Marcello Guida – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 17 Dec 2024 21:00:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gli uomini pesce, la resistenza quotidiana e una speranza che non finisce https://www.carmillaonline.com/2024/11/28/gli-uomini-pesce-la-resistenza-quotidiana-e-una-speranza-che-non-finisce/ Thu, 28 Nov 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85623 di Paolo Lago

Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi, Torino, 2024, pp. 620, euro 21,00.

In Ufo 78 (2022) di Wu Ming avevamo incontrato l’“Autopesce”, la macchina di Guido e Adele, amici dell’ufofilo Jimmy, una Citroën DS (chiamata all’epoca anche “squalo” o “squalone”) “dipinta a squame gialle, rosse e blu”. Adesso, nel recente romanzo solista di Wu Ming 1, ci sono gli “uomini pesce” (che danno anche il titolo al romanzo), ricoperti di squame dorate non troppo dissimili, forse, da quelle dello “squalone”. Come quella Citroën DS pesce che, nel 1978, letteralmente appariva di fronte al negozio di dischi di Jimmy, [...]]]> di Paolo Lago

Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi, Torino, 2024, pp. 620, euro 21,00.

In Ufo 78 (2022) di Wu Ming avevamo incontrato l’“Autopesce”, la macchina di Guido e Adele, amici dell’ufofilo Jimmy, una Citroën DS (chiamata all’epoca anche “squalo” o “squalone”) “dipinta a squame gialle, rosse e blu”. Adesso, nel recente romanzo solista di Wu Ming 1, ci sono gli “uomini pesce” (che danno anche il titolo al romanzo), ricoperti di squame dorate non troppo dissimili, forse, da quelle dello “squalone”. Come quella Citroën DS pesce che, nel 1978, letteralmente appariva di fronte al negozio di dischi di Jimmy, ad Aulla, così gli “uomini pesce” sono delle apparizioni, sorte da leggende e dicerie del Polesine, che accompagnano l’intera narrazione e l’intera vicenda di Gli uomini pesce, un romanzo davvero avvincente e ben congegnato, intriso di una narratività ipertrofica che non ti lascia scampo. Così è descritto l’uomo pesce, chiamato anche Homo Bracteatus, come compare in alcuni disegni e ritratti di Ilario Nevi, partigiano, artista, regista e intellettuale ferrarese dalla cui morte, nell’estate 2022, prende avvio la narrazione: “L’essere era vagamente antropomorfo, le sue posizioni erano più o meno quelle dell’uomo vitruviano, ma la testa, bianca e priva di collo, era quella di un pesce. Uno squalo. No. Un pesce inclassificabile, indescrivibile, che dava l’idea di uno squalo ma era altro. Gli occhi erano neri. Neri. Di un nero abissale. Pozzi profondi milioni di anni, profondi quanto il tempo, e nel lontanissimo fondo di quei pozzi dovevano ruotare gorghi che trascinavano ancora più in basso, ancora più indietro, più indietro del tempo stesso.”

Si tratta di un essere che appare nella notte (e, durante la lotta di liberazione, sembra schierarsi dalla parte dei partigiani attaccando i tedeschi), che appartiene a storie e leggende del territorio e che pare uscito da una “guida ai draghi e mostri in Italia” anni Ottanta della SugarCo. Ilario li aveva visti in notti terribili di agguati dei fascisti e di appostamenti, di fughe e di nascondigli; essi, infatti, appartengono profondamente al Delta del Po e fanno parte della sua arcana ed arcaica storia. Ne sono l’essenza, gli spiriti guida, i misteriosi e demonici custodi. Sembra che abbiano quasi la stessa funzione delle apparizioni degli Ufo nel già citato Ufo 78, di cui Wu Ming 1 è coautore: come qui afferma il personaggio dell’antropologa Milena Cravero, vedere gli oggetti volanti non identificati equivale a un desiderio di utopia, di “altrove”, “un altrove assoluto, un luogo che non c’è”, e ciò “significa non accontentarsi dell’esistente”. Probabilmente anche le apparizioni degli uomini pesce rappresentano un desiderio di utopia, di altrove, di un luogo che non c’è: forse un Delta del Po finalmente liberato dall’oppressione fascista e nazista.

Uno dei temi portanti del romanzo di Wu Ming 1 è infatti la continuità dell’oppressione da cui non ci si può liberare; allora, di fronte a questa continuità non si può fare altro che opporre l’immaginazione e l’immaginario che prendono le forme di una strenua resistenza da portare avanti giorno per giorno. Personaggi resistenti, in questo senso, sono Ilario, sua nipote Antonia Nevi, geografa dell’università di Padova e il marito di lei, Arne detto Sonic, un musicista statunitense di origine svedese. L’azione narrativa principale si ambienta, come già affermato, nel 2022, precisamente tra la fine di luglio e quella di agosto, mentre ulteriori finestre narrative si aprono sul 1969, sul 1973, sul 1943-45 e sul 1981. Antonia e Sonic, dopo la scomparsa del grande partigiano e intellettuale, si muovono tra Ferrara e il territorio del Delta quasi ridisegnandone la geografia e la cartografia, offrendo una inedita mappatura del territorio in funzione di Ilario, della sua lotta e della sua resistenza eletta a ragione di vita. In virtù di questo movimento dei personaggi che diviene incessante detection, lo scrittore riesce a “cantare la mappa”, come egli stesso scrive nella sua introduzione alla raccolta di racconti del collettivo Moira Dal Sito, Quando qui sarà tornato il mare, tutti ambientati nel basso ferrarese, cioè a raccontare un territorio “com’è, com’era e come sta per diventare”.

E così, il personaggio di Ilario Nevi, morto a novantanove anni, ha dovuto lottare e combattere contro l’oppressione nazifascista e la sua continuità: in primis con la continuità strisciante del fascismo nelle istituzioni repubblicane e poi con un cambiamento di faccia di quella stessa oppressione che non si cura di niente e nessuno, cioè il sistema capitalistico generatore di amministratori del territorio senza scrupoli che non fanno altro che cementificare e distruggere gli spazi naturali devastando la costa emiliano-romagnola, erigendo resort e alberghi a uso e consumo – sembra – degli oppressori di un tempo, i ricchi tedeschi che a partire dagli anni Sessanta scendevano a frotte in vacanza sul mare Adriatico. La persistenza del fascismo nella storia repubblicana appare d’altronde come un vero e proprio Leitmotiv del libro: ad esempio, in uno scorcio narrativo ambientato nel 1969, si pone l’accento su come Marcello Guida, già sotto il fascismo vicedirettore della colonia di confino politico di Ventotene, nel 1969 sia questore di Milano, nel momento in cui Giuseppe Pinelli ‘precipita’ da una finestra della questura pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana. Mentre, in un altro punto del libro – siamo adesso nel 1973 – Ilario e il suo amico Erminio, anch’egli partigiano, discutono proprio di questa continuità e, a proposito del tentato colpo di stato di Junio Valerio Borghese del 1970, così si esprimono: “- Se a fuss stà par nuàltar, uno come Borghese non era ancora in giro nel ’70. – Neanche nel ’50. – Lo avremmo fatto secco nel ’45, a dirla tutta”.

I personaggi, quindi, avvolti da una speranza che sembra non finire mai (e che Antonia riceve come un’eredità da suo zio Ilario), si battono incessantemente contro un’oppressione a sua volta infinita: prima il nazifascismo, poi la sua demoniaca continuità nelle istituzioni repubblicane, fra bombe e stragi, poi le devastazioni naturali, le cementificazioni che durano fino a oggi e preparano il terreno alle inondazioni e ai disastri del nostro tempo, fino alla malagestione dell’emergenza Covid, che ha provocato infiniti strascichi, incomprensioni e inimicizie. Per raccontarci questa resistenza continua Gli uomini pesce utilizza un modo narrativo dal carattere enciclopedico e si realizza in una tensione totalizzante che abbraccia diversi aspetti della società, della cultura e della politica. La narrazione assume un aspetto polifonico e si apre a una pluralità di voci nel testo e di stili e registri diversi (uno più narrativo, uno più poetico e uno più saggistico) che corrispondono alle voci dei diversi personaggi come, ad esempio, quando a parlare in prima persona è Antonia, quando è Ilario, quando invece è il mefistofelico dottor Stegagno, nel suo lungo racconto. D’altra parte, il romanzo possiede anche una inesausta intertestualità verso altre opere degli stessi Wu Ming e di altri autori: vi sono riferimenti, nella trama, al già citato Ufo 78, a un altro romanzo solista di Wu Ming 1, La macchina del vento e al suo più recente “oggetto narrativo non identificato”, La Q di Qomplotto nonché al Pendolo di Foucault di Umberto Eco, a L’Agnese va a morire di Renata Viganò e all’opera di Giorgio Bassani (che compare anche come personaggio). Dal momento che Ilario è stato un noto regista e documentarista, incontriamo numerosi riferimenti anche al cinema, non solo italiano e non solo coevo alla produzione di Ilario; protagonista, fra le citazioni cinefile del libro, è Sylvia Scarlett (1935) di George Cukor, distribuito in Italia col titolo Il diavolo è femmina, perché Antonia assomiglia molto a Katherine Hepburn interprete del film (così sappiamo più o meno come immaginarcela). Un lungo inserto narrativo è poi costituito dal memoriale di Ilario, presentato come un dattiloscritto ritrovato, pieno di parole cancellate e illeggibili, costituito da appunti numerati in cifre romane che lo fanno curiosamente assomigliare a Petrolio, il romanzo inedito e incompiuto di Pier Paolo Pasolini, composto da una congerie di “appunti” e edito dai filologi soltanto nel 1992, a diciassette anni dalla morte dell’autore.

La natura enciclopedica del libro abbraccia, come già accennato, anche temi di stringente attualità, come il cambiamento climatico e l’incapacità di saperlo affrontare (incapacità da cui nascono i disastri e le alluvioni che sono sotto gli occhi di tutti), o gli strascichi dell’emergenza Covid. Allora, sembra quasi che vengano mescidati sub specie narrationis diversi argomenti già trattati in forma saggistica negli articoli apparsi su “Giap”, il blog di Wu Ming, a firma dell’intero collettivo o dello stesso Wu Ming 1. L’emergenza climatica, ‘normalizzata’ dai media e resa inoffensiva e quasi ‘abituale’, si trasforma in apocalisse incombente nei pensieri di Antonia, nel momento in cui, in un ristorante, sta leggendo un giornale in cui si parla del caldo record di quell’estate. Allora – osserva il personaggio (e, con lei, l’“autore nascosto” Wu Ming 1) – “verità parziali come quelle dei meteorologi, una volta immesse nei media, diventavano fattoidi, riempitivi semiotici, infine spazzatura verbale: l’anticiclone delle Azzorre, l’anticiclone africano, El Niño, La Niña… Tutto era addomesticato, legato a contingenze, spiegato solo con fenomeni magari prolungati ma passeggeri”. Come Antonia, anche la narratrice-autrice Helen Macdonald, in Io e Mabel (H is for Hawk, 2014), trovandosi a sfogliare un giornale in un bar, si imbatte in notizie terribili sui cambiamenti climatici riferite come se niente fosse (i ghiacci artici che si stanno rapidamente sciogliendo, gli ecosistemi sull’orlo del tracollo) e la situazione quotidiana viene subito proiettata in una dimensione apocalittica ed ecodistopica.

