Manhattan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La luminosa oscurità del signore della Grande Mela https://www.carmillaonline.com/2023/12/13/loscurita-luminosa-del-signore-della-grande-mela/ Wed, 13 Dec 2023 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80314 di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena [...]]]> di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena pubblicata da Minimum Fax, per entrare nel mondo vasto, complesso e ramificato che ha dato vita e ispirazione ad una delle più importanti leggende del rock.

A differenza di altre biografie dello stesso musicista, che hanno dato più spazio alle testimonianze di chi aveva conosciuto Lewis Allan Reed (1942- 2013) come quella di Victor Bockris pubblicata per la prima volta nel 1994 e in Italia nel 1999, quella di Will Hermes cerca di ricostruire con estrema accuratezza l’humus non soltanto sociale, ma anche, e forse soprattutto, culturale e letterario da cui è sorta la figura di uno dei protagonisti della scena musicale della seconda metà del ‘900.

Figura che soltanto una metropoli come New York e nessuna altra al mondo avrebbe potuto creare. Una figura che nelle innumerevoli contraddizioni che l’hanno caratterizzata ha saputo spesso, e probabilmente in maniera involontaria, riassumere quelle di una città mondo in cui l’arte moderna si è incontrata con gli slum degli immigrati più poveri, la violenza con la gioia di vivere, le culture ebraiche della diaspora con quella degli afro-americani di Harlem, l’oscurità dei vicoli dello spaccio e delle innominabili prestazioni sessuali con la luce del Central Park (dove comunque, in prossimità di uno degli ingressi, fu ucciso John Lennon proprio da un ammiratore), la Statua della Libertà con le osservazioni caustiche e feroci di Le Roi Jones sul razzismo americano, l’innovazione jazzistica e letteraria con le ambientazioni di tanti film noir e i concerti alla Carnegie Hall durante i quali furono presentate per la prima volta al pubblico opere di Antonin Dvořák, Richard Strauss, George Gershwin, Sergej Rachmaninov, Arnold Schönberg, Duke Ellington, Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Olivier Messiaen, Edgard Varèse e Philip Glass, solo per citare alcuni compositori e tralasciandone molti altri altrettanto famosi.

Una sala da concerto che da sola già potrebbe riassumere tanta dell’esperienza musicale poi rimaneggiata da Lou Reed e che portava in sé sia le stimmate del grande capitalismo industriale, essendo stata costruita nel 1890 per volontà di Andrew Carnegie uno dei magnati più importanti dell’acciaio americano e delle sue guerre, che della cultura di massa, oltre che colta, legata alla musica di largo consumo, avendo ospitato sulla sua scena, tra i tanti, i Beatles, David Bowie, Shirley Bassey, i Jethro Tull, i Rolling Stones, Frank Sinatra, Neil Young, Ike e Tina Turner e infiniti altri protagonisti della musica pop, rock e soul.

Elenchi qui riportati soltanto per far comprendere il composito quadro culturale di una città che, probabilmente, dagli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo ha costituito una specie di capitale mondiale della cultura moderna; in cui ha mosso i primi passi da gallerista Peggy Guggenheim e straziato le corde delle chitarre elettriche il primo punk dei gruppi che si esibivano al CBGB, situato al 315 della Bowery nel Lower East Side di Manhattan.

Gruppi che, e qui è possibile ricollegarsi al protagonista della biografia di Hermes, tutti dovevano o traevano qualche ispirazione dal gruppo di cui Lou Reed, con la spinta di Andy Warhol e l’aiuto di John Cale e degli altri componenti della band, Maureen Tucker, Sterling Morrison e la cantante e modella di origine tedesca Nico, dalla bellezza algida e statuaria, era stato la mente e il motore principale fin quasi alla fine di quella esperienza: i Velvet Underground.

Per gli standard dell’epoca, i Velvet Underground non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica1.

