Marco Magurno – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fabula prima https://www.carmillaonline.com/2024/12/20/fabula-prima/ Fri, 20 Dec 2024 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85857 di Marco Magurno

Il sole splendeva, non avendo altra scelta, sul nulla di nuovo. Samuel Beckett, Murphy

 

C’era una volta la specie, il fuoco sulle campate dei cieli e poi la cenere, splendida e tremula tra le impronte ormai secche dei crinali, sugli asfalti, nelle pieghe dei mari. C’era una volta il fiore che deflagra solo nel nido spoglio del pensiero, la rovina che osservati di sbieco ci fa a malapena esistere ancora in un’ostinata, residua generazione, i mille squassi di cui il mondo è erede, il mancato germoglio all’appello del giorno, e poi c’era una volta, e [...]]]> di Marco Magurno

Il sole splendeva, non avendo altra scelta, sul nulla di nuovo.
Samuel Beckett, Murphy

 

C’era una volta la specie, il fuoco sulle campate dei cieli e poi la cenere, splendida e tremula tra le impronte ormai secche dei crinali, sugli asfalti, nelle pieghe dei mari. C’era una volta il fiore che deflagra solo nel nido spoglio del pensiero, la rovina che osservati di sbieco ci fa a malapena esistere ancora in un’ostinata, residua generazione, i mille squassi di cui il mondo è erede, il mancato germoglio all’appello del giorno, e poi c’era una volta, e tuttavia per poco, il tempo e tutto il resto e quel che freme senza più il dono del durare. C’era d’intorno, una volta e per sempre, un instancabile vento, così che affine ad ogni morbo fosse il passare di tutto questo tra i frantumi delle cose.

***

Tutto ha inizio, come in ogni storia che si rispetti.

C’erano una volta un monaco e una bambina e un cielo bianco come il latte che fu delle madri.

Da un tempo indefinito attraversavano il paese, leggeri di involti e gravi di pensieri, camminando tra gli spasmi e i tremori del suolo color fumo. Un giorno, trovato alloggio in una spelonca, avevano passato le ore scure al riparo dalle grida d’aria che abitavano la zona.
L’anno volgeva al principio.
Il pianeta, avvolto da un pulviscolo di rottami in orbita geostazionaria, agonizzava nelle sue rivoluzioni.
Un giro, un altro giro e un giro ancora.
Talvolta un satellite in disuso rovinava oltre la stratosfera e prendeva fuoco, accendendosi in un lento e declinante arco di luce: era quello il tempo dei desideri scagliati verso il cielo come una maledizione.
La notte portava ovunque scompiglio.

Un raggio dell’astro, pallido come il viso degli scampati, filtrava nell’antro della spelonca.
«Cantaci, o Diva», biascicava il monaco mezzo addormentato. Mentre il sonno lo attanagliava come le zanne di un puma delle montagne, il sogno lo teneva sospeso a mezz’aria tra la terra devastata e il Regno del lucore. «E nel canto facci esistere ancora», diceva con la bocca impastata di rena.

Cosa raccontarono le fiabe, Fabula, al tempo buono della buonanotte?

Accanto la bambina sollevava la bocca dal fiero pasto, e una mistura di vermi e saliva le scendeva dalla labbra.
«Che buono questo mangiare, monaco caro», diceva soddisfatta con lo sguardo dritto verso la luce. Fuori, il chiarore del nuovo giorno si spandeva sull’altopiano come una colata di lava.

Cosa raccontano adesso, Fabula amata, a questa razza che crepa?

La bambina allungò le braccia e tese le dita sudicie fino a sentire nel pensiero la fine. Erano in cammino da così tanto che il tempo aveva perso di significato, ma la fine, a figurarsela in testa, aveva il muso oblungo del fato, un aspetto adamantino, di pura luce.
Da qualche parte, pensò la bambina, il mondo era tiepido, magari buono, in fondo. O forse, no, chissà! La fine è calda? oppure è fredda? E cos’è, poi un pensiero? avrebbe detto il monaco. Un germoglio dell’inesistente Sé, un demone, un dono?
Pensieri, demoni, doni: la terra dei giorni nuovi li accoglieva, la terra dei giorni passati li disperdeva. Un giro, un altro giro e un giro ancora.

