Marco Pantani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Storia sociale della bicicletta, tra modernità e antimodernità https://www.carmillaonline.com/2020/06/16/sport-e-dintorni-storia-sociale-della-bicicletta-tra-modernita-e-antimodernita/ Tue, 16 Jun 2020 20:38:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60566 di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 251, € 22,00.

Studioso dei comportamenti collettivi e dell’immaginario politico nel Novecento, Stefano Pivato è stato uno dei primi storici italiani che ha messo in luce i risvolti politici e sociali dello sport. Tra i temi di carattere sportivo affrontati da Pivato, la Storia sociale della bicicletta può essere considerata l’ultima tappa di un itinerario di ricerca iniziato con Sia lodato Bartali (1986), proseguito nel 1992 con La bicicletta e il sol dell’avvenire e poi con Il Touring Club Italiano nel 2007. Ricorrendo ad [...]]]> di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 251, € 22,00.

Studioso dei comportamenti collettivi e dell’immaginario politico nel Novecento, Stefano Pivato è stato uno dei primi storici italiani che ha messo in luce i risvolti politici e sociali dello sport. Tra i temi di carattere sportivo affrontati da Pivato, la Storia sociale della bicicletta può essere considerata l’ultima tappa di un itinerario di ricerca iniziato con Sia lodato Bartali (1986), proseguito nel 1992 con La bicicletta e il sol dell’avvenire e poi con Il Touring Club Italiano nel 2007.
Ricorrendo ad una molteplicità di fonti archivistiche e a stampa, a documenti prodotti dalla cultura popolare, immagini, poesie, racconti e canzoni, l’autore assume come chiave di lettura principale della storia sociale della bicicletta la dialettica tra “modernisti” e “antimodernisti” e indaga gli svariati intrecci tra il mezzo a due ruote e il contesto sociale italiano.

La ricostruzione di Pivato consente di cogliere da un’angolatura particolare alcune importanti dinamiche e trasformazioni dell’Italia contemporanea, dell’immaginario collettivo come della cultura materiale, del costume come della questione di genere, dei soggetti politici come delle figure sociali per le quali il mezzo ciclistico diventa parte integrante della vita quotidiana.
Nel racconto della lunga e affascinante storia delle due ruote, l’autore dà voce anche suoi cantori mostrando «la convivenza e la contaminazione fra cultura alta e cultura bassa» che «costituiscono una delle caratteristiche della bicicletta e della sua declinazione in varie forme»: dagli scritti dei letterati innamorati della bicicletta ai tempi dei “pionieri” agli articoli degli scrittori che seguivano il Giro d’Italia, dai fogli volanti dei cantastorie che narravano le gesta dei campioni alle canzoni di cantautori come De Gregori, Paoli e Conte che hanno rievocato le atmosfere dei tempi di Girardengo, di Coppi e di Bartali.

Tra fine Ottocento e primo Novecento, quando l’ingombrante velocipede viene sostituito dalla più economica e maneggevole bicicletta, le due ruote si diffondono progressivamente trasformandosi da stravagante passatempo per aristocratici a strumento per le passeggiate della borghesia, da esercizio per pochi a bene di consumo popolare, utilizzato da impiegati e operai per recarsi al lavoro.
La pratica ciclistica si carica di significati connessi alla modernità: rappresenta l’ebbrezza della velocità (in bicicletta si possono percorrere 20 km all’ora, contro i 4 a piedi), consente di ampliare l’esplorazione del paesaggio e la conoscenza della penisola, apre nuovi orizzonti fisici e mentali, trasmette un senso di libertà.
Ai ciclofili entusiasti si contrappongono i ciclofobi che condannano il nuovo mezzo. «E l’antimodernità – scrive Pivato – è una categoria dentro la quale stanno gran parte delle motivazioni che si oppongono alla bicicletta. Vi è la paura delle genti di campagna quando vedono per la prima volta il mostro meccanico; così come vi è il timore della chiesa per il ridicolo e la mancanza di decoro cui si espongono i preti che montano le due ruote. Dentro l’antimodernità ci sta anche la tutela della pudicizia che è alla base delle limitazioni e dei divieti posti alle donne. E così pure l’iniziale rifiuto del movimento operaio per la bicicletta considerata “un prodotto del capitalismo borghese”».
Pivato dedica pagine ricche di informazioni, aneddoti e riflessioni agli atteggiamenti contraddittori assunti dagli ambienti ecclesiastici nei confronti della bicicletta, alle istanze emancipatrici che il nascente movimento delle donne attribuisce alle due ruote come alle riserve della scienza e ai pregiudizi dell’opinione pubblica conservatrice nei confronti delle donne in bicicletta, al dibattito interno al movimento socialista tra gli intransigenti “antisportisti” e i fautori di un uso politico del mezzo ciclistico inteso come strumento per diffondere la propaganda e come veicolo di socialità.

In prossimità della prima guerra mondiale, la bicicletta irrompe nella vita militare e nel discorso patriottico. Anche in questo caso, Pivato evidenzia i contrasti che accompagnano l’utilizzo del mezzo. Da un lato, come per i sacerdoti e per le donne, permane un pregiudizio di natura estetica che vede nell’uso della bicicletta il rischio di «mettere a repentaglio la credibilità e il decoro delle forze armate»; dall’altro, si pensa di poter sfruttare a fini militari la velocità e la mobilità delle due ruote.
Ad alimentare l’immagine di rapidità e di efficienza della bicicletta contribuiscono i futuristi che allo scoppio della guerra si arruolano nel Corpo dei ciclisti volontari. Il mezzo non si rivela però adatto ad un conflitto che si configura di posizione, mentre riesce utile in un frangente drammatico come la ritirata di Caporetto perché le due ruote «consentono una libertà di movimento maggiore rispetto a chi si affida a mezzi pesanti come i carri, spesso bloccati dagli intasamenti che la precipitosa ritirata provoca».

Nel ventennio fascista, «la bicicletta diventa uno degli indici più caratteristici della nazionalizzazione del tempo libero del regime». La “Carta dello Sport”, varata nel 1928, affida il compito di dare impulso al ciclismo amatoriale alla Federazione Italiana dell’Escursionismo che organizza convegni, concorsi, gite di massa nell’ambito del Dopolavoro. Le escursioni in bicicletta rappresentano «uno degli strumenti più efficaci della mobilitazione degli iscritti per educare l’italiano “nuovo” attraverso itinerari e mete che devono familiarizzare i partecipanti alla conoscenza della nazione e delle opere del regime. Nelle parate del Dopolavoro, della Milizia e delle Giovani italiane il veicolo a due ruote è una presenza costante».
Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, la popolarizzazione del mezzo ciclistico è favorita dall’abolizione della tassa di circolazione che entra in vigore nel 1939 nel pieno della campagna autarchica quando la limitazione dei carburanti rilancia l’utilizzo delle due ruote. Ricorrere all’«”autarchico cavallo d’acciaio” diventa, per la possibilità di economizzare il carburante, una delle più significative manifestazioni di adesione agli interessi e ai sentimenti nazionali con l’entrata in guerra dell’Italia».