Un pregio di Gli uomini pesce (d’altra parte già riscontrabile nell’opera collettiva Ufo 78) è senz’altro poi quello di riuscire a creare cortocircuiti fra realtà e fantasia: Ilario, Antonia e Sonic sono presentati alla stregua di personaggi reali tanto che viene la tentazione di andarli a cercare in rete. Anche i titoli dei film realizzati da Ilario sono talmente verisimili da far sorgere il dubbio se esistano veramente; lo stesso si può dire dei libri di Antonia o dei dischi di Sonic, corredati di un’accuratissima bibliografia fantastica. E vorrei chiudere proprio con questo magmatico cortocircuito fra realtà e fantasia, che Wu Ming 1 dispensa con maestria quasi ad ogni pagina e che, per poco, non mi coinvolge personalmente. Antonia Nevi – si dice nel romanzo – aveva presentato il 21 novembre 2019 alla Biblioteca Ariostea di Ferrara (Ilario era tra il pubblico) il suo saggio, in cui analizza la caccia al famigerato killer e bandito “Igor il russo” che nella primavera del 2017 si nascondeva nel Delta del Po (fatto reale), dal titolo geniale di Igor mortis. Ebbene, esattamente una settimana prima, il 14 novembre 2019, alla Biblioteca Ariostea, avevo presentato la bella traduzione delle Metamorfosi di Apuleio realizzata dall’amica Monica Longobardi, docente di Filologia romanza a Ferrara, e avevamo avviato una discussione sulle riletture contemporanee di Petronio e Apuleio. Peccato, davvero. Soltanto per una settimana non ci siamo incontrati con Antonia e Ilario e per un soffio i nostri destini non si sono incrociati.

]]>
Il nemico interno/7 https://www.carmillaonline.com/2021/01/17/il-nemico-interno-7/ Sun, 17 Jan 2021 08:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64550 di Alexik

Ci eravamo lasciati, al termine del capitolo precedente, commentando i dati elaborati da Alessandro Senaldi sulla velocità dei processi contro il movimento No TAV. Una velocità sorprendente, più che doppia a confronto della media dei processi chiusi in primo grado nel Belpaese. Davanti a tanta celerità eravamo quasi sull’orlo di encomiare il Tribunale di Torino per il dinamismo dimostrato, se non fosse che alla fine del 2017 lo stesso Tribunale poteva ‘vantare’, come risultato della propria attività, la caduta in prescrizione del 34% dei processi, a [...]]]> di Alexik

Ci eravamo lasciati, al termine del capitolo precedente, commentando i dati elaborati da Alessandro Senaldi sulla velocità dei processi contro il movimento No TAV. Una velocità sorprendente, più che doppia a confronto della media dei processi chiusi in primo grado nel Belpaese.
Davanti a tanta celerità eravamo quasi sull’orlo di encomiare il Tribunale di Torino per il dinamismo dimostrato, se non fosse che alla fine del 2017 lo stesso Tribunale poteva ‘vantare’, come risultato della propria attività, la caduta in prescrizione del 34% dei processi, a confronto del 9,48% della media nazionale.

Detta in altri termini, mentre il 34% dei processi (riguardanti svariate tipologie di reati, dalle violenze sessuali sull’infanzia all’appropriazione indebita) si risolveva in una sentenza di non luogo a procedere per il superamento dei termini di durata, quelli contro i No TAV correvano “ad alta velocità”.
Due fenomeni del tutto coerenti: quante risorse dell’apparato giudiziario sono state dedicate, negli anni, alla tutela della grande opera, tante risorse sono state sottratte ad altre aree dell’attività giudiziaria stessa, evidentemente sacrificabili rispetto a ciò che è stato ritenuto prioritario.

Il fatto è che nella tutela della grande opera la funzione del procedimento penale non è semplicemente quella di stabilire violazioni o meno di precetti o decretare sanzioni per gli eventuali rei, ma di produrre effetti immediati sul terreno del conflitto.
Comminare sanzioni più velocemente possibile, anche anticipandole attraverso l’uso copioso delle misure cautelari, serve – o vorrebbe servire – a bloccare i militanti più attivi, dissuadere dalla lotta, sottrarre energia al movimento di opposizione, impegnandolo nelle attività di contrasto della criminalizzazione giudiziaria (difesa legale, crowdfunding, presenza ai processi, sostegno agli arrestati, ecc.).
In questo senso anche la velocità dei processi è funzionale a un uso del diritto come “diritto penale di lotta”.

Nelle parole del giurista Massimo Donini: “Adesso è il diritto stesso, nella sua ‘progettualità’ prima ancora che nella sua ‘funzione’, ad essere concepito come il mezzo per uno scopo diverso dalla semplice tutela di beni o dalla ‘giusta’  regolazione  di  rapporti…  L’autore  dei  fatti,  il  trasgressore,  è  l’avversario  che  esprime  o  rappresenta  in  modo contingente  il  fenomeno  contro  il  quale  gli  organi  pubblici  useranno  le  armi  del  diritto.  Il ‘diritto’ è dunque per gli organi pubblici, mentre i trasgressori sono destinatari di un’azione di  contrasto.  Lo  scopo  è  vincere  (non  solo  combattere)  quel  fenomeno,  e  tanto  il  diritto penale sostanziale quanto il processo ne sono direttamente coinvolti1.

Torniamo dunque all’analisi dei processi, come espressione del “diritto penale di lotta”.

Il processo “di polizia”

Le udienze dei processi contro il movimento No TAV sono popolate da un “attore dai mille ruoli” che di volta in volta svolge funzioni di testimone, parte offesa, esperto, perito, parte civile, rappresentante di sindacati di categoria, scorta ai magistrati, sorveglianza delle condotte fuori e dentro il tribunale, ecc.
L’onnipresenza delle forze dell’ordine caratterizza ogni fase dei procedimenti contro i militanti, come ‘normale’ continuazione di una militarizzazione che inizia dal territorio.
Del resto la scelta dello Stato di portare il confronto con l’opposizione al TAV sul piano dell’ordine pubblico è all’origine di gran parte dell’azione penale contro il movimento stesso.
Una scelta non estemporanea, ma che si articola per gradi:

-La negazione di ogni possibilità di partecipazione popolare sulle scelte che riguardano il territorio. La negazione, dunque, di ogni possibilità di opposizione efficace tramite un iter politico istituzionale.
-La negazione di ogni possibilità di opposizione efficace tramite un iter legale, visto che le denunce per gli illeciti della grande opera cadono nel vuoto.
-Il liquefarsi di ogni sorta di mediazione politica, e la delega della “rappresentanza dello Stato” alle autorità dell’ordine pubblico.

Le FF.OO. diventano dunque l’unica interfaccia dello Stato nel rapporto con l’opposizione popolare, e il loro intervento contro le azioni oppositive degli attivisti crea di per sé i reati da imputare che, come abbiamo visto già nel capitolo precedente, derivano in gran parte dalla frizione fra manifestanti e polizie.
Fin dall’origine, sulla cd “scena del delitto”, sono presenti le truppe antisommossa, mentre la presenza della digos si può dire che preceda il “delitto” stesso, visto che la schedatura dei militanti viene operata in fase preventiva.

Non stupisce, quindi, il fatto che nei processi contro il movimento la presenza delle FF.OO. sia preponderante.
Nella sua ricerca sui procedimenti contro il movimento No TAV, di cui una sintesi è disponibile sul sito della rivista Studi sulla questione criminale, Alessandro Senaldi, analizzando 176 trascrizioni dei verbali di udienza, ha potuto riscontrare come su una totalità di 565 attori della categoria “testimoni, consulenti tecnici e periti”, quasi il 60% appartenesse alle forze dell’ordine.

Un numero nettamente superiore all’insieme di tutte le altre tipologie di testimoni: militanti no tav, amministratori locali, operai del cantiere, personaggi famosi, giornalisti, parti terze offese, ecc.

Sarebbe interessante verificare se questo dato non rifletta anche una tendenza all’esclusione dai processi di testimoni presentati dalla difesa, tendenza verificata da Xenia Chiaramonte nella sua analisi degli atti del maxi processo No TAV2.
In quell’occasione i PM chiesero di “escludere  le  testimonianze  che  riguardano  l’uso  dei lacrimogeni …,  escludere  quelle  dei  medici  del pronto soccorso che hanno stilato i certificati alle persone offese negli scontri … e  tutte  le  deposizioni  circa “l’opportunità e la necessità dell’opera che esulano dall’oggetto del processo3.  La richiesta dei PM venne accolta.

Le analisi di Senaldi e Chiaramonte, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, mostrano come l’asse centrale della costruzione dei processi consista nella narrazione di polizia. Soffermiamoci sull’analisi di Xenia sul maxiprocesso, che entra maggiormentre nei meccanismi e nei dettagli.
La narrazione di polizia si impone in maniera diretta, tramite le numerose deposizioni degli appartenenti alla FF.OO., che non solo si contano, ma si pesano in maniera differente.

Il  [maxi]processo  è  stato  basato  sulle  testimonianze  dei pubblici  ufficiali.  Infatti,  quelle dell’accusa sono, per il fatto di essere istituzionali, testimonianze già intimamente e simbolicamente garantite dal suggello della credibilità4.

La narrazione di polizia si esprime anche in forma indiretta tramite i PM del “gruppo TAV”, che vi aderiscono totalmente, mutuando anche il linguaggio tipico delle annotazioni di polizia.

La fonte che l’Accusa utilizza nelle requisitorie risiede in larga misura in  quel  sapere  poliziale  che  si  forma  nel  corso  di  anni  di  monitoraggio  di  un’area politica.  Questo  confluisce  in  schede,  che  a  loro  volta  producono  delle  annotazioni che  la  polizia  giudiziaria  offre  alla  Procura  e  che  la  Procura  fa  confluire  nel procedimento  penale” 5.