Cercavano la fine.

«O Diva, cantaci», ripeteva il monaco nel delirio, «cantaci».
«Monaco caro, svegliati, è ora di andare», disse la bambina ritraendo le braccia. Un inutile sorriso le attraversò la faccia.
«Nel canto facci esistere ancora», dalla bocca del sant’uomo le parole uscivano nella forma di una litania stanca e meccanica, «facci esistere ancora…». Il vecchio le ripeteva da ere.
«Andiamo, su».

Cosa dice Raperonzola? Le sue parole sanno ancora di sale mentre si scioglie i capelli nella landa deserta?

La bambina, sin dall’albeggio, aveva fatto la spola tra il giaciglio e il pianoro alla ricerca di cibo e sterpaglie per il fuoco. Aveva trovato delle erbe buone e dei vermi di bosco. Mischiato il tutto all’acqua tiepida della bisacca lo aveva poi pestato con una pietra smussata. Infine, aveva acceso il fuoco e scaldato la poltiglia in un pentolino. Era amara, al principio, una sbobba cattiva che però si addolciva scendendo giù nella gola.
L’oscena delizia di quel desinare ammantava la venuta al giorno di un stato quasi febbrile. Gioia mista a sgomento, uccelli del malaugurio, volatili dei monti celesti. Che malevolo e benedetto mistero, il mondo!
E la fine, la fine dov’è?

Raperonzola, Rapina, cala giù la tua codina…

I giorni passavano, su quel suolo di poco, sotto quel cielo di nulla. Pollini diafani e fiamme d’altura, cateratte di lacrime, sigilli di ghiaccio: fu primavera, e poi estate, autunno, e di nuovo fu l’inverno. Un giro, un altro giro e un giro ancora.

 

«Cosa cerchiamo, bimba?», disse un dì il monaco. La vista si era ormai offuscata quasi del tutto e il mondo esteriore appariva perlopiù come un gioco di ombre e riflessi.
«Cerchiamo quel che cerchiamo, monaco».
Il santo le stava dietro, orientandosi attraverso gli spostamenti d’aria del corpo della bambina.
«Anche tu hai preso a dire parole arcane».
«Se con arcane intendi paroloni, ricorda che sei tu ad avermeli insegnati…»
Il monaco rise e ripetette a bassa voce: «Cerchiamo quello che cerchiamo».
Quello che cercavano era la fine, il termine, l’epilogo, l’esito. Ma di cosa? La fine del mondo? Il mondo della fine?
«Cerchiamo le rovine splendenti», pensarono all’unisono.

Si fermarono a un crocicchio.
Tre erano le strade. A destra, a manca, dinnanzi.
Un fiocco di cenere cristallizzata planava dall’alto: gli occhi della bambina lo seguirono fino a terra, di fronte ai suoi piedi. Poi giunse un altro fiocco, un po’ più avanti, e poi un altro ancora, fino a formare una scia.
Poi la scia si accese in mille riflessi dorati: era il cammino da seguire.
Lo avevano letto nel libro: era scritto: era vero.
«In là», disse il monaco, che aveva scorto già tutto nella sua vista interiore.

La figlia del re, Rosaspina, a quindici anni si pungerà con un fuso e cadrà a terra in uno schianto.

Giunsero all’alba, forse al crepuscolo.
La fatica del viaggio, raggiunto il suo culmine, si sciolse. Erano forse trascorsi mille volte mille anni e il dolore, emerso dalle ossa, attraversò i muscoli, percorse la pelle e si raggrumò come un velo di rugiada sulle fronti. Le goccioline di sudore splendevano come la più lucente delle gemme.

