maoisti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 25 Apr 2025 13:14:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un mondo meglio di così. La sinistra rivoluzionaria in Italia https://www.carmillaonline.com/2023/11/06/un-mondo-meglio-di-cosi-la-sinistra-rivoluzionaria-in-italia/ Sun, 05 Nov 2023 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79865 di Luca Cangianti

Eros Francescangeli, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), Viella, 2023, pp. 364, stampa € 32,00, ebook € 18,99.

«Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto.» Eros Francescangeli riassume in questo modo la storia della sinistra rivoluzionaria italiana, cioè di quell’insieme di organizzazioni che si prefissero di costruire «un mondo meglio di così», come cantava Vasco Rossi. Da un punto di vista sociologico si tratta di soggetti che praticarono autoriduzioni, obiezione coscienza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni di case, stabili e fabbriche. Da [...]]]> di Luca Cangianti

Eros Francescangeli, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), Viella, 2023, pp. 364, stampa € 32,00, ebook € 18,99.

«Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto.» Eros Francescangeli riassume in questo modo la storia della sinistra rivoluzionaria italiana, cioè di quell’insieme di organizzazioni che si prefissero di costruire «un mondo meglio di così», come cantava Vasco Rossi. Da un punto di vista sociologico si tratta di soggetti che praticarono autoriduzioni, obiezione coscienza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni di case, stabili e fabbriche. Da un punto di vista politico ritenevano necessario un rovesciamento istituzionale mediante l’esercizio della forza, piuttosto che tramite il gradualismo riformista.

«Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978) circoscrive il perimetro di studio alle componenti specificamente “politiche”, non affrontando i movimenti e le strutture fluide (per esempio l’autonomia operaia), le formazioni militari della partigianeria dissidente (Bandiera rossa, Stella rossa) e le organizzazioni armate degli anni settanta (Brigate rosse, Prima linea ecc.). Il saggio contesta il paradigma della “sessantottogenesi”, quello che vedrebbe nascere la sinistra rivoluzionaria nel corso del biennio 1968-69. Francescangeli sostiene infatti che non vanno trascurati i presupposti, che hanno una storia antecedente di venticinque anni e che pur in forma molto minoritaria avevano strutturazione organizzativa. Il sessantotto fece uscire dall’isolamento la sinistra rivoluzionaria, ma non può esser concepito come il suo anno zero. Si spiega così l’attenta periodizzazione che suddivide gli anni che vanno dal 1943 al 1978 nella «la stagione del vetero-libertarismo e del dissenso eterodosso» (1943-1964) e quella «della contestazione e dell’insubordinazione diffuse» (1965-1978). La prima fase a sua volta è suddivisa negli anni dell’opposizione all’Unità nazionale (1943-1948), del terzocampismo e del filo-titoismo (1949-1955), della destalinizzazione (1956-1960), dell’incubazione dell’operaismo e del marxismo-leninismo (1961-1964). La seconda fase è suddivisa negli anni della politicizzazione terzomondista e della contestazione studentesca (1965-1968), della protesta operaia e della radicalizzazione dello scontro (1968-1974), del declino e della “violenza diffusa” (1975-1977), del terremoto politico-organizzativo, cioè del ritorno alla marginalità da parte della sinistra rivoluzionaria (1978).
Un altro grande pregio del libro, oltre alla sua scorrevolezza (per nulla scontata, visto la natura articolata del tema), è l’utilizzo di una mole impressionante di fonti: bibliografiche, emerografiche, documentarie e soprattutto “fiduciarie”. Si tratta, in quest’ultimo caso, di informatori infiltrati che ci restituiscono il profilo del soggetto analizzato da una prospettiva feconda e spiazzante: la rete dell’intelligence di stato si rivela sorprendentemente vasta, interna e spesso costituita da amici e conoscenti.

