Marchese de Sade – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Mutazioni e contrasti, contraddizioni e variazioni topico-ambientali nel cinema di Luis Buñuel https://www.carmillaonline.com/2024/07/21/mutazioni-e-contrasti-contraddizioni-e-variazioni-topico-ambientali-nel-cinema-di-luis-bunuel/ Sun, 21 Jul 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83476 di Paolo Lago Paolo Landi

Paolo Landi è autore della sezione A, e Paolo Lago della sezione B. Le due voci del testo convergono sugli stessi temi attraverso due metodi diversi, che vengono concepiti come elementi di un dialogo provvisto di una peculiare apertura.

A – I film di Buñuel lasciano emergere in modo ricorrente alcuni trapassi di ordine radicale; potremmo infatti dire che l’evento drastico della mutazione e il suo carattere di enigma mettano in gioco una cifra costante nelle opere del regista. E del resto, il surrealismo si basa proprio su questa risorsa, che mira alla congiunzione tra elementi in forte [...]]]> di Paolo Lago Paolo Landi

Paolo Landi è autore della sezione A, e Paolo Lago della sezione B. Le due voci del testo convergono sugli stessi temi attraverso due metodi diversi, che vengono concepiti come elementi di un dialogo provvisto di una peculiare apertura.

A – I film di Buñuel lasciano emergere in modo ricorrente alcuni trapassi di ordine radicale; potremmo infatti dire che l’evento drastico della mutazione e il suo carattere di enigma mettano in gioco una cifra costante nelle opere del regista. E del resto, il surrealismo si basa proprio su questa risorsa, che mira alla congiunzione tra elementi in forte contrasto, gettando la luce dell’astrazione sui versanti che vengono coinvolti. E accade allora che il gentiluomo severo e monumentale impersonato da A. Cuny ne La via lattea (La Voie lactée, 1969) figuri nei termini del Padreterno, mentre cammina lungo la strada che conduce a S. Jacopo di Compostella; e a tale proposito, egli non è il supporto di un discorso allegorico che giustifichi questa duplicità sulla base di un significato definito, ma vive della contraddizione dovuta all’arbitrio con il quale incarna se stesso come essere umano, e al contempo racchiude il mistero della prima persona della Trinità divina; e d’altra parte, questa persona è confortata dalla presenza delle altre persone del nucleo trinitario, amabilmente rappresentate con la stessa logica, la quale trova il proprio coronamento nel gioco di prestigio metafisico dovuto all’apparizione di una colomba, che circoscrive l’enigma alludendo allo Spirito Santo, al di là di ogni fondamento dovuto a un punto di vista esplicativo. E ancora, in un altro momento del film, un sacerdote è seduto accanto a una coppia che giace in una locanda, subito dopo lo vediamo dislocato con la stessa postura al di fuori della stanza, e dopo ancora appare nuovamente all’interno, con una replica della prima disposizione, in modo da sovrapporre due circostanze che vengono congiunte nella coscienza, al di là dell’idea di un transito che abbia giustificato questa alternanza, o del principio di una bilocazione miracolosa che oltrepassi i limiti della natura; al che, in analogia con il caso precedente, abbiamo un carattere di incongruenza, per cui qualcosa viene sradicato dalla propria condizione identica. Ciò posto, risulta chiaro come queste istanze contraddittorie, nonostante la mancanza di una forma allegorica, siano suscettibili di suggerire una serie di effetti di senso che sollecitano il pensiero riflettente; ma quest’ultimo deve lasciarsi guidare dall’ambiguità radicale delle circostanze illustrate, operando nei limiti di un rigore di fondo, che non è certo inferiore a quello di una torsione allegorica, e richiede di mantenersi entro le linee di direzione prescritte dal paradosso, afferrando la sua apertura di senso, senza fluttuare o vagare al di fuori di una visione del mondo ben definita.

Ma per illuminare tale visione, può essere utile tenere presente il fatto che nei film dell’autore una variante dei cambiamenti di status è fornita dalla mutazione attraversata da alcuni personaggi nel corso delle loro storie. E sotto tale profilo, possiamo considerare i casi di film come Viridiana (1961), Simon del deserto (Simón del desierto, 1964) ed Estasi di un delitto (Ensayo de un crimen, 1955). Nel primo di questi film la protagonista, a partire dalla sua condizione di benefattrice dei miserabili, finisce per consegnarsi all’imperio erotico di un partner che rappresenta la quintessenza del cinismo e in particolare dell’egoismo sociale; e così, alcuni momenti nei quali l’impresa della donna fallisce, e fanno risalire una turbolenza gravida di minaccia nel corso di un festino allestito dai miserabili, servono a preparare uno sbocco finale, che comunque racchiude un salto di qualità legato all’enigma della persona; e infatti, Buñuel esprime nel modo più radicale e dirompente il fondo contraddittorio del soggetto, in base al quale la sua disponibilità al Male a partire da una immersione nel Bene è forse dovuta alla mancanza di una natura stabile, che è suscettibile di procurare l’epifania sinistra di una specie di cambiamento d’identità; al che, in ultima analisi abbiamo un’identità di fondo più comprensiva e aperta di quella della superficie, che è suscettibile di queste parvenze contraddittorie, a loro volta in grado di esibire i risvolti drammatici più sorprendenti.

Per quanto riguarda poi Simon del deserto, abbiamo una parabola dello stesso genere, ma con la differenza che in questo caso la postazione del Bene è affidata alle risorse enigmatiche e ambigue del misticismo di uno stilita, il quale dopo una serie di tentazioni nel deserto che accompagnano la sua solitudine e lasciano affiorare le stigmate demoniche dell’Eros in agguato, si affida ad un epilogo vertiginosamente dislocato nel mondo contemporaneo, nel quale l’egoismo erotico che trionfa diventa emblema del sopravvento dovuto ad una spinta diabolica, nonché alla risoluzione blasfema dell’istanza mistica, e del suo orizzonte legato al principio della purificazione. E in questo caso, rispetto a Viridiana, possiamo dire che la mutazione presenta i seguenti caratteri: da un lato è predisposta in modo graduale, attraverso una serie di sintomi che attraversano la coscienza del personaggio in modo inquieto e con una cadenza che accumula i propri segnali; da un altro lato, la stessa posizione iniziale del soggetto risulta provvista di un fondamento ambiguo; e infine, gli accenni a tale ambiguità sono legati a una gradazione dei sintomi che conducono dal versante del Bene a quello del Male. Ma si deve osservare come la dominante mistica che investe il personaggio in questione venga esibita con uno spirito che contempla la sua direzione ambigua, da concepire come una sorta di Bene che forse è affetto sin dall’origine dalla istanza del Male, e non ha il carattere di trasparenza che avvolge l’impulso filantropico presente in Viridiana.

E infine, in Estasi di un delitto abbiamo l’itinerario di una conversione di segno opposto. E infatti, in questo caso si procede a partire dall’impulso maniacale rivolto a un crimine erotico che viene avvicinato a più riprese senza essere mai eseguito, e a seguito della confessione del protagonista – che guida peraltro la narrazione degli eventi -, abbiamo la prospettiva di una liberazione dal peso di questa ossessione, dovuta a un congedo con il quale il soggetto si consegna ad una esperienza amorosa che incarna l’unica azione riuscita di tutta la storia; e in questa circostanza, abbiamo l’unica azione nell’accezione compiuta della parola, che si dispone al di là del regime di interruzione e di sospensione fornito dai compimenti mancati. E possiamo dire che in questo film emerga una linea graduale, la quale non è provvista tanto dalla coscienza del personaggio – che si ribalta in modo manifesto ed esclusivo nella sorpresa finale -, quanto dalla fermentazione inconscia con cui i vari tentativi di omicidio che vengono messi in gioco conseguono un esito, il quale ogni volta si allontana in misura maggiore dall’obiettivo, dopo un inizio in cui il crimine viene avvicinato al punto da generare indirettamente la morte accidentale di una vittima. E d’altra parte, in questo film l’impronta vagamente ilare delle situazioni, l’accento paradossale con il quale viene presentato l’impulso omicida – che risulta alleggerito rispetto al peso di ogni rilievo realistico, ed è affidato a un’atmosfera improbabile -, e la nota estremamente leggera della risoluzione finale, introducono il fermento surreale dovuto a un senso di incongruenza, che comunica in termini onirici con le profondità dell’inconscio, senza consegnarsi alla norma di un realismo psicologico, e dei suoi risvolti esplicativi.

B – Alcuni significativi trapassi di ordine radicale sono altresì presenti anche in Bella di giorno (Belle de jour, 1967), le cui scene iniziali rappresentano il movimento di una elegante carrozza inserita in uno scorcio di campagna segnato da linee geometriche che si predispongono quasi ad offrire una fastosa scena teatrale. Il movimento della carrozza è solenne e scandito da uno spostamento lento ed austero che ricrea i fasti del passato nella contemporaneità degli anni Sessanta. Seguendo il suo solenne percorso – un sentiero che taglia l’inquadratura sulla quale scorrono i titoli di testa – la carrozza si avvicina lentamente e lo stesso lembo sonoro che si porta dietro (sonagliere e zoccoli dei cavalli) aumenta mentre il cocchio si avvicina. A cassetta si trovano due eleganti cocchieri e, seduti dietro, come due regnanti o comunque due nobili riecheggianti una Francia dei tempi di prima della Rivoluzione o del periodo della Restaurazione, vi sono Pierre (Jean Sorel) e Séverine (Catherine Deneuve). Successivamente, la carrozza si addentra in un bosco e, mentre essa si muove verso di noi, la stessa macchina da presa sembra correre incontro al veicolo per inquadrare dapprima i due cocchieri in un primo piano per poi focalizzarsi sulla coppia seduta dietro, i due innamorati che si giurano eterno amore. Questo scorcio iniziale, austero e maestoso, davvero non fa presagire quello che succederà fra pochi attimi: Séverine afferrata in modo violento dai cocchieri i quali, agli ordini di Pierre, legheranno la ragazza e, dopo averla fustigata, la violenteranno a turno. L’eleganza iconografica, allontanata in un passato che diviene quasi la reliquia di sé stesso, sfuma in una scena di violenza crudele e barbara: e se i cocchieri non sono quei servitori ineccepibili e fedeli che parevano all’inizio, e se Pierre non è il marito nobile e innamorato, così anche Séverine sta iniziando a volteggiare sul baratro delle proprie inclinazioni che la condurranno a frequentare come prostituta una casa di piacere. L’intera sequenza iniziale trascolora poi in una forma di pensiero di Séverine, che si trova nella sua elegante camera da letto insieme a Pierre. Non era realtà, ma era solo un pensiero ‘rumoroso’ della ragazza, tanto rumoroso che se ne accorgerà lo stesso Pierre il quale le domanda: “A che stai pensando Séverine?”. Viene in mente anche il pensiero rumoroso di Jean (Laurent Terzieff) ne La via lattea, quando il rumore degli spari della fucilazione di un papa, da lui immaginata, si sente anche nell’ambientazione perbenista e piccolo-borghese della recita delle allieve di una scuola cattolica. Se le sequenze relative all’elegante carrozza non rappresentano in realtà ciò che sembrano, concludendosi in una dimensione opposta, è anche vero che da una scena di violenza gratuita e di sadismo si passa ad una, invece, in cui Séverine si trova in una situazione di quiete domestica borghese e pacata. D’altra parte, la stessa conclusione de L’âge d’or (1930) racchiude in sé due opposti apparentemente inconciliabili: scopriamo infatti che Gesù Cristo e il duca de Blangis (il protagonista delle Centoventi giornate di Sodoma del Marchese de Sade) non sono altro che la stessa persona.

Un personaggio che, nel film, possiede un duplice aspetto è Henri Husson, interpretato da Michel Piccoli: elegante e ricco borghese, appare in realtà un erotomane spinto da istinti bassi e triviali. Memorabile è, a questo proposito, la scena in cui egli cerca di baciare Séverine in pubblico all’interno di un esclusivo circolo del tennis. Sarà Henri a scatenare in Séverine il desiderio di addentrarsi nei meandri di un universo estraneo alla sua classe sociale, un limbo oscuro per il quale ella prova contemporaneamente attrazione e repulsione. Nel momento in cui, per la prima volta, la ragazza si reca presso la casa di Madame Anaïs, ricompaiono le linee geometriche già incontrate all’inizio (la strada, i filari di alberi, il movimento della carrozza e la rigidità degli eleganti cocchieri) sotto la forma, adesso, di sfondi urbani, grigi palazzi del centro di Parigi nei cui interstizi si cela il baratro dell’eros. Séverine è completamente incapsulata all’interno dello sfondo di cemento come appare anche intrappolata nelle varie ambientazioni cui la costringono la sua condizione di alto-borghese: nelle strade del centro, nell’abitacolo di un elegante taxi, nelle stanze del suo appartamento lussuoso che si affaccia su un boulevard. Di esso, vediamo dapprima l’esterno, le finestre e la sua altera e antica ridondanza che, chissà, forse verrà violata e dissacrata da una pietra tirata dalla strada durante una rivoluzione ancora di là da venire al momento dell’ambientazione del film, una protesta che si allargherà per le strade della capitale francese nella primavera del 1968. Come ci mostra Bernardo Bertolucci in The Dreamers – I sognatori (The Dreamers, 2003) -, i vetri delle eleganti finestre dei palazzi borghesi, sottile membrana che separa l’interno dall’esterno, verranno facilmente rotti dai segni della protesta, che irrompe perfino negli angoli più intimi e privati.

In Bella di giorno, d’altra parte, lo scivolamento nel contrario è presente anche nelle figure dei frequentatori della casa di appuntamenti di Madame Anaïs: sono tutti eleganti personaggi borghesi, uomini d’affari, professionisti, professori, medici e, incontrandoli per strada, nessuno potrebbe immaginare le perversioni cui si lasciano andare nello spazio intimo e segreto della casa. Quest’ultima si configura come una sorta di “eterotopia”, uno spazio ‘altro’ totalmente separato dal normale contesto quotidiano, secondo una definizione di Michel Foucault. È lo spazio dove avvengono trapassi di ordine radicale che sarebbero altresì sconosciuti per le geometriche vie di Parigi segnate da rigide e fredde architetture. È lo spazio dell’alterità e del contrario che emerge allo scoperto, come nella dimora borghese di Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté, 1974), dove i ricchi proprietari defecano in sala da pranzo; del resto, l’emergenza del trapasso di ordine radicale, in questo film, è presente anche nella partita a poker tra frati o nelle sequenze relative alla scolaresca di gendarmi che si comportano come monelli. Il cinema di Buñuel, utilizzando sistemi di codificazione di matrice surrealista, offre quindi un sovvertimento radicale della norma e della percezione del mondo reale da parte dello spettatore.

Tornando a La via lattea si può pensare come una figura ambigua e portatrice di tale sovvertimento sia il personaggio del demone che compare dopo l’incidente automobilistico, cui assistono i due personaggi diretti a Santiago di Compostella. Nel momento in cui Jean augura la morte al guidatore della elegante Citroën che non si ferma per dargli un passaggio, e dopo che l’auto è sbandata e si è schiantata contro un albero, compare un personaggio demonico che si caratterizza apparentemente come un angelo, vestito di bianco, ma che in realtà si configura come un ambiguo demone infernale. Il personaggio è interpretato da Pierre Clementi, un attore che nel cinema di quegli anni interpreta sovente figure che rimandano ad un’idea di sovvertimento dell’ordine costituito: basti pensare al personaggio di Giacobbe, che possiede un suo inquietante doppio, in Partner (1968) di Bernardo Bertolucci, all’antropofago di Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini o al misterioso messia di I cannibali (1970) di Liliana Cavani. Il personaggio di La via lattea emerge da plumbei lembi infernali e compare nel sedile posteriore dell’auto che corre lungo una linea geometrica, incorniciata dagli alberi, come il percorso effettuato dalla carrozza all’inizio di Bella di giorno. Ma il percorso geometrico e rettilineo cela un sovvertimento inaudito: ciò che è angelico è anche infernale, ciò che appare un limbo d’amore – come la scena in carrozza, iconograficamente perfetta – è in realtà un limbo che prelude all’inferno. Fuori dalla linea geometrica si pongono i due personaggi protagonisti del film: veri sovvertitori, veri picari della modernità che con il loro vagabondaggio, con il loro spostamento nomadico aprono orizzonti di rovesciamenti, di regole rovesciate e di un ordine annientato. Il culmine del loro pellegrinaggio a Santiago non sarà un’adorazione divina ma l’unione con due prostitute, come se il sovvertimento eterotopico della casa di Madame Anaïs si fosse esteso a un intero vacuo orizzonte borghese pronto per essere scardinato e riscritto.

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Cinquanta sfumature di Sade (II) (Nightmare Abbey 17/II) https://www.carmillaonline.com/2021/08/17/cinquanta-sfumature-di-sade-ii-nightmare-abbey-17-ii/ Tue, 17 Aug 2021 20:38:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67720 di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

Lo spazio di una donna speciale

Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, pp. 368, € 24, Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2014.

Claudia Salvatori, L’amica divina, pp. 510, € 15, isenzatregua, Riva del Garda TN 2021.

Dopo la prima parte introduttiva, la ricca, esemplare monografia di Alberto Brodesco (Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Mimesis, 2014) passa ad affrontare nella seconda “Gli spazi del cinema sadiano”, cioè il castello (in particolare Silling, “spazio centripeto che spinge i [...]]]> di Franco Pezzini

(Qui la prima parte)

Lo spazio di una donna speciale

Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, pp. 368, € 24, Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2014.

Claudia Salvatori, L’amica divina, pp. 510, € 15, isenzatregua, Riva del Garda TN 2021.

Dopo la prima parte introduttiva, la ricca, esemplare monografia di Alberto Brodesco (Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Mimesis, 2014) passa ad affrontare nella seconda “Gli spazi del cinema sadiano”, cioè il castello (in particolare Silling, “spazio centripeto che spinge i suoi abitanti, vittime o carnefici, a un’obbligata, totale adesione”), le prigioni (la Bastiglia e altre), il manicomio (Charenton), il teatro, e in ultimo il viaggio (come “insegna Roland Barthes, si viaggia infatti solo per rinchiudersi: il viaggio serve come transizione, come tendina, costituisce il pretesto per spostarsi da una scena all’altra, da un luogo chiuso all’altro”).

Premettendo con A. Le Brun che “Non è una filosofia, né un discorso e ancora meno una scrittura che Sade ha inventato ma uno spazio”, Brodesco conduce la riflessione sugli spazi con lo sguardo a singole opere:

 

La logica romanzesca con cui vengono costruiti gli edifici di Sade è quella dell’organizzazione del racconto, di una tassonomia delle passioni, non quella di una disposizione equilibrata degli spazi. Entrando nei luoghi sadiani viene meno ogni interesse per la verosimiglianza: si abbandona la realtà per avventurarsi nel suo “cuore sepolto”, un mondo oscuro fatto di pietra e di vuoto.

La condizione, il prerequisito perché gli spazi architettonici (o, in seconda battuta, naturali) siano ritenuti confortevoli e ospitali dai signori sadiani è la loro chiusura e inaccessibilità. La sovranità del libertino è basata sull’isolamento. Sade, che lo teorizza, definisce questo stato con un neologismo: “Isolisme”. Tale condizione è ontologica, rappresenta una “tesi filosofica”, il “motto stoico dei libertini”, una “promessa di piacere”, il “nocciolo dell’impolitica sadiana” e della sua “antropologia negativa”. L’isolamento risponde alla situazione esistenziale più autentica per l’uomo sovrano (l’uomo integrale, l’Unico), che ha bisogno di segregare il proprio godimento per portarlo al grado massimo di intensità. Gli spazi geografici e architettonici di cui egli va in cerca sono studiati per assecondare questa esigenza.

Nei romanzi di Sade compaiono così case qualificate come deserte, lontane, impenetrabili, impraticabili, inabbordabili, isolate, ritirate, segrete, separate, solitarie… La geografia è occupata da castelli, fortezze, padiglioni, conventi, monasteri; gabinetti, cripte, celle, cellule, loculi, nicchie, cappelle, camere, ridotti, cantine; isole, sotterranei, buchi… A essi si aggiungono, come spazi per l’intimità, l’alcova, il bordello, il boudoir, il bagno… I luoghi in cui Sade ambienta le sue storie si inseriscono in buona parte nella definizione di istituzioni totali proposta da Erwin Goffman. Tutta la giornata dei protagonisti, tutte le loro attività – lavoro, svago, mangiare, fottere… – si svolgono all’interno di un’unità di spazio che garantisce la continuità del vivere libertino.

 

Nell’ambito delle sue riflessioni sul tema della follia, Michel Foucault sottolinea come la detenzione continua di Sade influisca sulle sue storie, ambientate in gran parte in luoghi da cui non si può fuggire. Nata dall’internamento e nell’internamento, “tutta l’opera di Sade è ispirata dalle immagini della Fortezza, della Cella, del Sotterraneo, del Convento, dell’Isola inaccessibile, che formano così il luogo naturale della sragione. Non è un caso neppure se tutta la letteratura fantastica di follia e d’orrore che è contemporanea all’opera di Sade, si situa nei luoghi dell’internamento”, come corrente più o meno sotterranea presente in tutto il primo gotico. Per Foucault “l’apparizione del sadismo […] come fenomeno storico (e non come tendenza sempre presente nelle manifestazioni dell’eros) coincide precisamente con il momento in cui la sragione viene rinchiusa”. Le fortezze nate per internare, al fine di bloccare il virus della sragione e impedire il contagio della società, escludendo dal vivere sociale di chi ne era colpito, “hanno svolto un ruolo culturale del tutto opposto” perché il “contesto […], come una pentola a pressione, ne alimenta la forza” (legittimo domandarci per inciso, in rapporto a un altro tipo di virus e a lockdown lungamente protratti, quali sviluppi culturali sia lecito attendersi).

 

La nostra filmografia dimostra che ragionare sulla presenza cinematografica di Sade equivale a percorrere i luoghi che la contengono, esplorare gli ambienti invalicabili in cui i film trovano il loro contesto. Gli spazi occupati dai film a tematica sadiana non sono soltanto funzionali al racconto ma mettono a fuoco alcune delle questioni chiave poste dalla figura di Sade nel suo rapporto con il tema dello sguardo e della visione. Per analizzare le pellicole prescelte ci è sembrato quindi utile – più che affrontarle da un punto di vista autoriale, osservando capitolo dopo capitolo come la figura di Sade venga presa in considerazione dai singoli registi – utilizzare le cornici offerte da questi posti. L’accostamento di pellicole diverse accomunate dall’inserimento del racconto nel medesimo spazio permette di circoscrivere le domande affrontate sinora sui temi della riflessività, della mise en abyme, del voyeurismo, della protezione dello sguardo e della sua chiusura.

 

Il tema del castello – topos gotico, luogo chiuso delle Centoventi giornate di Sodoma e vera e propria “macchina ottica”, “gigantesco occhio mentale” tra le cui mura “l’immaginazione più estrema può rimbombare libera” – viene affrontato al filtro di due film diversissimi, il provocatorio L’âge d’or, 1930, di quel Luis Buñuel che costella la propria filmografia di riferimenti a Sade (pensiamo solo al diffuso interesse per il Marchese di surrealisti e relativi fiancheggiatori), e il Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, 1975, contestato da tutto un filone di critica su Sade (sulla base delle riflessioni degli apologeti Bataille, Pauvert e Annie Le Brun) per l’abbinamento – giudicato indebito (contra un altro filone: Queneau, Adorno, Horkheimer, Simone De Beauvoir, Éric Marty) – tra Sade e il fascismo. Entrambi i film susciteranno comunque scandali e censure anche da un fronte assai meno filologico.

Le prigioni sono affrontate guardando, prevalentemente, prima a Marquis di Henri Xhonneux, 1989, cosceneggiato dal geniale Roland Topor: gli attori recitano con maschere animali mosse in animatronics (ma non mancano sequenze di pura animazione in stop-motion, e “il Marchese” prigioniero alla Bastiglia dialoga con il proprio pene che si picca di dargli consigli di stile, e che alla fine si autonomizzerà scendendo surrealmente in piazza coi rivoluzionari assieme a Juliette, una mucca-prostituta). Si passa poi a Sade – Segui l’istinto di Benoît Jacquot, 2000, che riprende e romanza la storia di Sade che sfugge alla ghigliottina, ma dall’internamento è costretto a vedere e sentire gli effluvi delle spaventose fosse comuni dei giustiziati. Si torna però anche alla breve, raggelante apparizione di Sade ne La via lattea di Buñuel, 1969, e ad altri cenni nell’opera del regista a evocare le prigioni psicologiche delle convenzioni borghesi.