Come osserva Pivato, «se la bicicletta diviene uno dei simboli dell’”andata verso il popolo” del regime fascista, si trasforma però in uno dei mezzi che più attivamente contribuisce alla sua caduta».
Poiché garantisce rapidità di esecuzione e aumenta le possibilità di fuga, durante la Resistenza la bicicletta è uno strumento determinante per le operazioni militari dei Gruppi di Azione Patriottica che agiscono nelle città. Anche per le staffette partigiane, come si evince dalle storie e dalle testimonianze delle donne impegnate in varie missioni (portare ordini ai compagni, distribuire giornali clandestini, trasportare viveri, indumenti o armi), è fondamentale l’uso della bicicletta. Ricordava una di loro: «Quando optai per combattere in città […] non sapevo sparare […] ma sapevo perfettamente andare in bicicletta». E dal punto di vista simbolico il protagonismo delle staffette rappresenta «una sorta di rivincita postuma delle donne nei confronti della bicicletta il cui uso, qualche anno addietro, era loro precluso o fortemente condizionato».

Lungo il Novecento la fortuna della bicicletta dipende anche dalle grandi corse, a partire dal Giro d’Italia e dal Tour de France.
Agli albori del ciclismo, l’epopea delle due ruote è legata alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure e povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale.
Nella loro evoluzione, le competizioni fanno poi emergere la figura del campione. «Nell’immaginario del Ventesimo secolo – scrive Pivato – il campione sportivo viene a sostituire una delle figure più caratteristiche della cultura classica: quella dell’eroe che non sta più nelle pagine di un romanzo ma sulle strade del Tour e del Giro».
Nel secondo dopoguerra sono anzitutto Gino Bartali e Fausto Coppi i campioni che suscitano le passioni degli italiani. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico Coppi). Nel clima della guerra fredda il mondo ciclistico si divide in due fazioni contrapposte e il dualismo sportivo assume una connotazione politica: come si sta o con De Gasperi o con Togliatti, così si fa il tifo o per Bartali o per Coppi: «In un periodo in cui il partito democristiano si avvia a divenire egemonico e a emarginare le sinistre dalla vita politica e sociale del paese, le sconfitte che Coppi infligge al “De Gasperi del ciclismo” acquistano, per quanti hanno creato la leggenda di un Coppi comunista, il valore di una sconfitta dell’Italia democristiana».
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista antico come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

L’ultimo capitolo del libro – intitolato “Dalla modernità all’antimodernità” – si chiude con uno sguardo sul rovesciamento di paradigma che ha caratterizzato la bicicletta nell’epoca della motorizzazione di massa e delle crisi ambientali.
«A partire dagli anni Sessanta – nota Pivato – in coincidenza con il boom economico e l’avvio della motorizzazione di massa, la bicicletta viene progressivamente dismessa e dal decennio successivo, nel periodo della prima crisi energetica globale, quella che all’origine era nata come il simbolo della modernità per eccellenza si trasforma nell’emblema dell’antimodernità. Anzi, diventa la rappresentazione di quello che uno dei massimi antropologi contemporanei, Marc Augé, ha definito “un nuovo umanesimo” diretto alla salvaguardia ambientale di fronte al disastro ecologico globale».
Ancora una volta, il ruolo della bicicletta e i significati che le vengono attribuiti rimandano a rilevanti passaggi storici, confermando ciò che sosteneva quarant’anni fa Gianni Brera: «Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia».


Sport e dintorni

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Eroi dello sport https://www.carmillaonline.com/2016/06/13/30867/ Mon, 13 Jun 2016 21:30:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30867 di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano [...]]]> di Alberto Molinari

Marchesini_sport_coverDaniele Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, Bologna, 2016, 248 pagine, € 16,00

Guardati con diffidenza dagli ambienti accademici, in Italia gli studi storici sullo sport sono iniziati timidamente negli anni Settanta, in ritardo rispetto ad altri paesi, e si sono diffusi nei decenni successivi grazie ai contributi di «Lancillotto e Nausica» – rivista di storia e critica dello sport che analizza il fenomeno intrecciando diverse metodologie: storico-sociali, psicologiche, filosofiche, pedagogiche, mediche ecc. – e alle ricerche di studiosi come Felice Fabrizio, Stefano Pivato, Gaetano Bonetta, Sergio Giuntini, Daniele Marchesini.

Marchesini ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma e da molti anni si dedica all’analisi dello sport come fenomeno sociale e culturale, indagando svariati temi (Coppi e Bartali, le Mille Miglia, il Giro d’Italia, il ruolo dello sport nella formazione di un’identità nazionale, la relazione tra sport e totalitarismi). Il saggio più recente di Marchesini è uscito in una collana del Mulino, diretta da Carlo Galli, dedicata al tema dell’eroe in diversi ambiti e discipline.

Nelle prime pagine del volume Eroi dello sport Marchesini definisce l’oggetto della sua ricerca distinguendo tra il campione e l’eroe. Entrambi si caratterizzano per l’assoluta eccellenza delle loro prestazioni che suscitano ammirazione, ma questo non basta per fare di un campione un eroe. Oltre alle numerose promesse mancate, anche grandi protagonisti dello sport – come Indurain nel ciclismo o Phelps nel nuoto – pur accumulando vittorie e medaglie si sono fermati prima della soglia che si apre sullo spazio dell’eroismo sportivo. A differenza dei campioni, gli eroi sportivi assumono una rilevanza che esula dall’originario ambito di appartenenza, entrano nella memoria collettiva, ispirano ideali, rispecchiano valori e attese, costituiscono riferimenti culturali.
D’altronde, si può diventare eroi senza essere vincitori, come nel caso di Dorando Pietri. Il maratoneta carpigiano nel 1908 taglia per primo il traguardo nella gara dei giochi olimpici di Londra ma “perde la vittoria” (sono parole dello stesso Pietri, squalificato a causa dell’aiuto di medici, giudici e assistenti che lo sostengono in prossimità dell’arrivo). Tuttavia mentre Hayes, il vincitore della maratona, cade nell’anonimato, lo sconfitto Pietri “vince” sul piano dell’immaginario collettivo grazie alla trasfigurazione mitica dell’evento. La dimensione dell’eroe è infatti quella del mito, cioè di un sistema di comunicazione «definito non tanto dal suo oggetto, quanto dal modo in cui lo si costruisce e lo si trasmette» (p. 230).

pietriDeterminante nella costruzione dell’eroe sportivo è anzitutto la presenza di un pubblico che segue con grande passione le prodezze del campione e instaura una relazione stabile e fiduciaria con lui, identificandosi con le vicende che, nel bene e nel male, in campo sportivo e extrasportivo, punteggiano la sua carriera e la sua vita. L’eroicizzazione implica inoltre la presenza di un “cantore” capace di narrare le imprese del campione. Nel caso di Pietri è Arthur Conan Doyle – appassionato di sport e presente all’evento come cronista del “Daily Mail” – a celebrare la vicenda in un articolo che rappresenta il corrispettivo scritto della celebre immagine del maratoneta barcollante e distrutto dalla fatica: «Avvenne allora una cosa meravigliosa. Col viso d’un morto, Dorando si rialza, barcolla, le gambe riprendono lo strano incedere automatico: ricadrà? No. Oscilla, tentenna un istante, ed eccolo tagliare il traguardo, raccolto da venti braccia amiche! E’ arrivato all’estremo limite delle forze umane! Mai alcun romano dei primi giorni gloriosi si comportò meglio di Dorando alle Olimpiadi del 1908» (p. 233). Con il suo articolo, il creatore di Scherlock Holmes perfeziona e universalizza l’eroicizzazione di Pietri, trasformandolo in una celebrità mondiale ingaggiata, e profumatamente pagata, per le sue esibizioni in Europa e in America. I maggiori giornali scrivono di lui, il personaggio è acclamato ovunque e il pubblico accorre per vederlo in azione.