E veniamo ai protagonisti della narrazione. Si parte dagli anarchici, divisi negli anni ’40 tra individualisti e organizzatori, cioè disposti a intervenire sia nel Comitato di liberazione nazionale che nella Cgil. Secondo un rapporto del Pci raggiungono le 30 mila unità concentrandosi nelle città di Milano e Carrara. Negli anni ’50 alcuni settori si avvicinarono alla dissidenza comunista e attraverso varie metamorfosi contribuirono a fondare sia la filocinese Federazione marxista-leninista d’Italia (Fmldi) che Lotta comunista, un’organizzazione che fondeva «oggettivismo messianico e rivendicazionismo sindacale».

I militanti «internazionalisti» si riorganizzarono a partire dal 1942-43 cercando di mettere in pratica l’insegnamento di Amedeo Bordiga: «considerando fascismo e democrazia come due facce della medesima medaglia, giudicarono lo scontro allora in atto come riconducibile a un conflitto armato inter-imperialistico e, conseguentemente e a differenza delle altre aree della sinistra rivoluzionaria, si opposero alla lotta partigiana (e all’antifascismo) in nome dell’affratellamento dei proletari e della trasformazione della guerra in rivoluzione sociale.» Il Partito comunista internazionalista si divise presto in due organizzazioni omonime: una “attivista”, sostenitrice dell’intervento nelle lotte operaie, e l’altra “attesista” che «giudicando lontana una ripresa rivoluzionaria, riteneva una necessità prioritaria e inderogabile l’opera di ridefinizione della teoria marxista attraverso lo studio.»

Dal canto loro i trockisti presenti nel Psiup giudicarono la sua linea politica subalterna al Pci stalinista e nel 1947 condivisero con i riformisti di Saragat l’esperienza scissionista del Partito socialista dei lavoratori italiani (chiamati scherzosamente “piselli” dalla sigla Psli e in seguito denominatisi Partito socialdemocratico italiano). Quando divenne palese l’orientamento moderato e filo-atlantista di questa formazione i trockisti se ne separarono e inaugurarono una tattica di “entrismo”, principalmente nel Pci, parallelamente alla costituzione di un’organizzazione esterna: i Gruppi comunisti rivoluzionari (IV internazionale). L’arrivo del sessantotto disgregò velocemente tutta l’area: alcune componenti (per es. l’associazione Falcemartello di Aldo Brandirali) finirono per fondare l’organizzazione stalino-maoista Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), meglio nota con il nome del suo diffusissimo giornale “Servire il Popolo”; altre contribuirono alla nascita di Avanguardia operaia, un gruppo milanocentrico che fuse istanze maoiste, guevariste e operaiste in chiave antistalinista, arrivando a organizzare tra i 7 mila e i 12 mila militanti.

Alla base della diffusione del maoismo ci fu la rottura, consumatasi tra il 1960 e il 1964, tra Repubblica popolare cinese e Unione sovietica. Il contendere riguardava la “coesistenza pacifica” con il capitalismo e aveva come suo versante ideologico la difesa della figura di Stalin. Se all’inizio la simpatia verso la Cina attecchì principalmente nelle fila staliniste più ortodosse, con l’inizio della Rivoluzione culturale anche molti settori antiautoritari iniziarono ad apprezzare il maoismo. Le organizzazioni di stretta osservanza “emmelle” (marxiste-leniniste) ebbero un breve, ma intensissimo periodo di crescita, arrivando a contare molte migliaia di militanti e oltre un centinaio di sezioni. Ciò nonostante si caratterizzarono per una frammentazione dai tratti surreali: si arrivarono a censire fino a tre Partiti comunisti d’Italia (marxisti-leninisti)!

Il gruppo più influente e numeroso della sinistra rivoluzionaria italiana fu Lotta continua. Esso sorse alla fine degli anni sessanta dalla spaccatura del “movimento” sulla questione del rapporto tra avanguardia e massa. Nonostante la comune provenienza operaista, i “partitisti” di Potere operaio sostenevano il rifiuto del lavoro, declinato in termini di radicale conflittualità salariale, e la costruzione di un partito leninista che avrebbe dovuto guidare il proletariato all’insurrezione; di contro Lotta continua esaltava la spontaneità, l’autorganizzazione, la democrazia assembleare con l’obiettivo di sviluppare il contropotere operaio. Il successo di questa formazione (150 sedi, una forza militante di 10-15 mila unità che secondo i servizi segreti poteva arrivare a 50-60 mila considerando l’area simpatizzante) è attribuito da Francescangeli alla capacità di «adattarsi – ecletticamente, quanto populisticamente – ai temi “trainanti” di culture politiche differenti dalla propria matrice, ossia quella operaistica… il diritto alla casa, la ribellione al rincaro del costo della vita (da cui la pratica delle autoriduzioni e delle “appropriazioni”), il diritto alla salute (dalla nocività del lavoro alla salubrità del territorio), la condizione dei carcerati e dei soldati di leva, ma anche le questioni legate alla fruibilità dell’arte e della cultura».