 

La successiva sezione riguarda lo spazio del manicomio, a partire dal quell’istituto di Charenton dove si giocano all’epoca di Sade – lì ricoverato dal 1803 al 1814, anno della morte – pagine memorabili nella storia del rapporto con la follia, attraverso l’opera degli illuminati medici Philippe Pinel e Jean-Étienne Dominique Esquirol. Qui i film di riferimento sono il Marat/Sade di Peter Brook, 1966, dalla pièce di Peter Weiss (1964) con tre

 

piani che si stratificano: tre piani di identificazione degli attori in scena: attori che interpretano un attore (alienato) che interpreta un personaggio storico; tre livelli temporali: il presente filmico (1966), quello di Charenton (1808) e quello dell’assassinio di Marat (1793); e tre piani spaziali: i Pinewood Studios dove è girato il film ricreano il bagno del manicomio adattato a teatro, sulla scena del quale viene a sua volta rievocato il bagno di casa Marat

e Sade è al centro, a mediare, tra tutti questi piani; Šilení aka Lunacy, di Jan Švankmajer, 2005, che ibrida alla vicenda sadiana suggestioni di Poe (in particolare da “Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma”), con spezzoni in stop-motion; e Quills, la penna dello scandalo di Philip Kaufman, 2000, con le sue libertà un po’ troppo gridate dalla storia reale, a dispetto di straordinari interpreti.

Lo spazio successivo è quello del teatro, ambito che nella sua opera – benché importante a livello biografico e teorico (“Niente procura al libertino un piacere più grande della teatralizzazione del godimento”) – quanto a valore dei testi viene di solito maltrattato dalla critica. I film che capitalizzano la suggestione del teatro sono, nell’ordine qui proposto, De Sade di Cy Endfield, 1969, sceneggiato dal brillante Richard Matheson, con l’enorme John Huston nei panni dell’abate De Sade e tuttavia, quanto a esito, goffamente romanticheggiante, benché suggestivo per la scelta di portare la vita del Marchese su un palcoscenico; il meno nobile Marquis de Sade di Gwyneth Gibby, 1996, citato di sfuggita; il raffinato Madame de Sade (Markisinnan de Sade o La Marquise de Sade) di Ingmar Bergman, 1992, versione di teatro filmato sulla base del dramma in tre atti scritto da Yukio Mishima (1965), dove il protagonista resta evocato in absentia; Akutoku no sakae di Akio Jissoji, 1988, storia di un regista teatrale chiamato il Marchese (che alla fine, poco originalmente, si presenterà come de Sade), che inscena una versione teatrale di Juliette facendola recitare a una compagnia di criminali; il disturbante Eugénie de Franval di Louis Skorecki, 1975, tratto dall’omonima novella sadiana, girato completamente in una sola stanza d’appartamento, in undici inquadrature.

Infine per il viaggio e il suo citato rapporto col rinchiudersi, il riferimento è al “viaggio nella perversione” di Jesús Franco (il “regista che mostra con maggior insistenza il movimento dei personaggi sadiani” e anzi l’unico che ha realmente valorizzato il tema del viaggio, per esempio quello picaresco di Justine) attraverso una serie di pellicole.

 

Anche per quanto riguarda il palinsesto sadiano i film di Franco sono il frutto di un compromesso: si assiste a continui incroci tra simbolismi ingenui e intuizioni surrealiste, costrizioni di budget e manifestazioni di libertà espressiva, ligi didascalismi e voli pindarici, letture banalizzanti del testo di Sade e lucide illuminazioni interpretative. Gli spunti sadiani vengono utilizzati in modo da poterne trarre il massimo possibile di visibilità, fino a sfondare le porte dell’hardcore. Questo desiderio di visione (e godimento) si scontrerà, nei modi che approfondiremo, con il problema generale dei limiti della rappresentazione e, in seconda battuta, con quello più specifico dei limiti della rappresentazione pornografica. Il cinema sadiano di Franco, pur proponendosi come intrattenimento nutrito di intenzioni giocosamente erotiche (la posizione spettatoriale proposta è certamente di tipo ludico), manifesterà la sua incapacità di mostrare una sessualità sadica davvero gioiosa (come talvolta accade nella scrittura di Sade, ad esempio nella Filosofia nel boudoir) e sarà, volontariamente o meno, costretto a ripiegare, al di là del principio di piacere, in direzione della pulsione di morte.

La selezione dei film ai fini del nostro studio è motivata in base a un ordine di ragioni: l’esplicito adattamento di romanzi o racconti; il riferimento dichiarato a Sade nei titoli di testa; la presenza diegetica di Sade o dei suoi libri. Talvolta, più che un singolo testo, è un gruppo di film a completare e motivare adeguatamente il riferimento a una matrice sadiana.

 

Brodesco fornisce un lungo elenco di titoli franchiani che in questi tre sensi si richiamano a Franco, e poi passa a sintetizzarli in cinque filoni:

 

1) Il filone “Justine”: una ragazza sconta le sfortunate conseguenze della sua innocenza: De Sade’s Justine;

2) Il filone “Eugenie”: il racconto di un incesto tra un padre e una figlia: Eugénie;

3) Il filone “La filosofia nel boudoir”: la storia dell’iniziazione di una ragazza alla perversione: Eugenie… The Story of her Journey into Perversion e Cocktail spécial;

4) Il filone “Bressac”: complotto di famiglia in una casa isolata: Sinfonia erotica e Gemidos de placer;

5) Il filone “Filosofia nel boudoir con Bressac”, che somma i due precedenti: Plaisir à trois e Eugenie, historia de una perversión.

Come abbiamo visto riassumendone brevemente le trame, rimane tuttavia una certa sovrapposizione tra i cinque filoni. L’unico adattamento vero e proprio è infatti De Sade’s Justine, mentre gli altri sembrano piuttosto comporre un mélange o puzzle sadiano: diversi frammenti estratti dai romanzi (circostanze, nomi, percorsi…) vengono incollati insieme per fabbricare non tanto una narrazione, ma un collage visivo di spunti narrativi.

 

Il punto di partenza è ovviamente Marquis De Sade’s Justine, 1969, versione carnevalizzata o decaffeinata – così qualcuno si è espresso – del romanzo sadiano. “Ma l’atteggiamento parodico e in parte iconoclasta con cui Franco tratta il suo autore preferito è sicuramente volontario. Franco testimonia di esser stato costretto a ‘modificare tutta la storia e convertirla in una specie di Walt Disney’ da una serie di circostanze produttive, in particolare dall’imposizione dell’attrice protagonista” Romina Power. La cui recitazione fastidiosamente ingenua, tuttavia (si può concordare con Brodesco) calza perfettamente al profilo al personaggio. Mentre molto adatto e convincente è Klaus Kinski nel ruolo di Sade, incarcerato e ossesso dai suoi fantasmi che spurgano in tutto il film.

 

Il tristissimo Eugénie (in Italia, De Sade 2000), 1970-1973, che riprende spunti da L’occhio che uccide (Michael Powell, 1960) e da Lolita (Stanley Kubrick, 1962), brilla di luce livida per la presenza, nel ruolo della giovane eponima in rapporto incestuoso col padre (Paul Müller), di una malinconica e bellissima Soledad Miranda, che l’uomo coinvolge in una serie di omicidi. Brodesco prende poi in esame altri titoli della produzione franchiana, notando come anche il disinvolto regista abbia dovuto ammettere un’impossibilità a portare fedelmente sullo schermo i connotati estremi di Sade. Ciononostante il peso degli scritti del Marchese e soprattutto i relativi temi per l’horrotica del regista spagnolo restano fondamentali.

 

La pornografia possiede una sua grammatica per rendere eccitanti le riprese del sesso. Franco non la rispetta e si trova quindi costretto di volta in volta a improvvisare, a seguire la velocità dell’istinto, a fronteggiare, in un letterale corpo a corpo, la difficoltà a riprodurre cinematograficamente il desiderio.

Questa incapacità di fermare il desiderio è tanto teorica quanto pratica. Per tentare di tamponare l’insoddisfazione di chi guarda, la strategia che Franco mette in campo si basa su quattro elementi (che riprendiamo da Du Mesnildot): spostamento, descrizione, voyeurismo, passività […]

 

con l’uso dello zoom come “erezione visiva tesa verso il sesso femminile”, ma con un mix di “attrazione artistica e panico psicologico” (come lo definisce Carlos Aguilar), sorta di “reazione ai limiti del rappresentabile”. “Dopo migliaia di inquadrature dirette, il sesso femminile rimane dunque la Medusa castrante teorizzata da Freud”, e nei film di Franco troviamo spesso donne assassine o castranti. La filmografia a fine volume completa analiticamente la ricca panoramica.

La terza parte dell’opera, “Il cinema sadiano e la mediasfera contemporanea”, si sviluppa dal caso di scuola della presenza di Salò su YouTube – film intero ma anche spezzoni, video sul tema e videorecensioni, spesso molto banalizzanti, e commenti del pubblico – per passare al rapporto tra panorama audiovisivo contemporaneo e riflessi teorici del cinema sadiano (rapporti tra pornografia e tortura, sorveglianza e voyeurismo, eccetera).

 

L’odierna ipesessualizzazione del corpo violato fa […] affiorare alla superficie della mediasfera alcuni dettagli (e solo alcuni) della sovranità sadiana [nel senso: “Se fa del male agli altri, che voluttà! Se gli altri gli fanno del male, che godimento!”]. Mario Perniola ritrova degli elementi dell’attualità di Sade nel “delighful horror”, nell’armonizzazione di polarità opposte quali piacere e dolore, desiderio e paura, sublime e abietto. La vera ombra sadiana sul panorama contemporaneo si estenderebbe così non tanto in relazione a ciò che viene definito “sadismo”, ovvero “il piacere di vedere soffrire gli altri”, quanto nei territori audiovisivi dove vige la “ricerca di una certa sensualità nell’atto di violenza”.

[…] Se Luis Buñuel (insieme alla maggioranza dei cineasti che lavorano su Sade) sfrutta il potenziale trasgressivo e liberante di Sade, Pasolini ricopia le parole scritte nelle 120 giornate sopra i rotocalchi di attualità per dimostrare che un incubo è divenuto realtà, che la fantasia romanzesca corrisponde alla frenetica disponibilità (di corpi, di merci, di corpi mercificati) off erta dalla società dei consumi.

La concentrazione riflessiva, lo sforzo di immaginazione, l’immersione nella materialità dei corpi, il confronto con l’osceno cui costringe la figura di Sade svolge dunque la funzione, più che di una cartina di tornasole, di una galleria degli echi, che non può far altro che restituire amplificato ogni personale interrogativo e tormento.

 

Le Conclusioni (prima di filmografia e bibliografia) vertono insomma sullo stallo della rappresentazione e sull’insemplificabile problematicità dei riferimenti a Sade.

Il testo di Brodesco offre, insieme a un’estrema ricchezza di analisi, una griglia di riflessioni preziose. E di estremo rilievo pare il suo discorso sullo spazio e gli spazi, cui merita tornare:

 

Lo spazio per lo sguardo si spalanca nel momento stesso della sua interdizione. Il luogo chiuso sadiano eccita il voyeurismo del lettore e poi dello spettatore attraverso le pratiche di infrazione della segretezza che il testo gli offre. Il film lo invita a sentirsi parte di un scena (un retroscena) che non dovrebbe essere a disposizione del suo sguardo. La sua visione diviene quella di chi ha accesso a uno spazio proibito. Basta questo a stabilire una complicità su cui lo spettatore sarà costretto a interrogarsi, anche per motivo della struttura riflessiva di molti dei film a tematica sadiana. Alcuni registi vorranno ribadire questa complicità, assecondarla; altri denunciarla; altri porla in tutta la sua crudezza davanti ai nostri occhi. Sono ragionamenti che, in ogni caso, ci portano sempre a fermarci sulla soglia della visione, indecisi tra il dentro e il fuori, il guardare e il non guardare.

E sugli spazi sadiani merita meditare leggendo un recente, affascinante romanzo di Claudia Salvatori, L’amica divina (isenzatregua, 2021 – volume molto elegante anche come oggetto, grafica e carta). Tra narrazione e palcoscenico (ai capitoli sono alternati flashback in chiave teatrale) vengono qui narrati gli ultimi trentadue giorni “di libertà (e forse di felicità)” di Sade – appena evaso una prima volta –, prima del lungo internamento tra carcere e manicomio. È il 1778, siamo a La Coste in Provenza al castello dei Sade. Donatien ha trentasette anni (“ma ne dimostrava ventisette, o meno ancora”), un burrascoso passato e un rapporto complesso con la potentissima e dispotica famiglia della moglie: e la storia riguarda il suo dialogo, che diventa rapporto sempre più profondo ed esclusivo, con Milli, cioè Marie-Dorothée de Rousset (1744-1784), “amica d’infanzia colta e letterata, forse il più importante fra i suoi amori giovanili, la sola donna capace di mantenersi rispetto a lui su un piano di parità, oltre a essergli complementare nel destino personale di libertà e solitudine” (così l’autrice, nella Nota introduttiva). Di Donatien, Milli diverrà insostituibile confidente e amante, in un rapporto non privo di tensioni e scambi anche durissimi ma di straordinaria ricchezza umana. “Quello che avviene fra loro è in parte dedotto dalla loro corrispondenza posteriore e in parte frutto della mia immaginazione”, con qualche licenza rispetto alla ricostruzione storica più diffusa che vede il rapporto tra Milli e Donatien come puramente platonico. Scrive l’autrice:

 

Questo romanzo può essere letto come un esempio del mio metodo di lavoro. Commissionato come romance erotico, non ha poi trovato la strada per le librerie: ma non è questo l’importante.

Come in ogni lavoro commissionato, sono intervenuta a modo mio, innestando altri stili e contenuti. Ho intercalato la narrazione di una serie cronologica di giornate a intermezzi teatrali che orecchiano quelli messi in scena da Sade giovane nel suo castello di La Coste. Così, del romance, il libro non conserva più che una goccia di profumo.

Benché l’approccio sia quello del romanzo erotico (o meglio storico-erotico, sulla base di lunghe letture dei romanzi e della saggistica sul Marchese, cui Salvatori dedica anche lo splendido saggio finale “Questa donna unica nel suo genere: la Juliette di Sade”), L’amica divina offre del protagonista un ritratto ampio, profondo e complesso, in nulla cedendo alle banalizzazioni della vulgata. Circondato da donne – la moglie Renée-Pélagie, l’ingombrante suocera Presidentessa di Montreuil, la seducente cognata canonichessa Anne-Prospère de Launay, inservienti come la fedele e procace Gothon, per non parlare di tutte le donne della sua infanzia – Donatien non ha mai incontrato una interlocutrice come Milli: più giovane di lui e non appartenente all’aristocrazia, ma come lui profondamente appassionata di scrittura, colta e di scintillante intelligenza, combattiva e non scevra da impennate d’orgoglio, comprensiva per perspicacia e non per buonismo, dotata di un senso etico ma non moralista e pronta ad affrontare esperienze che altre rifiuterebbero, razionale ma capace di seguirlo nei suoi mondi fantastici, dotata all’occorrenza di un buon approccio pratico…

Lui ha capito quanto lei sia stata ferita e umiliata nell’infanzia:

 

“È stata vostra madre a soffocarvi? Ha preferito gli altri suoi figli? Vi ha trattato come il cucciolo malriuscito del suo ventre? Ci sono molti modi per uccidere qualcuno. L’ho visto fare infinite volte. Una coppa di veleno offerta amorevolmente. ‘Bellezza e grazia vengono dalla natura. Se una donna non le possiede conviene mille volte che si faccia amare coltivando modestia, dolcezza e virtù’. Mia moglie è stata distrutta in questo modo da sua madre […] Non vi hanno battuta con le verghe o mutilata, ma è come se l’avessero fatto. Con le frasi congegnate per marchiare a fuoco una creatura. Le frasi più innocue che contengono gli insulti più atroci. Hanno ritorto tutte le vostre qualità contro di voi, come strumenti di punizione. […] E siccome pensate e leggete, e minacciate la volgare stupidità dei borghesi del vostro villaggio, siete diventata un’eccentrica da additarsi per strada.”

“Una preziosa ridicola. Una strampalata un po’ tocca. È questo che dicono di me”.

“E voi lo avete creduto”. Il marchese le passò una mano sul volto. Non una carezza, ma come se volesse toglierle una maschera.

[…] Milli sarebbe caduta in ginocchio per ringraziarlo a mani giunte. Una lacrima scese sulla sua guancia. Lui la raccolse.

“Come potete conoscere tutto questo?” gli chiese.

 

Per quanto più giovane e disposta al ruolo di discepola e collaboratrice nell’attività di scrittura, di depositaria dei ricordi, pensieri e sentimenti di lui (“So bene che non si possono raccontare certe cose alle donne allevate in buone famiglie, ma voi siete filosofa, Sapete sopportare la verità”), Milli non è prona alla volontà dell’interlocutore e gli tiene testa intellettualmente e caratterialmente. Donatien è bizzoso e sa essere irritante e inopportuno nel parlare, ma insieme è umanissimo e sensibile: cresciuto senza l’amore dei genitori, tormentato da problemi fisici che gli rendono penoso l’amplesso, fondamentalmente non capito dagli altri che gli ruotano intorno (a parte qualche valletto suo partner sessuale, di relativa cultura e buon senso), si trova demonizzato da tutto un mondo circostante che in lui cerca il lupo mannaro come cattivo esempio da colpire. Amareggiato dalla lontananza di un suo grande amore italiano, il bel medico Giuseppe Iberti di Roma – finito in carcere a Castel Sant’Angelo per aver copiato per Donatien documenti su casi torbidi dell’Inquisizione –, Sade è anzitutto stupito dalla personalità di Milli e dal tipo di rapporto che si evolve tra loro: “la Sainte” – come la chiama lui – non solo gli risponde a tono, ma prende a inseguirlo con tenacia e devozione (che diventano amore) fin negli inferni della sua interiorità. Così Donatien:

 

“Ho visto il ritratto che mi state facendo; lo avete lasciato in vista nel salone. Non si dipingono ritratti così, se non si ama molto qualcuno. Si vede dal fatto che nelle linee, in tutto quello che esprime, ci sono io ma ci siete soprattutto voi. È la vostra immagine nella mia. Non so esprimerlo bene… e di solito non sono le parole a mancarmi.”

 

[…]

 

“Di tutte le bestie umane di sesso femminile che scrivono fra i due poli, voi siete quella che scrive più divinamente, la più intelligente e la più amabile. Vorrei gridarlo ai quattro venti”.

La fece volteggiare, e lei si mise a ridere per il sollievo e la gioia. La vertigine le procurò una leggera nausea.

Lui si fermò, sedendosi sulla panchina ma tenendola sulle ginocchia.

“Spezzerò le mie lance per voi” disse.

“Come un cavaliere per la sua dama?”

“No, come Don Chisciotte per Dulcinea”.

Milli fece una smorfia di finta desolazione.

“Dulcinea!”

“Oggi è di moda così, tesoro. Le donne girano con una padella e gli uomini con piccoli mulini a vento sui cappelli”.

Risero di nuovo, e lei gli circondò il collo con le braccia.

Caro signor de Sade, delizia del mio intelletto, scrivete come un angelo. Sono vostra. Farò tutto quello che vorrete.

Stava per dirglielo, ma fu lui a dirlo per primo.

“Solo per il modo in cui avete riempito voluttuosamente quelle pagine, potete chiedermi tutto quello che volete”.

“Ma io voglio…”

“…sì?”

“Voglio rimanere qui sulle vostre ginocchia, con le braccia intorno a voi, e sussurrarvi nell’orecchio dolci parole, sperando che non facciate il sordo, e farvi comprendere che la mia anima può espandersi all’infinito e desidera che la vostra si espanda nella mia”.

“Non so se ho un’anima, ma quale che sia fatela pure espandere nella vostra, se accettate il rischio”.

 

[…]

 

“Dov’eri in tutti questi anni, Milli?”

“Sono sempre stata qui. Ma c’era troppa gente che voleva divertirsi con te”.

 

[…]

 

“Io non potrò mai lasciarti, perché sono te”.

Il marchese scosse la testa. Volubilmente, scoppiò a ridere.

“Tu sei me? Impossibile. Io sono unico”.

“Unico? E come giustificheresti una simile pretesa?”

“Si è unici facendo cose che non fa nessun altro”.

Sì, signor del Sade, hai ragione a crederti unico. Non ci sei che tu al mondo, a non volere che la tua amante ti dica: ‘sono te’. Io vorrei che tu lo dicessi a me cento, mille volte al giorno.

 

[…]

 

La solitudine e la convivenza avevano fatto crescere quello che già esisteva fra loro, e non era accaduto che quello che doveva accadere. Si erano cercati, studiati, esplorati da sempre, e il fuoco aveva acceso la miccia. […] Le aveva aperto la mente, oltre alle vie del piacere.

 

Il risultato è un rapporto esclusivo, profondo, passionale, fondato certo su una complessa alchimia iniziale, su una dialettica anche vivace, ma tale da spiazzare e coinvolgere il grande Spiazzatore: un rapporto da cui entrambi usciranno più profondi, imparando la fiducia reciproca e con il sapore di qualcosa che assomiglia maggiormente alla felicità – fino a tentare, stavolta nel modo più ordinario, di avere un figlio assieme. Senza troppa convinzione (da parte di lui) e comunque troppo tardi, perché i fatti stanno già precipitando.

La scrittura dell’autrice è come sempre di grande eleganza, i personaggi sono trattati con intelligenza e sottigliezza. Ovvio, il testo è molto esplicito, la sessualità in scena anche molto cruda – per un pubblico adulto, si legge nelle indicazioni di vendita –, le finestre sui lati in ombra della personalità di Sade debitamente dischiuse (come sulle sue camere segrete, dal contenuto non esattamente tranquillizzante): il Marchese non è ancora l’abbrutito autore delle 120 giornate di Sodoma e di altri scritti debitori della lunga carcerazione, ma come ovvio la storia d’amore in scena presenta alcune peculiarità legate al protagonista, le sue oscenità e “pratiche rivoltanti”, l’ombra di altre donne e la presenza sessuale dei valletti. Che però non escludono, tra scontri verbali e idilli, la vertigine di una relazione unica e di una speciale tenerezza con l’amica divina protagonista.

Tutto verrà interrotto da una brutale manovra di polizia dell’ispettore Marais, volto bigotto e invidioso di un Ordine i cui connotati purtroppo conosciamo: per Sade inizia una lunghissima carcerazione, undici anni tra Vincennes e la Bastiglia, interrotti da altri undici anni arruolato e poi di nuovo imprigionato dalla rivoluzione (e rischia la ghigliottina per il suo moderatismo, rifiutando come giudice di avallare condanne a morte – chi lo giudica un mostro dovrebbe ricordarlo), quindi gli ultimi tredici internato a Charenton. Milli, che ha fatto tutto il possibile per lui, è morta di tisi ad appena quarant’anni, senza rivederlo. Chi vada a La Coste (oggi Lacoste, occitano La Còsta), a visitare i ruderi del castello tra cui sorge una suggestiva statua di Sade – due braccia conserte unite da un pilone a una testa imparruccata, chiusa in una gabbia – dedichi a Milli un pensiero.

 

Affascinante, nel romanzo, anche e specificamente il rapporto con la dimensione degli spazi di cui parlava Brodesco: il castello a tratti claustrofobico (La Coste ispirerà Silling), la prigione da cui Donatien è evaso e che incombe – come il manicomio – sul suo futuro, il teatro che permette di rileggere il suo passato.

Che Milli e Donatien fossero legati da un rapporto sessuale o invece soltanto platonico ai nostri fini importa poco. Esistono affetti, saldati in contesti diversi, che per profondità sappiamo saranno per sempre: come fu il loro, poi tragicamente separati da distanze e muraglie. Per quanto amiamo le parole, pretendere di uniformare con un nome di specie questo tipo di legami, quasi Linneo tassonomizzasse anche lì, è spesso abbastanza inutile. L’autrice ne offre una lettura romanzesca – o, se si preferisce, mitica, nel senso di portare a galla in modo emblematico e paradigmatico i nodi di un rapporto d’amore – che tuttavia non perderebbe valore a una diversa lettura dei fatti. Quel dialogo intensissimo ci fu, e molto dello scambio epistolare torna qui sceneggiato negli scambi tra i personaggi. Riporta sempre l’autrice:

 

Mi piacerebbe che dalla mia storia trasparissero gli elementi meno riconoscibili dell’anima sadiana, opposti alla cupezza e pesantezza che gli attribuiscono i suoi scandalizzati detrattori: l’umorismo, il profondo senso di giustizia, la verità, e quella specie di magia che percorre tutta la sua scrittura, da qualunque parte la si legga.