Il percorso musicale di Lou, però, era iniziato prima, come dimostrano anche i nastri recentemente pubblicati o ripubblicati grazie alla New York Public Library for Perfoming Arts, che ha acquisito nel 2017 l’intero lascito artistico del cantautore statunitense che ripercorre il suo tragitto artistico dai primi passi dello stesso nelle band di cui aveva fatto parte ancora ai tempi delle high school fino agli ultimi concerti del 2013; con particolare attenzione rivolta ai materiali della Sister Ray Enterprises, la società che aveva fondato per supervisionare il catalogo di tutto ciò che aveva prodotto sia in tour che in sala di registrazione.

Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti BDSM. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potesero ascoltarlo persone come me»2.

Le dichiarazioni tra virgolette sono state rilasciate da Lou Reed al giornalista Bill Flanagan per un libro di quest’ultimo tratto da varie conversazioni avute con cantautori rock3. Ma ci ricordano ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la complessità del lavoro di Reed, quasi fin dagli esordi e l’assoluta mancanza di quell’improbabile innocenza che fu invece troppe volte e talvolta esageratamente sbandierata dalle parti della California e dei musicisti di San Francisco in quegli stessi anni.

Va qui sottolineato che Hubert Selby jr., è stato per Reed sicuramente un autore di riferimento con il suo Ultima fermata a Brooklyn (1964 – prima edizione italiana Feltrinelli 1966), ambientato a New York nel 1952, durante la guerra di Corea. Un romanzo corale in cui, per la prima volta, alle tematiche di lotta sindacale si intrecciano quelle riguardanti sessualità irrisolte e confuse, consumo di droghe pesanti e dipendenze varie, tali da proporre per la prima volta in assoluto un’immagine del proletariato americano e del suo sempre più prossimo sottoproletariato assolutamente realistica, lontana mille miglia dal realismo ottocentesco e del primo Novecento e tale da far apparire i protagonisti delle storie ambientate nelle periferie romane da Pasolini come innocui personaggi di una storiella per bambini (immaturi).

E’ in quest’ansa della letteratura statunitense che si colloca la scrittura di Reed che, come ricorda Hermes, scriveva sicuramente per esorcizzare i suoi demoni, anche se ciò non toglie che la sua scrittura fosse militante.

Di regola, non era un autore esplicitamente politico, ma fin dai primissimi nastri e demo – la cover di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, uno dei musicisti che più lo hanno influenzato e in un certo senso un suo rivale; oppure l’evocazione della battaglia per i diritti civili in Put Your Money on the Table – ha messo in discussione lo status quo. Persino Heroin, se la si ascolta con attenzione, è una canzone politica, quanto mai rilevante in un’epoca di interminabile crisi degli oppioidi. E naturalmente c’è New York, il suo disco più coerente e appagante, in cui attacca l’avidità, l’ipocrisia e la corruzione del sistema politico ed economico americano, e il suo influsso sulla vita dei ricchi e dei poveri per le strade della sua città4.

Lì la Statue of Liberty diventa la Statue of Bigotry, probabilmente anche per effetto dell’influenza che Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia e raffinata performer che fu sua complice, compagna e moglie per più di due decenni, esercitò sulla sua vena creativa. Così come, dal punto di vista musicale, aveva fatto invece John Cale negli anni iniziali dei Velvet Underground.

Il secondo, nato nel Galles del sud, in una zona fortemente industrializzata e che non parlò inglese fino a quando non iniziò ad andare a scuola all’età di sette anni, dopo aver imparato a suonare la viola (poi elettrica nei Velvet), finita l’accademia, aveva viaggiato attraverso gli Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio, per continuare i suoi studi musicali e arricchire il suo bagaglio di esperienza, grazie all’aiuto e all’influenza di Aaron Copland e, si dice, di Leonard Bernstein.