All’inizio, il paese della fine non sembrava diverso dalle terre già viste. Gli alberi erano dunque e dovunque morti: inesistevano. Dal terreno non spuntavano che stecchi ritorti, come braccia mozzate.
La polvere era di casa, e difatti la prima ad apparire fu una casa di polvere. Non troppo alta, con le finestre e una porticina, ondeggiava come la fiamma di un cero, una fatamorgana di granella. La bambina si chiese come fosse possibile, non aveva mai visto una casa di polvere.
La porticina della casa di polvere si aprì come scossa dal vento: ne uscirono tre omini tremuli, alti poco più di un pollice, che a contatto con l’aria si dispersero in una serie di sbuffi.
Puf.
Puf.
Puf.

Questa e molte altre stranezze li accompagnarono nel cammino. Tra di esse: apparizioni di spiriti iridescenti, un fiume di voci che dovettero attraversare in punta di piedi e ben attenti a non cedere alla loro malìa, una pioggia di piume che li colse senza preavviso, un arcobaleno in scala di grigio. E poi le spoglie d’ogni storia della buonanotte: gli scheletrini di Hamelin, i resti della nonna avanzati dal lupo, le dita e i calcagni delle figlie della matrigna e i felici e contenti che contenti e felici non sono mai stati.
Le stranezze si susseguirono, innumerevoli, in quella terra finale della stranezza.

Non ci sarà morte, ma un sonno che durerà mille anni…

Il monaco e la bambina continuarono a vagare per ere, che furono battiti d’ala di un volatile enorme come ogni cosa.
Raramente si scambiarono qualche parola, tanto più che il più era già detto. I loro pensieri fluttuavano nell’aria, e ognuno poteva vedere quelli dell’altro. Anche le parole, come gli alberi, potevano finire e, finalmente, inesistere.

Al termine del termine ci fu un baleno nel cielo.
O forse ci fu un cielo nel baleno.
E ogni creatura, che fosse di carne o cenere, di polvere o metallo, di carbonio o di sogno, chiuse gli occhi per meglio vedere.

Il resto è storia che adesso può dirsi:

 

***

FINE

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Infinitamente si muore in tutto questo apparire https://www.carmillaonline.com/2024/09/21/infinitamente-si-muore-in-tutto-questo-apparire/ Sat, 21 Sep 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84474 di Franco Pezzini

Marco Magurno, Persona, pp. 350, € 18, Polidoro “Interzona”, Napoli 2024.

 

Attraverso le immagini il mondo finisce e comincia di nuovo.

 

“Ventidue lettere fondamentali. Egli le estrasse, le sbozzò, le soppesò, le alternò e diede forma per mezzo loro all’intera creazione, e a tutto quanto dovesse in seguito generarsi”, afferma il Sepher Yetzirah: in sostanza tutta la realtà sarebbe fatta di lettere. Gli Oracoli Caldaici ammoniscono a non cambiare mai i nomi barbari, cioè quelle stringhe alfabetiche di significato non riconoscibile, che nondimeno interagirebbero potentemente con la realtà, e vanno usate senza alterazioni. “Siamo simboli e [...]]]> di Franco Pezzini

Marco Magurno, Persona, pp. 350, € 18, Polidoro “Interzona”, Napoli 2024.

 

Attraverso le immagini il mondo finisce e comincia di nuovo.

 

“Ventidue lettere fondamentali. Egli le estrasse, le sbozzò, le soppesò, le alternò e diede forma per mezzo loro all’intera creazione, e a tutto quanto dovesse in seguito generarsi”, afferma il Sepher Yetzirah: in sostanza tutta la realtà sarebbe fatta di lettere. Gli Oracoli Caldaici ammoniscono a non cambiare mai i nomi barbari, cioè quelle stringhe alfabetiche di significato non riconoscibile, che nondimeno interagirebbero potentemente con la realtà, e vanno usate senza alterazioni. “Siamo simboli e viviamo in essi” affermava Emerson – e forse non solo simboli, ma segni. Cammino e lascio un’impronta: quelle impressioni nella sabbia sono io? La mia voce registrata su nastro: sono io? La mia immagine video, mentre mi muovo e parlo: di nuovo, è la mia persona? Lo sarebbe un mio ologramma?