E mi piacerebbe che le mie parole, pur narrando di grandi sfortune e sofferenze, avessero il brio festoso di una musica d’epoca.

 

Obiettivi che la qualità di scrittura di Claudia Salvatori ha senz’altro permesso di raggiungere.

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Cinquanta sfumature di Sade (I) (Nightmare Abbey 17/I) https://www.carmillaonline.com/2021/08/10/cinquanta-sfumature-di-sade-i-nightmare-abbey-17-i/ Tue, 10 Aug 2021 20:49:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67546 di Franco Pezzini

Lettori, ancora uno sforzo se volete essere sadiani

Paolo Bellini, Lorenzo Rustighi, Erasmo Silvio Storace, Il potere sadico. Politica e nichilismo in D.A.F. de Sade, a cura di Erasmo Silvio Storace, pp. 100, € 12, Meltemi, Milano 2017.

Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, pp. 368, € 24, Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2014.

Passato da qualche anno il bicentenario della morte (2 dicembre 1814), Donatien Alphonse François de Sade (1740-1814) continua a conoscere rievocazioni e chiamate in causa: magari abusive, in quest’epoca [...]]]> di Franco Pezzini

Lettori, ancora uno sforzo se volete essere sadiani

Paolo Bellini, Lorenzo Rustighi, Erasmo Silvio Storace, Il potere sadico. Politica e nichilismo in D.A.F. de Sade, a cura di Erasmo Silvio Storace, pp. 100, € 12, Meltemi, Milano 2017.

Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, pp. 368, € 24, Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2014.

Passato da qualche anno il bicentenario della morte (2 dicembre 1814), Donatien Alphonse François de Sade (1740-1814) continua a conoscere rievocazioni e chiamate in causa: magari abusive, in quest’epoca di cinquanta sfumature di manette & catene su YouTube, dove di lui tripudiano di solito gli aspetti più grotteschi e superficiali. Nei fatti Sade si presenta sulla piazza culturale tra Sette e Ottocento con un ruolo di agitatore un po’ simile a quello di un libertino ben diverso, Aleister Crowley, tra Otto e Novecento: entrambi impresentabili, entrambi coi piedi ben saldi nei sogni e negli incubi del proprio tempo, entrambi necessari per capire correnti significative del mondo estremo in cui viviamo oggi, in chiave anche (non solo) pop. Insediato idealmente come ai limiti sfuggenti del campo visivo rispetto a una serie di insospettabili della letteratura (Dumas e Le Fanu, solo per fare due esempi) – in quella posizione cioè dove il lettore può non vederlo affatto, ma chi cerchi lo trova senza fatica – Sade non può che tornare di continuo in un mondo come il nostro: una sorta di anima inquieta, di spettro infestante le forme dei desideri del nuovo millennio, assai più presente di quei Cenobiti/Supplizianti di Clive Barker che pure gli devono parecchio, perché infinitamente più complesso e dunque pervasivo per molti rivoli.

Merita allora dar conto di alcuni recenti testi d’interesse che lo riguardano: a partire da due studi saggistici. Il primo, una breve raccolta, lo firmano da coautori Paolo Bellini, Lorenzo Rustighi, Erasmo Silvio Storace (anche curatore), col titolo Il potere sadico. Politica e nichilismo in D.A.F. de Sade, per Meltemi, 2017. Dove il contributo di Bellini che costituisce il primo capitolo, “L’utopia politica sadiana tra nichilismo e relativismo”, prende di petto il senso dell’opera Francesi ancora uno sforzo se volete essere repubblicani, contenuta all’interno del terribile dialogo sadiano La filosofia nel boudoir (1795) a riprendere i temi degli Opuscoli politici (1790-1799). L’autore non prende in esame le diverse interpretazioni critiche sul senso di questo problematico testo, scegliendo di assumerlo nella sua letteralità:

 

[…] la strategia concettuale seguita dall’autore consiste nel delegittimare la morale tradizionale, ereditata dalla cultura cristiana, introducendo al posto di Dio e di qualsiasi realtà trascendente, una concezione secondo la quale il cosmo intero consisterebbe in un perpetuo movimento, la cui arida meccanica legittima ogni piacere e ogni violenza.

Tutto questo, infatti, sarebbe coerente con il principio per cui ogni cosa è destinata alla decomposizione e a un’incessante trasformazione, sicché l’opera distruttiva del libertino lo renderebbe sostanzialmente prossimo alla vera essenza del reale. Quindi la società ideale, immaginata dall’autore, non è nient’altro che un gigantesco mattatoio, dove ogni essere vivente è sostanzialmente sottoposto all’arbitrio di coloro che hanno scoperto il segreto della vita e della natura, consistente nell’abusare degli altri e nell’annichilire ogni cosa.

 

La distopia sadiana, dunque, come inferno sulla terra in cui ogni uomo è radicalmente separato dall’altro, potenziali persecutori e nemici a vicenda.

 

Poco importa, in tal senso, che l’autore si proponga, di fatto, di superare la dicotomia tra bene e male, appellandosi a una natura intesa in senso puramente materialistico come movimento costante di distruzione e creazione in se stesso compiuto. Per il lettore dotato di un minimo di buon senso un tale ordine sociale, dominato dall’arbitrio e dalla licenza più sfrenata, è un vero e proprio incubo senza alcuna via d’uscita. Ciò che sostanzialmente viene del tutto meno, in questa breve fondazione teorica dell’immoralità come modo di esistere, è il senso del limite, sicché ogni possibile confine tra ciò che è lecito, morale, etico e ciò che non lo è, viene sostanzialmente cancellato. Si palesa, così, un insopprimibile desiderio di legittimare a ogni costo pratiche e atteggiamenti mentali abnormi, mostruosi e incontenibili, anche manipolando e decontestualizzando dati storici e antropologici di ogni genere, in modo da indurre il lettore a considerare l’eccezione come norma.

 

Si tratta in fondo di un esito ultimo ed estremizzato della riflessione libertina. Sembra di cogliere peraltro nel tono di Bellini la tensione polemica a un possibile contraddittorio (“Per il lettore dotato di un minimo di buon senso”, eccetera, probabilmente in polemica con gli entusiasti del Marchese) ed è indubbio che, a voler assumere quello di Sade come un sistema, l’insieme risulti abbastanza raggelante. Per Sade, sintetizza Bellini, non esiste alcuna forma di “sacro”, neppure nelle accezioni più laiche: l’assoluto è un ordine empirico del reale. Come istanze dell’entropia, i Lumi della ragione indicherebbero anzi vizio e crimine a connotare le relazioni umane, a fondamento di un nuovo sistema di valori sul piano etico, ma anche conseguentemente su quello politico. Ragione ed emozioni, in tale visione, sarebbero mosse essenzialmente da un istinto di distruzione: e la prima, legittimando le azioni più turpi, svelerebbe anche i propri limiti.

 

[…] in questa apologia del male vi è qualcosa di innegabilmente affascinante per il lettore post-moderno, che vi può trovare interessanti spunti di riflessione per un ripensamento critico della propria civiltà. In fondo Sade auspica un mondo dominato da una logica del piacere in cui il godimento maggiore e il miglior ordine civile consistono in un consumo ossessivo e totalizzante, che assume prevalentemente la forma dell’annientamento dell’altro e della sua dignità spirituale. Cosa, infatti, accade in una società di tal genere? Non avendo nessun altro narcotico di cui cibarsi per sfuggire al desolante spettacolo di una realtà dominata solo da un ordine naturale il cui fine ultimo è l’annichilimento di sé e degli esseri che lo popolano, il cittadino di Sade può soddisfare le proprie ansie e la propria desolante solitudine solo abusando dei suoi simili. Così, condannando perpetuamente ciascuno a un potenziale stato di assoggettamento al più forte, la mente può distogliere se stessa dal nulla cui sembra destinata dopo la morte. In un tale stato di insicurezza e di perenne sopraffazione, non resta quindi che l’ottundimento di ogni capacità di giudizio, attraverso un godimento mostruoso che non lascia spazio a nient’altro.

È questo il lato oscuro di ogni materialismo assoluto e totalizzante che, negando ogni dignità possibile a ciò che non ha densità empirica, si trova a dover gestire una realtà priva di senso, votata a un’esistenza così vana da avere come unico scopo solo la propria fine. Purtroppo questa è, per alcuni aspetti, la situazione in cui si trova la civiltà dei consumi di massa che, alla violenza come forma estrema di narcotizzazione (individuale e collettiva) e di ricerca del piacere, sostituisce il consumo come modo di costruzione di senso e di interpretazione di una realtà intesa in senso decisamente materialistico.

È proprio una vera meditazione sull’oscuro abisso che è racchiuso nel cuore di ogni essere pensante e cosciente di sé che viene stimolata dalla lettura di un’opera di tal genere. Essa, per questo suo aspetto, è profondamente attuale, in un mondo dove gli atti di violenza estrema e insensata si moltiplicano senza sosta e dove è molto faticoso insegnare alle nuove generazioni il senso del limite e della responsabilità individuale. In fondo la convivenza civile tipica del XXI secolo si regge su un equilibrio sottile tra pulsioni creative e atteggiamenti distruttivi, dettati dall’ansia per il proprio futuro e da un sostanziale spaesamento causato dalla complessità e la multiformità di questa civiltà globalizzata, in cui usi e costumi assai eterogenei entrano in contatto reciproco e spesso, inevitabilmente, confliggono tra loro. Da qui la tentazione, che si manifesta con una certa frequenza all’interno della civiltà occidentale, di adottare un relativismo culturale così radicale da legittimare in fondo qualsiasi atteggiamento etico e morale, in nome di un malinteso e presunto rispetto delle altre culture, che si traduce in una sostanziale resa del pensiero anche a ciò che sembra del tutto riprovevole e ripugnante. D’altronde lo stesso Sade, per quanto in modo sommario e del tutto improprio, si riferisce costantemente a dati di tipo antropologico, storico ed etnografico che hanno il fine di facilitare l’accettazione di bassezze, volgarità e depravazioni di ogni genere. In un senso legato, quindi, quasi esclusivamente alla strategia argomentativa, piuttosto che ai contenuti, la cui mostruosità del tutto iperbolica ne induce un assoluto e totale rifiuto, è possibile tuttavia tracciare un interessante parallelismo.

La civiltà occidentale post-coloniale divorata, infatti, da uno strano senso di colpa verso le altre culture, pur ovviamente evitando di legittimare in alcun modo le mostruosità pensate da Sade, sembra a volte scivolare pericolosamente lungo la china di un relativismo altrettanto semplicistico, dove sembra quasi che atteggiamenti e valori assolutamente riprovevoli, possano essere considerati legittimi e tollerati, se praticati all’interno di altre culture e civiltà. È proprio questo l’errore del relativismo più radicale, e lo stesso che Sade commette spesso in questo scritto, ovvero quello di promuovere un’usanza decontestualizzandola e arrivando ad ammetterla all’interno della propria cultura come se fosse perfettamente compatibile con il proprio stile di vita.

 

Di qui l’invito a ripensare il testo sadiano come un caveat sui rischi corsi da una “società liberale”, tale da spingere a leggere le relative pagine “con un misto di rabbia e inquietudine per il futuro della civiltà post-moderna”. Non entriamo in questa sede nel tema dello “strano senso di colpa verso le altre culture” (magari quelle brutalmente soffocate dal colonialismo occidentale?), in quelli degli orrori concretamente perpetrati da una “società liberale” senza scomodare Sade, o, nelle riflessioni successive allo stralcio riportato, nel tema dei “valori non negoziabili […] non necessariamente […] pensati in quanto assoluti” (e da considerare “piuttosto […] come parti irrinunciabili della propria identità culturale, la cui difesa permettere di garantire il benessere e la felicità del maggior numero possibile di individui”): si tratta di punti su cui una dialettica anche vivace porterebbe troppo distante dalla presente recensione. Non è in questione il carattere ulcerante delle riflessioni del pamphlet, il tipo di forzature retoriche cui Sade ricorre o la pericolosità dell’assunzione di certe tesi; e si può capire la sottesa polemica del critico contro chi beatifichi semplicisticamente il filosofo libertino. Il dubbio semmai, per il lettore, è se davvero il pamphlet si esaurisca in una tanto radicale e sterile apoteosi del Male – ma i successivi due contributi del volume arricchiranno notevolmente il quadro interpretativo – o se la riflessione sadiana non suoni anzitutto provocazione intellettuale, come interpreta un certo filone critico: e tanto più in un contesto dove chi si beava di idee tanto più morali l’aveva ingabbiato per un’insopportabile vita di quasi continua prigionia. Aggiungiamo che la prassi del Marchese, al di là di alcuni episodi molto strombazzati (ma ridicoli a fronte di ciò che perpetrava la cattolicissima nobiltà francese persino a corte, o agli eccidi in nome della virtù rivoluzionaria nel periodo successivo), non rispecchia affatto le terribilissime idee da lui fantasticate in gran parte nella sua solitudine prigioniera – dove è difficile immaginare quale cortocircuito interiore avremmo conosciuto noi stessi. Senza canonizzare fuori luogo l’uomo Sade, possiamo ricordare il suo senso personale di giustizia attestato dalla documentazione storica, la sua attenzione – assistenzialistica, sia pure – ai disagiati della regione, e per contro l’uso convulso del paradosso nella scrittura utopica/distopica del Settecento; come anche il clima spregevole e ipocrita della sua famiglia di provenienza, con genitori pessimi e un losco zio abate, che certo non poteva ben disporre il rampollo verso i “valori” più tradizionali. E tutto ciò senza entrare nel merito di ciò che la vecchia scuola considererebbe tout court l’orizzonte delle parafilie di Sade, o comunque un quadro patologico a monte della sua scrittura, mentre oggi andiamo più cauti: e resta molto difficile trarre un quadro clinico convincente dalla pur ricca documentazione su di lui.

Quanto dunque dobbiamo considerare un certo filosofeggiare come effettiva teoria, e quanto come sofismi rabbiosi, provocazione letteraria dissacrante saettata alla Francia che al tempo della redazione l’ha scarcerato da poco (e magari buttata in faccia a indignati critici della posterità)? Con quel quid di eros nero che oggi il fruitore medio di un certo tipo di fantasie soddisfa davanti a un film: non bello, d’accordo, ma sorta di sfiato sociale comunque incompatibile con un ordine d’epoca che pretendeva di controllare poliziottescamente le anime o la ragione (salvo condannare al rogo i sodomiti). Evocare la concretezza dei lager – che hanno tutt’altra genesi filosofica e realtà storica alla base – come sorta di concretizzazione delle fantasie sadiane non ci aiuta a entrare nel labirinto delle intenzioni dell’autore in rapporto al pamphlet in questione.

Qualche chiave più problematica la offre il secondo capitolo/contributo, un saggio molto interessante, convincente e articolato a firma di Lorenzo Rustighi, “Justine contro Juliette, o del discorso del sovrano: i limiti della rappresentazione in Sade”, e sviluppa le implicazioni della lettura di Sade proposte da Michel Foucault in Le parole e le cose.

 

L’idea foucaultiana è che in Sade assisteremmo, ad un tempo, tanto all’apogeo quanto al definitivo sgretolarsi di ciò che chiama episteme classica, prodottasi sul finire del secolo XVI e fondata sul primato gnoseologico e ontologico della rappresentazione. Sade sarebbe l’ultima vera testimonianza di una teoria della conoscenza radicata nel potere rappresentativo dell’intelletto, di cui sperimenterebbe le estreme possibilità. In un certo senso, forse, si potrebbe perfino dire che l’interesse sadiano per quanto v’è di estremo nell’esperienza umana abbia a che fare proprio con questo suo sostare sui confini di un modo storicamente determinato della sua comprensione – Kant gli farà da specchio alla fine del XVIII secolo, sul limitare di ciò che Foucault chiama modernità. Maturità e crisi del linguaggio classico farebbero così per il marchese una cosa sola […].

 

Come prisma d’analisi, Rustighi sceglie la categoria di souffrance, la sofferenza, tra gli oggetti privilegiati delle rappresentazioni di Sade. Alla luce dell’interpretazione foucaultiana, mostra anzitutto come la rappresentazione della sofferenza in Sade non solo abiti i limiti epistemici dell’età classica, ma abbia anche una certa vaga consapevolezza della propria condizione liminare (ecco perché i suoi libertini si adoperano “senza sosta per riaffermare e governare la potenza delle loro rappresentazioni, possibilità di cui Sade vede di fatto approssimarsi la fine”); quando il marchese insiste sull’importanza dell’immaginazione nel godimento, fa della rappresentazione l’esperienza fondamentale e forse la sola possibile – il solo teatro, letteralmente – per i suoi eroi libertini. Si pensi alla funzione degli specchi nel boudoir di Madame de Saint-Ange che moltiplicano il piacere raddoppiando all’infinito le rappresentazioni: fine ultimo dei personaggi di Sade è esattamente quello di comporre una serie continua di tableaux o scene, che per loro sono a pieno titolo scene teatrali.

Nell’epoca classica cui Sade ancora appartiene il desiderio può ancora definirsi come passione; e la passione classica, anche nelle sue manifestazioni più eccessive, resta legata a razionalità e volontà, al limite nella forma della sragione – déraison. Anche nei ritratti dei criminali sadiani, la passione si lega al calcolo. Mentre a partire dalla modernità, alla fine del Settecento, il desiderio assume una struttura nuova: rappresentazioni, passioni, affetti passano in posizione subordinata, per la dinamica morbosa degli istinti. Impulsi e istinti iniziano a emergere nella scrittura di Sade: “l’oscura violenza ripetuta del desiderio sopraggiunge a percuotere i limiti della rappresentazione”.

 

Eppure Sade – questa è la prima delle tesi che vorrei sostenere – continua paradossalmente a trattare questo desiderio e questa inclinazione come se fossero passioni, ordinandole al parossismo infinito, all’accumulazione morbosa delle rappresentazioni e delle immaginazioni di cui ho abbozzato le coordinate. È qui forse la vera soglia insuperabile della scrittura di Sade, il suo carattere grottesco e talvolta perfino incomprensibile. Nella conferenza a Buffalo del 1971, Foucault afferma esplicitamente: non c’è sessualità in Sade, se per sessualità si intende il sapere sul sesso che si forma nel XIX secolo; perché nei suoi racconti il desiderio non si presenta mai se non nella performatività dei quadri e delle scene, quindi sempre accanto al discorso, sulla sua superficie, e mai come suo oggetto proprio. Ecco perché non possiamo leggere Sade attraverso Freud, in qualche modo, secondo Foucault.

La mia ipotesi è che ciò che permette a Sade di fare questo tipo di operazione, lo strumento che gli consente di trattenersi testardamente in questa regione oscura ed incerta che separa l’età della rappresentazione classica dall’età delle scienze umane, questo strumento è la sofferenza. La sofferenza in altre parole – che in fondo è uno dei modi del godimento, della jouissance, non la sua negazione – non è semplicemente l’oggetto principale delle rappresentazioni disegnate da Sade, che scompongono, raddoppiano e ricompongono le scene teatrali immaginate e costruite ad arte dai suoi libertini; tutto al contrario, è prima ancora la rappresentazione in quanto tale a costituire l’oggetto privilegiato e l’interesse fondamentale della sofferenza. Ancor più radicalmente, diremo che la sofferenza è la vera condizione della possibilità che si dia e continui a darsi qualcosa come una rappresentazione.

 

La sofferenza avrebbe questa capacità per piani intrecciati a costituire ciò che Sade intende per scène e tableau: anzitutto “la verità delle sofferenze ‘confessate’ dalla vittima attraverso la sofferenza stessa”, perché la sofferenza è l’unica passione che non può essere né nascosta né dissimulata, cioè che non può fare a meno di rappresentarsi; è, in termini performativi, in grado di dire una verità fondamentale, rispondendo in modo adeguato al bisogno di rappresentazioni dell’immaginazione; ha la capacità di funzionare come una sorta di confessione, di publicatio sui, dove si tratta di rivelare una verità che il soggetto può nascondere o mascherare, ma che in ogni caso conosce e che dunque può rappresentare a se stesso e agli altri (dove scena teatrale e scena giudiziaria si confondono: la volontà di sapere del sadico è soprattutto volontà di dolore). In secondo luogo, “la verità della rappresentazione del carnefice […] si traduce in godimento”, e “gli ultimi guardiani della rappresentazione classica sono proprio i criminali che Sade mette in scena”. “La seconda ragione della supremazia rappresentativa della sofferenza è che in realtà solo da essa, secondo Sade, può sorgere il piacere” (primo livello), per un legame fisiologico in termini di shock, cui poi sovvengono abitudine, esercizio e immaginazione; ma la sofferenza (secondo livello) produce piacere anche nello spettatore, in virtù della natura della rappresentazione, con il sadico quale osservatore esterno (persino quando sperimenta in prima persona: però i grandi libertini delle sue storie sono immuni da sofferenza, non solo per la fondamentale apatia che li connota, ma perché per loro il rapporto tra bene e male è sbilanciato sul male che per loro è il solo bene). E la terza ragione del privilegio concesso alla sofferenza deriva dalle prime due, permettendo un’indefinita rappresentazione, un’indefinita soddisfazione del desiderio.

D’altra parte non si tratta di una sofferenza qualunque: le scene

 

devono essere al contrario studiate e preparate nei più piccoli, perfino tediosi dettagli. Il libertino è un medico, un fisiologo, un anatomista e un chirurgo, oltre che un attore e un capocomico. Ma allora perché la sofferenza piuttosto che qualcos’altro? Detto altrimenti: perché Justine ha da essere rigorosamente vittima di disgrazie e dolori per funzionare come catalizzatore delle passioni libertine? Perché Sade, a mio modo di vedere, ha compreso che le condizioni d’esistenza del soggetto morale proprio del mondo classico sono ormai gravemente compromesse dall’emersione di una diversa forma della soggettività.

 

In effetti, sembra dire Sade,

 

non c’è più altro se non la ferocia e la crudeltà che siano capaci di restare ancorate al meccanismo immaginario proprio della natura del pensiero, di non uscire mai dal reciproco e infinito rimando delle immagini. È questione di sicurezza, di veridicità, di regolarità. Di nuovo, nulla di male può capitare a chi non vuole altro che il male, perché il male, a prenderlo sul serio, non può essere mai disatteso: la volonté de souffrir del sadico potrà essere soltanto amplificata, mai ostacolata, dal momento che è sempre in grado di rappresentarsi qualunque cosa come un’occasione di malvagità o di supplizio, di assorbire tutto quanto nella sua rappresentazione di un male illimitato.

Se Justine non può fare la stessa cosa con il bene che tanto ardentemente desidera, è proprio perché ha ormai perduto gli strumenti necessari per rappresentarsi questa sua inclinazione come una passione, come un calcolo d’interessi, quindi come un’operazione dell’intelletto. Mentre la propensione sadica di Juliette riesce ancora a travestirsi come una forma di volontà, come un procedimento della ragione, la carità e la bontà non si prestano più ad una rappresentazione completa, esaustiva, autonoma. Perché in fondo anch’esse sono già il risultato di una serie di tendenze di per sé interamente involontarie, che si si sottraggono alle categorie dell’interesse-passione.

 

Per esempio, Justine parla di errore, stravaganza, follia, per descrivere il fatto che sia invaghita del feroce conte di Bressac che la tiene prigioniera – ha solo le parole della passione, mentre in gioco c’è altro:

 

Per essere felice […] Justine dovrebbe essere in grado di rassegnarsi al fatto che desiderio e interesse, impulso e volontà, non sono più sinonimi. E quindi ammettere, in ultima analisi, che per fare il bene cui tanto anela sia è talvolta costretti non solo a soffrire ma perfino a fare il male, o meglio, ciò che ci rappresentiamo come il male. Kant, da parte sua, non avrà dubbi a questo proposito. Ma Justine non può ancora ammettere una cosa simile. Né possono farlo i suoi persecutori del resto, per i quali la logica coerenza della rappresentazione rimane altrettanto fondamentale.