Una volta arrivato a New York, aveva avuto modo di incontrare vari influenti compositori ed entrò in contatto con la “controcultura” della metropoli. Nel settembre 1963, insieme a John Cage e a molti altri, Cale partecipò a una maratona pianistica lunga diciotto ore che fu la prima rappresentazione integrale dell’opera, di Erik Satie, Vexations. Dopo la performance entrò a far parte dell’ensemble musicale diretto da La Monte Young e in seguito, nel 1965, conobbe Lou Reed.

Così mentre Cale portò nei Velvet e in Reed l’influenza dell’avanguardia musicale europea, legata al movimento Fluxus, e americana, Lou Reed avrebbe portato l’influenza del rock’n’roll, di Dylan, della musica nera (jazz e blues) e della vita delle strade di New York. Il gioco era fatto e niente sarebbe più andato per il verso “giusto”.

In effetti Lewis Allan Reed era l’incarnazione della scena artistica della New York del secondo dopoguerra. Si innamorò del rock’n’roll e del doo wop newyorkese e regisrò il primo singolo alla fin degli anni Cinquanta […] Al college studiò scrittura con il poeta modernista Delmore Schwartz, che divenne il suo mentore artistico e di cui non smise mai di tessere le lodi […] Reed vide il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot café nel 1959 e ne fu profondamente colpito […] e fondò una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto5.

Questo, e molto altro ancora, rivela la biografia di Reed scritta da Will Hermes: dei suoi infernali scatti d’ira, della sua dolcezza, della serenità in attesa della morte mentre si cullava in una vasca d’acqua calda, ma soprattutto di un percorso intellettuale, letterario e musicale che si rivela ben più interessante delle vicende legate agli elettroshock cui fu sottoposto in giovane età oppure alla sua bisessualità e alle dipendenze. Anche se tutto ciò fu sicuramente presente nella su opera complessiva.

Il testo di Hermes rappresenta, forse, per tutti questi motivi il più interessante scritto fino ad ora su un musicista e intellettuale che, anche se spesso ombroso e difficile, ha sparso intorno a sé una luce estremamente originale, contribuendo a illuminare l’universo-mondo che più intensamente ha vissuto e contribuito a ricreare nell’immaginario contemporaneo: The Big Apple, New York.


  1. W. Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 10.  

  2. W. Hermes, op. cit., pp. 9-10.  

  3. B. Flanagan, Written in My Soul. Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987. In Italia pubblicato come B. Flanagan, Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock, Arcana 2001.  

  4. W. Hermes, op. cit., p. 23.  

  5. Ivi, p. 12.  

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Divine Divane Visioni (Novissime) – 86 https://www.carmillaonline.com/2022/07/28/divine-divane-visioni-86/ Thu, 28 Jul 2022 20:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72777 di Dziga Cacace 

Signori, è stato un onore suonare con voi.

1951 – Una squadra di Domenico Procacci, Italia 2022 Un lavoro eccezionale. E l’ho capito dopo 2 secondi con i New Trolls in colonna sonora. Un documentario bellissimo, montato da dio, con una storia e dei personaggi clamorosi che se uno sceneggiatore li pensasse a questa maniera, con quel modo e quelle storie, gli si direbbe: troppo comodo, non ci crederà nessuno. E invece Adriano, Corrado, Paolo e Tonino erano veramente così, dei ragazzi formidabili, belli, simpatici, [...]]]> di Dziga Cacace 

Signori, è stato un onore suonare con voi.