Passando in rassegna numerose esperienze sportive, Marchesini analizza gli aspetti culturali, i registri espressivi e i codici comunicativi che alimentano le retoriche della mitografia sportiva, in relazione ai contesti politici e sociali, alle dinamiche specifiche degli sport, al loro carattere individuale o collettivo, alle modalità della loro narrazione.
Un capitolo del saggio è dedicato al mondo classico, nel quale lo sport assume già una dimensione strutturata e caratteri tipici dei fenomeni sportivi moderni (professionismo, tifo, ideologia atletica, celebrazione dei vincitori ecc.). L’attenzione è rivolta però prevalentemente alla contemporaneità in quanto è la società di massa a favorire il radicamento, la diffusione e la spettacolarizzazione del fenomeno sportivo, in un processo di «familiarizzazione» (p. 8) che lo rende sempre più pervasivo e che si intreccia con la vita quotidiana, con la dimensione politica, le dinamiche sociali, la sfera economica.

Nel primo scorcio del Novecento, i temi che fondano la rappresentazione eroica di figure come Pietri, impegnate in corse di fondo che comportano grande sofferenza, e dell’epopea degli albori del ciclismo, lo sport allora più popolare, sono legati alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure, difficili, povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale. Al pubblico che segue il Giro d’Italia o la Grande Boucle, su strade sterrate in tappe impervie e interminabili, il ciclismo «appare come una variante della lotta per la vita che coinvolge la maggioranza dei lavoratori che, in quegli anni, faticano “da sole a sole” nelle campagne (cioè dall’alba al tramonto), 12-14 ore nelle fabbriche, sette giorni su sette la settimana, in attesa di un avvio di legislazione sociale che interviene solo al principio del Novecento a disciplinare i casi più clamorosi di sfruttamento selvaggio» (pp. 78-79).

coppi-bartaliNel secondo dopoguerra, sono Gino Bartali e Fausto Coppi ad incarnare nuovamente lo sport della fatica come metafora della ricostruzione dopo le tragedie del conflitto mondiale. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico e “razionalista” Coppi).
In un contesto profondamente mutato – quello di un’Europa che sembra «appagata dai risultati di un benessere in continua espansione, che rende la bicicletta un oggetto antiquato» (p. 126) – occorrono altri ingredienti per costruire il mito. Se la grandezza di Coppi veniva esaltata con toni epici e favolistici dai radiocronisti e giornalisti dell’epoca (nel linguaggio sportivo prevaleva il campo metaforico del “volo” o della “regalità”, con espressioni come “dominare”, “librarsi”, “aquila”), le immagini utilizzate per descrivere Eddy Merckx – il ciclista in assoluto più vincente nella storia del suo sport: 445 vittorie tra il 1966 e il 1978 – esaltano invece la potenza atletica pura, con iperboli quali “mostro”, “robot”, “marziano”, «tendenti a suscitare ammirazione e sorpresa nell’ordine dei valori “tecnico-avveniristici”» (p. 126).
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

Oltre al ciclismo, lo sport più popolare nella prima metà del Novecento è il pugilato. Progressivamente addomesticata nella sua originaria carica di violenza e caratterizzata da contenuti di grande raffinatezza tecnica, nell’immaginario collettivo la boxe rimane comunque prevalentemente legata alla «messinscena del corpo forte» (p. 95). Se nel ciclismo il corpo si espone senza nascondimenti sul “cavallo di ferro”, nella boxe il corpo dell’atleta viene portato in prima scena, in uno scontro da solo a solo. Definito da Albert Camus come «lo sport assolutamente manicheo», un rito che semplifica tutto, il bene e il male, il vincente e il perdente, il pugilato mantiene un seguito popolare sino agli anni Sessanta-Settanta, segnati in Italia dalle figure di Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti. Come ricorda Marchesini, il 17 aprile 1967 la sfida mondiale tra Benvenuti e Griffith al Madison Square Garden, titolo dei pesi medi in palio, fu trasmessa dalla RAI in diretta solo radiofonica «per non compromettere, a causa dei fusi orari, il sonno degli italiani e le loro capacità lavorative dell’indomani. Il miracolo economico da un po’ di tempo scricchiola e bisogna evitare di incentivare l’assenteismo in fabbrica e negli uffici. Nonostante le preoccupazioni educative e moralizzatrici della RAI monopolista, in più di 15 milioni quella notte puntano la sveglia e si alzano per ascoltare la radiocronaca del trionfo dell’italiano condotta da Paolo Valenti» (p. 98).
L’autore dedica ampio spazio anche alla figura di Cassius Clay, dai primi successi, all’adesione alla fede islamica, al rifiuto di arruolarsi nell’esercito e di partire per la guerra in Vietnam, sino all’incontro con Foreman per il titolo mondiale dei massimi: il 30 ottobre 1974 il pubblico che segue il match (60 mila persone) è tutto con lui «così come i neri di tutto il mondo, in una diretta televisiva che per l’epoca riuniva una platea infinita: 700 milioni di persone». All’ottavo round Muhammad Ali atterra Foreman e si conferma l’eroe non solo di uno sport che quel giorno «tocca vertici mai prima e mai più in seguito raggiunti di partecipazione emotiva, ma anche di ideali di libertà e giustizia» (pp. 219-220).

Quarant’anni prima, era stato il fascismo a utilizzare politicamente le potenzialità del pugilato, sfruttando l’immagine eroica di un altro peso massimo, il friulano Primo Carnera, «capace di sedurre affascinare eccitare il pubblico come una star del sistema divistico» (p. 159). Un capitolo del saggio di Marchesini è dedicato al rapporto tra lo sport e i regimi totalitari, i primi a cogliere le opportunità di controllo delle masse offerte dalla loro passione per lo sport. Il fascismo dà forma all’ideologia dell’“atletismo politico”: il coraggio, la lotta, la forza, l’agonismo sono valori che vengono piegati alla logica del regime e riassunti in una rappresentazione del corpo che mira alla definizione dell’“uomo nuovo” fascista. Oltre a Carnera, che esemplifica in modo evidente l’uso dello sport a fini propagandistici e di ricerca del consenso, altre figure che corrispondono alle aspettative del regime acquisiscono profili eroici: ciclisti come Bottecchia e Binda; Beccali, che trionfa nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932; piloti come Nuvolari e Varzi; i calciatori guidati da Pozzo che conquistano il titolo mondiale nel 1934 e nel 1938.

jesse_owens_berlino_1936Anche la Germania nazista imbocca la strada della mistica sportiva. Ma all’esaltazione dello sport come arena nella quale dimostrare la potenza del regime e la superiorità della razza ariana, culminata nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, tocca una micidiale eterogenesi dei fini: come è noto, a Berlino Jesse Owens – con le sue quattro medaglie d’oro – si afferma come “contro mito”, il “lampo d’ebano” che contraddice col suo stesso corpo, il colore della pelle e una straordinaria forza atletica i principi dell’ideologia hitleriana. Qualche anno dopo, al tempo dell’occupazione della Francia, il nazismo andrà incontro ad un altro inatteso fallimento nel tentativo di umiliare i francesi, oltre che sul piano militare, su quello della simbologia sportiva. Marchesini dedica pagine dense e appassionate alla vicenda del pugile Marcel Cerdan, un francese figlio di pieds-noir. Il 20 settembre 1942 i nazisti organizzano un incontro tra Cerdan e lo spagnolo Josè Ferrer, campione in carica dei welter: «Ferrer sale sul ring avvolto in una bandiera nazista e i suoi secondi indossano l’uniforme della gioventù franchista», «mentre i 16 mila spettatori, quasi in un mormorio, intonano la marsigliese nonostante la presenza di molti alti ufficiali nazisti a bordo ring»; Cerdan domina l’incontro e viene «acclamato come un liberatore dalla folla in delirio» (p. 102).