 

Al contrario,

 

Juliette è felice […] proprio perché riesce a vivere in una dimensione in cui la dialettica tradizionale tra virtù e vizio è ancora resa paradossalmente possibile dalla rappresentazione di questo male supremo e assoluto, che viene a sostituire a colpo sicuro il summum bonum – divenuto irrappresentabile – dell’etica classica.

Se tutto ciò è vero, come si sarà ormai compreso, mi sembra che si possa dire che, in mancanza di questa rappresentazione e di questa perfetta evidenza di cui Juliette è ancora sovrana, a Justine non resti più altra virtù possibile che quella kantiana.

 

Come “dice Lacan, in Sade ‘seguire il proprio desiderio’ significa esattamente ‘fare il proprio dovere’” (e torniamo in qualche modo a Crowley).

 

Ecco perché nella sofferenza di cui il soggetto sadico gode – di un godimento che come si è visto vive ancora tutto nella rappresentazione – il suo più grande interesse coincide in realtà con il massimo disinteresse possibile. Il carnefice sadico è solo lo strumento, l’enunciatore appunto, del “godimento dell’Altro”, come nel desiderio di mortificazione di Teresa d’Avila; o come nella “santa indifferenza” dei quietisti.

Se potesse aderire interamente al regime epistemico classico, Justine sarebbe forse proprio una mistica. Mentre Juliette sarebbe una strega o una maniaca, un’alienata rinchiusa alla Salpetrière, prigioniera del circolo vizioso delle proprie rappresentazioni. Per l’età classica, infatti, l’alienazione non è che l’effetto di un gioco morboso, malinconico e ripetitivo del pensiero, cioè delle passioni e dell’immaginazione. Ma ora le cose iniziano in qualche modo a capovolgersi. Quello di Juliette inizia ad apparire paradossalmente come un rapporto sano – ancorché eccessivo, debordante – con il desiderio, proprio perché pretende di non aver bisogno, per poter godere, che di conoscerne l’infinita concatenazione dei moventi razionali: è questa la sua histoire, la vicenda di un desiderio che non è più una passione, e che tuttavia può essere ancora trattato come tale a condizione di esternalizzare sempre il godimento, per così dire, cioè a condizione che a godere sia sempre quell’Altro che il sadico sa di essere. Per questo, di nuovo, la sofferenza si rivela essere il cardine delle rappresentazioni sovrane di Juliette, la chiave di volta che ne garantisce la tenuta: è la mortificazione della carne dei grandi mistici, che Justine, suo malgrado, non è più in grado di comprendere. Dal canto suo, infatti, è proprio Justine a ritrovarsi esposta ad una nuova, incipiente economia della follia (e più precisamente, si potrebbe dire, all’isteria), dominata com’è da un’inclinazione segreta la cui verità non cessa di ritrarsi sul fondo opaco, mai perfettamente confessabile né conoscibile – perché non più aderente al registro immaginario, potremmo dire – della sua anima. Il suo stesso desiderio le è diventato non solo estraneo ma addirittura insopportabile. Per questo il suo amore per il carnefice le è diventato oscuro: è una misteriosa devianza, un desiderio che sfugge alla presa dell’immagine mentale e del tableau, e non già un semplice errore della volontà, come pure si ostina a credere.

 

Le due sorelle si collocano insomma al bivio di un’alternativa storica: la mistica e l’isterica separano ora i propri itinerari. E Justine prende una china dove non si tratta più di virtù o vizio, ma di sano o malato.

Però il tema della rappresentazione conduce con forza anche sul piano politico. Nel mondo classico, secondo Foucault, soggetto e oggetto della rappresentazione non si identificano; ciò che vale anche per la rappresentanza politica. Il popolo, in quanto soggetto chiamato a trasferire il proprio potere all’attore che lo rappresenta, esiste solo come effetto della rappresentazione stessa, che ad un tempo lo produce e – nota Hobbes – lo dissolve: i membri del popolo possono agire sulla scena politica solo indirettamente, proprio attraverso la fictio che offre forma a una volontà. Se Sieyès teorizza che “il popolo non può parlare e non può agire se non attraverso i suoi rappresentanti”, Joseph de Maistre saetta polemicamente contro Rousseau: “Il popolo è un sovrano che non può esercitare la sovranità”. Tale spoliticizzazione del nesso popolo-sovrano deve apparire a Sade superata e rischiosa. Ed ecco perché nel pamphlet di cui sopra

 

ne decreta in qualche modo la fine. Questo spiega a mio modo di vedere perché inviti la nazione rivoluzionaria a sbarazzarsi definitivamente dei modelli di governo propri di quella stessa monarchia che ha appena sradicato: anzitutto del suo impianto giuridico. Una volta tagliata la testa del sovrano, la testa del Leviatano, detto altrimenti, “il posto del re” e il suo sguardo restano, per la prima volta, esplicitamente vacanti. La Rivoluzione aprirebbe allora un tempo nuovo – che è insieme il tempo della verità e della crisi del potere dei moderni – che richiede nuove forme di sapere e, soprattutto, nuove tecnologie di governo della società. È il caso, ad esempio, del sistema penale e della gestione dell’illegalismo, nelle cui trasformazioni il marchese vede profilarsi un immenso pericolo, soprattutto nella misura in cui non gli sembrano più in grado di farsi carico di un inedito e decisamente instabile rapporto tra poveri e proprietari. Quando propone di legalizzare il furto e di abolire la proprietà privata, quindi, non si tratta a mio avviso di una semplice provocazione ma di una preoccupazione concreta: Quali sono i fondamenti del patto sociale? Non consiste forse nel cedere una parte della nostra libertà e delle nostre proprietà per garantire e mantenere quanto si conserva dell’una e delle altre? Tutte le leggi poggiano su queste basi che sono all’origine delle punizioni inflitte a chi abusa della propria libertà […] Ma, ancora una volta, a quale titolo chi non ha nulla si piegherà ad un patto che protegge solo chi ha tutto? Se fate un atto di equità conservando, attraverso il vostro giuramento, la proprietà del ricco, non fate un’ingiustizia esigendo questo stesso giuramento di “conservatore” da chi non ha nulla? Quale interesse al vostro giuramento può avere costui? […] Non v’è certamente nulla di più ingiusto: un giuramento deve avere gli stessi effetti su tutti gli individui che lo pronunciano; è impossibile che possa legare chi non ha alcun interesse a mantenerlo, perché in questo caso non sarebbe più il patto di un popolo libero: sarebbe l’arma del forte contro il debole e quest’ultimo dovrebbe ribellarvisi senza tregua.

 

Del resto Madame Dubois aveva invitato Justine a considerare il furto  “semplicemente come un modo per riequilibrare le sorti degli uomini, per fare dell’eguaglianza e della libertà una pratica prima ancora che una condizione formale”. Come anzi si è osservato, i personaggi di Sade vengono in generale dalle condizioni opposte e più estreme di nobiltà (i mostri nel castello delle 120 giornate) o miseria (del popolo più bruto e violento), condizioni che la finzione contrattualistica del Terzo Stato non riesce più a rappresentare, e il cui disagio alle soglie della rivoluzione è ben documentato. L’antico modo di governare la miseria e gli appetiti istintuali è ormai inadeguato, e tutto questo sfocerà nella letteratura poliziesca dell’Ottocento. Mentre per Sade la Francia postrivoluzionaria avrebbe bisogno di un sistema completamente diverso per intercettare esperienze sociali aliene al sistema della rappresentazione, mutuata dal regime di un monarca ormai deposto.

 

Occorre ancora uno sforzo, allora, non tanto per portare la Rivoluzione a pieno compimento, non tanto, cioè, per rendere la Repubblica davvero repubblicana o la democrazia davvero democratica. Non è ad un semplice deficit di rappresentanza, mi sembra, che Sade ci invita a prestare attenzione. Detto altrimenti, per lui non si tratta di rappresentare meglio, di rappresentare di più. Si tratta invece di far esplodere dall’interno le contraddizioni che abitano la rappresentazione classica, di prenderne sul serio le aporie. Il rischio altrimenti – e in questo il marchese dà prova di grande capacità prognostica – è che dall’età delle rivoluzioni diventi definitivamente impossibile uscire. Alla Francia repubblicana, in definitiva, Sade chiede una risposta efficace e responsabile alla minaccia della guerra civile permanente che ne percorre l’intera trama sociale.

 

Il terzo capitolo-contributo, a firma del curatore Storace, “Repubblicanesimo e a-teologia politica in D.A.F. de Sade. Una lettura di Francesi ancora uno sforzo se volete essere repubblicani attraverso F. Nietzsche e C. Schmitt” riprende ancora il citato pamphlet al filtro di interpreti eccellenti: si inizia con una “Nota metodologica: sulla nozione di ‘teologia politica’ a partire da Carl Schmitt” – autore che vede nel deismo la condizione della nascita dello Stato moderno – sulla base dell’interessante considerazione “che de Sade teorizza la possibilità di una politica squisitamente laica e atea, che nasca esclusivamente dall’affrancamento dal monoteismo (il quale rimanderebbe al medesimo immaginario della monarchia)”. Si ricostruiscono “alcune tappe che hanno reso possibile quel ‘Repubblicanesimo’ che de Sade vedrà quale imprescindibile risultato della sua epoca”: in particolare la genesi della laicizzazione dello Stato, la genesi ed eclissi della sovranità nella modernità, e il nodo del rapporto (dalla morale alla politica) tra virtù e vizi che conduce a

 

due filoni di pensiero contrapposti: uno più vicino all’interpretazione tradizionale e al razionalismo socratico che vede nell’essere umano una naturale propensione alla virtù, l’altro, più carsico, che vede nell’uomo il germe del male e relaziona irreparabilmente l’esercizio della virtù con la repressione dei più intimi istinti di esso. Il libertinismo trarrà proprio da questa corrente di pensiero le basi sulle quali si svilupperà in differenti modalità espressive e sarà declinato secondo differenti interpretazioni: avremo dunque un libertinismo più religioso, che tenterà di scardinare la precedente tradizione religiosa producendo lo scetticismo e l’ateismo; un libertinismo più filosofico, vicino allo scetticismo; e un libertinismo decisamente più audace, che attaccherà i tre monoteismi.

 

Di qui il tema del monoteismo, per Sade, come ostacolo al Repubblicanesimo: “Abbattuti i tiranni, è necessario per il popolo abbattere ora religione e costumi: ecco lo sforzo, incredibilmente razionale, ancora da compiere perché la libertà sia veramente piena”. Ma ecco la chiave che dovrebbe essere costantemente considerata leggendo gli scritti di Sade, per non scambiarlo per un protonazista o un LaVey qualsiasi:

 

Certamente il pensiero di de Sade, ben lungi dal configurarsi come un solido sistema dottrinale basato su assunti teorici, deve essere contestualizzato in prima analisi all’interno della vicenda biografica di Sade stesso, e in secondo luogo inquadrato all’interno del tempo in cui Sade vive.

 

Si può discutere sulle canonizzazioni di Sade come liberatore della sessualità (Onfray) e portatore di libertà tutta nuova (Breton, Bataille), ma al netto degli scandali è impossibile non riconoscergli un ruolo importante per una riflessione laica sulla sessualità, e quasi profetico di pratiche e temi dei tempi in cui viviamo. Storace analizza a questo punto gli influssi di Sade nel rapporto tra a-teologia e politica in Nietzsche, in particolare sui rispettivi approcci all’ateismo e sull’influsso di Sade nel pensiero teologico-politico di Nietzsche. Nella polifonia, insomma, questo breve volume sembra di grosso interesse per impostare una serie di domande – e tentativi di risposte – sull’impianto teorico del Divin Marchese.

Il secondo volume ci riporta al tema della rappresentazione, corteggiato da Sade anche con i costosissimi drammi teatrali organizzati nel suo castello, e poi con quelli – oggetto di mito anche letterario, si pensi solo al Marat/Sade di Peter Weiss, 1964 – tirati su con i pazienti del manicomio dove sarà rinchiuso. Il fronte del cinema finisce con l’esserne uno sviluppo: per cui merita attenzione questa bellissima monografia per il bicentenario a firma di Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, per Mimesis, 2014. Un’opera articolata in un’introduzione, “Sade. L’occhio tagliato” (sulla triade sguardo-corpo-violenza a partire da quel Luis Buñuel che evoca per la prima volta il Marchese in un film, L’âge d’or, 1930, e nella presa di coscienza che  “Sade mette a nudo ‘l’autosoddisfazione compiacente dissimulata sotto la compassione simpatetica dello spettatore della sofferenza”, flirtando con i limiti della rappresentazione) e tre parti. Questo l’impianto:

 

La filmografia su cui ci concentriamo parte da una definizione circoscritta di cinema sadiano, inteso come una produzione direttamente riconducibile alla presenza di Sade come autore o come personaggio e sintetizzabile nelle seguenti categorie: adattamenti delle opere letterarie di Sade; riferimenti alle opere di Sade; film biografici dedicati a Sade; e apparizioni di Sade come personaggio diegetico. La figura di Sade è un’“elaborazione mitica”, la combinazione del personaggio storico con la sua vicenda biografica e del romanziere con le sue opere: “Sade non è il nome di un individuo ma di un ‘autore’, o meglio di un ‘narratore’ mitico, depositario attraverso il tempo di tutti i sensi che riceve il suo discorso”.

 

E l’esame di Brodesco verterà particolarmente su opere di quattro registi, appunto Buñuel, poi Peter Brook, Jesús Franco e Pier Paolo Pasolini.

Nella prima, “Il corpo violato, Sade, il cinema sadiano”, si imposta il problema. Si parte così – capitolo primo, “Il cinema e il corpo violato” – dal corpo violato come oggetto di attrazione (dello spettatore; del cinema in sé), si passa al tema della violenza nell’immagine e dell’immagine, alla tradizione interpretativa su una concupiscenza sottesa alla “signoria dello sguardo” fino al morboso e al pornografico, alla distanza tra spettacolo di realtà e spettacolo di finzione; si affrontano i nodi di riflessività (la “capacità della mente di essere allo stesso tempo oggetto e soggetto di se stessa all’interno del processo cognitivo”) e autorizzazione attraverso voyeurismo, sadismo, masochismo, poi le “posizioni spettatoriali” (spettatore masochista, sadico, ludico, curioso, meditativo).

Il secondo capitolo, “Tableaux. Configurazioni dello sguardo nell’opera di Sade”, affronta i “dispositivi della visione che emergono nell’opera di D. A. F. Sade, all’interno della quale il corpo violato si afferma come elemento di continuo richiamo per lo sguardo del libertino”. Cioè le figure dell’immaginazione (“Sono le storie a eccitare la fantasia, a produrre nella mente dei libertini lo stimolo che potranno poi soddisfare nel contatto con le vittime”, anche se il “flusso libidinale oltrepassa in ogni caso le capacità del dire” e la scrittura deve farsi quadro); le strategie sadiane (a coinvolgere non solo pittura ma drammaturgia, e una scrittura che “aspira ad adeguare nel suo complesso l’immaginazione del lettore a quella dell’autore”, per “convertirlo alla filosofia che sta alla base del […] pensiero” di Sade; il “tempo del discorso non […] sottratto al tempo del godimento, ma [che] ne fa parte” e le quattro fasi dei riti libertini, cioè programmazione, esecuzione, variazioni, saturazione della scena e del corpo); la vista e gli altri sensi, “iper-sfruttati e sovraesposti, continuamente chiamati in causa dal rilancio e dal superamento delle percezioni richiesto dalla libidine libertina” (dalla vista capace di “stupri oculari”, per esempio, ai fondamentali olfatto e gusto: “In modo simile al sesso, nell’universo sadiano nulla è in-edibile”).

Il terzo capitolo tratta “L’arte che (non) ha movimento. Il cinema, Sade, i limiti della rappresentazione”, a fronte di contenuti tanto estremi:

 

Il nome di Sade è di fatto destinato a creare aspettative che un film non può che deludere. “Sade” è una promessa impossibile, che non può essere rispettata. Alle urla del titolo corrisponde il silenzio del film; al nome di Sade, l’inimmaginabile, si associa uno schermo nero.

 

Per inciso, il primo film in cui Sade doveva apparire – secondo la sceneggiatura, ma la scena relativa “non è mai stata girata o è andata perduta” – è Napoléon (1927) di Abel Gance.

Per Foucault, “Non c’è niente di più allergico al cinema delle opere di Sade”. E Barthes, criticando Salò o le 120 giornate di Sodoma: “Sade non è affatto figurabile. Esattamente come non ci sono ritratti di Sade (se non fittizi), così nessuna immagine è possibile dell’universo sadiano, il quale, per una decisione imperiosa dello scrittore Sade, è affidato tutt’intero al solo potere della scrittura”. Jesús Franco, autore di parecchi film ispirati a Sade: “Continuo a pensare che gli adattamenti di Sade al cinema sono sempre molto brutti, compresi i miei!”. Ma sono solo poche voci di un’interessante carrellata di pareri critici che demoliscono la possibilità in radice di portare Sade al cinema. E invece.

(continua)

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Un gotico chiamato desiderio (Nightmare Abbey 16/II) https://www.carmillaonline.com/2020/08/08/un-gotico-chiamato-desiderio-nightmare-abbey-16-ii/ Sat, 08 Aug 2020 21:09:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61983 di Franco Pezzini

(Qui la prima puntata).

The Perils of Pauliska

“Tale dottrina assurda e barbara è quella di una setta recentemente stabilitasi a Torino. Ad ogni buon conto le signore sono invitate a tralasciare tutto questo paragrafo”. Suona così una delle rare note dell’autore, barone Jacques-Antoine de Révérony Saint-Cir (o Saint-Cyr, 1767-1829) al romanzo Pauliska o la perversità moderna (1798), terzo dei titoli trattati nel volume critico Viaggi al termine del desiderio che stiamo esaminando. Per il Piemonte l’autore francese, letterato versatile e ufficiale del genio di grande cultura, attivo sotto [...]]]> di Franco Pezzini

(Qui la prima puntata).

The Perils of Pauliska

“Tale dottrina assurda e barbara è quella di una setta recentemente stabilitasi a Torino. Ad ogni buon conto le signore sono invitate a tralasciare tutto questo paragrafo”. Suona così una delle rare note dell’autore, barone Jacques-Antoine de Révérony Saint-Cir (o Saint-Cyr, 1767-1829) al romanzo Pauliska o la perversità moderna (1798), terzo dei titoli trattati nel volume critico Viaggi al termine del desiderio che stiamo esaminando. Per il Piemonte l’autore francese, letterato versatile e ufficiale del genio di grande cultura, attivo sotto Luigi XVI e Napoleone, non sembra avere molta simpatia: basti dire che il loschissimo italiano membro di una banda di falsari a Buda – si chiama Falso, nomen omen – viene detto esprimersi “nel suo brutto piemontese”, probabilmente un francese imbastardito rispetto all’elegante lingua internazionale; e nello stesso gruppo figura un “certo Gervasio, piemontese, [che] era una specie di tigre feroce assetata solo di sangue e di crudeltà”.

Sull’onda della criptica nota succitata ci spostiamo dunque idealmente dagli ariosi spazi verdissimi dall’Inghilterra meridionale allo scacchiere di palazzi sei-settecenteschi (strade strette e ombrose, cortili, edicole sacre, innumerevoli chiese barocche, e stemmi più o meno irriconoscibili) del centro storico di Torino. Parecchi dei palazzi – può dedurlo anche il turista distratto – appartenevano a vecchie famiglie aristocratiche o agli innumerevoli ordini religiosi poi colpiti dalle leggi Siccardi: ormai decaduti, vedranno la grande immigrazione dal Mezzogiorno occuparne i labirinti alla Escher tra spazi scale corridoi anditi, in un confronto col nucleo popolare indigeno che porterà a mescidare dialetti e culture. E più avanti, a colpi di costose ristrutturazioni, fenomeni di gentrificazione o un diretto passaggio a grandi banche & assicurazioni, mentre a piano terra e nei vicoli ferve la movida.

Se però studiamo con attenzione gli atri di questi palazzi (magari soprattutto quelli polverosi e scrostati), il fiorire di colonne e scalinate patrizie, persino certi sfiati sui marciapiedi dalle cantine – particolari i cosiddetti occhi del diavolo, per la strana forma delle fessure –, non è impossibile cogliere qualcosa dei fantasmi culturali di una Torino lontana. La città del Settecento contraddittoriamente bacchettona e vivace, nota come luogo di passaggio internazionale e di sosta, tra carrozze e facchini, prima o dopo il varco delle Alpi: dove riposare, giocare, mangiar bene, eventualmente amare bene – parola di Casanova qui presente sette volte, che lamenta però la piaga del brulicare di spie e poliziotti – e con un po’ di frisson recato ai benestanti dalle massonerie. Il misterioso riferimento della nota qui citata (certamente romanzesco, forse satirico), alla setta che a Torino praticherebbe una certa “dottrina assurda e barbara” può costituire una frecciata proprio a qualche gruppo massonico subalpino, razionalista e scientista. Peraltro forse nell’ambito di una polemica che vedrebbe nelle grandi rivoluzioni settecentesche contro le Sacratissime Monarchie il burattinaggio delle Logge.

Della terza pala del trittico Viaggi al termine del desiderio – o piuttosto polittico, vedremo perché – si occupa Francesca Pagani nel contributo Una stagione all’inferno: Pauliska ou la perversité moderne: un esame attento su questo testo strano e poco noto, cui è possibile accostarsi tramite l’edizione italiana apparsa nel 1991 per Le Lettere (Révéroni Saint-Cir, Pauliska o la perversità moderna, a cura di Elena Del Panta, nella bella collana “Biblioteca del Settecento Europeo”).

A tirar fuori dal dimenticatoio Pauliska ou la Perversité moderne; Mémoires récents d’une Polonaise, omesso dai repertori classici del gotico – tecnicamente è un roman noir, ma torniamo alla problematicità di etichette in qualche modo sovrapponibili – è solo Michel Foucault (Un si cruel savoir, «Critique», n. 182, luglio 1962, poi ripreso in Dits et écrits, 1954-1988, Quarto Gallimard, 2001) e a quel punto gli studi si susseguono, evocando Laclos e Sade. In effetti sembra difficile che Révéroni Saint-Cir non abbia letto almeno Justine: pur considerando che la damsel in distress è una figura ultracanonizzata, qui sembra proprio di vedere un influsso diretto, che tuttavia conduce in una direzione un po’ diversa.

Certo, procedendo entro il dedalo del romanzo siamo tentati di immaginarcelo letto da Paolo Poli, a far esplodere dall’interno tutte le implausibilità melodrammatiche. Resta però, nota Pagani, la

 

straordinaria ricchezza degli spunti forniti da questo testo singolare, in grado di risultare estremamente problematico nel suo porsi quale sintesi di tutta una tradizione, quella del romanzo gotico, che ha improntato di sé tanta parte della letteratura europea di fine Settecento e, al contempo, nella sua capacità di anticipare componenti significative dell’immaginario novecentesco, ciò che ne determina la non certo casuale empatia con i suoi critici,

 

Foucault in prima linea.

La trama. La contessa Pauliska è una “rifugiata polacca [a richiamare insomma alle terre di Jan Potocki] celebre per la sua bellezza e per le sue sventure”, che l’editore del volume incontrerebbe a Losanna: la esorta a pubblicare le memorie da lei scritte, e dopo iniziali resistenze la Nostra acconsente.