1951 – Una squadra di Domenico Procacci, Italia 2022
Un lavoro eccezionale. E l’ho capito dopo 2 secondi con i New Trolls in colonna sonora. Un documentario bellissimo, montato da dio, con una storia e dei personaggi clamorosi che se uno sceneggiatore li pensasse a questa maniera, con quel modo e quelle storie, gli si direbbe: troppo comodo, non ci crederà nessuno. E invece Adriano, Corrado, Paolo e Tonino erano veramente così, dei ragazzi formidabili, belli, simpatici, sornioni e guasconi. Ragazzi semplici, determinati ma leggeri (Panatta e Bertolucci, coppia comica insuperabile) e sempre coscienziosi (Barazzutti e Zugarelli), un mix di caratteri e stili di gioco che per una decina d’anni diede all’Italia la nostra miglior squadra di sempre in Davis, con quattro finali raggiunte, purtroppo sempre giocate all’estero. E lo stile e la leggerezza sono sintetizzati nella sigla della serie quando per un attimo si vedono Panatta e Bertolucci scendere a rete con lo stesso movimento sincrono, danzando sulla terra rossa. Ma questo non è solo il racconto di un sodalizio di quattro moschettieri (e di un capitano non giocatore, Nicola Pietrangeli, complice e antagonista, in bilico tra carisma e rosicamento): è anche il racconto dell’Italia che tifava per loro, “l’Italia con le bandiere, l’Italia nuda come sempre”, ancora con l’ingenuità e la povertà addosso del dopoguerra ma la voglia di emanciparsi, di divertirsi, di sentirsi protagonista. È anche il racconto di uno sport che da elitario diventa popolare, raccontato da una tivù che era testimone partecipe di quell’affermazione: a rivedere Bongiorno, Baudo, Minà, Galeazzi e altri ancora affiora la commozione dei miei dieci anni. Erano belli pure loro, vien da pensare, o forse erano tempi non migliori ma con un senso di speranza, ecco. La costruzione è curiosa: non è rispettato l’ordine cronologico ma si salta avanti e indietro nel tempo, costruendo ritratti, episodi, schede, rivedendo facce incredibili come quelle di Ion Tiriac, Bjorn Borg, Vitas Gerulaitis, Ivan Lendl, John McEnroe, in un circuito sportivo dove prevaleva la voglia di giocare a quella di guadagnare, dove era tutto ancora un po’ improvvisato, un professionismo light. E in quest’epoca tennistica ancora naif ecco la generazione di talenti italiani che aveva saputo vincere una Coppa Davis insidiosissima alla faccia dei fascisti ma anche di chi non voleva che si andasse a giocare in Cile. E invece quello fu uno smacco per Pinochet e gli altri merdosi di contorno. Ad ogni modo: grandioso il lavoro di ricerca su foto, giornali e contributi tivù: bravo Procacci, well done indeed. (Sky, maggio e giugno 2022)

1953 – Amazing Grace di Alan Elliott e Sidney Pollack, USA 2018
Girato nel 1972 da Sidney Pollack e rimasto negli archivi a causa di grossi problemi di sincronizzazione, realizzato dopo mille vicissitudini (e anche l’opposizione di Aretha) Amazing Grace è la documentazione delle registrazioni che portarono allo splendido album che porta lo stesso titolo del film. È un documentario all’antica, senza pensare a un pubblico ma semplicemente documentando un evento. Nessuna intervista contemporanea a restituire il contesto, nessun vero backstage dell’epoca, nessuna menata autoriale. Solo le riprese di due serate nella New Temple Missionary Baptist Church di Los Angeles col supporto del Southern California Community Choir e del pubblico accorso. Aretha torna alle sue origini e regala una performance da pelle d’oca ma partecipano, cantano, battono le mani, esultano, piangono tutti, in un delirio mistico e terreno gioiosissimo. La musica (con Cornell Dupree alla chitarra e Bernard Purdie alla batteria) è eccezionale e la regia investiga volti puri e puliti, mani, abbigliamenti, acconciature e cattura l’orgoglio e la speranza di un popolo. Sidney Pollack (oggi solamente ringraziato nei credits) era reduce da Corvo Rosso non avrai il mio scalpo e non portò a compimento l’opera, le riprese sono talvolta frettolose, la fotografia non è perfetta, un po’ sgranata, e forse al di là della capacità registica (impacciata, non troppo meditata) si coglie l’emozione grandissima dell’evento in un crescendo incredibile. A un certo punto della seconda serata appaiono Mick Jagger e Charlie Watts ma il momento più commovente è quando arriva il padre di Aretha, il reverendo Franklin. Aretha va ad accoglierlo e quando lui si siede si preoccupa di spolverargli i pantaloni stirati con un gesto intimo e affettuosissimo che mi ha ricordato Novecento quando la madre di Olmo – al suo ritorno dalla prima guerra mondiale – gli toglie, muta, la pula dalla giacca militare. E mi sono spezzato, ecco. Amazing Grace è un documentario lontano dalla grammatica attuale, dalla pulizia e precisione delle produzioni ultime (ormai in serie, senza sorprese, senz’anima) ma è un contenitore di emozioni e per quanto senza una storia, senza background, senza una voce guida riesce a raccontare tantissimo di un’epoca, di un’artista e di un popolo. Dimmi niente. (Sky, maggio e giugno 2022)