Nel campo opposto, l’Unione Sovietica non esprime in quegli anni una significativa mitologia sportiva, anche per la diffidenza diffusa nel movimento socialista, sin dalle origini, verso lo sport, considerato un fenomeno borghese, destinato a “distrarre” le masse e a ostacolare la loro presa di coscienza politica. Negli anni dello stalinismo è il lavoro che assurge a mito nella esemplificazione estrema di Stachanov e Marchesini coglie giustamente il nesso tra lo stachanovismo e l’interesse per lo sport manifestato nel dopoguerra dall’Urss e dai paesi satelliti. Attraverso Stachanov «si fa strada nell’immaginario collettivo sovietico l’idea che il primato in quanto tale è possibile e accettabile, se inserito nel progetto di educazione e formazione dello spirito pubblico nazionale, e se obbedisce al ruolo di dimostrazione dei risultati che il socialismo reale rende concreti a vantaggio della comunità». Dopo Stachanov e attraverso la guerra, «nel pantheon d’oltrecortina» il testimone passa dal campione del lavoro al campione dello sport: «tramonta lo stachanovismo ma si afferma il culto dell’individualità straordinaria» (p. 164). Un culto tanto più importante nel momento in cui l’Urss viene ammessa alle Olimpiadi (per la prima volta a Helsinki nel 1952) e deve quindi dimostrare, anche sul piano sportivo, di saper competere con il capitalismo. Gli eroi sportivi sovietici o di altri paesi dell’Est (come Zatopek, Brumel, Bubka, Borzov e molti altri delle discipline olimpiche, nominati da Marchesini, ai quali si dovrebbero aggiungere alcuni calciatori come Jascin) vincendo e stabilendo primati difendono la causa del proprio paese, secondo quanto teorizzato dai dirigenti del movimento sovietico.

Tommie Smith John CarlosMolti altri esempi di “eroismo sportivo”, descritti in modo puntuale da Marchesini, mostrano le diverse sfaccettature del fenomeno e dei personaggi che lo hanno incarnato.
Le olimpiadi sono il palcoscenico di imprese che danno vita a nuovi eroi. A Roma nel 1960 Livio Berruti è un ragazzo “normale” che nulla ha dell’eroe, ma si trova vincere in una contingenza particolare (l’Italia del miracolo economico) che consente la trasfigurazione mitica; Abebe Bikila, primo africano a vincere un oro olimpico, diventa simbolo del «riscatto da condizioni di povertà e di emarginazione» di un continente «più di ogni altro brutalmente saccheggiato» dal colonialismo (p. 91). Nel 1968 a Città del Messico, in un contesto infiammato dai movimenti di contestazione, sul podio dei 200 metri Tommie Smith e John Carlos levano il braccio col pugno guantato del Black Power, un gesto che denuncia le intollerabili condizioni in cui vivono gli afroamericani. Tuttavia, secondo Marchesini, sono “eroi perdenti”: sanzionati pesantemente dai vertici olimpici, subiscono l’oblio istituzionale e l’emarginazione in una «società disposta a garantire rispetto solo in cambio di successi sportivi e sottomissione all’ideologia dominante» (p. 217).

In alcuni casi, la dimensione eroica non è connessa alla forza ma all’estro e alla fragilità. In Brasile, il paese che ha fatto del calcio una religione laica, al mito di Pelè (il calciatore «”apollineo”, cioè perfetto, esemplare, da manuale») si contrappone quello di Garrincha, soprannominato «torto» o «zoppo» a causa del «bacino visibilmente deviato» e della «deformità delle ginocchia»: il suo calcio è «”dionisiaco”, sovrabbondante, tutto genio e sregolatezza», basato sul dribbling con il quale irride l’avversario grazie a una finta che sembra quasi favorita dal suo difetto fisico. Dopo una lunga decadenza «fatta di depressione, alcol, ostinazione a giocare ancora in squadre sempre meno titolate», la sua morte «è annunciata come la scomparsa della “gioia del popolo” (a alegria do povo), secondo il titolo del film girato nel 1962 su di lui […] da Jaquin Pedro de Andrade, uno dei capofila del cinema novo» (pp. 187-188).

Oltre alle individualità, nel saggio di Marchesini spicca la dimensione eroica collettiva legata in particolare ad alcuni sport, come il rugby (è il caso ad esempio degli All Blacks neozelandesi, capaci di suscitare una forma di riconoscimento collettivo che supera le barriere razziali) e il calcio, dal “Grande Torino” che, all’apice delle vittorie, va incontro alla tragedia a Superga nella notte del 4 maggio 1949 (per la tifoseria granata Superga rimane il tempio di una sorta di culto civile) alla squadra del Manchester United che precipita in aereo il 6 febbraio 1958 (non a caso Bobby Charlton, miracolosamente sopravvissuto all’incidente, diventerà l’eroe non solo dell’Old Trafford, lo stadio della squadra, ma dell’intero paese, guidando la nazionale inglese alla vittoria nei mondiali del 1966).

oldtrafford113In diverse pagine del saggio l’autore ritorna sul tema della morte precoce che contribuisce ad eternizzare la grandezza dell’eroe, evidente negli sport motoristici, in cui il rischio è più presente (si pensi a Ayrton Senna, idolo nazionale in Brasile e pilota più amato dagli appassionati di automobilismo), o nelle vicende di campioni del ciclismo come Coppi e Pantani e del calcio come George Best (l’anno dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 in seguito a una cirrosi epatica per alcolismo, gli è intitolato l’aeroporto di Belfast e la sua immagine viene stampata su una serie limitata di banconote emessa dalla Ulster Bank). A non dimenticare i campioni morti servono stele, colonne votive, lapidi, busti che punteggiano le strade percorse o campeggiano nei luoghi che hanno conosciuto le loro vittorie. A questa “statuolatria”, come la definisce Marchesini, si accompagna la “stadiolatria” ovvero la rilevanza assunta nei contesti urbani del “monumentale sportivo”: stadi, piscine, palasport, villaggi degli atleti «sono i templi indispensabili all’eroicizzazione dell’atleta vincente, i luoghi sacri in cui celebrare i rituali del culto che ogni quattro anni trova nelle olimpiadi la sua massima espressione» (p. 8).