Il quadro storico è quello delle lacerazioni della Polonia a fine Settecento, tra la cosiddetta seconda spartizione, decisa da Russia e Prussia nel 1793, e la terza da Russia, Austria e Prussia nel 1795, con tutto ciò che intercorre in mezzo (rivolta nazionale guidata da Tadeusz Kościuszko, repressione da parte dalle truppe russe del generalissimo Aleksandr Vasil’evič Suvorov e prussiane, intervento anche dell’Austria eccetera). Dopo un’irruzione di soldataglie russe nella sua proprietà a tre leghe da Cracovia, l’appena venticinquenne vedova Pauliska è costretta a fuggire con il figlio di otto anni Edvinski e il giovane temerario cavaliere di Malta Ernest Pradislas – fotocopia degli insipidi classici innamorati delle eroine gotiche, e di cui infatti la Nostra puntualmente s’innamora. Tra penose vicissitudini, arriva come altri rifugiati in territorio ungherese, presso l’indigeno barone di Olnitz, e si crede al sicuro: ma mentre Ernest temporaneamente svapora (preda del gioco la delude, e alla fine si allontana col corpo militare in cui è stato pronto ad arruolarsi) lo spiacevole barone si rivela una presenza sempre più ingombrante. Quando un “acuto dolore a un braccio” ridesta Pauliska dallo svenimento per l’addio di Ernest, il barone giustifica il tutto – vecchia storia – col malore attivo (“Avete avuto uno spaventoso attacco di nervi […] e vi siete morsa orribilmente nonostante i miei sforzi”); ma solo dopo una settimana di prostrazione e medicazioni al braccio, una notte la Nostra riceve una visita inaspettata. Attraverso un passaggio segreto dietro lo specchio vede infatti comparire zitta zitta la brava governante Madame Gerboski, che in assoluto silenzio porge a Pauliska un messaggio scritto. Quanto avviene nella stanza, riporta, è sorvegliato:

 

Sappiate che il barone è uno spaventoso maniaco, ateo, chimico di grande scienza, naturalista delirante che fa esperimenti su delle sventurate abbastanza insensate da credergli. Temete la sua eloquenza, il potere del magnetismo di cui fa uso e soprattutto le sue composizioni chimiche. Egli ha dei segreti inauditi… Tremate!

 

Insomma la Nostra si scopre prigioniera di un mad doctor, che per sovrapprezzo la separa dal bambino, intendendo crescerlo secondo i dettami della sua setta… Alle nefandezze del barone torneremo, per ora limitiamoci a dire che madre e figlio vengono fatti evadere dalla buona signore Gerboski.

In seguito, sintetizzando al massimo, Pauliska incontra in una grotta un’adunanza di altri profughi polacchi; assiste alla rotta delle truppe che avrebbero potuto portarli in salvo; giunta a Buda impoverita, risponde a un’offerta di lavoro e si ritrova in un covo sotto il Danubio, prigioniera di un’organizzazione criminale internazionale al soldo della perfida Albione, che apparecchia assassini e documenti falsi per danneggiare la Francia. In quell’occasione rischia lo stupro, e viene persino costretta a manovrare il bilanciere d’un torchio strangolando – senza saperlo – un altro giovane prigioniero, Durand, con cui progettava la fuga (ma niente paura, più avanti scopriremo che non è morto). Liberata da un’irruzione di guardie che è riuscita a richiamare fortunosamente, scopre che il figlio è stato sottratto dal solito barone; e ritrova il bell’Ernest, che le racconta la propria avventura tra le grinfie della setta delle Misantrofile, ostili al maschio, quindi le melodrammatiche vicende con una fuoriuscita della setta stessa, la bella Julie, che si trova ahinoi costretto a sposare: si tratta di un primo ampio racconto incluso.

Allora la Nostra desolata tenta il suicidio ma è salvata da Ernest, suscitando la gelosia inferocita di Julie, che la spedisce via nottetempo; giunta a Bologna riconosce nell’immagine dipinta di un Gesù Bambino i tratti del figlio, risale al pittore – tal Paolo Guardia – e tra innumerevoli difficoltà ritrova il piccolo; apprende poi da lui come sia stato oggetto di contesa tra Guardia, deciso a cederlo quale voce bianca al Cardinale Legato (anzi un certo frate Tagliantino, sorta di orrido mieloso ghoul, sta già preparando i ferri) e il fratello del pittore, agente del barone, che intende riportarvelo per attirar lì la preziosa Pauliska – e proprio a tal fine ha disseminato l’Europa di quadri con il bimbo quale modello. Questo del piccolo Edvinski è un secondo lungo racconto incluso (in realtà ce n’era stato un altro, molto più breve, di Durand); e le pagine su di lui tra le mani degli aspiranti castratori – da cui ha cercato di salvarlo la pedofila Zefirina, sorella del pittore – sono tra le più tese del romanzo. Comunque i cattivi sembrano in apparenza messi in grado di non nuocere e la verità viene proclamata in tribunale.

Pauliska decide dunque di trovare rifugio a Roma, ma qui rincontra il barone e viene rapita nuovamente: anzi il mad doctor coi suoi esperimenti sull’aria celeste risulta persino migliore di un altro personaggio che ora conosciamo, di grado più alto nell’organizzazione della setta, “il celebre avvocato Salviati […] famoso magnetizzatore e Illuminato”, che per produrre il suo fluido magnetico utilizza bambini e giovani donne (ovviamente Pauliska) vincolandoli a strane macchine. In compenso la Nostra ritrova rocambolescamente Durand, che credeva di aver strangolato a Buda e che aveva solo finto di morire (nuovo racconto incluso); ed è lui a condurre la retata che libera Pauliska, solo per determinarne l’accidentale incarcerazione quale sospetta complice della setta. Un’incarcerazione che durerà un lungo anno, e solo dopo molte pressioni degli amici si avrà il processo… Ma dopo ulteriori complicazioni che si risparmiano qui al lettore, Salviati farà scatenare un’esplosione nel carcere: la pedofila Zefirina mostruosamente ustionata (la scena è da horror) salva Edvinski restituendolo a Pauliska, Salviati resta vittima della sua trovata e al salvataggio della contessa giunge lo stesso Ernest felicemente vedovo, visto che la moglie si è spenta uccisa dalla sua stessa gelosia. E finalmente Ernest può sposare Pauliska in un happy end che, se non cancella tutte le amarezze, almeno restituisce un po’ di pace.

La lanterna magica di questo riassunto può aver causato giramenti di testa, ma sembrava necessaria per offrire almeno una vaga idea del vorticoso tipo di storia. Assai più fitta di meraviglie di quanto qui reso: a parte il respiro internazionale di piani criminali alla Spectre, il senso di minaccia costante e il costante tentativo di approfittare della protagonista (e in generale dei deboli) per lucro piacere scienza, Pauliska o la perversità moderna è un tripudio di gabbie che si sollevano a imprigionare, porte segrete e meccanismi rotanti nei muri, poltrone che serrano improvvisamente chi sta seduto, botole che s’aprono sotto la sedia, automi in funzione erotica, trovate chimiche o magnetiche recanti improbabili effetti… Basti dire che la filiale di Berlino delle Misantrofile teorizza di usare il metodo di Spallanzani, che “ha dimostrato la possibilità di procreare senza che vi sia rapporto col sesso maschile” (nota esplicativa dell’autore) e invia casse di “amanti portatili”: manichini cioè richiamanti immagini classiche – o se preferiamo neoclassiche alla Canova, quel certo Apollo, quel determinato Enea – in cui infondere un calore artificiale, e dotate (bontà loro) di un “moderno accessorio […] in grado di produrre tutti i fenomeni e i risultati dell’amore”. Inevitabile pensare all’automa femminile Olimpia dello Spalanzani di Hoffmann (L’uomo della sabbia, 1815), che ci si può chiedere se avesse letto questo romanzo di diciassette anni prima.

In Pauliska tutti si travestono, a varcare barriere sociali (la Contessa si traveste da contadina), di sesso (Julie si veste da uomo su un set di guerra, Ernest da donna per un diverso tipo di battaglia con la zia di lei e un abate furfante) o comunque d’identità (Edvinski è usato quale modello a interpretare una serie di personaggi di quadri). Indicativo è che l’oggetto virtualmente rivelatore d’identità, lo specchio della stanza-cella dell’eroina nel palazzo del barone, copra in realtà il passaggio segreto di un continuo andirivieni di buoni e cattivi, a disvelare una realtà molto diversa da quella riflessa: cela in sostanza l’accesso all’alterità. E del resto Pauliska è un vorticoso, continuo cambiar panni narrativi, un meraviglioso punto di snodo tra i più vari filoni già noti – dal gotico al romanzo filosofico e utopistico al pamphlet antirivoluzionario (una serie di scandali che sgretolano la credibilità dell’establishment francese sono presentati come frutto della dezinformatsiya dell’Inghilterra) – e altri filoni che arriveranno, come il feuilleton.

Pagani esplora poi altri temi, per esempio il ruolo curioso – in quella che in fondo è la storia di una damsel in distress – delle giovani figure maschili di continuo martirizzate persino più di lei: uomini-racconto (Ernest, Edvinski, lo stesso Durand in misura più ridotta) che offrono testimonianza diretta delle proprie penose traversie. Ma a subire vessazioni non sono solo singole persone: attraverso le peripezie di una Pauliska dal nome quasi assonante, la Pologne/Polonia assurge a paradigma della terra violentata dai giochi di potere dell’età moderna. Opportunamente Pagani abbina l’inizio di questo romanzo a quello del Candide, con “il castello di Thunder-ten-tronckh invaso e distrutto dai Bulgari e Cunegonda violentata e gravemente ferita: è l’inizio di una sequenza di sventure che costituiscono la sua iniziazione” tra “incessanti spostamenti di truppe”, eco in fondo dell’esperienza militare dell’autore. Ma insieme con un richiamo indiretto alla “violenza rivoluzionaria che ha spazzato via la vecchia Europa. […] Un vento panico passa sul continente, minacciando gli individui e le istituzioni” (M. Delon, Préface a Pauliska ou la perversité moderne, Desjonquères, 1991): anche se, badiamo, “l’oggetto del romanzo non è direttamente politico. Lo diventa nella misura in cui trascrive le inquietudini e le angosce dell’epoca” (ibidem). Pauliska è fitto di scontri militari – con le loro brutture, gli orridi caporioni, i disastri della guerra – e di continue fughe, di carrozze che attraversano l’Europa come un unico crocevia, di separazioni e inseguimenti.

 

I protagonisti sono quelli consueti del romanzo gotico: banditi,  monaci, aristocratici viziosi, sette segrete, talvolta composte da sole donne, e l’ambientazione, a sua volta, ripropone spazi collaudati, vale a dire foreste, grotte, castelli, percorsi impervi fra montagne con pareti a strapiombo e torrenti minacciosi […] Le descrizioni, tuttavia, sono così inconsuete da anticipare le immagini di artisti come William Turner e John Martin, e da risultare persino pre-filmiche […] La scenografia dominante, in cui si svolgono gli episodi più signifi cativi, è quella del mondo sotterraneo, consegnato all’oscurità: è questo il caso dell’antro dove Pauliska trova rifugio fra gli emigrati polacchi. Ancora una volta, è possibile constatare il carattere innovativo del testo di Révéroni: infatti, pur avvalendosi di topoi assai ricorrenti quali, per l’appunto, quello della grotta, egli ne offre una rielaborazione secondo un immaginario che, probabilmente, è debitore degli spettacoli, assai alla moda in quel periodo, delle fantasmagorie […] La tappa successiva vede, con una invenzione assolutamente sorprendente, Pauliska prigioniera nel sotterraneo di un convento presidiato da una banda di falsari e collocato sotto le acque del Danubio.

 

Un ruolo peculiare ha però un personaggio, il losco barone di Olnitz, e in particolare l’episodio nel suo palazzo solleva interessanti questioni.

Eccolo anzitutto comunicare a Pauliska che prenderà alcune misure nei suoi confronti finché lei non sentirà “il desiderio ardente” di iniziarsi ai “nostri misteri sacri”: per cui le fa giungere manoscritti che permettano di meditare sulle scienze profonde che sperimenteranno assieme. Prima di congedarsi le morde leggermente l’avambraccio e le taglia alcuni capelli; e un paio d’ore più tardi un meccanismo nel muro fa apparire un pasto leggero e carte “scritte in rosso” dove la poverina nota questo paragrafo:

 

“L’amore è una rabbia, e come tale malattia può essere inoculato con il morso”. In margine era scritto: “(Dieta). Ossa di tortora incenerite, canfora e pelle di serpente. (Operazioni). Morsi reiterati”.

“Così tutto è fisico!” esclamai indignata; le virtù, i talenti, tutto ciò che tocca l’anima non è che illusione… Sfogliai qualche pagina con sdegno e capitai su questa strana prescrizione:

“Poiché l’amore è l’unione fisica di due esseri, affinché le masse si confondano date impulso agli atomi. Provocate un’irritazione sulle fibre con cenere di capelli e ciglia dell’operatore. Forte inspirazione attraverso i pori: frizione ripetuta sulla pelle. Come bevanda, l’operatore darà il suo alito convertito in fluido”.

Da quel momento guardai con orrore il cibo che mi veniva presentato.

 

Più avanti, basta che lui le applichi al petto una mano impregnata d’una certa polvere bianca per farle sentire il cuore turbato e un “calore indicibile” in tutto il corpo, strappandole forse un involontario “sguardo di tenerezza”; e una successiva toccatina lo fa sembrare munito di “tutte le grazie della bellezza e della gioventù”. Anche più peculiare è il procedimento che chiama inoculazione: prima le asporta dalla gamba con un morso un lembo di pelle che provvede a bruciare e ingerire; quindi a sua volta si rimuove con il bisturi un tocchetto di pelle, lo brucia assieme a un ciuffo dei propri capelli versandovi alcune gocce del proprio alito trasformato in fluido, e applica il tutto tramite una garza sulla ferita di lei. Mentre la linfa della medesima l’applica alla propria ferita… eccetera.

Dove il procedimento concettuale del barone si rivela forse meno semplicistico di quanto possa apparire di primo acchito. Più che attraverso la semplice inoculazione di un composto afrodisiaco, il desiderio viene creato artificialmente attraverso un’assimilazione, un assorbimento metabolico in chiave sim-patica che richiama a un equilibrio complesso: assistendo all’incinerazione di piccoli frammenti di pelle e all’assunzione in varie forme di quella cenere, è inevitabile pensare alla rosa di Paracelso che appunto dalla cenere torna a risorgere, e a tutto un immaginario alchemico che ancora in ambienti rosicruciani troverà spazio. Anche ciò che impatta più immediatamente sulle reazioni erotiche di Pauliska, la descritta polvere bianca, non si esaurisce nel classico afrodisiaco chimico (e, a dispetto del tipo di consistenza, difficilmente guarda a un fronte lisergico): si tratta di una polvere magnetica, suscita vapori ed effervescenza in un gioco di fluidi.

Ma il barone non vuole profittare delle “repentine convulsioni del desiderio”, bensì vedere Pauliska convinta, in sostanza educarne il desiderio lentamente:

 

Bisogna che io faccia passare in voi tutto l’amore che mi trasporta, e da voi a me una parte della vostra amabilità e della vostra freddezza. Occorre che tra noi due si stabilisca l’equilibrio. Non ricorrerò alla trasfusione di sangue, che spaventerebbe un animo ancora debole [ovviamente si accenna alle trasfusioni sperimentalissime che la medicina andava tentando con risultati ancora poco promettenti]; e d’altra parte, con la mia inventiva, ho escogitato modi assai più ingegnosi e meno rivoltanti per praticare l’inoculazione dei desideri, e anche di quelle qualità che voi chiamate morali e che, come i desideri, sono solo il prodotto degli impulsi fisici, un gioco di ingranaggi che si può modificare a volontà.

 

Quando poi Pauliska prova la curiosità “di sapere su quali basi quell’uomo aveva potuto fondare il suo atroce sistema”, ecco inserita la nota sulla presunta setta di Torino, che invita le signore a tralasciare il paragrafo seguente. Tralasciarlo forse per la sua aridità dottrinale ma soprattutto per le sue scandalose implicazioni: in preteso linguaggio scientifico si disserta infatti di un fluido dalle caratteristiche estreme, “l’aria celeste, massimo incanto della vita e base di ogni godimento”, cioè fondante il meccanismo del piacere. E lo sdegno manifestato da Pauliska per i danni recati alla sua integrità fisica o psicologica sembra persino minore del suo scandalo per questa derubricazione di un intero orizzonte di desideri ed emozioni a fatto meramente materiale: “‘Così tutto è fisico!’ esclamai indignata”.

Sulle modalità degli esperimenti, come ovvio, l’autore gioca al paradosso. Ma occorre ricordare che la chimica delle streghe aveva per secoli fatto ricorso a particelle fisiche (capelli, fluidi, umori…) e lo stesso occultismo moderno ne giustifica dottrinalmente l’uso rituale: l’ascrizione qui di alcune pratiche a un contesto materialista/scientista parla il linguaggio di quella fase tra Sette e Ottocento in cui in un unico calderone culturale sobbollono residui (riletti ma ben riconoscibili) di pratiche magiche, e in generale di credenze esoteriche non più perseguitate e riemergenti, assieme a nuove istanze filosofiche “razionaliste” – con o senza virgolette. La dialettica terminologica tra quei Lumières che traduciamo illuminismo e il quasi omonimo ma diversissimo illuminisme – la traduzione come illuminatismo dice forse troppo, ma già suggerisce un certo sentire teosofico che avvicina Boehme, Swedenborg, de Pasqually, Willermoz, de Saint-Martin e parecchi altri, in qualche modo fino a Blake e oltre – richiama indicativamente due poli estremi, ma la realtà del secolo è ben più varia, ambigua e sincretica. Gli stessi gruppi massonici conoscono una tendenziale polarizzazione tra quelli a impianto razionalista e altri di tipo magico/mistico, pur attraverso comuni connotazioni esoteriche sul piano della comunicazione simbolica. Del resto nel dialogo più avanti tra il pittore e il fratello si accenna esplicitamente che “Il barone passa per un Illuminato [illuminé], per un settario antipapista”: a contrapporre un tipo di vilain a un altro (quel clero che castra bambini per aver voci bianche), richiamando nella definizione un soggetto-mattatore dell’immaginario tardosettecentesco, il famigerato Ordine degli Illuminati di Baviera. Più avanti anche Salviati sarà definito “Illuminato” e il nome verrà applicato al suo giro di complici, anche se è plausibile che nel romanzo la definizione richiami in senso generico ed estensivo membri di una setta pericolosa, materialistica e atea, latrice di arcani misteri.

La storia è nota: il gelido professor Adam Weishaupt (in arte Spartacus, 1748-1830) aveva inventato a tavolino un gruppo in grado di rivaleggiare e poi infiltrare la stessa Massoneria, partito con qualche goffaggine tra pochi studenti e in poco tempo dilagato ben oltre i confini bavaresi, ad aggregare professionisti e aristocratici malati di mistero; e al netto di tanto romanticismo poi versato sul tema, i documenti – molti, e pubblicati da tempo – rivelano tra le sue pieghe un caso di manipolazione immaginale con teatralissimi rituali e un impressionante sistema di spionaggio dell’anima, in primo luogo degli affiliati. A cavalcioni tra verità simboliche e vere menzogne, l’ossessione per la segretezza sparigliava tra i livelli gerarchici dell’Ordine letture profondamente diverse sul senso dell’iniziazione (con idee religiose e politiche radicali solo per gli alti gradi: panteismo ateistico e una sorta di comunismo), rendendo ancor più confusi i confini d’epoca tra illuminazioni razionalistiche ed esoterico/misticheggianti. Del profilo tortuoso di Weishaupt (lettere, testimonianze) e delle sgradevoli connotazioni manipolatorie della sua utopia si può virtualmente ravvisare qualche traccia negli appunti del barone, che constata algido in Pauliska “Rimpianti troppo prolungati, da sopprimere. Indebolire l’immaginazione. Estinguere i ricordi, affinché il desiderio prevalga”.

La parabola dell’Ordine bavarese è breve (1776-1786), fino allo scioglimento e a una repressione piuttosto blanda, ma resta di incredibile potenza mitopoietica, innervando gli odierni cospirazionismi web. Ampie le risonanze anche letterarie, e uno dei Northanger horrid novels, lì ricordato con il titolo inglese The Horrid Mysteries. A Story From the German Of The Marquis Of Grosse ma in realtà traduzione (di Peter Will, 1796) del romanzo tedesco Der Genius, Aus den Papieren des Marquis C* von G** vede il protagonista confrontarsi con una cattivissima setta comunista che sono sostanzialmente gli Illuminati. Se poi quelli “originali” di Baviera non coltivavano in quanto gruppo attività chimiche, queste trovavano attenzione in giri (ideologicamente parecchio diversi, ma) culturalmente non distanti, come certe realtà rosicruciane; e comunque il mito degli Illuminati inciderà sulla saga di corpi del Frankenstein, per cui il nesso con le pratiche qui descritte non stupisce.

Come non stupisce neppure che, partita idealmente la persecuzione di Pauliska in quella medesima Mitteleuropa, lo sviluppo simbolico la conduca tra le ombre dell’altro polo di vilain, una Roma gotica:

 

una città in piena decadenza come la descriverà qualche anno dopo Chateaubriand […] Qui verrà imprigionata nei sotterra nei di Castel Sant’Angelo, un mondo piranesiano tutto consegnato all’orrore, in una creazione di straordinaria efficacia. Révéroni, anticipando la sensibilità romantica, quella dell’Adolphe (1816) di Benjamin Constant, istituirà un rapporto fra lo stato d’animo e l’ambiente.

 

Sul filo della provocazione esaminata in incipit, legittimo a questo punto domandarsi se un gruppo del genere esistesse a Torino, tra gli antichi palazzi da cui siamo partiti. In realtà non ne esistono tracce note, e l’ipotesi di uno strale satirico sembra la più plausibile. Tanto più che – come detto – a Torino risulta fin dal Settecento una presenza significativa della Massoneria, e la Privata società di giovani intellettuali costituita nel 1757 da Luigi de La Grange, Giovanni Cigna e Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio (con altre personalità della cultura piemontese-savoiarda e dell’Illuminismo francese come d’Alembert e Condorcet) poi eretta nel 1783 da Vittorio Amedeo III in Reale Accademia delle Scienze, sembra nata come espressione pubblica di una loggia massonica. Aggiungiamo che, divenuta Reale Accademia con funzioni di consulenza al re, si vede assegnato l’ex collegio dei Nobili, ospitante fin dal 1824 anche le collezioni del Museo Egizio: e considerata la potenza simbolica dei riferimenti egizi nella cultura massonica, il terreno sembra insomma fertile di suggestioni. D’altra parte la Reale Accademia delle Scienze coi suoi contatti internazionali nasce nel 1783, quando gli Illuminati sono attivissimi: e insomma un po’ di materiale per uno spunto fantasioso Révéroni può ben trovarlo, se non qualche soffiata su storie che però non possiamo confermare.

A sottostare comunque alle trovate del barone è tutto un discorso sul desiderio: desiderio che, nel romanzo,

 

è innanzitutto volto al possesso e al controllo, di qui gli incatenamenti, le gabbie e le prigioni di ogni sorta. Gli obiettivi del barone sono tesi a inoculare la passione o a stimolarla tramite il fluido elettrico nella sua vittima, affinché quest’ultima sia prigioniera del suo stesso desiderio per il proprio carnefice. Come l’elettricità che può generarlo, il desiderio è un fluido, che produce l’effetto di una reciprocità – l’essere a propria volta desiderati – e, per le modalità con cui può essere attivato, va a tradursi in una sorta di vampirismo o cannibalismo: la pelle viene strappata a morsi e divorata, il respiro assorbito. Ma questo desiderio è talmente pervasivo e totalizzante da porsi, all’interno di una visione puramente materialistica, come l’unica forma di trascendenza.

 

Questa dimensione vampiresca del desiderio, al termine di un secolo in cui non si sentiva parlare che di vampiri (parola di Voltaire), trova un’icona eccellente nel barone, rincontrato con effetto shock da Pauliska a Roma come Dracula da Harker a Londra:

 

improvvisamente scorsi, sotto il lampione che illuminava la scala principale, un uomo alto e allampanato: uno spettro non avrebbe potuto spaventarmi di più. Quell’essere, dagli occhi scintillanti nel volto livido, mi fissa, si porta l’indice alla fronte come per evocare un ricordo minaccioso, poi tutt’a un  tratto appoggia sul proprio avambraccio tre lunghi, spaventevoli denti… fedele immagine di una tigre insaziabile!… Riconobbi immediatamente il barone d’Olnitz, credetti di sentire di nuovo il suo morso che mi penetrava fino al midollo e rimasi come annientata dal suo sguardo di basilisco.

 

Un vampiresco, anziano ma capace a tratti di ringiovanire, alto aristocratico ungherese, vestito di nero, con occhi scintillanti nel volto livido che quasi paralizzano, un tipo che morde e inocula una peculiare intossicazione, in un contesto dove oltretutto si parla anche di trasfusioni, non può che richiamare il lettore odierno al conte Dracula (in realtà senza nessi fondati, sembra improbabile che Stoker conosca questo romanzo). Ma è un fatto che il mondo immaginale retrostante Pauliska – magmatico di suggestioni e mitemi, di correnti culturali ora provocatoriamente emergenti e ora del tutto sotterranee – influenzerà con potenza la letteratura fantastica, fino a infinite ricadute nella mitopoiesi cinematografica.