1954 – L’età dell’innocenza di Enrico Maisto, Italia 2021
Quarto film di Enrico Maisto che in un percorso di avvicinamento ai genitori cominciato con Comandante (Felice, l’ex militante di Lotta Continua protagonista, era amico del padre magistrato) e proseguito con La convocazione (la madre era giudice del processo di appello per la strage di Brescia). Ora c’è il nodo più doloroso e difficile da affrontare: il rapporto coi genitori, l’educazione sentimentale e il diventare adulti. L’età dell’innocenza di Scorsese era quella di un popolo, qui è di un autore che sa essere spudorato ma sempre ironico, senza mai diventare compiaciuto o personalistico, destreggiandosi con un equilibrio straordinario in una forma documentaria che diventa narrativa col valore autentico della realtà ripresa dalla telecamera. C’è un procedere per vignette molto morettiano, che ricorda Ecce bombo o Io sono un autarchico, ma qui è tutto vero anche se organizzato come una storia preordinata. Il film – prodotto grazie a Rai, Wanted e RTSI e vincitore come miglior documentario al Festival dei popoli 2021 – ha un incipit in voce off che dà già la chiave dell’incomunicabilità tra figlio e genitori: loro sono anziani, sono stati giudici – nel lavoro e forse nella vita – ed Enrico è stato un figlio unico. Attraverso una costruzione per aggiunte, evocativa, intensa, commovente, si arriva a una risoluzione liberatoria e gratificante: il figlio diventa adulto scalando assieme alla compagna quel vulcano che gli ha sempre fatto paura. Il film è un saggio di come il cinema sia strumento autoanalitico che dal personale diventa universale, è una storia di tutti seppure intima. C’è una delicatezza estrema e lo spettatore mette assieme i tanti pezzi, gli indizi nascosti delle tante assonanze che uniscono i genitori ai figli. Molto molto bello. (Cinema Beltrade, Milano, 25/5/22)