Attraverso queste ed altre storie si snoda il racconto di Marchesini che si apprezza per la qualità della scrittura, per i puntali ritratti di personaggi noti e di figure inconsuete (almeno per il lettore italiano, si veda tra l’altro il capitolo dedicato al cricket), per la ricchezza di riferimenti storici. Il taglio della ricerca, attenta agli intrecci tra la dimensione sportiva e quella sociale, tende a privilegiare figure assunte come modelli di identificazione collettiva con una funzione unificante di carattere nazionale. Si tratta di fenomeni di indubbia rilevanza, che lasciano però in ombra altri processi di “eroicizzazione” sportiva, costruiti e vissuti come modelli alternativi rispetto alle narrazioni condivise, o figure di “antieroi” riconducibili ad una dialettica con la dimensione epica dello sport, meritevoli di ulteriori approfondimenti. Anche sul ruolo delle donne, che secondo Marchesini in ambito sportivo raramente innescano dinamiche di identificazione e mitografie (tema discusso nel capitolo dedicato all’“eroismo al femminile”) rimangono aperti percorsi di ricerca in una prospettiva di genere.

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Il martirologio del santo Marco Pantani https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/martirologio-santo-marco-pantani-sistema-doping/ Wed, 03 Sep 2014 21:55:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16678 martirio_san_marcodi Girolamo De Michele

Marco Pantani vittima e martire

L’estate, si sa, è stagione di gialli in cronaca. Ma è più di un anno che non viene trovato un cadavere nascosto nell’armadio, il delitto di Lodi è già stato risolto prima ancora di decidere se era delitto “del trolley” o “del cassonetto”, e l’evasione di Filippo De Cristofaro non fa audience: chi mai se lo ricorda più, il “giallo del catamarano”? E poi seguire le tracce dello skipper re delle cronache estive del 1988 in Grecia e oltre richiederebbe soldi e un bravo [...]]]> martirio_san_marcodi Girolamo De Michele

Marco Pantani vittima e martire

L’estate, si sa, è stagione di gialli in cronaca. Ma è più di un anno che non viene trovato un cadavere nascosto nell’armadio, il delitto di Lodi è già stato risolto prima ancora di decidere se era delitto “del trolley” o “del cassonetto”, e l’evasione di Filippo De Cristofaro non fa audience: chi mai se lo ricorda più, il “giallo del catamarano”? E poi seguire le tracce dello skipper re delle cronache estive del 1988 in Grecia e oltre richiederebbe soldi e un bravo segugio di cronaca, insomma giornalismo vero: molto meglio, allora, estrarre dai cassetti l’icona-Pantani, che si vende da sola e a sua volta incrementa il fiorente merchandising di libri che vendono più delle trilogie soft-porno, bandane, magliette, gite sui luoghi del Pantadattilo, santini e ampolle votive con la goccia di sudore del Pirata – produzione, circolazione e valorizzazione di patacca a mezzo patacca, insomma. Che già nel 2005 aveva raggiunto il milione di euro.

Intendiamoci: materia per avere più di un dubbio, in via ipotetica, ce n’è – ma sono dubbi sollevati da tempo1, ai quali nulla aggiungono le perizie di parte per conto della famiglia. E, al momento, l’apertura di un fascicolo da parte della Procura è un atto dovuto, non la conseguenza di nuovi elementi.
Fermo restando che l’eventuale morte per omicidio di Pantani è maturata nell’ambiente della coca, all’interno di un traffico di stupefacenti del quale Pantani era non solo consumatore, ma – stante le quantità di polvere bianca acquistate in decine di grammi per volta – probabile pusher in proprio per autofinanziamento dei suoi consumi; e che tale morte, lungi dal “ripulire” l’immagine dell’ex campione, rischia di intorbidarla ancor di più: come in altri analoghi casi di passate celebrità cadute nel giro della droga e poi morte in modo oscuro, la spiegazione più probabile è che si sia voluta “dare una lezione” – affinché altri intendano – al consumatore che non è stato in grado di gestire il proprio piccolo spaccio (forse perché ha consumato più del dovuto, forse perché è stato a sua volta gabbato) e ha tirato una sòla alla mala locale. È solo un’ipotesi: ben più credibile, però, del “l’hanno ucciso perché aveva scoperto qualcosa” – e cosa, di grazia? Che le fiale made in Ferrara che assumeva non erano integratori vitaminici? Che Armstrong era dopato? Che c’è del marcio nel ciclismo?

Accade però che in questo spudorato martirologio, al quale indulge anche qualche “Grande Firma”, la morte di Pantani diventi il punto di partenza di una sequenza che, calpestando ogni barlume di relazione causale, fa retroagire il “complotto” del 2004 sul “complotto” del 1999: se Pantani è vittima di un complotto (nel 2004), è evidente che c’era complotto anche nel 1999; se c’era complotto, era vittima, quindi innocente, dunque nel 1999 non era dopato. Un delirio logico nella struttura, ma con un chiarissimo scopo: stendere una coperta pietistica e retorica sulla presenza del doping nel mondo del ciclismo – oltre che nelle vene del “povero” Pantani. Che – spiace dirlo, ma così è – «quei risultati e quei clamorosi exploit li ha raggiunti imbrogliando. È il termine giusto. Non è che la morte, per tragica che sia, possa cambiare questa realtà. E poco importa se anche altri imbrogliavano. Resta il fatto che non avrebbe dovuto imbrogliare» (Eugenio Capodacqua, Pantani, le lacrime e l’ipocrisia).

La parola doping esiste2

“Perché l’ematocrito di Pantani in quella provetta era del 52% (il limite massimo, al tempo, era 51%) ma sia la sera prima in hotel sia poche ore dopo a Imola era ampiamente sotto il 50%?” ( Andrea Scanzi, giornalista)

Cominciamo col dire che la favola del Pantani vittima di un controllo truccato non regge davanti ai fatti – quell’ematocrito oltre la norma fu verificato otto volte3. Ma soprattutto, non regge davanti alla storia di Pantani: che era dopato – come attesta il valore del suo ematocrito – già nel 1994 (prima vittoria di tappa al Giro d’Italia), e poi nel 1995 (incidente alla Milano-Torino). E lo sarebbe stato ancora al Giro del 2001 (iniezione di insulina). E lo attesta, ancora, il famigerato file “dblab” [consultabile qui] del Centro studi dell’Università di Ferrara – cioè di Francesco Conconi e dei suoi collaboratori Ilario Casoni, Giovanni Grassi e Michele Ferrari, tutti riconosciuti colpevoli di pratiche dopanti – che attesta una differenza tra ematocrito minimo (40.7) e massimo (57.4) del 41%: una differenza che non ha alcuna spiegazione “naturale”.

Ma cos’è questo ematocrito? E perché il valore-soglia è proprio quello (a seconda del variare della legislazione sportiva) di 50-51?
L’ematocrito indica la percentuale corpuscolare del sangue; se più alto delle normali variazione dell’organismo, è uno dei segnali della presenza di EPO (eritropoietina), un farmaco che in soggetti sani favorisce l’aumento dell’ossigenazione dei tessuti, e quindi di migliorarne le prestazioni atletiche, e aumenta la viscosità del sangue.
Il valore-soglia ha un senso preciso: il sangue nel quale quel valore viene superato, in assenza di sforzo, comincia ad addensarsi come melassa (ecco perché l’ematocrito è più alto di notte, mentre al termine di una tappa, cioè subito dopo uno sforzo prolungato, è più basso). Cosa fa4 il ciclista quando l’ematocrito supera quel valore e si avvicina alla soglia critica della viscosità? Se non vuole finire in coma, corrono voci che5 balzi sulla cyclette e comincia a pedalare per rifluidificare il sangue. E se dorme, di notte? Corrono voci che la sveglia collegata al frequenzimetro collegato al ciclista dormiente suoni quando le frequenze cardiache segnalano il superamento della famigerata soglia.
Oppure: balza sulla cyclette perché sa che ci sarà un controllo antidoping. Se ne è preventivamente informato.
In questo mondo di sostanze illegali, di controlli a sorpresa che spesso non sorprendono alcuno, di illegalità diffusa, stupisce che metta piede anche il racket delle scommesse clandestine – che magari poteva avere interesse a far perdere il Giro al vincitore annunciato? Ma questo racket non è un fattore esterno o perturbante: è interno al sistema, fa parte di questo mondo, così come ne fa parte il ricco mercato delle sponsorizzazioni di cui Pantani godeva grazie ai suoi exploit dopati.
Un mondo del quale Pantani aveva accettato le regole, e che ha legittimato col suo comportamento e le sue omertà, prima e dopo Madonna di Campiglio. E con lui colleghi, tecnici, familiari, giornalisti, che del sistema-doping sono non solo persone informate dei fatti, ma parte integrante6.