Torniamo però al desiderio:

 

Il romanzo si costituisce come una singolare proliferazione di desideri eterogenei – passione, possesso, erotismo – che si dispiegano nei modi più disparati, ma che la narrazione si preoccupa di reprimere e contenere, incessantemente: di qui, come fa osservare Foucault, l’importanza, anche simbolica, dell’ossessiva presenza degli spazi chiusi, delle prigioni, delle caverne. Il desiderio è in costante stato d’assedio, condizione da cui verosimilmente trae ulteriore alimento, come dimostra la perversa gestione delle appartenenti alla setta delle Misantrophiles; tuttavia, come si evince anche dal funzionamento dei vari congegni e pratiche che possono suscitarlo, non può essere governato.

 

Dove il nesso tra imprigionamento in spazi chiusi e congegni ci richiama all’immaginario di un’epoca, al brulicare per esempio di macchine minacciose e strambe nelle Carceri piranesiane: per cui non ci stupiamo troppo che nei luoghi di reclusione di Pauliska la tecnologia riveli un volto perverso. Come le stanze sotto il Danubio dove il torchio da stampa diviene macchina di supplizio per il povero Durand che la protagonista in apparenza strangola, stampandogli addosso al contempo un foglio recante le parole “morte e dannazione per i traditori!” (Pagani: “Inevitabile, a posteriori, risulta il rinvio a Nella colonia penale […] di Kafka, dove la vittima è anche il carnefice di se stesso: immesso nella macchina destinata ad ucciderlo, questa incide automaticamente sul suo corpo la sentenza per la sua colpa”). O come il palazzo romano dove sono installate la campana pneumatica del barone e la strana attrezzatura magnetica di Salviati che ricorda certe macchine di Sade (vi vengono legati prima due bambini, poi Pauliska stessa con Zefirina).

Per non parlare degli altri usi non convenzionali della scienza, come gli effetti speciali scatenati negli anditi labirintici e goticissimi di Castel Sant’Angelo da Salviati – mix ideale di Cagliostro e Giuseppe Francesco Borri (1627-1695, morto in prigionia proprio lì) – in un vertiginoso intreccio di richiami. Quando anzi Salviati, esibitosi in alcuni roboanti prodigi a base di calamite e composti chimici, se ne esce con “Così la folgore punisce i profani!” finisce con l’evocare un duplice richiamo ai lettori: cioè a quel fulmine che aveva accidentalmente ammazzato un associato agli Illuminati, permettendo l’inopinato emergere dei loro documenti segreti (evento poi interpretato come epifania di giustizia divina contro i blasfemi); e insieme all’altro fulmine, ora letterario, cui Sade attribuisce beffardo la morte dell’arcivirtuosa Justine. Anche se poi lo stesso Salviati finirà ucciso – ennesima folgore – dalle sue trovate esplosive.

 

Non è certo infrequente imbattersi, nei romanzi settecenteschi, in macchine di varia natura, ma Pauliska è forse il primo esempio di un’opera che articola la sua narrazione essenzialmente attorno a delle invenzioni meccaniche, ovvero delle apparecchiature scientifiche, inaugurando un percorso che avrà nell’Ottocento le sue esemplificazioni più significative, dal Frankenstein (1818) di Mary Shelley all’Ève future (1886) di Villiers de l’Isle-Adam, dal Doctor Jakyll and Mister Hyde (1886) di Stevenson al Château des Carpathes (1892) di Jules Verne. Con Révéroni Saint-Cyr sono il magnetismo e l’elettricità a costituire lo spunto fondamentale dell’immaginario scientifico, che si avvale per l’appunto dei ritrovati di Franz Anton Mesmer e degli esprimenti di Luigi Galvani e di Lazzaro Spallanzani, il quale aveva dichiarato fra l’altro che il corpo animale è una bottiglia di Leida organica. La “pompe à feu” di Chaillot è del 1781, Lazare Carnot, inventore della termodinamica, pubblica il suo Essai sur les machines en général nel 1784, il 14 maggio 1796 Edward Jenner vaccina per la prima volta un bambino. Al pittore Joseph Wrigth of Derby si deve l’illustrazione quanto mai suggestiva proprio della prima esperienza scientifica che prelude a quelle del barone d’Olnitz, effettuata da Robert Boyle nel 1659: si trattava dell’utilizzo della pompa pneumatica per creare il vuoto e produrre un graduale processo di asfissia su un volatile. Nel caso del dipinto di Wright of Derby, L’esperienza della pompa pneumatica (1768), la cavia-vittima è un piccolo pappagallo.

 

Ma se la vera novità ravvisabile nell’opera può essere costituita da questo “attingere al sapere scientifico, ciò che popola la narrazione da una profusione di oggetti inconsueti, destinati a divenire sempre più frequentemente sfondo, e talvolta soggetto, della produzione romanzesca successiva”, il secondo nodo-chiave e filo conduttore riguarda proprio la seconda parte del titolo, la perversità moderna. Presentata in forma diversa e più inquieta, ben più incerta di quanto Sade stia impostando (fin da Justine). Così, nell’introduzione, alla richiesta di pubblicare le memorie, Pauliska risponde:

 

Lo vedete bene, tutto ciò che i romanzieri moderni hanno ideato in quanto a spettri, a fantasmi raccapriccianti, a perversità immaginarie [pensa a Sade?] non si avvicina neppure alla funesta realtà degli eventi di cui sono stata la vittima e che mi fanno credere alla fatalità.

 

Del resto, tranne qualche cattivo principale che muore (quel vecchio maniaco del barone che alla fine Pauliska compiange, e soprattutto Salviati), gli altri escono di scena con condanne lievi o nulle, attraverso un sistema di protezioni ramificatissimo e losco: l’autore non si fa illusioni sulla giustizia del mondo. In effetti, continua Pagani:

 

Poco dopo, e sempre in questa pagina introduttiva, ritroviamo un riferimento alle maximes perverses che caratterizzano la modernità e che, come le perversités imaginaires, rinviano ad una concezione più che ad uno specifico comportamento. L’epoca moderna sembrerebbe volgere ogni comportamento nel proprio contrario: Pauliska, onesta, si trova a dover stampare della moneta falsa, lei, innocente, causa lo strangolamento di una vittima pure senza colpa, lei, che detesta il proprio persecutore, viene messa nella condizione di provare sensazioni di piacere nei suoi confronti e di constatare l’impossibilità di sottrarsi ad un sentimento di cui prova vergogna, ancora, costantemente preoccupata di custodire il proprio pudore, viene fatta spogliare nuda dal perfido Salviati per i suoi esperimenti. Tutto sembra funzionare alla rovescia nel mondo praticato da Pauliska, senza che ce ne sia la “ragion sufficiente”, proprio come in Candide. Qui però l’ironia dimostrativa di Voltaire è sostituita da un’angoscia esistenziale.

 

Se Pauliska alla fine può riflettere dove conduce la pretesa di “un primo passo verso l’immortalità” – riducendo tutto come Salviati a un materialismo egoistico, derubricando ogni principio a chimera, associandosi con scellerati – anche in fondo per l’autore

 

la perversité moderne risiede […] non solo e non tanto nello stravolgimento dei valori e dei princìpi, ciò che si limiterebbe a fotografare l’allineamento dello scrittore alla società e all’epoca che gli sono proprie, ma, e secondo una prospettiva squisitamente peculiare, nella sovversione di quel portato della cultura scientifica che troverà, nel secolo successivo, un’ampia condivisione.

 

Ritiratosi dall’esercito nel 1814, col grado di tenente colonnello del genio, Révérony continua a scrivere come ha fatto tutta la vita, lasciando  un’ampia produzione tra romanzi, commedie e libretti d’opera (tra i quali guarda caso un Cagliostro, ou les Illuminés, opera comica in tre atti, 1810), testi scientifici e storici. Sforzandosi forse troppo, dice qualcuno, fino a subire vari attacchi di apoplessia: le sue condizioni mentali precipitano e alla fine viene internato in una casa di cura a Parigi, dove muore il 19 marzo 1829. Difficile dire quanto i turbamenti delle pagine di Pauliska, quelli su una perversità peculiare che – forse non a torto – gli pareva soffiare sul mondo moderno, potessero ancora angosciarlo.

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Cervello nero, invenzione sporca (Nightmare Abbey 15/2) https://www.carmillaonline.com/2020/07/25/cervello-nero-invenzione-sporca-nightmare-abbey-15-2/ Sat, 25 Jul 2020 21:03:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61675 di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la prima puntata in margine all’esame del volume Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019).

Fin qui sulla vertigine dell’opera in esame. Le peculiarità delle Carceri non si esauriscono però nella struttura architettonica per cui Piranesi è diventato tanto noto: se esaminiamo con attenzione il contenuto delle tavole, notiamo infatti qualcos’altro. Qualcosa che richiama sì al “dilettoso orrore”, ma in modo persino più macabro. Infatti, le funi e le macchine notate da De Quincey come evocanti [...]]]> di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la prima puntata in margine all’esame del volume Giovanni Battista Piranesi, Le carceri. Spazi immaginali dal caos, Ghibli, Milano 2019).

Fin qui sulla vertigine dell’opera in esame. Le peculiarità delle Carceri non si esauriscono però nella struttura architettonica per cui Piranesi è diventato tanto noto: se esaminiamo con attenzione il contenuto delle tavole, notiamo infatti qualcos’altro. Qualcosa che richiama sì al “dilettoso orrore”, ma in modo persino più macabro. Infatti, le funi e le macchine notate da De Quincey come evocanti “impiego di enorme forza e superamento di resistenza” – come in una versione fantastica della rivoluzione industriale – sono in realtà finalizzate a usi assai più sinistri. Già nella Carcere oscura del 1743, la didascalia identificava un’“Antenna pel suplizio de’ malfatori”: e nelle Carceri quel che l’occhio non coglie facilmente – ma qualcosa, a studiarle con calma, emerge dal chiaroscuro – è rivelato proprio dalle didascalie, per le quali rimando al volume in esame. È anzi possibile notare l’aumento tra la prima e la seconda serie di strumenti di supplizio e immagini di prigionieri torturati: e se le immagini hanno ben poco a che vedere con le prigioni settecentesche e rinviano piuttosto a quelle dell’antica Roma tanto cara all’artista, si tratta di invenzioni, cioè di una rilettura fantastica. Per la disamina delle tavole presentate dall’edizione in esame ci appoggiamo all’analisi di Malcolm Campbell, Piranesi and Innovation in Eighteenth-Century Roman Printmaking (in Art in Rome in the Eighteenth Century, a cura di Edgar Peters Bowron e Joseph J. Rishel, Philadelphia Museum of Art / Merrell 2000).

La tavola I di frontespizio, dove vediamo anzitutto una fantasia architettonica, mostra nell’edizione definitiva un “Interno di prigione con scale e passerelle, strumenti di tortura, catene; in primo piano, in basso, una ruota ad aculei; in alto una figura urlante in ceppi”. A parte quest’ultima – sorta di versione carceraria dell’Urlo di Munch con tutta la surrealtà di tale posizione appollaiata –, la ruota ad aculei che sembra emergere dall’inventiva di qualche cattivo re ariostesco sarebbe pronta a straziare le vittime o forse a impalarle (gli interpreti sono perplessi), cioè si tratterebbe di un’immagine del tutto fantasiosa delle macchine da supplizio. Certo, può far rammentare alcuni meccanismi rotanti inventati per la corte di Nerone o le stesse deliranti modalità di esecuzione che la fantasia dell’imperatore avrebbe partorito: ma tutto passa al filtro di una fantasia quasi onirica, dove l’enormità degli ambienti e delle stesse macchine è in diretto rapporto con la monumentalità delle rovine nelle tavole antichistiche.

Nella II, si specifica che “due carnefici torturano un condannato” ed è forse l’unica tanto esplicita, nel senso che altrove si tratta di suggestioni sfumate e più di frequente l’immagine dello strumento di supplizio prende il posto della scena in atto. Non a caso, questa tavola – come la V – viene aggiunta soltanto nella seconda edizione: e si è osservato che in entrambe le incisioni le figure più piccole recano abiti settecenteschi, con l’aria perplessa dei turisti inglesi a zonzo tra le rovine di Roma. Alla dimensione cronologica dei ruderi antichi devono invece appartenere torturato e torturatori, raffigurati come più grandi: non tanto quali statue ma – si è ricostruito, con attento scavo filologico – come una sorta di visione o tableau vivant dei supplizi fatti infliggere da Nerone tramite Tigellino ad alcuni oppositori. Un teatro, insomma, della crudeltà, con tutta la dimensione di messa in scena che il concetto suggerisce (compresa la scelta del tiranno paradigmatico, oltretutto famoso persecutore di cristiani): ed è inevitabile ripensare alle dimensioni di teatro paludato di storia offerte dal gotico e dallo stesso Sade.

Continuando l’esame delle tavole a partire dalle didascalie, troviamo nella III, “a sinistra, a mo’ di quinta, una grande forca” (noi l’avremmo identificata con un più innocuo supporto per carrucola, ma un concetto non esclude l’altro); nella IV, “in basso, strumenti di tortura” (ruota da supplizio, pali appuntiti…). Per quanto riguarda invece le tavole V-VII – la V, come già detto, viene aggiunta nella seconda edizione – le didascalie citano solo corde, catene e pulegge: ma, studiandole con un po’ di attenzione, è possibile riconoscere raffigurazioni di prigionieri pronti ad bestias (ci sono anche leoni: V), un fuoco dall’aria molto sinistra (per rogo o abbruciature?: VI) e macchine di tortura (VII).

Le didascalie delle tavole VIII e IX non esplicitano particolari minacciosi, e la prima mostra in effetti enormi panoplie in stile Castello d’Otranto; ma la seconda, sia per i dettagli un po’ sfuggenti in primo piano, sia per l’immane ruota che occupa quasi tutta la scena, non lascia troppo tranquilli. In realtà, non sembra neppure che la struttura possa definirsi propriamente ruota, pare più una cornice circolare o l’angosciosa, titanica versione carceraria di una sfera armillare, con travi curve e ponteggi su cui si affaccendano figure.

Il tema dei prigionieri torna però nella tavola X, con “un gruppo di condannati legati sopra una grande mensola sporgente a sinistra. A destra grosse catene”: a parte la strana figura urlante appollaiata nel frontespizio, questa tavola è l’unica che già nella prima serie mostri dei prigionieri. La didascalia della tavola XI presenta solo una menzione a cordami, ma la XII evoca tra il resto “strumenti di tortura” e la XIII addita “appesa in alto una ruota ad aculei” (a parte “una lanterna pendente da una forca” e varie amenità sparse in giro come arredi). Di nuovo la tavola XIV cita solo i cordami, ma guardando bene si nota appesa a una trave una gabbia per sospendervi i prigionieri: in sostanza si tratterebbe di un’“Antenna pel suplizio de’ malfatori”, come in quella precedentemente citata. La XV non sembra mostrare dettagli disturbanti.

Un discorso a parte va poi fatta sull’ultima, la tavola XVI, che ostenta una “stele con due teste entro nicchie e la scritta ‘Impietati et malis artibus’” – ma in realtà le scritte sono varie, e sia pure con qualche libertà Piranesi le mutua da autori latini. Qui le attrezzature da carcere ci sono, ma sembrano abbandonate, e le persone presenti appaiono piuttosto dei visitatori: si è discusso a lungo sul significato e, quanto ai dettagli, i pareri sono variegati, ma una linea interpretativa di fondo sembra ormai consolidata. Se anche grazie alle due tavole inserite nella seconda edizione – in particolare quella con la scena di tortura – si evocava la barbarie della tirannide neroniana, qui sembra invece esaltata la severa e austera giustizia della res publica “sana” in termini morali, politici (si veda la citazione da Livio su una colonna, che rinvia alla scelta sotto Anco Marzio di edificare la prima prigione di Roma “ad terrorem increscentis audaciae”) ed estetici (l’enfasi anti-greca). Altre frasi in latino più o meno riconducibili a Livio richiamano agli episodi dell’Orazio uccisore della sorella che aveva visto piangere per uno dei Curiazi, e della giustizia rigorosa di Bruto liberatore dai Tarquini contro i suoi stessi figli cospiranti per il ritorno del re tiranno (le teste nelle nicchie). Una specie di lieto fine della serie, insomma, ma fino a un certo punto: i richiami a questo tipo di giustizia inflessibile evocano nel complesso un messaggio altamente repressivo, con cui Piranesi affida le Carceri ai posteri.

Lasciando alla critica specializzata l’indagine su un senso globale di queste tavole quanto a motivazioni dell’artista (anche mutate, eventualmente, dalla prima alla seconda versione), di significati dichiarati o meno, e di pulsioni legate alla sua fantasia, resta il fatto che le Carceri entrano in circolo nel mondo culturale recandovi un impatto impressionante. L’attenzione si sofferma soprattutto, come abbiamo visto, sulle febbri dell’immaginario architettonico; tuttavia, almeno in subordine, emerge l’altro aspetto, ovvero la disturbante festa dei supplizi. Si aprono così tre fronti di riflessione, di cui ci limitiamo a fornire alcune note.

Il primo riguarda più strettamente il linguaggio artistico e ritorna in particolare sul sentimento del sublime, a cui si è già fatto cenno in precedenza a proposito dell’influenza che le Carceri esercitarono su Walpole e sulle sue descrizioni degli interni de Il castello d’Otranto. Lo storico dell’arte Giuliano Briganti, nel suo volume del 1977 dal titolo quanto mai eloquente I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, afferma: “è nell’opera di Piranesi che si manifesta la prima concreta attuazione artistica del Sublime, a cominciare dalle Carceri”. Nell’analisi che ne segue, Briganti mette in luce, con una prosa dalla grande forza immaginifica di cui vale la pena riportare alcuni stralci, le diverse sfaccettature che l’estetica del sublime assume nelle due serie di acqueforti. Ne rileva in primis un aspetto più severo dove il terrore, con la messa in scena di condannati, carnefici e strumenti di tortura, funge da ammonimento, da exemplum virtutis, evocando “la celebrazione della lex romana e dell’idea repubblicana di giustizia” e, più in generale, della “grandezza morale che emana dalla «magnificenza» di Roma”. Insomma, come appena ricordato, tutti quei valori che sembrano essere veicolati e messi in risalto dall’emblematica e conclusiva tavola XVI.

Tuttavia – sostiene Briganti –, l’efficacia di questo “terrore che ammonisce” può attivarsi soltanto attraverso “la distorsione della realtà, l’irrazionale stravolgimento della scala normativa delle proporzioni, il ricorso totale alla funzione rievocativa della fantasia”. Ed ecco irrompere un’altra valenza del sublime, più onirica e cupa, in linea con il contenuto dell’Enquiry di Burke, che si traduce “nella grandiosità vertiginosa, nella fantastica complicazione prospettica e nell’ancor più fantastico stravolgimento architettonico e spaziale delle Carceri, così come nel loro aspetto minaccioso e tenebroso”. Piranesi gioca sulle ambiguità strutturali e su prospettive irreali, generando nello spettatore un disorientamento profondo, angoscioso – che ci riporta all’aspetto più famoso e apprezzato delle sue acqueforti.

In questi spazi immensi, destabilizzanti, a tratti labirintici e potenzialmente infiniti, si aggiunge infine un’altra componente, ovvero “quell’effetto di oscurità che, secondo il Burke, era fondamentale per ottenere la sublimità nell’architettura”, e che interessa in particolar modo la seconda versione delle Carceri, dove l’uso del chiaroscuro viene prepotentemente accentuato.

Si rilevano insomma tre declinazioni di grandiosità: una morale, l’altra spaziale e infine una grandiosità di tenebre, che insieme contribuiscono a delineare nelle acqueforti di Piranesi una predominanza del sublime terrifico. Tuttavia, osservando la tavola IV, ci pare di poter cogliere un’ulteriore suggestione, soprattutto per l’esemplare nel primo stato. Nel fregio scolpito che sovrasta l’arcata, col suo susseguirsi di personaggi che sembrano afferire al mondo bucolico e mitologico, sembra trovare eco il sublime “chiaro” e altrettanto grandioso vagheggiato da Winckelmann di fronte alle vestigia dell’antichità classica. È pur vero che anche qui l’oscurità incombe: i conci in ombra dell’apertura in primo piano diventano un’inquietante cornice per le strutture architettoniche più interne; inoltre, i cordami neri tagliano la continuità del bassorilievo, quasi come metaforici sfregi. Eppure, questa rievocazione dell’antico, per quanto pressata da zone buie poco rassicuranti e, nella seconda versione, minacciata nella sua serena grandezza dalla sinistra presenza di spaventose macchine di tortura, riesce comunque a non essere fagocitata del tutto dal “dilettoso orrore”, conservando un suo spazio luminoso.

Il distacco dalle idee di Winckelmann diventa quindi maggiormente evidente nella seconda edizione delle Carceri; tuttavia, per quanto Burke affermi nell’Enquiry che “tutti gli edifici calcolati in modo da suscitare l’idea del Sublime dovrebbero essere oscuri e tetri”, è altrettanto vero che l’intensità delle tenebre risulta tanto più dominante quanto più deve contrapporsi all’incedere della luce.

Il che traghetta a una seconda riflessione. Osserva Praz che “Con le Carceri il Piranesi è il solo deg’italiani ad affacciarsi sull’abisso del caos – quel caos che di più in più diventerà appannaggio del mondo moderno”. Verissimo, ma in questo caso si tratta di un caos nel segno non dell’anarchia, ma della repressione autoritaria, “tirannica” o meno. Badiamo, la forza critica delle Carceri sta già nella struttura architettonica evocata. Se, come osserva Yourcenar, la vertigine di fronte alle tavole è “provocata non dalla mancanza di misure (perché mai Piranesi fu più geometra), ma dalla molteplicità di calcoli che si sanno esatti e che conducono a proporzioni che si sanno sbagliate”, l’ordine che ne emerge è nel segno dell’assurdo e della perdita, in un mondo privo di centro e angosciosamente, indefinitamente espandibile: un ordine come labirinto privo d’uscita, come affaccendarsi brulicante di omini dalle soggettività incomprensibili, un’immagine insomma – forse persino al di là di quanto l’autore possa concepire con lucidità – profondamente trasgressiva.

Tuttavia, il problema si ripropone con l’oggetto, con quei supplizi. Intendiamoci, tutta l’arte della prima età moderna gronda simile gore, e si può immaginare che gli osservatori delle tavole lo notino fino a un certo punto – tanto più che il tipo di evocazione dice e non dice, mostra e nasconde, denuncia asciuttamente nelle didascalie e infratta coi chiaroscuri. Ma è chiaro che i riferimenti al supplizio nelle incisioni di Piranesi sono qualcosa di molto diverso dal “macabro con santi” ostentato con compiacimento nelle chiese, o dagli infiniti orrori presentati nelle stampe correnti d’epoca. Qui c’è una monumentalità laica, prekafkiana delle scene, e oltretutto una serialità. Piranesi conosce certamente la ferocia della giustizia veneziana, ha potuto senz’altro vederla amministrare (si pensi solo agli omosessuali impiccati in Piazzetta) ed è al corrente almeno in parte di ciò che avviene nel chiuso di quelle carceri terribili. Altra giustizia la vede a Roma, gestita dai boia del papa re, col ricordo oltretutto (appannato ma non certo rimosso) dell’epoca “d’oro” dell’Inquisizione: non c’è bisogno di riesumare Nerone, anche se ovviamente il suo mondo lontano si lega a stretto filo al resto della produzione piranesiana sulle antichità dell’Urbe. In ogni caso, qualunque significato – di presa d’atto o di critica velata dell’esistente – si attribuisca al livello soggettivo dell’artista, quel che salta agli occhi è il teatro di un’istanza repressiva forse mai resa nell’arte con altrettanta forza. Rendendo infinito il labirinto, crudeli i particolari, stranianti quelle tavole dove i distinguo tra supplizi in nome di una o dell’altra giustizia non sono immediatamente percepibili allo spettatore (che, anche informato sul senso della tavola XVI, non si sente troppo sollevato), e a denunciare tra opposte e angosciate vertigini “che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, Piranesi fa delle Carceri l’immagine mitizzata, archetipica del rapporto del mondo nuovo con la repressione.