Sulle schede di polizia viene basata la ricostruzione della personalità degli imputati, utilizzando dettagli che mirano a suggerirne la pericolosità anche in assenza di precedenti penali. Le schede contengono informazioni che in teoria nulla dovrebbe avere a che fare col processo, quali l’orientamento politico, il gruppo di appartenenza, le frequentazioni private amicale e sentimentali, i luoghi di ritrovo frequentati, la partecipazione a convegni e manifestazioni, ecc.
Per questo tipo di ‘lavoro’ la Questura di Torino vanta una lunga e accertata esperienza, dai tempi in cui il questore Guida e i funzionari dell’allora Ufficio Politico della Questura venivano stipendiati dalla Fiat per collaborare nel redigere le schedature di migliaia di dipendenti ed aspiranti tali, dei loro familiari, di politici della sinistra, sindacalisti, giornalisti6. Le schedature di oggi su* compagn* ricordano quelle di allora in maniera impressionante.

Alla siffatta stigmatizzazione degli imputati si affianca poi la ricostruzione dei fatti oggetto del procedimento.
Dall’analisi del maxiprocesso, vediamo come questo onere sia principalmente prerogativa  del dirigente della Digos Giuseppe Petronzi7, addetto alla ricostruzione ufficiale.
Seguono le numerose testimonianze della “truppa”, piene di contraddizioni, di non ricordo”, di omissioni sulle violenze esercitate sui manifestanti.
Testimoni che si muovono come gruppo, coprendo le responsabilità dei colleghi nelle violenze, e che sono, in molti casi, anche ‘portatori di interesse’, visto che partecipano alla richiesta di risarcimenti sulla base di certificati medici “generosi”.
Testimoni che, nonostante siano un po’ confusi, possono generare comunque anni di galera, perché ogni pretesa lesione, per quanto di attribuzione vaga, tramite lo strumento del concorso si tramuterà in condanne.

Tutti i video proiettati in aula sono prodotti dalla polizia.

Il cortocircuito sta nella coincidenza della stessa parte in qualità di costruttore della prova filmica, testimone che depone a partire da quella prova filmica…,  entrambe prove – video e testimonianza – sulle quali si basa il pool della Procura cui è di fatto affidata la questione (No) Tav, e che persegue numerosi fatti di reato a carico dei No Tav, e raramente (ossia mai) quelli a svantaggio degli stessi. E’ un conflitto di interessi che un ragionamento logico tutto sommato semplice consente di svelare“.

I testi di ora sono sul campo allora, sono coloro cui è affidato l’ordine pubblico, coloro che in veste collettiva si costituiscono nella forma del sindacato, poi sono coloro che raccontano i fatti, coloro la cui narrazione è considerata credibile e diviene “ufficiale” in toto, le cui contraddizioni, omertà, reticenze, non sono oggetto di maggiore interesse lungo il corso dell’esame testimoniale, sono coloro che non sono indagati, se indagati sono poi chiuse le indagini con archiviazione8. (Continua)


  1. M. Donini, Diritto penale di lotta vs diritto penale del nemico, in: AAVV, Contrasto al terrorismo interno e internazionale, Giappicchelli Editore, 2006, p. 23. 

  2. Ci si riferisce al processo istruito contro il movimento per i fatti relativi allo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena del 27 giugno 2011 ed alla successiva manifestazione del 3 luglio, che ha visto il coinvolgimento di 53 imputati. 

  3. Xenia Chiaramonte, Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No TAV, Meltemi, 2019. 

  4. Ibidem. 

  5. Ibidem. 

  6. Vedere su Carmilla: Un granello di sabbia/3 

  7. Un breve curriculum di Giuseppe Petronzi, da meno di un mese promosso a questore di Milano, è riportato in Dall’Fbi a Guantanamo, passando per i No Tav: ecco chi è Giuseppe Petronzi, nuovo questore di Milano. Sulle modalità di conduzione, da parte di Petronzi, dell’inchiesta che portò alla morte di Sole e Baleno, si rimanda a: Tobia Imperato, Le scarpe dei suicidi. Baleno, Sole , Silvano e gli altri, Autoproduzione Fenix !, Torino 2003. 

  8. Xenia Chiaramonte, op. cit. 

]]>
Orgogliosamente rivoluzionari: per una storia dei GAAP https://www.carmillaonline.com/2018/03/08/orgogliosamente-rivoluzionari-storia-dei-gaap/ Wed, 07 Mar 2018 23:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44080 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia italiana e il dibattito politico-ideologico, che ha nutrito e di cui si è nutrita, avevano drasticamente rimosso. Una ricerca di tal fatta, motivata e libera da impicci ideologici, potrebbe poi servire a rimuovere quell’idea, falsamente moderna, che gli appelli rivoluzionari alla lotta di classe e all’anticapitalismo radicale possano appartenere soltanto a un folklore e a una tradizione ormai superati.

Soprattutto in questo cinquantenario del ’68 diventa perciò utile e necessario far riscoprire ai giovani, ma anche a coloro che non lo sono più, l’immensa mole di esperienze e riflessioni che accompagnarono le numerose aggregazioni politiche che, tra la caduta del fascismo e la ripresa delle iniziative di classe degli anni sessanta, si svilupparono a sinistra del PCI e in netta polemica con lo stalinismo e la conduzione togliattiana del “più grande partito comunista dell’Occidente”.1

Ancora una volta è stato Franco Bertolucci, intrepido ricercatore, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa e responsabile editoriale della stessa casa editrice BFS, a curare un’opera che scava negli anni compresi il 1945 e la fine degli anni Cinquanta e costituisce la conseguenza del fatto che, nell’aprile del 1998, Pier Carlo Masini avesse fatto dono alla Biblioteca Serantini dell’archivio politico dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) e delle sue carte personali. L’impegno era che alla sua scomparsa, dopo un periodo di dieci anni, quei materiali fossero riordinati e resi disponibili per le attività di studio e di ricostruzione storica.

Così questo volume, il primo di tre, testimonia il rispetto di quell’impegno e di vent’anni di lavoro, per riportare letteralmente alla luce, come un reperto sconosciuto ai più, la ricerca portata avanti da un ristretto ma deciso e significativo nucleo di compagni, prevalentemente di estrazione anarchica, di un comunismo consigliarista e libertario che superasse le disgraziate scelte messe in atto dai partiti e dalla Terza Internazionale stalinizzati e allo stesso tempo l’impasse in cui sembravano essere precipitati l’anarchismo e le opposizioni di Sinistra dopo le esperienze devastanti della guerra di Spagna, dei totalitarismi e del secondo conflitto mondiale. Come afferma G. Berti, citato da Bertolucci:

“La tragedia della rivoluzione spagnola fu veramente la tragedia e la fine del movimento anarchico nato a Saint-Imier. Questo infatti si trasformerà lentamente ma inesorabilmente in un corpo ideologico immobile e in questa scia obbligata, ma sterile, affronterà i devastanti effetti della seconda guerra mondiale. Gli anni che seguirono non portarono sostanziali mutamenti alla irrimediabile situazione emersa con la sconfitta della rivoluzione spagnola. L’anarchismo non ebbe un vero ricambio generazionale perché la condizione creatasi dopo il 1945 lo mise, in modo ancora maggiore, in una posizione di assoluto isolamento che lo poneva di fatto fuori dalla realtà”.2

Nel settembre del 1939 avrebbe poi avuto inizio

“il più grande conflitto armato della storia dell’umanità, nel quale vennero usate nuove armi di distruzione di massa mai utilizzate fino a quel momento. […] Il movimento operaio internazionale rimase, ancor più che nella Prima guerra mondiale, lacerato e immobilizzato. La guerra imperialista fra gli Stati ebbe il sopravvento e quasi tutti i partiti di sinistra si dichiararono favorevoli al conflitto con le potenze dell’Asse”.3

Gli stessi esponenti anarchici, in alcuni casi, finirono con l’appoggiare l’intervento bellico degli alleati interpretandolo in chiave esclusivamente antifascista, mentre le opposizioni di Sinistra, schiacciate tra nazi-fascismo e stalinismo, si ritrovarono a tacere oppure ad avere un’influenza quasi nulla sulle masse ormai diversamente nazionalizzate. Mentre gli agenti dell’Ovra, della Ghepeù e dei nazisti davano loro la caccia per eliminarli fisicamente o per internarli nelle carceri o nei lager o nei gulag, oppure ancora mentre gli stati “liberali” concorrevano ad internare nei campi di prigionia militanti anarchici e comunisti di sinistra insieme a filo-fascisti e filo-nazisti.
Qualche anno dopo le prime prese di posizione degli anarchici a favore della guerra, che lasciarono uno strascico di polemiche e di lacerazioni interne al movimento,

“un convegno organizzato a New York dai gruppi anarchici riuniti del Nord America (24 dicembre 1943) elaborò un lungo documento, pubblicato l’anno seguente, dal titolo Rivoluzione e controrivoluzione. Nel documento, uno dei pochi prodotti in questo periodo di guerra dal movimento libertario di lingua italiana, si fa una lunga disamina delle radici del conflitto, partendo da quello precedente e analizzando la nascita delle dittature, lo sviluppo del capitalismo, il ruolo della Russia sovietica e la politica contraddittoria delle democrazie occidentali di fronte al nazifascismo e alla sua politica aggressiva. La conclusione del documento ribadisce, con le parole usate a suo tempo da Luigi Galleani, l’atteggiamento degli anarchici: «contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale»”.4

Questa posizione può costituire, per certi versi, il canto del cigno dell’opposizione anarchica al conflitto imperialista in atto e, allo stesso tempo, la base di quell’elaborazione politica e teorica che nel secondo dopoguerra, in un clima di controrivoluzione imperante, avrebbe portato al tentativo di riorganizzare tra di loro i militanti anarchici e della Sinistra Comunista che avevano tenuta ferma la barra nella direzione della lotta al capitalismo e all’imperialismo, qualsiasi fossero le forme sotto cui si presentavano le due idre.
Occorre qui ricordare

“che il numero dei militanti (anarchici – N.d.R.) sopravvissuti a vent’anni di regime, che non si erano piegati e non avevano accettato compromessi, si aggirava nell’estate del 1943 intorno ai 2/3.000 individui, nella stragrande maggioranza nati tra il 1880 e i primi del Novecento e formatisi politicamente prima dell’avvento al potere del fascismo. Praticamente sono pochi i ventenni, cioè la generazione di giovani nati sotto il fascismo e che possono rappresentare il futuro del movimento. Questa cesura, o vuoto, generazionale peserà fortemente nello sviluppo del movimento e soprattutto nella sua incapacità di riallacciare le file della propria presenza tra le classi subalterne. […] Altro dato importante è il fatto che il nucleo più consistente di militanti, circa 200/300, che si trovava assegnato nelle diverse carceri o in località di confino, in particolare a Ventotene, non viene immediatamente liberato come gli altri prigionieri politici al momento della caduta del fascismo. Ad esempio, su iniziativa del capo della colonia di Ventotene, Marcello Guida – nome che ritornerà prepotentemente nella storia del movimento libertario nell’autunno del 1969 quando, come questore di Milano, si troverà a gestire la «Strage di Piazza Fontana» e il caso di suicidio/omicidio del ferroviere anarchico ed ex partigiano Giuseppe Pinelli –, gli anarchici confinati vengono destinati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari in provincia di Arezzo insieme con alcune migliaia di slavi. Solo dopo l’8 settembre riusciranno a fuggire dal campo di prigionia prima dell’arrivo dei tedeschi”.5

L’euforia post-resistenziale e la fine della guerra oltre che del fascismo non avrebbero sviato l’attenzione di questi compagni da quello che era il reale fuoco e il reale motore dei drammi appena trascorsi. L’abbuffata democraticistica, in cui apparentemente Truman e Stalin, borghesi e proletari, nazioni e classi, capitalismo e sfruttati potevano darsi felicemente la mano, non li aveva minimamente toccati. Anche se nel frattempo la situazione politica internazionale e nazionale, la composizione di classe e la cultura che le accompagnava si era, per forza di cose, significativamente modificata.