Di matrice diversa, proveniente dal togliattismo di sinistra, è invece il gruppo del Manifesto, strutturatosi nel 1970 dopo la radiazione dal Pci e attestatosi su una sintesi «elitarioleaderistica» tra tradizione comunista, maoismo antistalinista e filosofia di Francoforte. Fusosi con il Partito di unità proletaria nel 1974, parteciperà con cartello elettorale di Democrazia proletaria alle elezioni amministrative del 1975. Infine, va annoverato il caso unico della trasformazione in organizzazione politica della stragrande maggioranza del movimento studentesco dell’Università Statale di Milano. L’esito di questa anomalia unitaria fu la nascita di un gruppo denominato genericamente Movimento studentesco (e poi Movimento lavoratori per il socialismo), sostenitore di una riedizione tardiva della strategia stalinista dei fronti popolari. Questa organizzazione «assumeva la minaccia fascista (e, più in generale, l’involuzione autoritaria dello Stato) come “pericolo principale” e […], conseguentemente, vedeva nelle forze della sinistra operaia tradizionale e finanche di quella “borghese-progressista” un alleato “naturale” e, viceversa, nelle componenti “estremiste” della sinistra rivoluzionaria – in particolare quelle giudicate (a torto o a ragione poco importa) trockiste, consiliariste, anarchiche o riconducibili alla sinistra comunista – un altrettanto “naturale” nemico da battere».

Alla fine di questa analisi approfondita, bilanciata, mai pedante, anzi godibile sia per lo storico di professione che per il lettore interessato, Eros Francescangeli mette il dito in una piaga etico-politica per niente estranea al discorso scientifico: «il fatto che coloro che si erano candidati a nuova leadership del proletariato italiano abbiano sottovalutato che per una parte degli attivisti il “ritorno al privato” o la “politica con altri mezzi” non avrebbe coinciso con l’avvio di una carriera professionale più o meno gratificante (giornalista, docente, studioso, funzionario, consulente) e/o con l’individuazione di altri percorsi emancipatori o di vita (il neofemminismo, l’eco-comunitarismo, le filosofie ‘altre’), ma avrebbe significato il ritorno alla desolazione della loro condizione di sfruttati o alienati, con scarse prospettive di miglioramento della propria qualità del vivere. Pur in mancanza di studi specifici, da una pur sommaria analisi delle fonti è possibile affermare che una parte di questi ultimi entrò nell’orbita della lotta armata e un’altra parte di costoro abbracciò le pratiche della consolazione autodissolutoria a suon di alcol ed eroina.»
Sono considerazioni che lo storico svolge riferendosi al personale dirigente di Lotta continua, quando fu chiaro che l’agognata rivoluzione non era più all’ordine del giorno. Tuttavia, la fecondità del ragionamento non va limitato a un singolo gruppo politico, ma generalizzato sociologicamente: anche le organizzazioni rivoluzionarie sono sottoposte agli influssi materiali che presiedono agli interessi specifici dei propri funzionari, alla riproduzione delle proprie strutture e dei propri redditi. Il materialismo storico, insomma, va applicato anche ai materialisti storici.

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I cinesi al liceo https://www.carmillaonline.com/2022/08/07/i-cinesi-al-liceo-2/ Sat, 06 Aug 2022 22:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73140 di Valerio Evangelisti

[Questo testo è apparso per la prima volta in Centro Studi dei Cobas Scuola (a cura di), Quando suona la campanella. Racconti di scuola, Manifestolibri, 2006.]