1955 – SuperNature di Ricky Gervais, Gran Bretagna 2022
Il nuovo spettacolo di Ricky Gervais punta subito sul tema attuale più dibattuto e anche più facilone: l’assunto – molto discutibile, perlomeno in Italia – è che viviamo in un’epoca in cui moralismi vari, etichette e woke assortiti stanno facendo perdere il senso della misura. Ricky dà subito le regole (cioè nessuna regola se non che quello che dice faccia ridere), ricorda che è un comico e che riveste un ruolo e poi spara a zero su tutto. O perlomeno, sembra che abbia una predilezione, ovviamente, proprio per gli argomenti più scottanti, irriverenti e – di questi tempi, secondo alcuni – intoccabili, tipo parlare di categorie di genere come le persone trans. Ecco, ma fa ridere? Così cosà. Anzi, per rimanere nel canone gervaisiano che sottolinea quanto la comicità sia soggettiva: a me fa ridere così e cosà. Lui è trascinante, ride come un pazzo di quello che dice, sa di spararla grossa e se la gode. Uno dei leit motiv è: Netflix dovrà tagliare ‘sto pezzo perché questo non si potrebbe dire etc. Ma poi ci ricorda anche (di nuovo tante volte) che è ricco, lo spettacolo è già pagato e lui fa un po’ il cazzo che vuole. E il pezzo – a dimostrazione che si può parlare eccome di qualunque cosa si voglia – non è mai tagliato. Ovviamente lui lo dice con una furbizia sopraffina, nessuno potrebbe credere che sia una prepotenza da ricchissimo bianco etero (cioè l’1%, una minoranza, come ironicamente sottolinea). E si mette sempre tra i presi in giro, non giudica, non moralizza e onestamente chiede non ci siano moralizzatori anche per il suo spettacolo. Mi sembra un atteggiamento giusto e condivisibile, anche perché non son parole dette a caso. L’unico pericolo sono semmai gli epigoni di Gervais che prendono lo spettacolo e il mestiere per un salvacondotto a dire la qualunque ma senza elaborazione. Ecco, e qui c’è un po’ l’inghippo, a parer mio ovviamente opinabile: l’intelligenza di Ricky gli consente di dire pressoché tutto ma talvolta si sente una nota stonata, il voler affrontare programmaticamente l’indicibile ma senza aver alcunché realmente di interessante o soprattutto divertente da tirare fuori. C’è una tirata sull’AIDS che non riesce (a me, di nuovo) a prendermi. O quando Gervais affronta la pedofilia. O quando insiste sulle persone trans con una superficialità volutamente brutale ma che sfocia giocoforza in battute da caserma. Però, ribadisco, è talmente bravo, è un interprete talmente partecipe, ha una mimica così perfetta che segui l’oretta di spettacolo sempre col sorriso sulle labbra, qualche volta anche come atto di fede, ecco. Per cui spettacolo piacevole ma un po’ fragile. Ovviamente lo attaccheranno dando un peso non meritato alle sciocchezze dette (ce ne sono) e lui se ne sbatterà allegramente il cazzo. Tanto è ricco. (Netflix, 27/5/22)

1956 – Lunana: il villaggio alla fine del mondo di Pawo Choyning Dorji, Bhutan 2019
Chissà se mai vedrò un altro film del Bhutan. Che poi dici Bhutan e subito pensi a Mike Bongiorno alla Ruota della fortuna che chiede se sia il paese “da dove sono origine le bhutane” (cit.). Beh, fatto sta che individuo il film in un cinema parrocchiale e impongo la visione a Barbara e a Elena che ancora subisce i diktat familiari. Ricordavo buone recensioni, premi internazionali e l’inserimento tra i titoli concorrenti all’Oscar per il film straniero quest’anno. E ci va bene perché Lunana è un film delicato, rigoroso, per nulla furbo. Ugyen è un giovane insegnante che non ama il suo lavoro e sogna di emigrare in Australia per fare il cantautore. I suoi dirigenti la pensano diversamente e lo spediscono nella scuola più remota al mondo, a 8 giorni di cammino dalla capitale Timphu, a 5000 metri d’altitudine. Il ragazzo, scocciato assai, arriva nel paesino e viene accolto da una comunità di contadini che vive con nulla. L’aula dove dovrebbe insegnare è senza lavagna, non c’è carta (preziosissima), niente quaderni, colori, libri. Chiaramente anche elettricità (e Ugyen deve rinunciare ad ascoltare il suo iPod). I bambini del villaggio, guidati dalla straordinaria Pen Zam, sono ansiosi di imparare e nasce un rapporto intenso che porta il protagonista riluttante a rivedere le sue priorità. Il ragazzino di città, un po’ viziato (secondo i loro canoni, eh) e sempre con le cuffie in testa impara un modo nuovo di relazionarsi con il creato tutto, insegnando il futuro a questi bambini splendidi. Ma arriva l’inverno e un visto per l’Australia e bisogna fare delle scelte. Tutto molto canonico ma il film riesce a intenerire, ad ammaliare con gli sguardi, con la semplicità di una vita remota, fuori dal (nostro) tempo e forse realmente felice come il Bhutan vanta da 50 anni. Lunana riesce a non essere retorico ma pulito, onesto, sincero. Gli attori (quelli del villaggio tutti non professionisti) sono bravi e ben diretti e i paesaggi imponenti e austeri sono fotografati senza furbate cartolinesche estetizzanti e musiche roboanti. Insomma, siamo soddisfatti. Io penso al mio Bhutan a Champoluc e riesco anche a tollerare due signore sedute dietro di noi che pensano che il cinema sia un posto dove andare a chiacchierare (oltretutto parlando di un viaggio da fare con uno che avrebbe il difetto di parlare tanto, lui, non loro…). E vabbeh: Lunana mi prende e dimentico le babbee sognando la felicità bhutanese e l’armonia con l’universo. Bel film. (Cinema Orizzonte, Milano, 28/5/22)