Dal doping alla coca (e ritorno)

“A questo punto non ha molta importanza se Pantani si sia drogato sportivamente, per vincere, e che poi sia scivolato nell’altra droga, quella delle notti bianche e dello sballo” ( Gianni Mura, giornalista sportivo)

s_MarcoLeggenda vuole che, rabbuiato e depresso per l’esclusione da un Giro d’Italia che sembrava aver già vinto (e messo nell’impossibilità di rivincere il Tour de France), Pantani sia caduto nelle braccia della cocaina. Come il doping viene raccontato attraverso una serie di episodi isolati, così anche i rapporti tra doping e coca vengono letti attraverso la filigrana dell’occasionalità. Come se Pantani fosse l’unico caso di ciclista che diventa assuntore di coca, e non uno dei tanti di una lunga lista – Gilberto Simoni, Graziano Gasparre, Valentino Fois, Mattia Gavazzi, Tom Boonen, Tom Vanoppen, fino alla cilena Irene Aravena, solo per citarne alcuni. Viene in mente il sorriso ironico di Maradona quando dichiarava che «in Italia solo Maradona e Caniggia hanno preso coca: tutti gli altri, neanche un’aspirina».
Del resto, della presenza della cocaina nel mondo del ciclismo professionistico (quantomeno francese) aveva già parlato Willy Voet nel suo Massacro alla catena, mentre Erwann Mentheour parla di “belgian pot”, un mischione di droghe (tra cui cocaina ed eccitanti) d’uso comune tra i ciclisti belgi, che provoca farmacodipendenza (di cui soffriva lo stesso Mentheour). Infine Pierino Gavazzi, il grande sprinter del passato padre di Mattia – un giovane talento bruciato proprio dalla coca – conferma: «La cocaina è un problema diffuso nel ciclismo molto di più di quanto non si creda [ qui]».
Perché un ciclista assume cocaina? Lo spiega in prima battuta Graziano Gasparre:

Nel ciclismo la droga è più diffusa di quanto si pensi: ho cominciato su consiglio di un compagno di allenamenti che pure lo faceva, poi è diventato un vizio che mi ha accompagnato negli anni. E non solo per il gusto dello “sballo”, ma sempre a fini professionali: tiravo per dimagrire, specie in inverno quando è facile mettere su qualche chilo di troppo; mi impasticcavo per fare super allenamenti di molte ore. Chi si dopa è in qualche maniera “predisposto” a fare uso di stupefacenti. E pure questa diventa una dipendenza: il vizio della cocaina mi ha accompagnato negli anni, anche dopo il 2005.

Ma non basta. Il mondo del ciclismo è un mondo di sospetti, paranoia, paura di essere scoperti, sospetto che il tuo rivale abbia sostanze più potenti delle tue. È un mondo intriso di passioni tristi, come spiega Hamilton nel suo La corsa segreta:

Il ciclismo segue il più darwiniano dei modelli. Le squadre sono sponsorizzate da grandi aziende e competono in grandi corse. Ma non c’è alcuna sicurezza: gli sponsor possono lasciare; gli organizzatori possono rifiutare alle squadre la partecipazione. Il risultato è una catena di nervosismo continuo. Gli sponsor sono nervosi perché hanno bisogno dei risultati. I direttori sportivi sono nervosi perché hanno bisogno dei risultati. I corridori sono nervosi perché hanno bisogno dei risultati per rinnovare i contratti.

Alessandro Donati, ex allenatore di atletica estromesso dall’ambiente per le sue denunce del sistema-doping7, attuale consulente dell’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA), fornisce un’impressionante documentazione scientifica a sostegno della tesi che le sostanze dopanti «producono conclamati effetti di dipendenza e, oltre a questi, inducono il soggetto a fare uso di altre sostanze e farmaci (per l’appunto anche le amfetamine, gli stimolanti, la cocaina…), per scopi complementari o per scopi compensatori»8
Il sistema-doping costruisce personalità fragili, e su questa fragilità si fonda, come ci ricorda Carlo Vittori, allenatore di Pietro Mennea – una coppia che è stata capace di vincere senza doping: «Invece di lavorare alla costruzione di un atleta si è lavorato sulla frustrazione personale di chi non ce la faceva, di chi si è attaccato a qualsiasi brandello di pseudoscientificità pur di arrivare primo. E così hanno costruito dei campioni di debolezza».
Insomma, la cocaina non è una droga da notti sballate, ma parte integrante del sistema doping. Ne diventa addirittura il complemento invernale. E il pensiero non può non correre a certi ciclisti dal fisico al limite dell’anoressia, con la componente grassa dell’organismo limata fino all’estremo per alleggerire il peso corporeo.

Un altro elemento. Le sostanze dopanti (EPO, testosterone, steroidi, Thg) non arrivano nelle vene degli atleti scendendo giù con la piena: la loro produzione e distribuzione avvengono all’interno di un’economia “formalmente” illegale, proprio come con le droghe. Ancora Sandro Donati ci informa che per la maggior parte dei trafficanti di sostanze illecite non c’è alcuna differenza tra droghe e doping: «Lo dimostra il fatto che nei sequestri di sostanze illecite operati dalle forze di polizia si ritrovano nelle mani dei trafficanti sia sostanze e farmaci ad effetto stupefacente, sia sostanze e farmaci ad effetto doping. Se si prescinde dal vincolo dei luoghi di produzione dell’oppio e del papavero, alcune importanti rotte della droga controllate dalla grande criminalità internazionale sono in gran parte sovrapponibili a quelle del doping. In sintesi, per i trafficanti non c’è differenza ma, soprattutto, per gli assuntori spesso si rileva l’utilizzo contemporaneo o in fasi successive dell’una e dell’altra categoria di sostanze e farmaci»9. Il che vuol dire che il piano dell’industria farmaceutica “legale” (ad esempio la BALCO) e quello della produzione e distribuzione illegale finiscono col collassare l’uno sull’altro: proprio come accade, nel campo dell’economia finanziaria, con i piani del capitale “legale” e del capitale “illegale”.
Per essere chiari: non si tratta di accogliere le iperfetazioni di Roberto Saviano sulla coca che non ruoterebbe più intorno al denaro, perché sarebbe il denaro ad essere entrato nell’orbita della coca, risucchiato dal suo campo gravitazionale. La cocaina non è la sostanza, ma una manifestazione – un segno – del capitalismo finanziario: «l’economia criminale va assumendo le medesime caratteristiche di ogni altro segmento, si è finanziarizzata, aggredisce il comune per estrarre profitto, si avvale del mercato globale e della comunicazione, si caratterizza per il prevalere del capitalismo cognitivo. E proprio per questo non è separabile dal meccanismo capitalistico nel suo complesso»10.
Del quale meccanismo capitalistico è parte integrante rendere – meglio: costruire – l’essere umano (come) precario e indebitato.