Le lezioni erano cominciate da pochi giorni. Era l’ottobre del 1969, e io frequentavo la prima liceo classico (oggi corrispondente, credo, alla terza) presso l’istituto Marco Minghetti di Bologna. Un liceo particolare, il Minghetti. Vi ero giunto dopo una quarta ginnasio disastrosa presso il liceo classico rivale, il Galvani. “Disastrosa” non per gli esiti, quanto per l’ambiente. Avevo per compagni di classe ragazzi in [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Questo testo è apparso per la prima volta in Centro Studi dei Cobas Scuola (a cura di), Quando suona la campanella. Racconti di scuola, Manifestolibri, 2006.]

Le lezioni erano cominciate da pochi giorni. Era l’ottobre del 1969, e io frequentavo la prima liceo classico (oggi corrispondente, credo, alla terza) presso l’istituto Marco Minghetti di Bologna.
Un liceo particolare, il Minghetti. Vi ero giunto dopo una quarta ginnasio disastrosa presso il liceo classico rivale, il Galvani. “Disastrosa” non per gli esiti, quanto per l’ambiente. Avevo per compagni di classe ragazzi in prevalenza ricchi o ricchissimi, con cui faticavo a legare. Inoltre vi era una larga prevalenza di fascisti, forse più negli atteggiamenti che nell’ideologia (appresi poi che lo stesso istituto annoverava tra i propri allievi Gianfranco Fini, però io non lo ricordo).

La composizione sociale del Minghetti era molto diversa. Vi predominava la piccola borghesia. La politicizzazione era scarsa, però nel ’68 uno studente dell’ultimo anno, soprannominato Bifo, aveva promosso uno sciopero e un sit-in nell’atrio della presidenza, a cui avevo partecipato. Si erano tenute assemblee, sebbene su temi marginali (il cattivo stato dei gabinetti, l’esigenza di un distributore di bibite, ecc.).
Bene, quel giorno dell’ottobre 1969, arrivato al liceo, mi attendeva una sorpresa. Davanti all’ingresso era schierata una fila di giovani, disposta con ordine quasi militare. Ognuno di essi aveva al collo un fazzoletto rosso con l’effigie di Mao, e ognuno reggeva una bandiera recante una falce e martello con gli angoli smussati, sovrastante la scritta Servire il popolo. Altri distribuivano volantini e il giornale La guardia rossa.
Io non aspettavo altro. A dire la verità, fino all’estate non ero stato per nulla maoista. L’anno precedente, con altri due ragazzi, avevo costituito nel mio liceo il Circolo Anarchico Bandiera Nera. Avevamo distribuito un volantino in sei copie, fatto con la carta carbone, e appeso a una finestra una bandiera per l’appunto nera, ricavata dal grembiule (che allora per le ragazze era obbligatorio) di una compagna di classe. Nient’altro. Poi, durante le vacanze, avevo letto le Citazioni dal pensiero di Mao Tse-Tung edite da Feltrinelli. Non che mi avessero convertito, però parevano mobilitare masse di giovani in tutto il mondo. Io avevo bisogno di menare le mani, e Bakunin sembrava insufficiente (Umanità Nova era un vero strazio). La clamorosa apparizione dei maoisti davanti al Minghetti fu la manna dal cielo.