Queste proiezioni sono fantasmi (assoggettati alla schiavitù della ripetizione – ma quante volte siamo noi a ripeterci?), che in qualche modo restano di noi: forme elettriche di sopravvivenza alla morte, presentate da un Bardo elettrico.

 

Se la morte decompone, l’immagine ricompone.

Mentre l’involucro di carne del simile imputridisce, il suo simulacro, l’altro corpo, incorruttibile, può liberarsi al giogo del mondo e continuare a vivere in immagine.

 

Ma il nostro stesso dileguarci dal mondo – spettro/fantasma o spettro/luce, con tutte le frequenze avvertibili o meno – rimanda a una significazione: l’ingresso nel mondo ci proietta irreversibilmente nella dimensione dei segni.

Tali scarne considerazioni possono preparare la presentazione dell’originalissimo, vertiginoso Persona per Polidoro “Interzona”, di Marco Magurno – già narratore di esplosioni della realtà con Diorama, il Saggiatore, 2016 –, ideale oracolo caldaico delle nostre infinite proiezioni in segni, dalla risacca di tempi diversi. Spiega in un’intervista, di cui mi pare interessante offrire alcuni stralci:

 

Ho sempre avuto un rapporto molto stretto con le immagini, sia per diletto che per lavoro.

Mi occupo da quasi trent’anni di immagine e design grafico nel Web, nella pubblicità e nella comunicazione […].

A un certo punto, quindi, mi sono chiesto non più il come ma il perché delle immagini: per quale motivo su uno schermo o su un foglio, su una tela o su una parete di una grotta ci fosse qualcosa al posto di niente. E per quale motivo questo qualcosa fosse la replica, il monumento alla presenza di qualcos’altro, il suo fantasma.

Avevo già tentato di indagare la realtà in quanto fantasma nel mio precedente Diorama uscito per il Saggiatore. Era, Diorama, un libro costruito su giustapposizioni di immagini, analogie e frizioni, nel quale avevo mischiato il registro ironico – forse troppo post-moderno! – con un registro più tragico (che costituiva fisicamente la parte centrale, in bianco e nero, di un volume coloratissimo).

Questa parte oscura, ectoplasmatica, l’ho sempre considerata come un cuore nero da far collassare. Tanto più che, nel corso degli anni, ho sviluppato una avversione crescente all’ironia post-moderna – pur senza perdere il buon umore e l’ironia vera, sia chiaro! Ma sentivo che quell’approccio non era più sufficiente e che occorresse andare più nel profondo.

 

Persona, in latino, è la maschera teatrale, dall’etrusco phersu (“Se ho recitato bene, applauditemi” eccetera), e in seguito attraverso una lunga elaborazione teologica se ne maturerà un’accezione più profonda e metafisica – fino alle tre Persone trinitarie, alla persona diaboli eccetera –, e una serie di significati più consueti qui elencati in una nota iniziale. Ma persona è anche un nodo di interessi e diritti giuridicamente rilevanti, dunque di nuovo un coagulo di potenzialità e di segni legati a una vicenda comunitaria umana.

 

All’inizio piccole cose: un nome, un indirizzo, un appuntamento di lavoro.

 

E poi tornare indietro perché si è dimenticati a casa anche la fonte di ogni informazione, accedere a email, messaggi, mappe, telefonare e scusarsi, rimandare, correre in bagno e sciacquarsi la faccia con l’acqua volutamente gelida evitando il doppio nello specchio. Poi a seguire: dimenticare il luogo del parcheggio, una documentazione imprescindibile, un nome, un altro nome, smarrire il nome delle persone come si fa con un ombrello, un paio di guanti, un oggetto minimo.