Fu in questa situazione e in questo iato culturale venutosi a creare tra le avanguardie militanti più radicali e la società circostante che ebbe inizio l’avventura dei Gruppi anarchici di azione proletaria (GAAP). Il cui principale animatore si può individuare nella figura di Pier Carlo Masini (1923 -1998), straordinaria figura di intellettuale, ricercatore, storico del movimento anarchico ed operaio, che proprio nel 1949, su Volontà, aveva scritto: «A mio giudizio non è esatto affermare che nella storia tutti i moti di libertà o di giustizia o di umana affermazione, ieri o domani, possano avere una relazione di consanguineità con l’anarchismo». Affermazione in cui era evidente l’intenzione di Masini

“di contestare tutte quelle correnti e/o tendenze del movimento anarchico che interpretano l’anarchismo come un’idea generica di ribellismo o, viceversa, ogni forma di ribellismo sociale che si senta in qualche modo autorizzata a essere inclusa nell’alveo della grande famiglia libertaria. Questa posizione nasce, appunto, dalla considerazione di come il movimento anarchico nell’immediato Secondo dopoguerra, sull’onda della riconquistata libertà, abbia accolto nelle sue file militanti di ogni genere, che spesso hanno creato confusioni e contraddizioni. […] «La storia di ogni società esistita fino ad oggi è storia di lotte di classe», la lapidaria sentenza si trova, come è risaputo, nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e secondo Masini non è necessario esser convinti adepti del materialismo storico per accettare l’essenza di verità racchiusa nella frase testé citata. Sebbene la storia umana non possa esser tutta spiegata con l’azione della lotta di classe, non si può negare che i conflitti sociali più o meno violenti ne siano stati uno dei motori principali.[…] Dell’elaborazione marxiana sulle classi, Masini condivideva l’individuazione nel proletariato e nella borghesia delle due classi emergenti, ma antagoniste, di quella fase storica – il secolo decimonono – e da ciò ne conseguiva la considerazione che nel momento in cui il proletariato avesse portato avanti i propri interessi all’interno del sistema capitalistico, essendone in quanto forza-lavoro prodotto e componente prima, ne avrebbe determinato la totale distruzione; e poiché alla proprietà dei mezzi di produzione avrebbe sostituito la proprietà comune, avrebbe conseguentemente eliminato anche le classi che sono a quella connesse. Era quindi evidente che le condizioni necessarie per la formazione della classe, riprendendo la riflessione del filosofo ed economista di Treviri, erano principalmente di ordine economico; esse potevano però soltanto delimitare quella che veniva definita dagli economisti e dai sociologi una «situazione di classe». Questa risulta dalla trasformazione della maggior parte dei membri della società in lavoratori, per i quali il capitalismo aveva creato una situazione comune”.6

Inoltre Masini scriveva ancora sulla classe e il proletariato

“che, illuso o tradito, non può mai venir meno a se stesso perché è sempre e ferreamente presupposto dalla classe nemica, dallo stato nemico: resta un conflitto di classe, sia pure deviato dai liquidatori o sfruttato dai demagoghi, una lotta implacabile di «quelli che stanno sotto» contro «quelli che stanno sopra»; resta soprattutto l’esigenza di dare a questo movimento di classe una ideologia che esso non esprime mitologicamente dal suo seno come un tempo sognarono i pontefici massimi dell’operaiolatria, ma che un secolo di lotte ci propone oggi come il prodotto delle sue dirette esperienze”.7

A fronte di un movimento anarchico che rivendicava, attraverso la redazione della stessa rivista Volontà, un ruolo più di testimonianza che di direzione politica, Masini opponeva l’idea che

“gli anarchici devono organizzarsi e attrezzarsi con un’ideologia che rivendichi la piena autonomia dei lavoratori nel definire e realizzare il proprio percorso di emancipazione, e questa è una condizione sine qua non per l’acquisizione di una coscienza politica che può condurre verso la conquista e l’avvento di una società liberata”.8

“Per Masini, come per il gruppo formatosi nel frattempo intorno a lui, non può esistere una rivoluzione senza un movimento rivoluzionario, di conseguenza è fondamentale per gli anarchici uscire dal loro isolamento e darsi una funzione di «avanguardia», proprio per insinuare nelle lotte sociali il germe dell’insurrezione: «È per questo che noi vogliamo agganciare al movimento della classe lavoratrice una rivendicazione di libertà che completa e trascende le limitate richieste a fondo politico ed economico». E la funzione dei gruppi anarchici specifici per Masini nel divenire sociale è ben precisa: «Allora non bisogna dimenticare che i gruppi anarchici nei luoghi di lavoro operano oggi in una situazione controrivoluzionaria e non possono avere che uno scopo: quello di illustrare, documentare, descrivere la crisi, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria»”. 9

Su queste basi, che sottendono una situazione controrivoluzionaria che solo successivamente potrà essere superata e un confronto serrato con molte delle federazioni anarchiche diffuse sul territorio nazionale, Masini contribuirà a dare vita al periodico L’Impulso, che vedrà raccogliersi intorno alla sua redazione (composta nel primo anno e mezzo di vita quasi esclusivamente dal solo Masini) Augusto Boccone, fornaio e militante di vecchia e provata fede; due giovani della classe 1920 entrambi amici personali di Masini: Luciano Arrighetti operaio della Galilei e Sirio Del Nista impiegato ai Cantieri Orlando di Livorno. I liguri Arrigo Cervetto, Lorenzo Parodi, Agostino Sessarego e Aldo Vinazza – classi 1925-1927 – tutti di estrazione proletaria con esperienze nella Resistenza. I piemontesi, che rappresentano forse il gruppo più omogeneo dal punto di vista sociale essendo tutti di estrazione proletaria e inseriti nei principali stabilimenti industriali del capoluogo regionale con una grande esperienza sindacale alle spalle e anche internazionalista visto che tra loro ci sono volontari che hanno combattuto in Spagna come Aldo Demi – classe 1918 –, o che hanno un lungo excursus nel movimento, come Paolo Lico – classe 1903 –, tutti o quasi facenti parte di un gruppo storico dell’anarchismo torinese, quello del quartiere popolare di Barriera di Milano, insieme a numerosi altri provenienti da diverse regioni. I militanti che ruotano intorno al periodico hanno una prevalente estrazione proletaria, ma con una significativa presenza di giovani intellettuali, studenti e insegnanti, che poi svolgeranno una discreta influenza sullo sviluppo dell’organizzazione.

“Il primo obiettivo di questo nuovo impegno del gruppo è quello di iniziare alla base un paziente lavoro di restaurazione teorica allo scopo di rianimare i compagni disorientati o ideologicamente deboli; di qui la necessità di riassestare consolidare potenziare, sul piano locale, il tessuto associativo minacciato da un avanzato processo di lacerazione. Va altresì ricordato che questo gruppo, soprattutto i più giovani, è attraversato da un sentimento di inquietudine, di voglia di essere in qualche modo protagonista del proprio avvenire, ma nel contempo è incerto nelle scelte soprattutto teoriche. Masini li sprona allo studio, invia loro continuamente lettere nelle quali suggerisce letture di classici, sia politici che economici. Tra di loro c’è chi non ha una formazione prettamente anarchica, ma spesso è mutuata da elementi spuri derivati dalla cultura social-comunista, o repubblicana; Masini ne è ben cosciente e cerca con tutte le sue forze di costruire un cammino comune, ma l’impresa come vedremo non sarà priva di ostacoli e anche di delusioni. Tra i nomi dei giovani che sono tra i più irrequieti e in qualche maniera “problematici” c’è Cervetto”10

Che nell’immediato Secondo dopoguerra vive un’evoluzione politica e teorica che lo porterà ad essere da antifascista ribelle e comunista irregolare ad anarchico, come reazione alla svolta del «partito nuovo» di Togliatti.
E proprio in una lettera a Cervetto del 16 novembre 1949 che Masini delineerà in parte il programma dell’attività di quelli che diverranno i GAAP:

“Mi sembra che sul piano ideologico si possa andare d’accordo dichiarando il fallimento di socialdemocrazia-bolscevismo-sindacalismo-anarchismo tradizionale. […] Ora ecco la prospettiva che si disegna
a) dichiarare il fallimento di tutto il passato (anche nostro);
b) procedere alla formazione di un movimento (anarchico) nuovo.
Fin qui la prospettiva politica, di anni. Poi la prospettiva storica, di decenni.
c) Formare il movimento di classe.
Natura non facit saltus.
Sul terreno ideologico le nostre posizioni coincidono.
Sull’astensionismo siamo d’accordo.
Sul «partito» nessuno vuole il partito tradizionale della classe operaia, né l’azienda elettorale dei socialdemocratici né la superassociazione di amicizia italo-sovietica degli stalinisti, ma qualcosa di superiore di metapartitico.[…] se un presupposto della dissoluzione dello stato nella fase rivoluzionaria è la formazione particolare dei quadri rivoluzionari, risulta anti-pedagogico, controproducente parlare a questi quadri il linguaggio della «dittatura», della «egemonia», della «conquista del potere». Significa capitolare innanzi tempo di fronte all’ipotesi dello stato, ripiegare passivamente su posizioni di rinuncia, di pigrizia, di controrivoluzione preventiva.
Bisogna decisamente puntare sul non-stato, concentrare tutte le forze nel periodo rivoluzionario senza deroghe, senza proroghe dei problemi. Ci siamo?”11

Sarà sostanzialmente su queste basi, oltre che su una più vasta riflessione di carattere geo-politco sull’imperialismo e sull’opposizione alla guerra, che sarà formulato il documento politico della Conferenza nazionale convocata dal Gruppo d’iniziativa per un movimento «orientato e federato» svoltosi a Pontedecimo, in provincia di Genova, dal 24 al 25 febbraio 1951da cui avranno ufficialmente origine i GAAP. Le cui tesi principali saranno elaborate da Masini e da Cervetto.
Con il secondo ormai più orientato verso ipotesi di stampo leninista.

