanno la concorrenza ai pescatori del posto e che sono diventati, loro malgrado, vittime e prelibatezze della vendicativa cucina locale. Ci sono le esplorazioni della mitica Punta Herrero e di Bacalar, le testimonianze di famiglie e comunità, e ancora alcune cruciali verità sul cacao, sulla gomma da masticare o chicle, sulla convivenza con gli uragani e gli squali, sulla scoperta di Chacchoben-Yucatan e molte altre che la polvere del Messico e Pino Cacucci hanno di nuovo portato fino a noi.

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