 

È così che ho iniziato a dimenticare.

 

Ho pensato che il mondo stesse sparendo poco a poco.

 

Magurno offre il caso di un protagonista, appunto Persona, per antonomasia, consumato da progressiva amnesia e che dunque cerca di riunire tasselli per salvaguardare una propria identità: ma intorno, è il pianeta a conoscere una parallela crisi (“Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi […]”,“il tempo si è fatto breve; […] passa infatti la figura di questo mondo!”). E l’unico modo per raccontare questa crisi duplice o piuttosto incrociata è la chiave transmediale, col risultato di una fucina ergodica di immagini fotografiche e stringhe da codice html, narrazioni ellittiche (con pagine bellissime, poetiche, ricche di riflessione sapienziale), frantumi di fiabe, di chat e di questionari, sessioni di videogioco, tavole di fumetto e poema, “rotte parole”, citazioni ed eclissi, solarizzazioni e inabissamenti nell’ombra. Le narrazioni vi si frantumano come in una risacca onirica. Persino i caratteri si deformano, s’increspano, sdrucciolano nell’invisibile…

 

<Ricordo> lo scorrere del tempo. Quello apparente, frazionato e atomico del secondo: la percezione delle transizioni tra i livelli iperfini dell’atomo di Cesio-133 che riposa nel suo zero Kelvin: una misura assoluta.

 

Ricordo lo spettro temporale elaborato dagli antichi induisti, ai cui due margini opposti le unità sono così estreme da risultare incomprensibili e apparentemente inutili in termini pratici.

Ricordo il kala, che i maestri fanno corrispondere a un intervallo di 44 secondi; ricordo il paramanu, della lunghezza di circa un diciassettesimo di secondo; il mahamanvantara, corrispondente a 311.040 miliardi di anni.

 

Con il kala si misura il battito cardiaco umano, con il paramanu il battito delle ali di un colibrì, con il mahamanvantara il battito delle galassie.

 

Preceduto da citazioni di Morselli (Dissipatio H.G.) e Kafka (Aforismi di Zürau), l’itinerario prende l’avvio, opportunamente, da un’invocazione che apre il tutto al rituale. Seguono Imago mortis (“È insaziabile, l’occhio che guarda […] Ti sia concessa così la grazia: e doppo il morire vivere anchora”) sul rapporto-chiave tra visione e immagini, ombra e riflesso, camera oscura e luce, conversione dell’ordine in dati numerici; Cominciamento, che vede il racconto personale diventare racconto di specie; Terra, “Dove il pianeta vivente respira di tremore”. E finalmente, in Persona, l’identità con questo nome, “tra i frammenti della memoria, esperisce la propria dimenticanza”, con una progressiva erosione che sembra far sparire progressivamente l’intero mondo. Da cui Bardo, “Dove, tra i residui elettrici, avviene il viaggio oltremondano di Persona” e come nell’antica Persia o in riti ancora più antichi il corpo è affidato agli avvoltoi e poi allo spaccacorpo per la frantumazione delle ossa e la macinazione con latte e farina. Di nuovo singole unità minime, frammenti in quel tessuto della realtà di cui l’autore insegue qui il retro, l’ordito, il viluppo di fili. A ciò segue, come nel Bardo tibetano, l’annuncio dell’incontro con deità, alcune regole da osservare e dialoghi ritualizzati per una ruminazione interiore.

 

Un’ars moriendi appresa per disincanto, la nostra, da praticare nella posa.

 

La nostra semenza è già un’orda di ectoplasmi impressi sui display.