“Tra gli osservatori che partecipano alla Conferenza di Genova-Pontedecimo vanno segnalati Bruno Maffi, rappresentante del Partito comunista internazionalista; Livio Maitan e Sergio Guerrieri dei Gruppi comunisti rivoluzionari IV Internazionale. La presenza di queste organizzazioni a una riunione di anarchici rappresenta una novità. […] I bordighisti all’epoca rappresentano una delle «dissidenze» storiche del comunismo italiano, nel loro costituirsi in formazione politica distinta durante gli anni del Secondo conflitto mondiale, avevano sempre cercato di rivendicare la continuità con l’esperienza del Partito comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921. Questo richiamo alle radici non era casuale, e non riguardava solo anagraficamente la storia di alcuni dei principali militanti e teorici – tra cui lo stesso Amadeo Bordiga, primo segretario e fondatore del PCd’I –, ma soprattutto era di natura politico ideologica. La scelta nella propria denominazione dell’aggettivo «internazionalista», testimoniava la rivendicazione della vera essenza del comunismo rivoluzionario in contrapposizione al modello staliniano e togliattiano del partito, che faceva del nazionalismo la propria bandiera. La loro presenza alla Conferenza nazionale del gruppo de «L’Impulso» era dettata soprattutto dai buoni rapporti personali che negli anni Masini aveva mantenuto con quest’area politica e dalla quale traeva alcune riflessioni teoriche, specialmente quelle riguardanti l’analisi di Bordiga sullo Stato e la scelta internazionalista che l’intellettuale toscano stesso aveva condiviso durante l’ultima guerra”.12

La preoccupazione maggiore di Masini non fu però soltanto quella di costruire un’organizzazione che in una situazione controrivoluzionaria non avesse altro scopo che quello di illustrare, documentare e descrivere la crisi, non solo economica ma soprattutto politica del movimento proletario, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria. Ma anche quella di chiarire che nel momento in cui il lavoro politico fosse venuto

“a combaciare con la realtà rivoluzionaria, in questa si dissolve e scompare come movimento. Guai se l’organizzazione politica sopravvivesse di un attimo! Guai se anche i gruppi anarchici di fabbrica non si bruciassero ipso facto nel nuovo spazio umano delle assemblee. Avremmo allora una mostruosa dittatura, chiusa e tirannica quanto altre mai. L’alba della rivoluzione deve coincidere col tramonto dei suoi annunziatori”13

Quell’avventura politica sarebbe durata fino al 1957, in uno dei periodi più burrascosi e difficili per il movimento operaio non soltanto italiano; segnato dalla fine apparente dello stalinismo, dalla rivolta operaia “rimossa” di Berlino Est del 1953 e dalla repressione sovietica dell’insurrezione dei consigli ungheresi del 1956. Nel mentre quei compagni sarebbero stati sempre attenti ai nuovi sviluppi della lotta di classe e all’evolversi della situazione internazionale e dei conflitti interimperialistici.

L’organizzazione sarebbe stata attraversata anche dolorosamente dalle contraddizioni esplosive che si manifesteranno nella seconda metà del decennio post-bellico, ma sempre quei compagni avrebbero cercato di non perdere la rotta e di mantenere un punto di vista adeguato sia alla situazione ancora ritenuta controrivoluzionaria che alle possibili evoluzioni future della lotta di classe e della rivoluzione.
Come esempio di tale attenzione e lucidità basti qui ricordare una risoluzione del Comitato nazionale dei GAAP sui moti di Berlino del giugno 1953:

“Il giorno 17 giugno le strade di Berlino, quelle stesse strade che nel primo dopoguerra rosso furono teatro della estrema resistenza spartachiana contro le truppe del traditore Noske, sono state invase da prorompenti turbe di lavoratori e di lavoratrici che dopo anni di silenzio, di reazione croce-uncinata, di guerra imperialista, di occupazione militare hanno levato la voce fremente ed angosciosa di una classe di schiavi in rivolta. Come anarchici e come rivoluzionari noi consideriamo questo avvenimento, insieme alle eroiche sollevazioni dei popoli coloniali, insieme alle dure lotte dei lavoratori europei contro l’imperialismo americano, come uno dei fatti più importanti e più significativi degli ultimi anni.
Il 17 giugno l’imperialismo sovietico ha rivelato le debolezze e le contraddizioni del suo sistema non più attraverso oscuri conflitti tra alti gerarchi di partito e di governo, facilmente risolvibili con l’impiccagione dei vinti, non più attraverso processi, sensazionali e clamorosi quanto privi di ogni significato sociale, di fronte ai quali le masse assistevano passive e attonite. No, questa volta le masse sono entrate nel processo come accusatrici ed hanno impostato la causa su chiari motivi di classe: di là lo Stato burocratico e poliziesco, l’esercito straniero, il partito di governo; di qua noi, popolo lavoratore, armato dei nostri diritti al pane ed alla libertà. Ancora una volta è stato dimostrato che né il peso opprimente di una dittatura, né l’illusione di un «socialismo» statalista e burocratico. Né il violento annientamento fisico di ogni qualificata opposizione rivoluzionaria sono sufficienti a garantire la classe egemone dall’incontenibile insurrezione delle forze di classe che sgorgano alla base della sua stessa egemonia e le si avventano contro”.14

L’enorme mole di documentazione e di testi riportati in questo primo volume andrebbe esaminata ancora più approfonditamente, cosa che lo spazio di una recensione non può permettere, ma sicuramente le pagine della coraggiosa e ampia opera di ricostruzione curata da Bertolucci, insieme a quelle dei due volumi che seguiranno15 e che ancora qui su Carmilla saranno recensiti, richiamano tutti allo studio della Storia e ci ricordano che il processo di formazione dei partiti e dei movimenti reali non è semplice né casuale né, tanto meno, volontaristico. Sorge invece da lunghe riflessioni sulle sconfitte passate e dalla dura esperienza delle lotte reali, condivise (non soltanto sulla base ideologica) e diffuse sui territori, non da un’urna elettorale e nemmeno dall’aggregazione di rappresentanti di formazioni politiche ormai defunte che come fantasmi si rifiutano semplicemente di accettare l’idea di esser già scadute da tempo.


  1. Come spesso si ricordava orgogliosamente, senza allo stesso tempo ricordare quale incredibile baluardo della restaurazione borghese questo avesse finito col rappresentare fin dalla svolta di Salerno e quale ostacolo avesse sempre costituito per la riorganizzazione di classe dal basso e per l’autonomia politica della stessa  

  2. G. Berti, Il pensiero anarchico: dal Settecento al Novecento, Lacaita, 1998, pp. 47-48 cit. in F.Berolucci, Per una storia dei Gaap, in GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1, pag. 56  

  3. F. Bertolucci, op.cit. pag. 56  

  4. Bertolucci, op.cit. pp.57-58  

  5. Bertolucci, pag. 61  

  6. op.cit. pp. 94-95  

  7. pag.96  

  8. pag.96  

  9. pag. 97  

  10. pag. 110  

  11. pag. 114  

  12. pp. 153-154  

  13. Cit. in Bertolucci, pag. 97  

  14. Le rosse giornate di Berlino est, Genova 15 luglio 1953, op.cit. pag. 475  

  15. Il secondo intitolato: Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest. Dall’organizzazione libertaria al partito di classe; mentre il terzo sarà dedicato alle biografie dei vari militanti  

]]>
Un granello di sabbia/4 https://www.carmillaonline.com/2015/12/15/un-granello-di-sabbia4/ Tue, 15 Dec 2015 06:30:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27340 pinellidi Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Era quasi menzanotte e cadiu nella corti e strisciò lu cornicioni ch’era sutta a lu balconi. Era mortu n’allìstanti stiso in terra malamenti e pareva fossi mortu un’istanti prìcidenti. Lu questuri dissi poi non l’abbiamo ucciso noi !” (Franco Trincale)

“Vi giuro che non l’abbiamo ucciso noi !”. È la mattina del 16 dicembre 1969, sono passati quattro giorni dalla strage di Piazza Fontana, e poche ore dal volo di Giuseppe Pinelli da una finestra del quarto piano [...]]]> pinellidi Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Era quasi menzanotte e cadiu nella corti e strisciò lu cornicioni ch’era sutta a lu balconi. Era mortu n’allìstanti stiso in terra malamenti e pareva fossi mortu un’istanti prìcidenti. Lu questuri dissi poi non l’abbiamo ucciso noi !” (Franco Trincale)

“Vi giuro che non l’abbiamo ucciso noi !”. È la mattina del 16 dicembre 1969, sono passati quattro giorni dalla strage di Piazza Fontana, e poche ore dal volo di Giuseppe Pinelli da una finestra del quarto piano della Questura di Milano, in via Fatebenefratelli. L’autore della ’excusatio non petita’ è Marcello Guida, questore di Milano, che aggiunge: “Quel poveretto ha agito coerentemente con le proprie idee. Quando si è accorto che lo Stato, che lui combatte, lo stava per incastrare ha agito come avrei agito io stesso se fossi un anarchico”.

Notte bianca per il questore Guida, passata a intrattenere i giornalisti assieme al commissario aggiunto Luigi Calabresi, al capo dell’ufficio politico della questura Antonino Allegra ed al tenente dei carabinieri Savino Lograno. Notte insonne per avvalorare una tesi già strillata dai principali quotidiani, che fin da subito – Corsera in testa – avevano attribuito agli anarchici la paternità politica della bomba. La sera stessa della strage erano stati istruiti in tal senso.

Pinelli3

Enrico Baj: Funerali dell’anarchico Pinelli, 1972. Particolare.

A Guida, quella notte, non rimane dunque che arricchire un copione già in atto con il ‘suicidio’ di un anarchico, da rivendere alla stampa come una palese ammissione di colpa. “Era fortemente indiziato di concorso in strage… era un anarchico individualista… il suo alibi era crollato… non posso dire altro… si è visto perduto… è stato un gesto disperato… una specie di autoaccusa insomma…”. Rincarano la dose AllegraLo conoscevamo da tempo, era stato interrogato anche per gli attentati del 25 aprile”, e Calabresi “Lo credevamo incapace di violenze, invece… è risultato collegato a persone sospette… le sue erano implicazioni politiche…”1.