Anche se è improbabile che possa desiderarlo, Piranesi diventa così un ideale “precursore della Rivoluzione con quell’ossessione di colossali bastiglie”, aiutando a vederne l’intollerabile mostruosità. Del resto, nello stesso 1764 del Castello d’Otranto, Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene, che nel 1766 finisce all’Indice per la distinzione tra reato e peccato: è chiaro che discorsi improntati a una dimensione – diremmo oggi – di innocuo umanitarismo presentano al tempo una carica provocatoria diversa e considerata sovversiva. Ma al di là dello specifico di quella stagione storica, nella chiave monumentale, esagerata e ambigua di una provocazione nata come estetica (il “Capriccio”) e poi forse evoluta in altro, le Carceri pongono in scena in termini mitici – cioè esemplari, di macchina per pensare – il teatro degli orrori autoritari di tutte le possibili realtà storiche, e in particolare di quell’età moderna che lì sta nascendo. Denunciandoli come roba vecchia, anticaglia tirannica, un Mondo Vecchio che però insidia e corrode qualunque Mondo Nuovo: dove quella vecchiezza è più una connotazione intrinseca che un dato cronologico – e i caratteri retrivi, retroflessi dell’istanza repressiva riemergeranno e riemergono a tutt’oggi di continuo. In questo senso, le antiquarie Carceri di Piranesi inscenano il teatro della sopravvivenza nell’oggi di un certo tipo di istanza sanzionatoria, dei suoi piccoli uomini, del labirinto sociale attraverso cui si perpetua, nonché una sfida alle società via via succedute a verificare lì i propri paradigmi punitivi. Perché non accada che, come di fronte alla tavola XVI, si fatichi a tirare un sospiro di sollievo.

Fin qui sulla provocazione artistica e su quella ideale, potenzialmente giuridica, politica. Ma c’è un terzo fronte: lo scavo nel passato evocato dal mix di suggestioni delle Carceri è anche lo scavo in dimensioni labirintiche dell’interiorità. Già dice qualcosa che Piranesi lo avvii come un Capriccio: non tanto quelli dei decori rococò (del resto si è già visto come tratta le sue Grottesche) quanto altri più algidi, i terribili capricci della tradizione libertina. All’apollineo di Winckelmann, Piranesi oppone un dionisiaco rabbioso, estatico ma aggredito dalla malinconia libertina (quella che l’ottocento riverserà sui vampiri letterari): il vedo/non vedo dei supplizi da lui posti in scena in un apparato grandioso finisce con l’usare i chiaroscuri come uno spioncino. Se nei coevi mondi novi – macchine ottiche di intrattenimento popolare – proprio su uno spioncino si poneva l’occhio, uno solo, in quella ben diversa macchina ottica a scene mutanti che sono le Carceri, Piranesi permette di puntare idealmente il “solo” occhio ciclopico dello spettatore sul Mondo Vecchio dei supplizi in scena.

In un’incisione allegorica che nel 1764 Piranesi trae da un disegno del Guercino, al centro si può riconoscere una tavolozza da pittore con la scritta tra i colori: “col sporcar si trova” (cfr. Francesco Dal Co, “Piranesi e la malinconia”, in La Rivista di Engramma, gennaio 2001, n. 5). Nel dialogo tra Didascalo e Protopiro, gli interlocutori della sua principale opera teorica, il Parere sull’architettura (1765), si comprende cosa intenda: lo sporco è anzitutto il risultato dell’azione corrosiva del tempo e per afferrarne l’essenza chi inventa deve sporcare, usare l’impurità e giocarvi, avventurarsi con audacia tra “ornamenti tutti stranieri” per trovare correttivi. Sporca e impura è appunto l’architettura, dove la magnificenza si trova accompagnata costantemente da un polveroso decadere, e sta all’architetto tentare di mitigarlo confrontandosi di continuo con esso (come hanno fatto, secondo lui, i romani con la magnificenza ormai corrotta e sporca dell’arte greca). Qualcosa del genere riguarda il torbido delle Carceri, uno sporco di chiaroscuri fatto mordere alla lastra di rame dallo sguardo ciclope dell’artista melanconico – uno sguardo ciclope che è anche quello di un’epoca che va scoprendosi moderna, tra diversi tipi di Lumi e d’illuminazioni, talvolta molto livide.

Così Piranesi inserisce quei corpi prigionieri in un carcere sporco di secoli e di magnificente grandezza; osserva con freddezza quelle formiche umane torturate o torturanti, senza prender parte ai loro drammi sul palcoscenico di un mondo dove regnano il caso e l’assurdo (merita ricordare quell’amico di Walpole, George Augustus Selwyn, 1719-1791, nato solo un anno prima di Piranesi e appassionato cultore di scene di morte, sui patiboli e non solo); connette i supplizi ad attrezzature d’invenzione dall’ingombro quasi steampunk, a un passo dal corpo-macchina dei libertini e prefigurando le macchine di Sade. Se la vita è metafora del tempo, anch’essa e il corpo stesso tendono alla corruzione, allo sporco: e l’invenzione ha per Piranesi il posto che l’immaginazione ha per Sade. Il chiaroscuro a quel punto non è solo un effetto d’acquaforte, ma forse qualcosa nella morsa acida dell’animo, uno spioncino che gioca col suo sporco. Di Piranesi, con tutti i suoi misteri, e in fondo del mondo moderno.

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Sesso, bugie e video-Gnosi, ovvero: de Sade 200 (Nightmare Abbey 5) https://www.carmillaonline.com/2014/12/01/sesso-bugie-video-gnosi-ovvero-de-sade-200/ Mon, 01 Dec 2014 22:01:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19163 di Franco Pezzini

sadeIl luogo dove il Marchese de Sade fece sosta a Torino (1775), l’Hòtel d’Angleterre avanti la chiesa di santa Teresa, sembra essere stato ingoiato dalle trasformazioni della città: andando sul posto con la scrittrice Claudia Salvatori, esperta nel pensiero del filosofo morto due secoli fa, il 2 dicembre 1814, troviamo un palazzo ben più recente. Una scomparsa che pare in fondo buona metafora di tutto quanto si è perso di lui: a partire dal gran falò di testi inediti con cui l’imbarazzatissimo figlio maggiore cercò di cancellare il cancellabile.

Ma [...]]]> di Franco Pezzini

sadeIl luogo dove il Marchese de Sade fece sosta a Torino (1775), l’Hòtel d’Angleterre avanti la chiesa di santa Teresa, sembra essere stato ingoiato dalle trasformazioni della città: andando sul posto con la scrittrice Claudia Salvatori, esperta nel pensiero del filosofo morto due secoli fa, il 2 dicembre 1814, troviamo un palazzo ben più recente. Una scomparsa che pare in fondo buona metafora di tutto quanto si è perso di lui: a partire dal gran falò di testi inediti con cui l’imbarazzatissimo figlio maggiore cercò di cancellare il cancellabile.

Ma d’altra parte anche le opere salvate – una pletora, perché Sade, prigioniero a più riprese e per lunghissimi anni, riuscì rabbiosamente a sopravvivere soprattutto attraverso la scrittura – sono state spesso lette male, all’insegna del più accecato pregiudizio o invece alla ricerca di fregole facili. Spesso non si sono colti la natura mitica dei suoi personaggi e delle rispettive azioni, il carattere di provocazione al vetriolo delle sue trovate (nel breve periodo di vita politica sotto la Rivoluzione, alla prova dei fatti Sade si mostrò molto più moderato di quanto le teorie vagheggiate potessero suggerire); come spesso non si è considerata la componente emotiva di rabbia verso poteri che, lordi di delitti ben peggiori dei suoi, lo ingabbiavano come pericoloso degenerato. Ma se il Sade della vulgata popolare, il mostro capace di qualsiasi nefandezza, si è spesso sovrapposto all’autore e all’uomo, d’altronde non può neppure soccorrere la cifra buonista: in luci e ombre il personaggio va calato in un certo tipo di mondo, di aristocrazia d’epoca, di pensiero libertino. Anche se poi, sbirciando nello spioncino dell’animo umano come attraverso uno di quei mondinovi tanto diffusi all’epoca, saprà dimostrarsi efficace interprete e veggente della nostra (post)modernità.

Oggi disponiamo in realtà anche in Italia di numerosi testi biografici che fanno giustizia delle affermazioni più rozze circolanti sul Nostro. Tra i volumi popolari cito Il Marchese De Sade di Dante Serra a cura di Francesca Mazzucato (Odoya 2011), che aggiorna e arricchisce un’opera molto ben scritta e interessante del 1950; mentre tra i saggi di livello accademico basta menzionare le opere di Gilbert Lely, Il profeta dell’erotismo. Vita del Marchese De Sade (Pgreco 2012) e Jean-Jacques Pauvert, Sade. Un’innocenza selvaggia 1740-1777 (Einaudi 1988). In particolare Pauvert, enorme esploratore della letteratura erotica scomparso pochi mesi fa, ha saputo ricostruire un quadro straordinario, appassionato e minuzioso dell’avvio delle avventure del Marchese; restano purtroppo non tradotti in italiano i due successivi volumi di questo percorso intitolato unitariamente Sade vivant, apparsi in Francia nel 1989 e nel 1990. Non mancano poi interessanti saggi di taglio monografico, come quello originalissimo di Antonio A. Casilli, La fabbrica libertina. De Sade e il sistema industriale (Manifestolibri 1996). Mentre a citare solo uno degli ultimi richiami al Nostro in chiave letteraria, il terribile romanzo testamentale di Jacques Chessex, L’ultimo cranio del marchese di Sade (Fazi 2012, cfr. qui e qui) pare un buon antidoto alle confusioni tra fantasie sadiane e stucchevole erotismo modaiolo da Cinquanta sfumature di grigio.

Dal punto di vista dei miti postmoderni, la gestione del personaggio Sade presenta tratti di straordinario interesse: e una buona cartina al tornasole è il cinema, che di lui ha presentato ritratti diversissimi – quasi facendosi forte dell’ambiguità di una ritrattistica in gran parte immaginaria. Dove un primo aspetto d’interesse è offerto dalla latitanza della figura di Sade fino alla fine degli anni Sessanta: certo la sua opera aveva già influito in modo significativo sul cinema, ma in quanto personaggio Sade viene sfuggito. Si pensi a L’Age d’Or di Buñuel e Dalí, 1930: vi compare un marchese “de X.” che però non c’entra affatto e suggerisce al massimo un omaggio, in vista del provocatorio finale (quello sì) sadiano. Fatti salvi del resto maestri della provocazione come i surrealisti, in generale registi e sceneggiatori sarebbero terrorizzati dall’evocare una figura considerata innominabile, marchiata da anatemi clericali come laici, e comunque conosciuta per sentito dire. Una situazione che si protrae più o meno fino agli anni Sessanta, quando una certa riscoperta degli Olimpi neri (indicativo per l’Italia d’epoca il catalogo Sugar) libera anche il kraken dell’erotismo.

In pochi anni Sade compare a quel punto varie volte sullo schermo, sia pure con approcci e stili narrativi diversi. Per il grande cinema c’è il visionario ma in fondo realistico Marat/Sade di Peter Brook, 1966, tratto dall’opera teatrale di Peter Weiss di poco precedente (Die Verfolgung und Ermordung Jean Paul Marats dargestellt durch die Schauspielgruppe des Hospizes zu Charenton unter Anleitung des Herrn de Sade, 1963/5) con l’intensa, carismatica interpretazione di Patrick Magee. E tre anni dopo il surreale La voie lactée di Buñuel, 1969, in cui il cameo del Marchese – Michel Piccoli – che tenta di indurre alla negazione di Dio una giovane prigioniera da lui seviziata resta indubbiamente odioso. Mentre sul fronte del cinema popolare (e fatto salvo il brillante horror The Skull di Freddie Francis, 1965, da un racconto di Robert Bloch che però di Sade vede solo le spoglie), parossistico e ai limiti del fantastico è il registro di Justine di Jess Franco, 1968. A incarnare il Marchese colto a scrivere negli interludi della vicenda, e anzi visitato in cella dalle ombre delle sue eroine, vi troviamo Klaus Kinski: una scelta fisica d’attore che tra l’altro richiama felicemente uno dei più bei ritratti dedicati a Sade, quello (ancora una volta immaginario) di Man Ray del 1938.

Più curiosa un’altra riscrittura popolare, a tutt’oggi l’unica con l’ambizione di abbracciare l’intera biografia del Marchese – cioè il patinato e romantico De Sade di Cy Endfield, 1969. Alla cui sceneggiatura lavorano nientemeno che Roger Corman – che però abbandona il progetto, scettico sulle possibilità di potersi muovere con la necessaria libertà – e Richard Matheson; e se una parte viene comunque diretta da Corman (che supplisce Endfield ammalatosi) resta la curiosità su come il film sarebbe risultato sotto qualcuno degli altri registi ipotizzati o comunque in zona, Gordon Hessler, il grande Michael Reeves o addirittura John Huston – non considerato dalla produzione ma con suo esplicito dispiacere, e qui nella parte dell’infame zio abate. Il Marchese avvenente interpretato da Keir Dullea, alla deriva in un labirinto interiore tra teatro e prigione dove le orge sembrano balletti e il nodo centrale sta nel rifiuto di un matrimonio combinato, finisce con il rappresentare la revisione filmica estrema del personaggio Sade. Poi però, passata la stagione delle provocazioni, e a dispetto della quantità di trasposizioni di romanzi sadiani, il Marchese scompare dalle scene.

Quando lo ritroviamo ha cambiato i connotati. Prodotto sulla scia di una serie di horror giovanilistici del decennio a cavallo tra paura e grottesco, Waxwork di Anthony Hickox, 1988, appare interessante soprattutto sul piano delle mitologie postmoderne. Non tanto per l’ambiente, un museo delle cere i cui tableaux sprofondano gli incauti che vi mettano piede all’interno delle storie rappresentate (il classico varco di dimensioni del coevo fantastico americano di cassetta), e che schiuderebbe un’apocalittica minaccia per l’intera umanità; quanto proprio per la figura di Sade e le dinamiche che innesca. Anzitutto il Marchese (interpretato da J. Kenneth Campbell) finisce qui canonizzato all’interno di un catalogo di mostri “classici”, dato che il suo tableaux compare accanto a quelli del Vampiro, della Mummia e dell’Uomo Lupo: queste macedonie le avevano già varate per esempio i fumetti erotici italiani, ma che ora arrivino – sia pure addolcite – su grande schermo per giovanissimi dice qualcosa sull’evoluzione della teratologia. D’altra parte in Waxwork il ritratto del Marchese è quello di un ribaldo, piratesco vilain da film d’avventure, abile con la spada e sodale di un principe – forse una libera mutazione del Sade cavaliere sceneggiato da Matheson; e in una pellicola dall’erotismo altrimenti insussistente colpisce l’enfasi sull’attrazione subita dall’eroina di turno per le performance con la frusta nel tableaux di lui.

Ma ormai siamo alle soglie degli anni Novanta, e con il montare di moda dell’erotismo fetish in parallelo a un certo recupero di miti e climi gotici, anche Sade riguadagna attenzione da parte dei produttori. Una strana versione poetica e disturbante dove gli attori indossano maschere animali, Marquis di Henri Xhonneux e da lui sceneggiata insieme al geniale Roland Topor, 1989, vede il Nostro (Philippe Bizot, voce di François Marthouret) con faccia da cocker e intento in surreali chiacchierate con il proprio membro (dal nome Colin – un pupazzo animato e parlante). Quattro anni dopo esce Night Terrors di Tobe Hooper, 1993, su cui mi soffermerò in prosieguo; segue Dark Prince (aka Marquis de Sade) di Gwyneth Gibby, 1996, dove il protagonista è interpretato da uno zingaresco, avventuroso Nick Mancuso memore forse del vilain di Waxwork.

Per arrivare al 2000, che sul tema vede uscire addirittura due film per grande pubblico: anzitutto lo storico-drammatico Sade di Benoit Jacquot con Daniel Auteuil, dove troviamo il Marchese impegnato a iniziare la giovane Emilie alle vie dell’eros e a salvarsi la testa dalla ghigliottina; e il liberissimo Quills di Philip Kaufman col mattatore Geoffrey Rush, dall’opera teatrale di Doug Wright, in chiave di critica a censure e limiti della libertà d’espressione. Simili fasi di intenso successo di un personaggio su schermo alternate ad anni di eclissi non sono strane (si pensi, per un caso diverso ma non troppo da un punto di vista mitico, alle evocazioni filmiche della Contessa Báthory – di cui sono ricorsi proprio quest’anno il 21 agosto quattrocento anni dalla morte), ma la loro mappatura dice molto sui riferimenti virtuali di un immaginario d’epoca.

 

220px-Night_Terrors_VHS_coverTra queste pellicole, vorrei soffermarmi (con spoiler) su una delle meno considerate, Night Terrors di Tobe Hooper, appunto del ’93. Diciamola tutta, Hooper ha fatto di meglio: il regista di Non aprite quella porta, 1974 e Poltergeist, 1982, ha una produzione discontinua, ma in questo caso vola piuttosto basso. Eppure il film – cui la distribuzione italiana in DVD evita oggi il titolo becero in precedenza usato, Le notti proibite del marchese de Sade – presenta qualche motivo d’interesse proprio per il ribaldo assemblaggio di miti postmoderni.

Prodotto da Yorum Globus e Christopher Pearce e dalla Global Pictures, insieme con Harry Alan Towers, Night Terrors rappresenta una sorta di ennesima, libera rilettura di La Philosophie dans le boudoir del nostro Marchese, 1795. Non a caso era stato proprio Towers a produrre le prime pellicole sadiane di Jess Franco, e in particolare quel leggendario De Sade 70 (aka Philosophy in the Boudoir, o Eugenie… the Story of her Journey into Perversion) che trasponeva ai tempi moderni La Philosophie grazie ai soliti complici Maria Rohm, Jack Taylor e Paul Müller e all’apporto carismatico di Christopher Lee nei panni del narratore Dolmancé. Il piccolo dettaglio di non aver informato Lee del carattere erotico dell’opera in cui si inseriva il suo contributo può aver contribuito, a detta dei beninformati, alla misteriosa sparizione del film dal circuito inglese tramite intervento dei legali dell’attore. Inutile comunque dire che Night Terrors non vanta la stessa dignità, benché Robert Englund nei panni doppi del Marchese e del suo folle discendente ce la metta tutta, e il resto del cast offra prova di onesta professionalità.

Il film, anche stavolta di ambientazione odierna, inizia però con un prologo settecentesco, in cui Sade viene barbaramente torturato in carcere: non solo le guardie lo frustano – suscitando peraltro il suo piacere masochistico – ma gli devastano l’occhio destro con qualche acido. Certo la prigione che dovrebbe risultare spaventosa, con grappoli sordidi di reclusi e attrezzi da tortura qui e là, evoca piuttosto un set da videoclip, facendo rimpiangere i fumettoni di fine anni Sessanta: ma l’insieme ha un sapore oggettivamente malsano. Englund offre di Sade l’incarnazione più repellente mai apparsa su schermo, con la maschera del volto coperta di funebre cipria, sopracciglia dipinte e l’occhio morto che biancheggia come un uovo bollito. Nonostante le torture il personaggio non perde la sua losca baldanza, e augura il malocchio agli altri prigionieri che lo sfottono; anzi proprio il suo sguardo sembra recare qualcosa di calamitoso, visto che riesce a far accecare un altro prigioniero che l’ha deriso, solo recitandogli come mantra (la dinamica resta non chiara) un ossessivo “Guardami”. E sul tema dello sguardo e dell’accecamento tutto il film giocherà, forse (ma il dubbio è lecito) ammiccando al voyeurismo legato a un certo tipo di fantasie.

La storia, all’improvviso, si sposta ad Alessandria d’Egitto nel 1993. L’archeologo americano Bob Matteson (William Finlay) sta dirigendo – recita la battuta in italiano – “il più grande scavo sull’era naustica che ci sia mai stato”. In realtà, con buona pace del traduttore nostrano di audio e sottotitoli, i presunti eretici Naustici annientati nel IV secolo di cui parla la sceneggiatura sono piuttosto gli Gnostici, come evidente dalle battute originali: gente che – semplifica grevemente Bob, a beneficio della figlia Genie e di spettatori di bocca buona – si definivano cristiani ma c’entravano poco, pensavano che Cristo fosse una creatura spirituale e che Dio e Satana fossero una cosa sola… Non è chiaro a quale confessione cristiana appartenga Bob, ma la simpatia un po’ buffa dell’interprete non toglie il fastidio per la sua devozione eccitata e asfittica.

Il fatto è che la biondina Genie – cioè Eugenie (Zoe Trilling di Night of the Demons 2) – è appena arrivata ad Alessandria dagli USA; e all’aeroporto per riceverla, Bob incrocia con un certo imbarazzo una giovane avvenente che mostra di conoscerlo, Sabina (l’israeliana Alona Kimhi, in seguito scrittrice di successo: i suoi Lily la tigre e La lettrice di Shelley sono editi in Italia da Guanda). Scopriremo solo più avanti – ma in modo così obliquo da far pensare al taglio di qualche scena – che Bob con Sabina deve aver avuto trascorsi vivaci, ai quali è seguito il misterioso suicidio di sua moglie.

Dopo una nuova comparsata in flashback di Sade, intenzionato a vendicarsi dell’ex-amante Madame de Beaumont – che l’ha fatto imprigionare dopo esser passata nel letto del re – ricompare Genie. In tempo per essere aggredita tra i vicoli della città vecchia e salvata (fin troppo facilmente, dovrebbe capirlo) dall’equivoca Sabina che se la rimorchia a casa. Genie scopre così di assomigliare moltissimo alla figura femminile di un ritratto settecentesco lì in mostra: guarda caso quella Madame de Beaumont che Sabina entusiasta presenta come “una delle più grandi cortigiane”, amante di Sade e poi del re. Sabina approfitta anzi per donare alla nuova amica una preziosa copia de La Philosophie dans le boudoir, salutandola benvenuta nella sua nuova casa e innalzando voti “al nostro incontro e alla libertà”.

Quando Bob vede la figlia ricondotta in auto da Sabina non è affatto contento, accenna che quella donna è una libertina e si fa promettere da Genie che non la rivedrà. Ma accenna anche di essere richiamato agli scavi, e che avrebbe tanto voluto stare con la figlia ma proprio non può: insomma il solito padre distratto e un po’ ipocrita delle saghe gotiche di daughter in distress, la cui latitanza permette alla fanciulle il confronto diretto col Male.

Il seguito è abbastanza prevedibile: sull’onda delle letture di Sade, Genie viene iniziata alla droga da Sabina (con un esoticissimo narghilè, tra serpenti e umani assortiti) e al sesso dall’avvenente Mahmoud. E a una festa tra ricchi eccentrici compare anche un tipo che – abiti a parte – a Sade assomiglia moltissimo (e ovviamente è sempre Englund): si tratta del padrone di casa, tale Paul Chevalier amico di Sabina, appunto discendente dal Marchese.

Ma inframmezzate alle sequenze della festa, lo spettatore assiste ad altre in cui una figura paludata – Fatima, governante dell’archeologo – mormora una parola d’ordine e viene introdotta in un tempio segreto: i fedeli vestiti di nero sono genuflessi in preghiera davanti a un’immagine sirenica con coda di pesce, tra pitture simil-egizie, simboli arcani, candele, fiamme e fumi rossastri. C’è anche una bilancia, i cui piatti sono retti dalla figura della sirena… E quando, poco dopo, una simile immagine appare nella cella appena scoperta dello scavo di Bob, anche un tonto comprende che la setta litaniante di cui Fatima fa parte è quella degli Gnostici sopravvissuti all’apparente soppressione del IV secolo.

È a questo punto che attorno a Genie iniziano i delitti: l’amica Beth, Fatima stessa e Bob vengono assassinati uno dopo l’altro, e la ragazza corsa a rifugiarsi da Sabina viene da lei prontamente drogata. Di qui una sequenza onirica, al cui culmine appare in alto una croce: poi questa ruota su se stessa, e scopriamo che a esservi appeso è Sade – appeso si fa per dire, e con una rosa in mano. Lungo le strade del vizio sbocciano rose profumate, proclama, gettando il fiore a Genie che una donna-serpente titilla con crescente soddisfazione. Poi la croce torna a ruotare, Sade sparisce… e abbandonato lo sguardo di Genie torniamo a vedere cosa accade in realtà, con la ragazza sul letto tra le braccia di Sabina che ne prende piacere, e Chevalier assiso voyeuristicamente di fronte. Poco dopo Genie si risveglia in catene, trovando la presunta amica che acconcia Chevalier – che naturalmente è l’assassino – come l’antenato settecentesco.