Quello stesso pomeriggio io e alcuni compagni di classe – ricordo Massimo Stagni, Cesare Vianello – ci recammo all’indirizzo indicato dal volantino. L’Unione dei Comunisti Italiani Marxisti-Leninisti aveva sede in una sfarzosa palazzina di Viale Dante, messa a disposizione, seppi poi, da un notaio che collaborava ai Quaderni Piacentini. Quando suonammo alla porta venne ad aprirci una ragazza bellissima, che alzò il pugno. «Cosa volete, compagni?»
L’atrio era un profluvio di bandiere rosse, e un grammofono suonava le note de L’oriente è rosso e di altri inni cinesi. Fummo fatti entrare in una sala che già accoglieva altri studenti del Minghetti: Libero Fontana, Pietro Poggi, Francesco Cifiello, più una ragazza ancor più incantevole di quella che ci aveva aperto, dai lunghi capelli rossi (il nome non me lo ricordo). Un dirigente dell’Unione, tale Briganti, stava illustrando un opuscolo di Aldo Brandirali, leader supremo del gruppo. Alle pareti, minacciosi cartelli esortavano a curare i baffi e a non portare barba, a fumare con moderazione, ecc.
Uscimmo di lì tutti iscritti all’Unione, e carichi di giornali da vendere. La guardia rossa conteneva un racconto esemplare su una lavatrice di condominio, che aveva sottratto gli inquilini alla servitù degli elettrodomestici privati. Le pagine centrali erano occupate dal testo della futura Costituzione della Repubblica Italiana. Giuridicamente era un po’ rozza – “I preti potranno dire messa, ma non riceveranno quattrini dallo Stato” – e prevedeva un sacco di fucilazioni; però pensai che, prima della rivoluzione, sarebbe stata senz’altro migliorata.
Pochi giorni dopo ero davanti al Minghetti, con il mio fazzoletto rosso al collo e la bandiera che sventolava. Passò la professoressa di italiano del ginnasio e mi disse: «Vedi che avevo ragione a chiamarti Mao-Mao?» In effetti aveva battezzato così me e una compagna di classe, Luciana Emiliani, dopo che in un tema avevamo preso posizione a favore del maggio francese. Le risposi con un grugnito.

L’avventura maoista durò pochi mesi. L’Unione non pareva avere una linea molto chiara, circa gli studenti. Un giorno alla settimana entravamo a scuola un’ora dopo, alle nove, e io venivo spedito alle otto a distribuire volantini che parlavano della Grande Rivoluzione Culturale davanti ad altre scuole più “proletarie”, come l’Istituto Tecnico Fioravanti, oppure davanti a fabbriche non lontane dal centro cittadino.
Nel frattempo, dall’Unione erano usciti quasi tutti. I miei compagni di classe avevano retto pochi giorni. La militanza degli studenti più anziani si era prolungata per poco più di un mese. Restavano, assieme a me, il capocellula Cifiello (uscì dall’Unione solo quando gli fu chiesto di piantare gli studi e di andare a lavorare in fabbrica) e la ragazza dai capelli rossi, peraltro inavvicinabile a causa del puritanesimo rigoroso che regnava tra i maoisti.
La crisi, per me, sopraggiunse dopo un poco. C’era uno sciopero generale, e l’Unione aveva formato un proprio corteo. Agitavamo i Libretti Rossi (nel frattempo erano arrivati quelli stampati in Cina), gridavamo “Stalin, Mao, Brandirali!”. Ci fermammo a salutare un pullman di turisti giapponesi, scambiati per “compagni cinesi” e ben felici di fotografarci. Già da tempo nutrivo dubbi; la messinscena mi confermò che stavo partecipando a una vera stronzata.
D’improvviso ecco che ci incrocia, all’altezza di Piazza Maggiore, un corteo tutto diverso. Non ha bandiere, procede veloce. Molti hanno il fazzoletto sul viso, i ranghi sono tenuti stretti da manici di piccone. Gridano un unico slogan: «Lotta continua! Potere operaio!» Non guardano nemmeno noi maoisti.
In un attimo faccio la mia scelta. Slaccio il fazzoletto con il ritratto di Mao e lo consegno a chi mi sta accanto. Corro a inseguire l’altro corteo, che intanto ha svoltato in via Rizzoli e sta imboccando via Zamboni. Dieci minuti dopo mi trovo a sfondare, con un segnale stradale divelto usato come ariete da decine di braccia, la porta dell’università che dà su via Belmeloro. La polizia carica ma viene respinta a più riprese. Confuso nella calca, faccio irruzione nel Rettorato. Inizia per me una nuova vita.
Qualche tempo dopo saprò che, il 16 febbraio 1970, l’Unione dei Comunisti Italiani Marxisti-Leninisti mi ha espulso per “indegnità politica e morale”. Ha espulso anche la ragazza dai capelli rossi, forse per errore. Di lei non so, da quel momento ci siamo persi di vista; ma a me, dell’espulsione, non importava più un accidente.

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