Licia Pinelli, che in quel momento sta correndo in ospedale, non sa che suo marito è morto, e nemmeno che in questura stanno cercando di ucciderlo ancora, sporcandone il nome. Licia ha saputo dai giornalisti, che sono andati a svegliarla a casa, che suo marito è caduto da una finestra della questura. È stata lei a dover chiamare via Fatebenefratelli per averne conferma. “Perché non mi ha avvisata?”, ha chiesto a Calabresi. “Ma sa signora – si è sentita rispondere – abbiamo molto da fare”. All’ospedale, davanti al corpo di Pino senza vita, sua suocera l’avverte: “Licia, vedrà domani i giornali … gli daranno la colpa di tutto”. Ed ha ragione. Di lì a poco l’arresto di Valpedra è la quadratura del cerchio: un anarchico è colpevole di strage, un altro si suicida sentendosi incastrato.

Il 17 dicembre il ‘Corriere d’informazione’ (edizione pomeridiana del Corriere della Sera) titola accanto alla foto di Valpreda: ‘La furia della bestia umana’. L’articolo che segue è forse più becero del titolo: “La macchina del terrore è saltata, ormai si tratta soltanto di raccoglierne le schegge. La bestia umana che ha fatto i quattordici morti di piazza Fontana e forse anche il morto, il suicida di via Fatebenefratelli, è stata presa, è inchiodata: la sua faccia è qui, su questa pagina di giornale, non la dimenticheremo mai”.

Dalla RAI anche Bruno Vespa (ebbene si ! Imperversava anche allora !) emette la sentenza: “Pietro è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma“. Tutta la stampa, ad eccezione di Lotta Continua, diffonde senza alcuna obiezione o perplessità le veline delle questure, compresi nuovi dettagli sulla dinamica della morte di Pinelli e sulla sua prodigiosa agilità. Con uno scatto felino, eludendo la sorveglianza di cinque agenti, il ferroviere anarchico si sarebbe tuffato oltre la finestra, dopo aver appreso da Calabresi che l’amico Valpreda aveva confessato la propria colpevolezza per la strage. Prima di lanciarsi, avrebbe gridato “Allora è la fine dell’Anarchia !”

Pinelli2

Enrico Baj: Funerali dell’anarchico Pinelli, 1972. Particolare.

Non tutti però credono alle veline. Duemila persone sfilano al funerale, coi pugni chiusi e le bandiere nere. Pochissimi in confronto ai cortei dell’epoca, ma a Licia sembrano “tantissima gente se pensi alla paura di quei giorni, al linciaggio. All’Università solo in 23 avevano firmato quella lettera in cui dicevano di non credere al suicidio di Pino. E tutto il quartiere era circondato da polizia e carabinieri. Polizia dappertutto2.

Pian piano però le testimonianze di chi l’ha conosciuto, cominciano a farsi strada. Persone insolite frequentavano questo pericoloso anarchico: intellettuali cristiani, quali Bruno Manghi e Luigi Ruggiu, e Giuseppe Gozzini, il primo obiettore di coscienza cattolico. Tutti ne ricostruiscono la generosità smisurata, l’apertura mentale, la curiosità, l’umanesimo, la purezza.

Pino PinelliGozzini così lo ricorda: “Io gli parlavo di ‘società basata sull’egoismo istituzionalizzato,’ di ‘disordine costituito,’ di ‘lotta di classe’ e lui mi riportava oltre le formule, alla radice dei problemi, incrollabile nella sua fede nell’uomo e nella necessità di edificare ‘l’uomo nuovo,’ lavorando dal basso…. Viveva del suo lavoro, povero ‘come gli uccelli dell’aria,’ solido negli affetti, assetato di amicizia, e gli amici li scuoteva con la sua inesauribile carica umana. Le etichette non mi sono mai piaciute. Quella che hanno appioppato a Pinelli: ‘anarchico individualista,’ è melensa, per non dire sconcia. Si è sempre battuto infatti contro l’individualismo delle coscienze addomesticate: lui, ateo, aiutava i cristiani a credere; lui operaio, insegnava agli intellettuali a pensare, finalmente liberi da schemi asfittici….È orribile pensare che si sia potuto sospettare di lui. Che si fosse ucciso non ci ho mai creduto. Alla notizia ho pensato che ‘fosse stato morto,’ ecco quello che ho pensato3.

Mentre la statura umana di Pino Pinelli riemerge dal fango sotto cui stampa e questura intendevano seppellirla, dalle pagine di Lotta Continua si comincia a smontare il teorema imbastito contro gli anarchici, ad indicare i fascisti e i servizi come gli esecutori della strage, e a collocare gli attentati all’interno di un progetto politico finalizzato a fermare le spinte rivoluzionarie del ’68 e’69, utilizzando la paura e la diffamazione dei movimenti. Un golpe strisciante, meno evidente e più subdolo, perché “i colpi di stato si fanno in molti modi. Non sempre vanno bene i carri armati che possono dar fastidio a una parte della borghesia4 … “un piano politico (attentato e strage) che, dando l’illusione di accontentare la destra e di favorirne l’azione, è in effetti lo strumento più funzionale ad una stabilizzazione moderata, ad una involuzione « legale e costituzionale », che non è il colpo di stato dei colonnelli“.

Giorno dopo giorno, man mano che emergono sempre più le contraddizioni e l’inconsistenza probatoria della pista anarchica, si sgretolano anche le affermazioni infamanti sulla figura di Pinelli. Anche Calabresi cambia versione smentendo il suo stesso questore: “Non avevamo niente contro di lui, era un bravo ragazzo, l’avremmo rilasciato il giorno dopo.”

LC - paracadute

Paracadutismo. Tratto da: Lotta Continua del 28/02/70.

Ma in questo modo fa crollare uno dei pilastri a sostegno dell’ipotesi del suicidio, il cui movente risiedeva nel fatto che Pinelli si sentisse incastrato a fronte di gravi indizi di colpevolezza. Fra l’altro, l’ipotesi del suicidio già traballa da tutte le parti, sia perché l’alibi di Pinelli per il 12 dicembre è confermato, sia perché le modalità di  caduta da quella finestra del quarto piano somigliano proprio tanto ad una discesa a peso morto .

A ciò si aggiunge la testimonianza di Pasquale Valitutti, fermato assieme a Pinelli, che afferma di  aver sentito provenire dalla stanza dell’interrogatorio di Pino “dei rumori sospetti come di una rissa”. Rumori piuttosto strani per un colloquio ufficialmente civile e tranquillo. Valitutti smentisce inoltre la versione di Calabresi, che ha sempre sostenuto di essere uscito da quella stanza prima del ‘balzo felino’5, e le sue dichiarazioni, sempre coerenti, contrastano con quelle degli inquisitori, che invece mutano in continuazione:

Prima versione: «quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ma non ci siamo riusciti ». Seconda versione: abbiamo tentato di fermarlo « ma ci siamo riusciti solo parzialmente ». Terza versione: «abbiamo tentato di fermarlo e il brigadiere Vito Panessa con un balzo cercò di afferrarlo e salvarlo; in mano gli rimase soltanto una scarpa del suicida ». E bravo il brigadiere Vito Panessa ! Abile e veloce, ma un po’ miope forse, dal momento che non ha visto che il Pinelli aveva 3 scarpe. Le persone che si sono avvicinate al corpo del «suicida », nell’aiuola del cortile della Questura, affermano infatti di aver visto chiaramente ai piedi di Pinelli le due scarpe di pelle scamosciata. Come si spiega allora la scarpa rimasta in mano al brigadiere Vito Panessa? A meno che questi anarchici non abbiano addirittura tre piedi; gente strana d’altronde, da cui ci si può aspettare qualsiasi cosa”.6

Lotta Continua analizza quotidianamente ogni incongruenza delle versioni ufficiali. Per i suoi redattori (e non solo per loro) non ci sono dubbi: Giuseppe Pinelli è stato assassinato. Ne sono responsabili Guida, Allegra e Calabresi, i poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli, assieme al tenente dei C.C. Savino Lograno.

LC - Calabresi 3

Ma Dotto’! .. che fa spinge ? Tratto da: Lotta Continua del 28/02/70.

Il giornale evidenzia come in tutte le inchieste sulle bombe dell’ultimo anno (bomba del 25 aprile al padiglione Fiat della stazione centrale, bombe sui treni dell’8 e 9 agosto) si riscontri la presenza del giudice Amati, di Calabresi o Guida, impegnati a perseguitare gli anarchici seguendo teoremi dall’esito infruttuoso, tralasciando invece le piste neofasciste7.

Si denunciano lunghe carcerazioni di anarchici basate su prove false, si raccolgono testimonianze sui pestaggi che coinvolgono gli stessi poliziotti presenti all’interrogatorio di Pinelli:

Ma quello che più ha influito nel farmi firmare i verbali scritti dalla polizia sono state le percosse e le minacce. Era la prima volta che subivo violenza fisica. Sono stato schiaffeggiato, colpito alla nuca, preso a pugni, mi venivano tirati i capelli, e torti i nervi del collo. Rendeva più terribile le percosse il fatto che avvenivano all’improvviso dopo aver fatto chiudere le imposte, e venivo colpito al buio. In particolare ricordo di essere stato colpito dal dr. Zagari che mi accolse al mio arrivo da Pisa alle 3 di notte con una nutrita scarica di schiaffi, e dagli agenti Mucilli e Panessa. Quanto alle minacce, consistevano nel terrorizzarmi annunciandomi, codice alla mano, a quanti anni di carcere avrei potuto essere condannato, cioè fino a venti anni. Tali minacce mi furono ripetute in carcere da parte del dr. Calabresi”.8

Infine, sulle pagine di L.C. non manca mai, per Calabresi, lo sberleffo della satira.

Nel frattempo, la ‘giustizia’ sul caso Pinelli fa il suo corso … verso un vicolo cieco: il procuratore Caizzi conclude con un’archiviazione l’istruttoria preliminare per la morte del ferroviere, avvalorando in toto la versione della questura. Caizzi non permette nemmeno ai familiari di Pinelli di costituirsi parte civile. In questura tutti sono rimasti al loro posto, in posizioni tali da poter inquinare prove e imbastire provocazioni. Strani interrogatori ai vicini di casa dei Pinelli sembrano ricercare prove di immoralità della madre e della moglie, ree di aver denunciato il questore Guida per le infamie dette sul loro congiunto (denuncia che non avrà nessun seguito).

Ogni via giudiziaria sembra chiudersi, tranne una. Perché Calabresi querela Pio Baldelli, direttore responsabile di Lotta Continua, per diffamazione continuata e aggravata. E commette un errore. (Continua)

LC - questura di Milano

A Dotto’ ! Me lo potevate dire ch’ era un confronto. Tratto da Lotta Continua.