 

“Scegli dunque la rinascita e ascolta qualche storia che ti allieti nell’intanto”: per cui segue Fabula, “Dove alcune fole vengono narrate e altrettante vengono taciute”, a narrare di Macchine madri (e della preghiera da loro insegnata in grazia del Cloud: “Sacra memoria salvaci dalla dimenticanza, facci presenza, presenza infinita”), captcha, una città fatta tutta di rumore, una persona blu con “due bestie d’affezione: un pappagallo stocastico di nome Artificio e una quintessenza di polvere” (la fiaba è deliziosa, a tratti esilarante), una stella degenere, e la sequenza lorem ipsum. Tutto si chiude con In exitu, “Dove tutto ha fine e un nuovo cominciamento” – e non avrebbe senso spoilerare – e Opera, con le tavole finali. Di nuovo l’autore:

 

L’immagine mi è dunque apparsa come il nostro talismano contro la morte: il modo che la nostra specie ha escogitato per continuare a esistere, se non più in sostanza quantomeno in figura. Quella stessa morte che, nel presente assoluto dell’oggi, tendiamo a scansare se non proprio a negare. E intorno alla quale non abbiamo, a differenza di tempi e sensibilità altre antiche, elaborato un’ars moriendi o un libro dei morti.

 

Ma forse il nostro libro dei morti, ho pensato, è proprio la Rete, quel “colosso ultimo e terminale che abbiamo eretto un po’ per ricordare e un po’ per ridere”, in cui trasferiamo, attimo dopo attimo, duplicandola in figura, tutta la nostra esperienza.

 

Da qui l’idea del Libro elettrico dei morti, sovrapposto a uno dei testi che mi ossessiona da tempo: il Bardo Thodol, il Libro dei morti tibetano.

 

Nel rito tibetano il defunto, o il moribondo, viene accompagnato nel passaggio finale dalla lettura a voce alta di preghiere, precise istruzioni che lo guidano nel percorso.

La preghiera del Phowa è letteralmente “il trasferimento della coscienza”, una sorta di “mind uploading” pre-tecnologico.

Mentre i testi del Bardo Thodol guidano la coscienza nell’attraversamento del Regno intermedio, dove essa intraprende una lotta con le proprie proiezioni interiori, le divinità benefiche e malefiche, cercando di resistere e porre fine al ciclo delle reincarnazioni o, quantomeno, di ottenere una buona rinascita.

[…]

La tecnologia ci risparmia la fatica, ma non il dolore; ci consegna a un presente assoluto ma ci sottrae l’attenzione.

E a suo modo Persona è un libro sul dolore, che è la prima nobile verità del buddismo, e un libro sull’attenzione, che è sigillo di vera presenza e ratto costante d’ogni demone.

In questo continuum fantasmatico, che ci vede e prevede immersi e salvati, è un libro di spettri: è quindi lo spettro di un libro.

È fatto di parole e di immagini: le immagini di una vita fatta di immagini.

 

Un ultimo appunto sui testi: ho tentato di lavorare su una parola che fosse ultradensa, con un maggior peso specifico possibile. E ho tolto, tolto molto…

 

Certo il risultato è un romanzo molto particolare che richiede un approccio non superficiale, e non si esaurisce in uno sperimentalismo fine a se stesso. Anzi, inserito nella collana “Interzona” diretta da Orazio Labbate, ne costituisce una sorta di sviluppo conseguente, il seguito di una riflessione incalzante portata avanti tra distopia e Libri dei morti per esempio da Michele Neri ed Enrico Sibilla in forme diverse ma vertiginosamente coerenti. Qualcosa che sfida il senso del nostro finire – della persona, della storia, qui della Terra come la conosciamo – a suggerire possibili gnosi e chiavi di sopravvivenza, di rilettura dell’identità e ruminazione su un senso di esperienze anche molto quotidiane.

 

Ora posso vedere il mondo degli spiriti, dirà un indigeno delle isole Figi a chi gli mostra uno specchio.

 

Un’esperienza di lettura e visione di raro fascino, una grande macchina per pensare.

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