Lasciamo pure perdere i moventi dei delitti in quanto tali. La volontà di Chevalier di consumare la vendetta dell’avo Sade su Madame de Beaumont pervertendo e distruggendo una discendente/sosia di lei, e il desiderio di piazzare le mani su un’urna rinvenuta negli scavi gnostici e contenente il più grande segreto della Cristianità – salterà fuori l’ennesima bilancia – sono meri pretesti per il meccano della storia. Ma con interessanti risvolti simbolici.

Anzitutto il tema dell’iniziazione, che nel film investe Genie da più punti di vista. Il primo e più ovvio riguarda il suo Journey into Perversion attraverso il dono del volume di Sade e il coinvolgimento in una serie di esperienze dirette di droga e di sesso (peraltro di piccolo cabotaggio). Se però, come anticipato, Night Terrors rappresenta una rilettura di La Philosophie dans le boudoir, ne sovverte radicalmente il significato: tutto ciò che nell’opera di Sade – e con ben altro pepe – è finalizzato a un provocatorio itinerario di libertà e piacere, qui è visto banalmente, moralisticamente quale via per rovinare la ragazza. Al di là del tonfo della singola pellicola, Night Terrors rende bene lo svuotamento di una serie di provocazioni che negli anni Settanta avevano libero corso, negli Ottanta erano viste con preoccupazione e rimosse (gli anni per l’horror dell’originalità decorosa e del rifiuto del gotico) e nei Novanta possono riemergere in forma ammorbidita e svuotata per più vaste platee. Preparandosi a tornare, ormai socialmente accettate e per famiglie, con l’iniziazione sado/maso glamour delle Cinquanta sfumature.

D’altra parte c’è un’altra iniziazione sottesa all’avventura di Genie, ed è quella implicita nel linguaggio stesso dei delitti: quello slasher (genere al tempo ormai in decadenza, e qui riciclato grazie alla presenza dell’icona Englund) che con le sue espressioni eccessive e in qualche modo orgiastiche si configura per il giovane pubblico come vera e propria festa iniziatica. Anche se in questo caso i paradigmi del genere sono un po’ ritoccati, vari ingredienti permettono di richiamarlo: non solo l’interprete-feticcio o il titolo (Night Terrors come Nightmare evoca gli incubi, con tanto di elementi onirici e sghembi nessi tra dimensioni della realtà), ma il tema dell’iniziazione sessuale, il travestimento-maschera dell’assassino (che “si fa” Sade) e la mattanza-splatter di un pazzo con accanimento sui corpi. Certo la logica slasher nutre un desiderio contraddittorio di libertà (anche sessuale) e di ordine in chiave di iniziazione all’età adulta, per cui si potrebbe pur sempre vedere nelle avventure di Genie eventi di “formazione”. Ma se è con una certa soddisfazione che la ragazza alla fine precipiterà il corpo inanimato del vilain in uno scarico, il profilo di riferimento è la final girl che spaccia il mostro per concludere la partita, non certo la libertina che termina il proprio apprendistato per cominciare a vivere.

L’iniziazione, dunque, come primo nodo simbolico; e il secondo è naturalmente la setta. Beninteso la setta buona degli esothriller e dei mystery criptoecclesiali, in questo caso Gnostici da operetta che fungeranno da deus ex machina garantendo un (abbastanza) lieto fine e anticipando la grande impennata del Codice da Vinci. Considerato il successo del tema nel decennio successivo occorre dar atto a Hooper di una certa lungimiranza.

Il terzo nodo riguarda poi naturalmente Sade – banalizzato a figura-chiave di eccesso orrifico ed erotico, un Freddy Krueger incipriato con un piede nei sogni e un altro saldamente in terra attraverso trucissimi epigoni. In effetti, guardando il film non è chiaro se le sue apparizioni vadano intese per flashback su un passato storico, per semplice teatro psichico dei personaggi del XX secolo o se invece tutto appartenga a fantasie di Sade sul futuro (l’ultimissima scena vede la sua morte, duecento anni fa). Ma anche questo non è così importante: a rilevare è la cifra-Sade, una maschera convocata per le sue potenzialità pruriginose e di cui poi il regista non sa bene cosa fare. Tanto simile in ciò a un Occidente che continua a citarlo a sproposito.

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Jess e i bicentenari https://www.carmillaonline.com/2014/04/01/jess-e-bicentenari/ Tue, 01 Apr 2014 20:30:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13881 di Franco Pezzini

i bicentenari

Un anno fa, il 2 aprile 2013, moriva Jess Franco, uno tra i grandi provocatori del cinema del Novecento. Ma in fondo ancora di quest’inizio di secolo, visto che il brillante, pestifero vecchietto aveva diretto dal 2000 una quindicina di pellicole; e benché malconcio, confinato su una sedia a rotelle, schiantato dalla morte nel 2012 della compagna e complice di infinite avventure su schermo, Lina Romay, aveva continuato a lavorare – con quella furia registica che in altri tempi gli aveva permesso picchi da tredici film all’anno, e [...]]]> di Franco Pezzini

i bicentenari

Un anno fa, il 2 aprile 2013, moriva Jess Franco, uno tra i grandi provocatori del cinema del Novecento. Ma in fondo ancora di quest’inizio di secolo, visto che il brillante, pestifero vecchietto aveva diretto dal 2000 una quindicina di pellicole; e benché malconcio, confinato su una sedia a rotelle, schiantato dalla morte nel 2012 della compagna e complice di infinite avventure su schermo, Lina Romay, aveva continuato a lavorare – con quella furia registica che in altri tempi gli aveva permesso picchi da tredici film all’anno, e ora lo vedeva necessariamente concentrare le forze. Il suo Alligaytor, aka Revenge of the Alligator Ladies, è apparso postumo nell’ottobre 2013 al Sitges Film Festival: e quale congedo a una realtà che non aveva cessato di stuzzicare e sbeffeggiare, quel corteggio finale di procaci Coccodrille quasi a satira di una Danza delle Ore sembra almeno adeguata.

Anche coloro che non amano (o decisamente detestano) i film di Franco non possono non riconoscere la sua cultura e poliedricità, l’amore rabbioso per il cinema, la forza visionaria e insieme lo spudorato pragmatismo, la capacità di giocare con le attese di un mercato ma insieme di trascenderle sul filo di ricerche e ossessioni personalissime. Per chi invece quelle pellicole le ama – magari non tutte e comunque in modo non acritico, ma quale insieme di un unico percorso, qualcuno dice di un unico film – l’anniversario del 2 aprile trattiene indubbiamente una vena di malinconia. Di fronte alle sue duecentouna regie, alle centosettantaquattro sceneggiature e a tutto il resto – produzioni, comparsate da attore, direzioni di fotografia e prove da compositore (tante, con quel gusto della musica che pervade tutti i suoi film) – si constata come il cinema abbia davvero perso un protagonista. Un protagonista che solo in tempi recenti, assurto ad autore di culto, ha potuto incassare almeno una certa misura di riconoscimenti.

Ma il calendario gioca strani scherzi: e questa prima ricorrenza cade suggestivamente nello stesso 2014 in cui insieme si ricordano e si celebrano (o meglio si celebreranno presto, con iniziative in tutto il mondo) altri due personaggi-chiave dell’immaginario postmoderno. Proprio alla loro luce possono anzi cogliersi dimensioni importanti della figura di Franco e del suo contributo a quello stesso immaginario: un colpo d’occhio oltre lo specifico degli studi sul cinema, a immergersi piuttosto nel pelago delle mitologie di un’epoca e delle relative categorie simboliche.

Alla fine dell’anno ricorrerà anzitutto il bicentenario della morte di un altro personaggio scomodo – forse persino più scomodo del Nostro, visto che si tratta di Donatien Alphonse François de Sade, il Divin Marchese, nato nel 1740 e morto appunto il 2 dicembre 1814: e in un certo senso l’intera opera franchiana rappresenta una sorta di originale, libera esegesi di quella di Sade. Se la demonizzazione acritica del libertino, la frequente incomprensione della sua opera e del suo stesso profilo di uomo gli hanno procurato una maschera teratologica poi spesa anche nel cinema, nessun altro regista ha incalzato Sade con la fedeltà di Franco, nulla concedendo al sadomaso modaiolo, alla mummy pornography che tanto piace nell’età delle Cinquanta sfumature. Fedeltà, certo, ma nel senso di una liberissima ispirazione che vede il legato di Sade raccolto attraverso due principali tipi di approccio.

Il primo è evidentemente quello della trasposizione di opere sadiane. Un’operazione ora nel segno del melodramma in costume con sberleffi, come in quel Marquis de Sade’s Justine, 1968, che pur privando la protagonista – una giovanissima Romina Power – dell’originaria, torbida dialettica tra innocenza ed equivoca vocazione di vittima,  la circonda di un divertito circo di furfanti; e il presentarla come uno spettro che visita in cella lo stesso Sade – un grande Klaus Kinski, forse il Marchese più emblematico mai apparso su schermo – già dice qualcosa dei fantasmi che visiteranno il regista. Ma altrove la luce è ben più livida e raggelante: come nel seguito ideale del Justine, quel Philosophy in the Boudoir, 1969, in cui l’attrice austriaca Maria Rohm, la Juliette dell’altro film, offre nel ruolo di Madame de Saint-Ange un’ottima interpretazione di tristezza e perversione, resa più coinvolgente dalla trasposizione in età contemporanea. Se spesso e comprensibilmente a fianco di Franco si proiettano le ombre ideali di due interpreti paradigmatiche, Soledad Miranda e Lina Romay, ricordare Maria Rohm non significa solo restituire a una stagione precedente dell’opera franchiana la sua storica protagonista, ma anche mettere a fuoco l’impatto di quest’attrice – capace di conciliare sfumature di innocenza e di male con efficacia spiazzante – su tutto un immaginario del pubblico.

La fine del sodalizio tra Franco e il produttore Harry Alan Towers – che ha fortemente voluto questi primi due titoli sadiani, e di cui Maria è moglie – segna a quel punto l’avvio di un’altra fase ormai leggendaria, quella appunto con Soledad Miranda come fetish actress: ed Eugénie (aka De Sade 2000), 1970 che la vede protagonista, radicalizza ulteriormente l’approccio. In questo film terribile, desolatamente sadiano (da Eugénie de Franval) e che nella sua algida amarezza e nella stilizzazione delle scene ben poco concede alle prurigini, lo stesso Franco ricopre un ruolo di testimone, indagatore, ammonitore e voyeur che poi riproporrà ossessivamente in altre opere. E che in qualche modo prefigura – penso alla scena finale, di fronte a Eugénie morta – la parabola di un rapporto personale, con lo straziato congedo di lì a poco da Soledad schiantata in auto a Lisbona.

Se la morte dell’attrice lascerà incompiuto un Juliette, 1970, che doveva vederla nuovamente protagonista, vari altri titoli della filmografia franchiana rimanderanno a Sade più o meno direttamente. Così, a parte un incompiuto De Sade’s Juliette, 1975, che attraverso alchimie produttive varie riemergerà con inserti hardcore concluso da Joe D’Amato, sempre da un episodio di Justine Franco trae Sinfonía erótica, 1979; mentre La Philosophie dans le boudoir gli ispira nel tempo, dopo il film del ’69, Plaisir à trois, 1973, il porno Cocktail spécial, 1978, Eugenie (Historia de una perversión), 1980, lo sperimentale destinato a circuiti erotici Gemidos de placer, 1982, una Historia sexual de O, 1984 che non c’entra affatto con quella di Pauline Réage, e ancora (in modo più o meno diretto) Tender Flesh, 1998.

Si può obiettare che, di tutta l’opera di Sade, Franco limiti l’interesse a tre o quattro titoli tormentosamente richiamati. Ma va detto che a fianco delle (pur libere) trasposizioni, è un po’ tutto il panorama della produzione franchiana attraverso l’estrema varietà dei generi frequentati (dal musical alla commedia poliziesca, dallo spy movie all’horror classico, dal gore al WIP – women in prison, per l’appunto – e al dramma in costume, dal sexploitation all’hardcore) a richiamare il Divin Marchese: negli aspetti più superficiali – le concessioni (appunto) al sadismo – come nella contemplazione raggelata della natura umana fino al delitto, nel sarcasmo, nella dimensione teatrale delle pulsioni e in una sorta di continua fuga e prigionia. Come in Sade, i film di Franco ostentano anzi – a partire dai titoli – una processione continua di protagoniste al femminile: eroine perseguitate o persecutrici, agenti segrete o Amazzoni in peplum, sempre soggette (od oggetti) delle più varie inquietudini o turpitudini sessuali, ma contemplate con uno sguardo paradossalmente ammirato e uno strano, sghembo ma genuino riconoscimento di universo e sessualità femminili.

Franco esegeta, dunque; ma anche mitologo, mitografo, nel suo incalzare grandi icone popolari (soprattutto di letteratura e cinema di genere) e rielaborarle in un pantheon – o pandemonium – personalissimo, un sistema cangiante da un film all’altro attraverso sviluppi sfuggenti e metamorfici come nei sogni o nel delirio febbrile. Una galleria insomma in cui rilegge epopee e miti con uno stile tutto proprio e, spesso, commercialmente rischioso: e veniamo qui al tema del secondo bicentenario 2014. Stavolta di una data di nascita, visto che il 28 agosto 1814, pochi mesi prima della morte di Sade, nasceva a Dublino Joseph Sheridan Le Fanu, l’immenso scrittore fantastico poi morto nel 1873 poco dopo aver liberato nel mondo la sua creatura più celebre, la vampira Carmilla (‘The Dark Blue’, 1871-1872). Della quale Franco, pur non trasponendo mai la vicenda in forma diretta, richiamerà con libertà d’artista alcune ipostasi/anagrammi con tale potenza da impattare in modo irreversibile sulla nostra fantasia.

Per inquadrare tale scelta è opportuno considerare almeno in termini generali il pandemonium franchiano. Vi troviamo anzitutto il continuo ritorno di figure “canoniche”, cioè tratte da un immaginario tradizionale: le fonti sono la letteratura gotica (Frankenstein, Dracula, gli Usher) e l’orrore cinematografico (zombie, cannibali), la fiction popolare (Fu Manchu, Mabuse, Maciste), le pagine nere della storia (il giudice Jeffreys, Jack lo Sventratore), e la mitologia erotica anche oltre Sade (Emmanuelle, anche se il personaggio non doveva chiamarsi come l’eroina di Louis-Jacques Rollet-Andriane e la scelta è imposta dal produttore; la citata “O” pseudoreagiana; Greta la Donna Bestia ispirata all’aguzzina nazista Ilsa di Don Edmonds anche nell’identica interprete Dyanne Thorne). Il tutto, si è detto, in termini estremamente autonomi e provocatori, dominati dai suoi spettri sessuali e da una straordinaria libertà onirica. E in effetti la stessa cifra anagrammatica che permette l’eterno ritorno della vampira di Le Fanu (Mircalla, Carmilla, Millarca…) non è inadeguata alla continua contaminazione tra generi e vicende della mitologia di Franco. Di film in film i personaggi mutano così connotati e sapore (basti pensare allo scarto tra il Dracula che fa interpretare a Christopher Lee nel 1969, forse il più fedele mai apparso nel cinema, e quello più personale, straniante e grottesco che nel ‘72 reinventerà per Howard Vernon); appaiono trasfigurati e reimpastati tra provocazione creativa e ironia (si pensi alla pseudowildiana Doriana Gray, o a quel dottor Wong definito da qualcuno il Fu Manchu dei poveri); sono fatti incontrare in disturbate macedonie tra appetiti popolari e gioco cinefilo. A volte l’evocazione riguarda figure canoniche, per esempio i vecchi mostri Universal; ma altrove Franco fa reagire la chimica di personaggi “classici” a contatto con altri da lui inventati, per esempio un Mabuse pseudo-langhiano con il proprio Orloff, figura cangiante di mad doctor attorno a cui muove un intero clan familiare.

A fianco infatti delle figure canoniche il suo pandemonium ne istituisce continuamente altre, rielaborate da stereotipi popolari – lo scienziato criminale, il servo bruto dall’insospettabile sensibilità, la damsel in distress, la pervertita assassina… – e declinate esse pure in modo diverso di film in film. Tanto più che l’eterno ritorno degli stessi fetish actors (alcuni attivi nel ben diverso sistema Hammer come Lee, Dennis Price, Herbert Lom, altri propri di Franco come Soledad Miranda, Lina Romay e Maria Rohm, Vernon e Kinski, Anne Libert, Britt Nichols, Monica Swinn, Antonio Mayans, Jack Taylor, Paul Müller, Janine Reynaud…) consolida i giochi di ruolo del sistema. Visto poi che delle pellicole franchiane esistono versioni diverse (eventualmente per diversi mercati di distribuzione: scene presenti solo in una o nell’altra, talvolta un diverso significato generale, persino diversi nomi dei personaggi), magari con più titoli, o invece incompiute e “completate” da altri, il sistema presenta un’imbarazzante fluidità.

D’altra parte, il pragmatismo del Nostro gli permette anche di gettarsi su temi di successo appropriandosene e rileggendoli con l’evidenziata libertà: e per esempio l’uscita il 4 ottobre 1970 del film Hammer The Vampire Lovers, in Italia Vampiri amanti, con Ingrid Pitt come Carmilla, nonostante una certa avversione di Franco per lo stile della casa britannica non può passare inosservata. In quegli anni di provocazione, l’eversione sessuale e in particolar modo omoerotica è un tema cavalcato con baldanza nel cinema di genere, in specie nelle storie di vampiri – il cui contenuto mitico stempera agli occhi dei censori l’irrappresentabile. In quella che verrà definita “the Golden Age of the Lesbian Vampire” la Hammer farà così seguire a The Vampire Lovers – su toni sessuali anche diversi, ma sempre ammiccanti – un’intera serie di sequel, il cosiddetto “ciclo Karnstein” dal nome del casato di Carmilla: dunque il parallelo progetto franchiano di una rilettura di Dracula al femminile, con una predatrice innamorata dell’eroina, pare debba almeno qualcosa alle riletture britanniche di Le Fanu.

Nasce così Vampyros Lesbos, 1971, con l’incantevole, malinconica contessa Nadine (o Nadia, nella versione alternativa spagnola Las vampiras, non solo molto più castigata ma con curiose differenze di sceneggiatura) interpretata da Soledad Miranda: l’attrice è già apparsa come Lucy ne Il conte Dracula di Franco, 1970, ma ora ricompare trasfigurata nella magnetica mattatrice di un’intensa e breve stagione. Incalzata da una serie di strani sogni, l’avvocatessa Linda giunta all’isola di Nadine per la pratica dell’eredità di Dracula cade sotto il fascino di lei: e inizia così una storia di furiosa attrazione e insieme rabbioso rifiuto che ben può richiamare quella tra Laura e Carmilla nel romanzo. Alla fine Linda ucciderà Nadine, ma la conclusione risulta lefanuianamente oscura: soccorsa dagli uomini (uno sbiadito fidanzato e uno psicanalista che può evocare certi miopi medici salutisti di Le Fanu), l’avvocatessa è trovata sola nella villa. Nessun cadavere resta a dimostrare che Nadine sia mai esistita: Linda ha sognato tutto, o l’amante si è compenetrata in lei rivestendo il suo corpo come mostrava abilmente di fare, mezzo film prima, nella performance con un manichino in un locale notturno? Opportunamente, e nel rispetto della radicale ambiguità della vicenda, si è menzionata la cifra della “lesbian re-birth” – una rinascita a diversi livelli – con significative connessioni a Carmilla. Nei fatti la distruzione finale di Nadine  lascia anche lo spettatore, idealmente come la narratrice di Le Fanu, in desiderante ascolto del passo di lei oltre la porta del salotto.

Ma negli anni successivi alla scomparsa di Soledad che devasta Franco, il legato lefanuiano di Vampyros Lesbos viene raccolto in altre sue opere. Per il regista, il tema vampiresco – tanto agevolmente riconnettibile a fantasie sessuali – risponde in qualche modo a dimensioni del profondo, e tornerà ancora in pellicole recenti: ma in quei primi anni Settanta sedimenta insieme generali provocazioni d’epoca e l’elaborazione di un lutto personalissimo. Esce così anzitutto, sull’onda delle sue folli rielaborazioni all monsters, La fille de Dracula, 1972, dalle ormai torride, ginniche fantasie omoerotiche: e se è vero che ammicca al vecchio Dracula’s Daughter della Universal, 1936 – le cui suggestioni omosessuali erano state guardate con sospetto già all’epoca – ora troviamo una protagonista, Luisa, che appartiene alla famiglia (guarda caso) Karlstein. Per quanto insomma la bionda, statuaria interprete Britt Nichols resti distante dalla silhouette del romanzo, la sua interpretazione trabocca di minaccioso erotismo e insieme di una letargica, insoddisfatta accidia – nel sesso, nell’uccidere – che può richiamare alla linfatica creatura di Le Fanu.

Ma a distanza di un paio d’anni il Nostro ritorna sul tema: e ora con un altro dei suoi titoli più leggendari, quel La comtesse noire uscito a partire dal 1974 in una pletora di versioni – in Italia il titolo più noto è Un caldo corpo di femmina – e che vede i connotati fisici di Carmilla e poi di Soledad (sottile, capelli scuri) richiamati in qualche modo da una nuova attrice, quella Lina Romay che diverrà partner del regista. Irina von Karlstein (riecco la variazione al Karnstein di Le Fanu) vive “a occidente”: non in quello stiriano del romanzo ma a Madera, cioè, in termini mitici, nell’occidente per antonomasia delle culture antiche, velato dalle nebbie del regno dei morti. Come Carmilla, anche Irina è giovane, griffata da un titolo di contessa, e ha un legame maledetto con i propri avi; svela simili caratteristiche di fragilità e accidia, bestialità nel nutrirsi e nell’uccidere, inquietudine erotica; si muove di giorno, ma sa apparire come un fantasma e il suo orizzonte non pare minacciato da santabarbare esorcistiche di sorta; e su tutto regna un clima di malinconia almeno prossimo a quello del romanzo. Irina poi è bisessuale, anche se il suo innamoramento fatale riguarderà un uomo: se anzi in alcune versioni “ammorbidite” del film si nutre in modo convenzionale di sangue, in quella principale attinge fatalmente al seme delle vittime – in una disinvolta saldatura di arcaici miti mediterranei, surrealismo e provocazione softcore. E anche la sua fine, che la consegna a una scomparsa tra le nebbie dei morti, è circonfusa di struggente malinconia.

Si potrà obiettare che in questi film – come poi in pellicole franchiane meno note e più tarde, per esempio Vampire Blues, 1999, dove la turista americana Raquel è insidiata anche sessualmente dalla vampira Irina von Murnau – la connessione con Le Fanu rimane indiretta: e il cultore di letteratura gotica può restare interdetto dal confronto tra un elegante, lieve e allusivo capolavoro della narrativa ottocentesca e pellicole che riflettono in modo tanto esplicito le ossessioni sessuali di Franco, la sua abilità ma anche i limiti (certi dialoghi risibili, per esempio). Però nella pozza dei miti – come qualcuno la chiama – la scomposizione/ricomposizione di personaggi è continua, e la libertà dell’anarchico Franco nel rimodellarli non nega le loro radici. Nei fatti, anche sul fronte Le Fanu, pochi registi sono tornati con tanta insistenza sulle medesime suggestioni; e dopo le sue Contesse nere la percezione collettiva dell’archetipo della vampira – malinconica e vorace, sfuggente e sconfitta ma capace in qualche modo di restare – è irreversibilmente mutato. Prima ancora che esplosivi soggetti erotici, Franco rende Nadine, Luisa, Irina fantasmi dei quali innamorarsi: un legato ancora, in fondo, del romanzo di Le Fanu.

Le memorie di calendario possono suonare un po’ troppo istituzionali, e i coccodrilli celebrativi lasciano il tempo che trovano. Non tutta l’opera di Franco, del resto – incalzata dalla sua furia registica ma anche da bisogni alimentari, da pressioni sciagurate di produttori a monte, e in seguito da manipolazioni del girato da parte di altri registi – appare egualmente interessante. Ma il nostro sguardo, quello del cinema dei nostri giorni ma anche del nostro immaginario, è in qualche misura debitore del suo.

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