Il sistema-doping

“Eppure il messaggio che è passato ai ragazzi è positivo. Qualche giorno fa in un incontro con i giovani mi ha avvicinato un piccoletto di 14 anni e mi ha detto: ‘Se mi alzo sui pedali e getto via la bandana vado forte come Pantani?” ( Davide Cassani, CT della nazionale di ciclismo, ex compagno di squadra di Pantani)

Il sistema-doping è strutturato a cerchi concentrici.
Nel circolo più interno, c’è l’atleta che viene indotto a doparsi e messo in condizione potenziale di diventare assuntore di cocaina.
Attorno, il circolo di coloro che cooperano al sistema con pensieri, opere e omissioni. Tra questi, un ruolo di rilievo giocano i giornalisti sportivi, ai quali è chiesto di dire il meno possibile, di fingere di ignorare le pubblicazioni scomode e/o inopportune, o se non può di seppellirle sotto l’insinuazione della mitomania11.
C’è poi il circolo dei giovani atleti che vengono indotti ad usare supporti chimici già alle prime armi, contribuendo all’idea che risultati un tempo ottenibili solo con la dura fatica dell’allenamento possano essere conseguiti con la scorciatoia del doping: un po’ come in Matrix, dove Neo diventa campione di arti marziali non mediante anni di pratica, ma col semplice caricamento di un programma attraverso la porta Usb collegata al cervello. Non c’è bisogno di arrivare agli integratori “illegali”: la creatina, che nel 1982 rafforzò le gambe della nazionale di calcio nella seconda fase dei mondiali di Spagna, vent’anni dopo le imprese di Paolo Rossi e Marco Tardelli viene assunta persino nelle squadre giovanili. È un farmaco ammesso (in Italia: altrove, no)12, e nel caso di minorenni ci vuole il “consenso informato” dei genitori: ma chi informa i giovani praticanti, e i loro “informati” genitori, di cosa significa davvero assumere creatina a quell’età? Di cosa significa assumerne dosi di 10-20 volte superiori alla quantità che se ne dovrebbe assumere? E soprattutto: quale cultura dello sport viene assunta assieme all’integratore farmaceutico? Quale messaggio passa dalla constatazione che chi non si presta all’assunzione di “integratori” è estromesso dall’attività sportiva, a volte di fatto, perché superato nelle prestazioni da altri meno dotati e meno predisposti all’allenamento, a volte di diritto, perché il sistema-doping non può accettare che qualcuno ottenga risultati in modo “pulito” (e che nessuna Grande Firma andrà mai a intervistare)?
Ancora con le parole di Carlo Vittori: «L’istituzione dello sport firmò questo terribile arretramento culturale, morale, etico. I guasti li abbiamo sotto gli occhi. Intere generazioni sono state rovinate. Perché il dramma è che oggi i giovani sanno solo imbrogliare, scelgono la strada breve, soldi e successo. È triste dirlo, ma oggi i giovani stanno con Pantani».

Di cosa è segno l’icona-Pantani?

“Pantani entra nel mito proprio perché il mito è fatto di storie che si rincorrono, alcune delle quali opposte fra loro e incompatibili con le altre. Ma nessuna storia del mito può essere amputata perché anche noi, senza saperlo, facciamo parte di una quelle storie che faticosamente stiamo raccontando” ( Aldo Grasso, giornalista e critico televisivo)

san_marcoBasta? No, c’è un circolo ancora più ampio, che motiva gli allarmanti dati sulla diffusione di sostanze dopanti tra la popolazione. È quello dell’amatore della domenica, che prende l’EPO per fare la pedalata con gli amici.
Quella che un tempo sarebbe stata una scampagnata domenicale, in bici ma con la pancetta, magari fino alla trattoria dove rinfrancarsi con un piatto di tagliatelle o una parmigiana e una buona bottiglia di vino, oggi è una vera e propria gara, con tempi da monitorare, bici e abbigliamento firmati: con la maglia, la bandana, il santino e l’EPO nel sangue del Pirata. Così come alla corsetta tonificante – il buon vecchio footing – si sostituisce la corsa monitorata dal contapassi, con le frequenze scandite da un programma ascoltato con l’auricolare che isola dal contesto urbano e aumenta l’individualizzazione del corridore, e l’imprescindibile merchandising di scarpe, maglietta, bottiglietta di bevanda energetica, e via dicendo.
Quella che era a tutti gli effetti una “vacanza”, una sottrazione della vita dal tempo del lavoro dove tutto è misurato e controllato per essere tradotto in valore di scambio (dal valore prodotto al salario retribuito), una sospensione della vita quotidiana nel tempo della festa, diventa anch’esso tempo misurato, scomposto in unità discrete e numerabili, competizione, classifica dei primi e degli ultimi.
Foucault e Deleuze l’hanno chiamata “società del controllo”: una società nella quale il tempo di vita non è esterno, ma coincidente col tempo di lavoro – nella quale siamo al lavoro 24/7; e dove il controllore non è il bieco figuro alle nostre spalle col cronometro in mano, ma è dentro di noi.

Come ci ricorda Cristina Morini in un libro importante, questi anni sono quelli «del successo editoriale dei manuali che insegnano a prendersi cura del corpo e a sopravvivere allo stress. […] La vita è diventata il centro degli interessi del potere. Il corpo – controllato, monitorato, palestrato, in salute e immortale per legge, rispondente ai dettami dell’estetica dominante – diventa parte integrante dei meccanismi produttivi. Esattamente come, dall’altro lato, la conoscenza, i sentimenti, l’esperienza accumulata dalla vita extra lavorativa diventano sempre più chiaramente capaci di produrre valore aggiunto»13. Morini chiama a sostegno della propria lettura del corpo precarizzato e messo a valore le analisi dell’economista Christian Marazzi, in particolare quelle in cui il «modello antropogenetico emergente» viene definito come un modello di “produzione dell’uomo attraverso l’uomo”: «Un modello in cui i fattori di crescita sono di fatto imputabili direttamente all’attività umana», e nel quale è «la capacità di innovazione, di “produzione di forme di vita”, e quindi di creazione di valore aggiunto, che definisce la natura dell’attività umana»14.
Il lato oscuro di questo modello è la creazione di un corpo-macchina che viene in prima battuta precarizzato, cioè reso al tempo stesso precario nelle condizioni di lavoro e di esistenza, e autopercepito come precario perché in posizione incerta rispetto alle gerarchie di una vita strutturata come un Grande Fratello nel quale in ogni momento puoi essere “nominato”, e in relazione instabile con i modelli emergenti – in primo luogo, “l’imperativo della magrezza”:

«Una tirannia instaurata praticamente grazie a una serie di tecniche di trasformazione del corpo, organizzate secondo una logica di mercato e promosse, anche qui, dalla cultura del consumo: dieta, esercizio fisico, prodotti cosmetici e farmaceutici, liposuzioni. Il nemico da combattere, più ancora del “grasso”, è la “flaccidità”. Nelle rappresentazioni e nelle percezioni del corpo magro, oggetto di culto contemporaneo, l’elemento chiave non è semplicemente il peso. Le pubblicità insistono soprattutto sulla necessità di migliorare la “silhouette”. Il profilo del corpo deve essere “asciutto”, non si ammettono “cedimenti”. Ricorrono, martellanti, termini come “tonico”, “levigato”, sodo”. Viene bandita ogni eccessiva “morbidezza” che fuoriesca dai “contorni”, il corpo-macchina deve liberarsene se vuole avere possibilità sociali e personali. Ignoti e potenzialmente infiniti spazi di mercato si aprono per consentire ai corpi-macchina di mantenere tali promesse»15.