 

 


  1. Camilla Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Feltrinelli, 1971, pp. 3/4. 

  2. Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli, 2009, p. 22. 

  3. Camilla Cederna, op. cit., p. 5. 

  4. Lotta Continua, 17 gennaio 1970. Lotta Continua, 24 marzo 1970. 

  5. Cederna, op. cit., p. 7. 

  6. Lotta Continua, 21 febbraio 1970 

  7. Lotta Continua , 24 marzo 1970, p. 5. 

  8. Lotta Continua, 1° maggio 1970. 

]]>
Un granello di sabbia/3 https://www.carmillaonline.com/2015/08/04/un-granello-di-sabbia3/ Tue, 04 Aug 2015 00:00:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24138 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

2Doveva essere febbrile, in quell’autunno caldo, l’attività di via Giacosa, sede torinese dei così detti “Servizi Generali” della Fiat.

C’era molto lavoro: analizzare i rapporti delle spie di reparto infiltrate fra gli operai, interrogare i vicini di casa dei soggetti da sorvegliare, ma anche i parroci, i negozianti del quartiere, le portinaie, i messi comunali. Bisognava annotare le opinioni politiche, l’appartenenza sindacale, le frequentazioni, l’osservanza religiosa, le abitudini private e sessuali, non solo degli operai Fiat e degli [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

2Doveva essere febbrile, in quell’autunno caldo, l’attività di via Giacosa, sede torinese dei così detti “Servizi Generali” della Fiat.

C’era molto lavoro: analizzare i rapporti delle spie di reparto infiltrate fra gli operai, interrogare i vicini di casa dei soggetti da sorvegliare, ma anche i parroci, i negozianti del quartiere, le portinaie, i messi comunali. Bisognava annotare le opinioni politiche, l’appartenenza sindacale, le frequentazioni, l’osservanza religiosa, le abitudini private e sessuali, non solo degli operai Fiat e degli aspiranti tali, ma anche dei loro familiari, e poi di politici della sinistra, sindacalisti, giornalisti. Occorreva stilare le liste dei proscritti, o al contrario, quelle dei fascisti da preferire nelle assunzioni.

Il tutto in mezzo al via vai dei fattorini, impegnati a portare in Questura e alla Caserma dei CC i pacchi di schede già intestate con i nominativi da ‘attenzionare’. Gli agenti e funzionari dell’ordine pubblico le avrebbero riempite con solerzia riversandovi il contenuto degli archivi polizieschi.

Insomma, in via Giacosa l’attività ferveva, soprattutto in quegli anni turbolenti. Anni in cui i cortei interni raccoglievano migliaia di operai e la fabbrica risuonava del rumore dei tamburi. Al loro arrivo tacevano le macchine, si fermavano i forni, le frese, le saldatrici. “Agnelli, l’Indocina ce l’hai in officina” gridavano gli operai, e i capi scappavano, scappavano1. La produzione crollava sotto i colpi del gatto selvaggio.

1969 Assemblea a Mirafiori.

1969 Assemblea a Mirafiori

Probabilmente l’unico reparto che ancora funzionava a pieno ritmo era proprio quello dei ‘Servizi Generali’.

La produttività dell’ufficio era triplicata rispetto agli anni ’50, quando si concentrava sulla persecuzione dei comunisti, degli ex partigiani e dei membri delle Commissioni Interne da avviare al licenziamento o ai reparti confino.

L’immigrazione dal sud e l’emergere dell’operaio massa avevano ampliato il campo di indagine a dismisura: dalle 203.422 schedature del periodo 1946-66 si era passati alle 150.655 nel solo quadriennio ’67-’71, portando la media annuale da 12.000 a 37.500. Fino a quando nell’agosto ’71 un incidente di percorso2 permise l’irruzione di Raffaele Guariniello nei locali di via Giacosa. Davanti al giovane pretore si stagliò un immenso archivio.

Il 13 novembre di quell’anno il Teatro Alfieri non riusciva a contenere la gente. L’assemblea dal titolo “La città deve sapere”, indetta dai sindacati, traboccava di pubblico. Al tavolo della presidenza, l’avvocato Bianca Guidetti Serra.

Sul palco si alternavano gli interventi degli operai, molti di quegli 812 licenziati per rappresaglia politico/sindacale3 dagli stabilimenti torinesi degli Agnelli. A un militante di Lotta Continua il compito di fare i nomi e i numeri dello spionaggio e della corruzione. Ciò che colpiva non era solo l’entità dell’opera di schedatura, ma la natura degli informatori: in pratica al soldo del servizio informativo della Fiat risultava l’intero apparato repressivo di Torino4.

Cariche davanti a Mirafiori.

Cariche davanti a Mirafiori.

Il dossier di LC denunciava quasi tutti i questori della città dal ’53 in poi, compreso Marcello Guida, già tristemente noto per le cariche di Corso Traiano, e che sarebbe poi assurto a peggior gloria come questore di Milano nel giorno della defenestrazione di Pinelli5.

Guida, denunciava LC, riceveva dalla Fiat circa un milione all’anno. I più pagati risultavano Ermanno Bessone e Aldo Romano, rispettivamente capo e commissario dell’Ufficio Politico della Questura, con cifre aggiuntive allo stipendio pubblico che andavano dalle 250.000 alle 400.000 lire mensili (ai tempi in cui un salario operaio era di 120.000).  Più scarna la busta paga mensile del tenente colonnello Enrico Stettermajer, capo del nucleo speciale dei CC di Torino e referente del S.I.D., che raggiungeva le 150.000 lire. E poi c’erano il Colonnello dei CC (altro appartente al S.I.D.) Alessandro Astolfi, e il capo gabinetto della Questura dott. Stabile.

L’archivio dei loro uffici era a completa disposizione del committente, così come altri servigi: Stettermajer era indicato da Lotta Continua come l’artefice di montature contro i propri militanti, Astolfi come mandante dell’infiltrato in LC Salvatore Cieri6, mentre di Bessone e Romano si sottolineava l’accanimento nel guidare le cariche durante i cortei ed ordinare gli arresti7. Fra le causali dei versamenti delle loro provvigioni, i contabili della Fiat annotavano le formule “aiuto durante uno sciopero“, “aiuto durante una manifestazione“. L’ ‘aiuto’ consisteva nella a violenza poliziesca contro gli scioperanti.

Oltre ai dirigenti, la Fiat beneficiava anche la a truppa, con 150 stipendi extra per agenti e funzionari dell’ordine pubblico, che collaboravano in perfetta osmosi con lo staff dei ‘Servizi Generali’, composto in maggioranza da ex poliziotti, ex militari ed ex CC.  Lo stesso Cellerino, dirigente dei “Servizi Generali”,  era stato per 18 anni a capo del nucleo Sios Aeronautica, dipendente dal S.I.D.

Ermanno Bessone dirige la piazza

Aldo Romano durante una manifestazione.

L’azienda non tralasciava inoltre di sovvenzionare gli uffici di polizia e carabinieri pagandone le manutenzioni, fornendo la cancelleria, e le bevande calde alle guardie impegnate contro i picchetti operai. Infine, la Fiat omaggiava la sua rete informativa con migliaia di benefit da quattro soldi – cioccolatini, bottiglie di Cinzano, profumi, orologi e regalucci – che venivano inviati per le festività a migliaia di carabinieri, poliziotti, vigili urbani, questori di altre città, ufficiali e sottoufficiali di Esercito, Aeronautica e Servizi, dipendenti dei Ministeri, dei Comuni, delle Prefetture e tribunali, dell’ACI e Motorizzazione Civile. A tutti i magistrati era assicurato uno sconto sull’acquisto dell’auto.

Questa immensa opera di corruzione andò a processo, ma non a Torino, per evitare, disse il procuratore generale, la reazione delle “masse operaie che presumono, a torto o a ragione, di essere controllate nella loro vita privata da organi del patronato in collusione con le forze di polizia”. “Non di minore rilievo assume il fatto che dovrebbe essere incriminato un imponente numero di appartenenti al corpo di PS e all’Arma dei Carabinieri, quasi tutti svolgenti compiti di polizia giudiziaria e pertanto necessari e costanti collaboratori della magistratura torinese”.8

Il procedimento venne dunque spostato a Napoli per ‘legittima suspicione’, a debita distanza dalle parti lese. Se ne abbiamo notizia, nonostante la congiura del silenzio a cui aderì la quasi totalità della stampa italiana, è grazie anche agli avvocati di parte civile Pier Claudio Costanzo e Bianca Guidetti Serra.

Le schedature FiatNon fu facile neanche per loro intervenire nel processo. L’accesso agli atti era protetto da un rigidissimo segreto istruttorio che impediva, di fatto, la costituzione di parte civile degli operai licenziati per rappresaglia, perché non avendo accesso alle schede, essi non potevano dimostrare di essere stati schedati e che da tale schedatura fosse derivato il licenziamento politico. Ma per la prima volta nella storia Costanzo e Guidetti Serra riuscirono a far passare la costituzione di parte civile delle forze sindacali come rappresentanza collettiva.

Per più di quaranta udienze gli avvocati di parte civile si alternarono, percorrendo chilometri e chilometri nel lungo viaggio da Torino a Napoli e ritorno, senza avere certo a disposizione gli aerei privati della Fiat, come avevano i colleghi difensori. Si scontrarono con i tentativi di insabbiamento, con i mille ostacoli burocratici e rinvii, e finanche con il segreto politico militare apposto su una parte degli atti.

Arrivarono a sentenza nel febbraio del 1978, con trentasei condannati per corruzione e violazione del segreto d’ufficio, tra cui cinque dirigenti Fiat e un alto dirigente della Questura. “Pene estinte dalla prescrizione dopo le attenuanti concesse in sede di appello l’anno successivo. I reati più lievi erano già stati cancellati dall’amnistia, e nessun imputato venne seriamente danneggiato dal processo. Tutti restarono al loro posto, salvo alcuni pubblici ufficiali trasferiti ad altre sedi in ruoli equivalenti…. Ma non era questo che ci interessava” – scrisse Bianca Guidetti Serra – “l’importante, invece, è che si fosse svolto il processo come momento di verità“.9

Bianca raccolse questo momento di verità in un libro, che come il processo, ebbe un iter egualmente travagliato. ‘Le schedature in Fiat’, scritto per Einaudi, venne infatti stampato ma, all’ultimo momento e per ragioni ignote, mai messo in distribuzione. Per vederlo in libreria, l’autrice dovette rivolgersi a un altro editore.

