Marco Dinoi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dieci pensieri su Just Play https://www.carmillaonline.com/2014/08/06/dieci-pensieri-just-play/ Wed, 06 Aug 2014 20:47:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16607 di Alberto Prunetti

justplay_locandina_smallUno

Just Play è un documentario del 2012 di Dimitri Chimenti che racconta la storia di un’orchestra musicale che sfida un esercito. Protagonista è la scuola musicale dell’orchestra di Ramallah, che suona tra la Cisgiordania e la striscia di Gaza.

Due

Questo documentario l’ho visto tre volte nel giro di qualche mese e ogni volta mi è piaciuto di più. L’ho consigliato a tanti e la mia copia non so più a chi l’ho prestata. Guardarlo fa male, perché parla di bambini palestinesi. Parla di una scuola di [...]]]> di Alberto Prunetti

justplay_locandina_smallUno

Just Play è un documentario del 2012 di Dimitri Chimenti che racconta la storia di un’orchestra musicale che sfida un esercito. Protagonista è la scuola musicale dell’orchestra di Ramallah, che suona tra la Cisgiordania e la striscia di Gaza.

Due

Questo documentario l’ho visto tre volte nel giro di qualche mese e ogni volta mi è piaciuto di più. L’ho consigliato a tanti e la mia copia non so più a chi l’ho prestata. Guardarlo fa male, perché parla di bambini palestinesi. Parla di una scuola di musica per bambini palestinesi, l’orchestra Al Kamandjati, l’orchestra di Ramallah, dove bambini palestinesi e musicisti palestinesi, europei e nordamericani collaborano, tra mille difficoltà, in un progetto di educazione musicale.

Tre

Tra mille difficoltà. Perché le difficoltà sono evidenti. Per i musicisti e anche per i realizzatori del documentario. Che si trovano a dover girare con telecamere nascoste o a provare il rigore della polizia israeliana quando tentano di mettere un piede oltre uno dei tanti divieti che si incrociano in Palestina, quando ogni passo calpesta il suolo occupato dallo stato di Israele. Sorprende allora la naturalezza con cui un ragazzino deve imparare a girare attraverso i tornelli dei check point per suonare con i suoi compagni di scuola e come il fatto di avere o meno un documento possa mettere in discussione l’esecuzione di un brano musicale.

Quattro

I bambini che si vedono nel documentario non sono feriti e sanguinanti come quelli delle foto a cui purtroppo i nostri occhi si stanno rapidamente assuefacendo in questi giorni. Sono foto di bambini che cantano e ridono. Ma accanto a loro ogni tanto compaiono degli adulti con grandi fucili e uniformi di uno stato importante e temuto e allora loro smettono di ridere perché questi uomini non vogliono farli cantare e suonare.

Cinque

Il documentario ha una forte valenza affettiva. Non solo perché parla di bambini che imparano la musica coi fucili puntati contro di un esercito tra i più moderni del pianeta. Ma anche perché l’autore del documentario, Chimenti,  e i collaboratori del regista Francesco Zucconi e Vincenzo Cascone hanno voluto in qualche modo omaggiare il lavoro di Marco Dinoi, che qualche anno fa aveva cominciato a girare un documentario in Palestina intitolato Appunti per un lessico palestinese. Marco però all’improvviso è morto per un aneurisma celebrale a soli 35 anni. Gli amici e i collaboratori di Marco hanno provato a montare il suo girato in Palestina ma poi hanno preferito partire da zero e continuare il lavoro di Marco in maniera diversa, ripartendo dai bambini, seguendo il suo interesse verso la scuola musicale di Ramallah e utilizzando la leggerezza per incidere in maniera profonda, come fanno in Just Play.

Sei

Ci sono riusciti in pieno. Il documentario è ben fatto, veloce, empatico, mostra dietro le quinte problemi etici, strategici e politici del fare musica in un contesto di conflitto permanente ed è ammirevolmente toccante. Ci fa vedere tra l’altro la storia del fondatore di Al Kamandjati, che oggi è un uomo di circa 40 anni ma che ai tempi della prima Intifada venne immortalato da un obiettivo fotografico, un bambino con una pietra in mano mentre scaglia un sasso contro i carri armati israeliani. Ricordo di aver visto tante volte quella foto in passato ed è un sollievo pensare che quel bambino sia ancora vivo e sia un violinista così talentuoso.

Sette

Uno potrebbe arrivare alla conclusione moralista ed edificante che quel bambino sia diventato un violinista e non un terrorista perché ha lasciato cadere il sasso. E che sia vivo e non sia morto perché ha impugnato il violino. Niente di più falso. Forse una lettura genericamente umanitaria e moralista del film può spingere a questa conclusione (che probabilmente non è condivisa dall’autore del documentario). Ma la cronaca di questi giorni tremendi di guerra mi fa pensare ad altro.

Otto

Credo che non importa più in Palestina se sei un terrorista o un violinista. Se sei palestinese, in Palestina stai per morire. Se sei un civile, hai più possibilità di morire di un militare o di un combattente di una milizia. Se sei un bambino, hai più chance di morire di un adulto. Questo perché Israele, con la sua strategia di attaccare in maniera indiscriminata la popolazione civile palestinese, mirando in maniera esplicita ai bambini (perché la guerra oggi non è certo casuale e le vittime sono scelte con cura) lancia un messaggio che renderà sempre più pervasiva la diffusione del fondamentalismo e del terrorismo: un terrorista ha molta più possibilità di sopravvivere in Palestina di un bambino che suona un violino. Un paradosso di cui i Palestinesi non hanno colpa.

Nove

Per questo farà male vedere questo film. Perché se volete leggere un messaggio di conformismo morale nel video di Chimenti (che non c’è), questo messaggio viene annullato dalla cronaca di questi giorni. E vi farà male pensare a quei bei bambini e a quelle meravigliose bambine palestinesi che cantano e suonano ai check point di Gerusalemme, sapendo che a pochi chilometri dalla Cisgiordania, nella striscia di Gaza, i loro coetanei sono dilaniati dalle pallottole e dalle bombe dei soldati dello stato militarista di Israele.

Dieci

Chiudo con un pensiero stupido che ho fatto. Ho visto al telegiornale una di quelle immagini di una bomba che cade dall’alto e distrugge il suo obiettivo. Di solito sono immagini prodotte da telecamere attaccate agli stessi aerei assassini che lanciano la bomba e che sono diffuse dagli uffici stampa dei militari che compiono quelle prodigiose operazioni di annientamento. La bomba scende su una specie di baraccopoli a Gaza e distrugge in mille frammenti dei tetti di ondulino grigio, facendo a pezzi chi sta sotto quei tetti. A quel punto, davanti al televisore, ho fatto un pensiero poco intelligente. Ho pensato che quel tetto grigio era d’amianto e che quei frammenti e quelle fibre avrebbero rovinato i polmoni e la salute alle centinaia di persone che vivono attorno a quel posto. Un pensiero stupido, centrato su me stesso e fuori luogo. Perché a Gaza l’amianto non fa male. Perché l’amianto ci mette quarant’anni ad ammazzarti mentre attorno a quell’ondulino in fibrocemento sono già morti tutti ormai.

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