Avere un corpo compatibile con gli standard di tonicità e levigatezza, capace di prestazioni aerobiche scandite da un preciso monitoraggio, fasciato da logo riconoscibili, appare la condizione necessaria per aspirare all’inserimento nel mercato del lavoro e nelle relazioni sociali.
Al tempo stesso, questa condizione fa da (illusorio) volano, in forma di rassicurazione16 alla precarizzazione come condizione ineludibile, verso la quale bisogna mostrare acritica disponibilità – ti diamo un lavoro, che altro vuoi?
Infine, questa condizione viene assunta all’interno dei mercati come offerta di merce cui il soggetto precario deve conformare le proprie aspettative estetiche, sia come strumento di inclusione del soggetto all’interno delle forme contemporanee di lavoro e produzione di valore: «Il biocapitalismo non trasforma una materia inerte, esterna al lavoratore salariato – che partecipa dal di fuori al processo –, ma la sua stessa vita, con effetti sulla percezione e sull’immaginazione del soggetto»17.

L’icona-Pantani, dai bordi della quale irradia una luce che acceca e impedisce la visione complessiva della foresta attorno all’albero votivo del Pantadattilo, fa segno a tutto questo. Non basta prenderne atto: è doveroso e necessario decostruire non solo il mito-Pantani, ma la macchina mitopoietica di cui la santificazione e il martirologio di Pantani18 sono un prodotto. Doveroso, per non essere inglobati da questa narrazione tossica. Necessario, per chi non vuole legittimare lo stato di cose esistente, e vorrebbe invece rovesciarlo.


  1. Ad esempio dal giornalista de L’Équipe Philippe Brunel, Gli ultimi giorni di Marco Pantani (2007), Rizzoli, 2011: che però indulge volentieri nel collegare, in nome di un non ben precisato “complotto”, la morte di Pantani con il controllo antidoping di Madonna di Campiglio. 

  2. Si rammenterà la nota dichiarazione del presidente del CONI Mario Pescante (24/08/2008): «Nel calcio il doping non esiste: il problema è di altro tipo e riguarda alcuni sport che non intendo citare. Una cosa è il doping, l’altra è l’impiego di sostanze sconosciute o di farmaci che possono essere somministrati in condizioni tali da costituire un abuso». 

  3. Una buona confutazione delle principali bufale sul controllo di Madonna di Campiglio: Pantani, dopo quella morte speculazione infinita, sul blog “A ruota libera” di Eugenio Capodacqua. 

  4. In realtà faceva: l’EPO è ormai vintage rispetto ad altri prodotti della chimica farmaceutica quali il Thg, il CERA (Continuous Erythropoietin Receptor Activator: la cosiddetta EPO di terza generazione) e la cosiddetta super-EPO, o NESP (Novel Erithropoiesis Stimulating Protein, o Aranesp). 

  5. «Vorrei però ricordare sommessamente che noi [giornalisti] non facciamo analisi chimiche, né al sangue né alle urine. Non siamo neanche in grado di fare intercettazioni. Se un giornalista ha dei sospetti, il massimo che può scrivere è che “corrono voci”»: Gianni Mura, qui. È però vero che le voci, dacché corrono, tocca non solo ascoltarle, ma anche inseguirle – ma questa è un’altra storia… 

  6. Sul sistema-doping si leggano i libri di Willy Voet (ex ciclista della Festina, squadra esclusa dal Tour per doping nel 1998) Massacro alla catena (1999), Bradipolibri, 2001; Erwann Menthéour (ex ciclista professionista), Il mio doping, Baldini Castoldi Dalai, 1999; Tyler Hamilton (ex compagno di squadra di Lance Armstrong) e Daniel Coyle La corsa segreta. La verità dietro i successi: il ciclismo tra doping, connivenze e coperture (2012), Limina 2013 (su cui vedi la recensione di Eugenio Capodacqua). 

  7. In particolare Alessandro Donati, Campioni senza valore, Ponte alle Grazie, 1989; questo libro è scomparso dalle librerie, e lo si può leggere solo cercandone una copia in .pdf in rete (ad esempio qui). 

  8. Alessandro Donati, I traffici mondiali delle sostanze dopanti, Libera, qui, p. 8. 

  9. Alessandro Donati, I traffici mondiali delle sostanze dopanti, cit., p. 9. 

  10. Gianni Giovannelli, Triplo zero o triplo work?

  11. hh-cartelli-in-spogliatoioUn esempio: «la credibilità di Ferruccio Mazzola è al livello di quella di Carlo Petrini», mi disse con un filo di disprezzo una Grande Firma dello sport qualche anno fa, prendendo due piccioni con una fava. Se non che nell’agosto 2013 il fratello di Ferruccio, Sandro Mazzola con incredibile candore ( qui, al minuto 5:30), dopo aver negato per anni che nell’Inter di Herrera si facesse uso di sostanze dopanti (che Ferruccio collega alla prematura morte di 7 giocatori), ha dichiarato che nella sua carriera gli sono state passate pillole, le ha anche descritte (capsule di simpamina), dichiarando che però lui le sputava: avendo giocato in una sola squadra, ha di fatto ammesso quello che negò quando fu chiamato a testimoniare in tribunale contro il fratello Ferruccio, e cioè che nell’Inter di Herrera si distribuivano sostanze dopanti prima degli incontri. Nessuno di quelli che avevano dato del mitomane invidioso a Ferruccio pare aver sentito il dovere di scusarsi – ma che te lo dico a fare? 

  12. Sull’uso della creatina e di farmaci dopanti nel calcio è fondamentale il libro di Giuseppe D’Onofrio (autore della perizia sulle analisi del sangue dei calciatori della Juventus al processo intentato dal procuratore Guariniello per doping e frode sportiva) Buon sangue non mente. Il processo alla Juventus raccontato dal “grande nemico”, minimum fax, Roma 2006. 

  13. Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010 (in particolare il capitolo III: “Il nostro corpo, un lavoratore precario”), p. 77. 

  14. Christian Marazzi, Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, ombre corte, Verona 2010, pp. 203-205. 

  15. Cristina Morini, Per amore o per forza, cit., p. 85. 

  16. Una forma di perversa metábasis esistenziale, si potrebbe dire: il precario dottor Jekyll, e il signor Hyde blasé

  17. Cristina Morini, Per amore o per forza, cit., p. 86. 

  18. Come pure la sua estetizzazione: vedi, ad esempio, lo spettacolo Pantani (2012) del Teatro delle Albe, nella cui brochure informativa si legge che a condurre Pantani «a un lento ma inevitabile crollo psicologico fino a una morte forse tragicamente annunciata» sono state «le accuse di doping a Madonna di Campiglio, rivelatesi poi infondate» (sic). 

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