Il processo alla Fiat non fu l’unica occasione in cui l’avvocato Guidetti Serra si trovò a combattere per la giustizia in fabbrica. Fu infatti tra i primi legali ad occuparsi del tema delle nocività, sostenendo le parti civili contro l’Ipca di Ciriè in una causa pilota nata dalla caparbietà di due lavoratori.

IpcaL’Industria Piemontese dei Colori di Anilina, proprietà delle famiglie Ghisotti e Rodano, era attiva dal 1922 per la produzione di pigmenti a base di ammine aromatiche, potenti cancerogeni vescicali, la cui pericolosità era stata descritta fin dal 1895 dal chirurgo tedesco Ludwig Rehn. Nocività note, dunque, già dalla fondazione dell’Ipca, ma non per questo i padroni adottarono provvedimenti. “I Ghisotti di tutto questo non se ne dettero per inteso. La loro fabbrica continuò a lavorare come prima, gli operai erano a mani nude, senza tute, senza maschere. Polvere e colori impregnavano i loro corpi, avvelenavano le loro vite”.10

Nel ’56 la Camera del Lavoro di Torino descriveva la fabbrica in questo modo: “L’ambiente è altamente nocivo, i reparti di lavorazione sono in pessime condizioni e rendono estremamente gravose le condizione stesse del lavoro. I lavoratori vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro volti si posa una pasta multicolore, vischiosa, con colori nauseabondi e, a lungo andare, la stessa epidermide assume disgustose colorazioni dove si aggiungono irritazioni esterne”.

Ipca di Cirié.

Ipca di Cirié.

Non si durava molto là dentro: “Ho 44 anni. Sono sposato e ho un figlio di tre anni. All’Ipca ci sono stato dal 1960 al 1962. Lavoravo nel magazzino delle materie prime. Per non sentirci male, ogni tanto scappavamo fuori a prenderci un po’ di fiato. L’anno scorso, a distanza di 15 anni da quando sono uscito da quell’inferno, ho incominciato a orinare sangue.11

Intervistato sulle condizioni in fabbrica, Silvio Ghisotti rispondeva al giornalista: “Lei mi insegna, che nulla è più dannoso per un’industria che gettar via soldi inutilmente”. Parole di uno che sente di non aver nulla da temere. Non dal Comune di Ciriè, che nel ’67 cazziò violentemente gli operai che avevano chiesto aiuto al gruppo consiliare del PCI. Non dalla Provincia, che smarrì distrattamente la denuncia inviatale dalla Commissione Interna. Non dall’Inail, né dall’Ispettorato del Lavoro, che negò di aver mai fatto controlli, a fronte di più di un centinaio di morti. Né dal medico di fabbrica, che prescriveva agli operai che pisciavano rosso di bere meno vino e più latte. In compenso l’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Torino, pubblicò un ricerca allarmante sui tumori all’Ipca … ma senza dire, per ‘riservatezza’, il nome della fabbrica.12

Gli operai capirono che dovevano fare da soli. Nel 1968 due di loro, Albino Stella e Benito Franza si licenziarono. Per qualche anno girarono tutti i cimiteri della zona, annotando i nomi dei compagni morti. Ne trovarono 134, e decisero che erano abbastanza.

La fabbrica del cancroDovevano sbrigarsi a fare denuncia: anche loro erano dei “pissabrut“, dei “pisciarosso”, come venivano chiamati i condannati dell’Ipca. La loro inchiesta fu alla base dell’apertura del processo, che riguardò 37 casi di morte avvenuta e 27 di grave malattia in corso.  Tutti gli altri omicidi erano andati in prescrizione, o amnistiati.

Benito Franza non arrivò alla sentenza, ma fece in tempo a lasciare testimonianza : “Mi sono impiegato all’Ipca, come primo lavoro, nel 1951. Ero addetto alla produzione di betanaftilamina, e usavo materiali che mi hanno fatto venire, come ho saputo 15 anni dopo, il cancro alla vescica. Lavoravo in questo modo: con una paletta a manico corto prelevavo il beta naftolo in polvere e caricavo così, insieme ad altri elementi, un’autoclave…. La miscela bollente entrava a contatto con l’aria e sollevava una gran nube di vapore velenoso che passava in tutti i reparti, e che veniva respirato da tutti gli operai…”.

E testimoniarono anche altri: “Gli operai usano tute di lana (che si procurano in proprio perché il padrone non fornisce niente) in quanto la lana è l’unico tessuto che assorbe gli acidi senza bruciarsi… anche i piedi li avvolgevamo in stracci di lana, e portavamo tutti zoccoli di legno, altrimenti con le scarpe normali ci ustionavamo i piedi. I topi che entravano morivano con le zampe in cancrena. I topi non portano zoccoli“.

Sulle mie lenzuola e sul cuscino conservo ancora l’impronta del corpo di mio marito. Infatti, pur lavandosi e facendosi il bagno prima di coricarsi, la notte tutti quei colori che aveva in corpo uscivano, trapassavano il pigiama e le lenzuola rimanevano impregnate… Dormendogli accanto, sentivo un forte odore acido emanato dal suo respiro...”

Ipca di Ciriè

Ipca di Ciriè.

“Il medico mi chiedeva solo se mangiavo, se fumavo, se bevevo … Una volta che sono svenuto mi ha misurato la pressione, e siccome era bassa, invece di avvertirmi che era colpa dell’ammoniaca, mi ha detto solo di mangiare di più...”13

Durante la prima udienza – ricorda Bianca Guidetti Serra – il pubblico era così folto che si dovette cambiare aula. Venne accolta per la prima volta (e fece precedente) la costituzione del sindacato come parte civile in una causa per omicidi bianchi, e solo poche famiglie accettarono il risarcimento offerto dai Ghisotti per chiudere il contenzioso. La maggior parte resto’ dentro il processo. Spesero molto, i Ghisotti, negli onorari dei principi del foro, nelle perizie di illustri scienziati, ma non bastò ad evitare le condanne di quattro dirigenti e del medico di fabbrica. Un altro precedente giuridico, perché per le morti da malattia professionale non era mai successo.

In quell’occasione, gli avvocati delle parti civili destinarono i propri onorari alla costituzione della “Fondazione Benito Franza”. Era nello stile di Bianca evitare di arricchirsi col mestiere.

Del resto, la sua clientela abituale non era particolarmente danarosa: “In quegli anni avevo un calendario fittissimo di processi e mi spostavo di continuo tra Torino, Genova, Pisa, Lucca, Firenze, Milano e molte altre città per affrontare casi legati quasi sempre a manifestazioni di piazza di studenti e operai. Erano gli anni delle occupazioni, degli scioperi, degli sgomberi, delle assemblee, ma in quel periodo difesi anche molti obiettori di coscienza, erano i tempi in cui diversi giovani venivano arrestati per non aver risposto alla chiamata di leva… mi capitò di difendere Adriano Sofri per blocco stradale davanti al municipio …14.

E le capitò anche di difendere Pio Baldelli, direttore responsabile di “Lotta Continua“, dalla querela per diffamazione avanzata dal commissario Luigi Calabresi, indicato dal giornale come uno dei principali responsabili dell’omicidio di Pinelli. Un occasione insperata, per LC, per poter confutare, con il rilievo di un pubblico dibattimento, la tesi del suicidio del ferroviere anarchico. (Continua)

 


  1. Si partiva. Si andava verso quelle squadre che eravamo sicuri avrebbero scioperato, battendo ritmicamente sulle latte usate come tamburi, e così il corteo si annunciava, le altre squadre lo sentivano arrivare da lontano e si preparavano fermandosi. Gridavamo slogan: Ho Ho Hochiminh, Agnelli l’Indocina ce l’hai in officina, slogan che nascevano dalle riunioni con gli esterni, con gli studenti… si battevano i tamburi, e quando incontravamo un caporeparto gli ci si metteva tutti intorno come gli indiani, a battere e a ballarci attorno, finché questo non si ubriacava e finiva dentro al corteo… man mano che li facevi i cortei diventavano sempre più grossi, la gente ci trovava non tanto un mezzo per ottenere più soldi e ferie, quanto la libertà”. Da Gabriele Polo, I tamburi di Mirafiori, Cric, 1989, pp. 63/64. 

  2. A sollevare il caso fu la vertenza di un dipendente dei ‘Servizi Generali’, tal Caterino Ceresa, che, in seguito al licenziamento, fece vertenza contro la Fiat perché lo aveva inquadrato come semplice fattorino, mentre lui svolgeva le superiori funzioni di spia. Per sostenere le sue ragioni, Ceresa mostrò ai giudici alcune schede, spiegando nei minimi dettagli funzionamento e funzioni del suo ufficio. 

  3. La stima è per difetto. 812 è il numero di licenziati Fiat del periodo 1948/66 che ottennero il riconoscimento previsto dalla legge 36/74. Sui licenziamenti degli anni ’50 a Torino: Donato Antoniello, Da Mirafiori alla S.A.L.L. Una storia operaia, Jaca Book, 1998, p. 220. 

  4. Lotta Continua, Anno III, n. 17/18, 16 novembre 1971, p. 10. Per il dibattito parlamentare sulla questione: Atti Parlamentari. Camera dei Deputati, Seduta di venerdì 29 ottobre 1971

  5. E’ il primo ad arrivare all’ospedale Fatebenefratelli dove impone la presenza di un poliziotto al capezzale di Pinelli. Poche ore dopo dichiara il falso alla TV: “era fortemente indiziato, il suo alibi era crollato” . Poi aggiunge: “Vi giuro: non l’abbiamo ucciso noi”. Pochi mesi dopo viene promosso ad incarichi ministeriali e trasferito a Roma“. In: Agnelli ha paura e paga la questura. I documenti dello spionaggio e della corruzione in Fiat, Edizioni Lotta Continua, 1972. 

  6. Una spia si confessa, in “Lotta Continua, anno III, n. 6, aprile 1971, p. 23. 

  7. Agnelli ha paura…, Op cit. 

  8. Bianca Guidetti Serra, Le schedature Fiat. Cronaca di un processo e altre cronacheRosemberg & Sellier, 1984, pp. 18/19. 

  9. Ibidem, p. 13. 

  10. Breve storia dell’Ipca. Come nasce una fabbrica della morte, Lotta Continua, n. 11, 1978, p.6. 

  11. Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p.116. 

  12. Tecnici e classe operaia, in “Lotta Continua”, 23 giugno 1978, p. 10. 

  13. INAS-CISL (a cura di), La fabbrica descritta dagli operai. Il caso IPCA, Almeno so di cosa morirò, Torino, 1973. 

  14. Stefano Moro, Tessere il filo della democrazia. Intervista a Bianca Guidetti Serra, 16 novembre 2010.  

]]>