1957 – Metal Lords di Peter Sollett, USA 2022
Un teen drama abbastanza prevedibile e che stavo per mollare dopo una prima mezz’ora decisamente sgraziata. Poi pian piano il film prende quota, la trama (scritta da D.B.Weiss, una delle teste dietro Game of Thrones) è ben congegnata e io concludo la visione con un sorriso ebete sulle labbra. Eh sì, perché a me i film sull’adolescenza, sulla presa di coscienza entrando nel mondo adulto e sulla ricerca di un proprio ruolo, beh, in qualche maniera colpiscono sempre. Mi sembra un mondo emotivo che viene troppo spesso evitato pensando che gli unici possibili fruitori siano i coetanei di chi è messo in scena, ma questi non hanno fatto i conti col Cacace eterno Trofimov, eh. Qui abbiamo il metallaro marcio Hunter, orfano di madre e con padre ricco e anafettivo, che attraverso la musica cerca una sua affermazione, una considerazione sociale (e poi fama, ragazze etc.). Si accompagna all’improbabile batterista Kevin, bravo ragazzo e tamburino nella banda scolastica, che prova a convertire al credo metal più estremo. L’incontro di Kevin con una violoncellista drop out scatenerà confronti, gelosie e infine un’improbabile soluzione musicale e affettiva che vedrà i nostri protagonisti crescere e cambiare. Insomma, niente che non abbiamo già visto in ogni coming of age movie ma la scelta della musica metal dà un sapore interessante alla vicenda e, seppure tagliando tutto con l’accetta, del mondo dell’heavy metal vengono colte diverse cose azzeccate. La musica come forma di opposizione al mondo là fuori, la fuga, il piano fantastico che consente di trascendere la realtà orrenda che ci circonda. Sembra banale ma se uscite dai vostri schemi mentali (talvolta ricalcati in modo uguale e contrario dagli esagitati che pretendono di poter definire cosa sia il VERO metal), beh, il metal è una delle musiche più libere, libertarie e inclusive che esistano. Musica talvolta fracassona (e quale non lo è, e non parlo di volume), sicuramente escapista ma anche onestamente antagonista e capace di esprimere una angoscia sincera. Poi, certo, c’è il mercato, le baracconate, i costumi, i cliché, ma niente che non avvenga anche in tutti gli altri generi della musica popolare contemporanea però spesso senza l’anima e l’integrità che l’heavy metal ha maturato nel tempo. E nei barlumi di intimità e di onestà che vengono fuori nella seconda parte del film io vedo tantissimo metal, ecco, e non credo che la scelta di questo genere sia stata soltanto perché dà colore e perché ha in fondo un immaginario riconoscibile e viene subito compresa come classica musica oppositiva. No, c’è una comprensione molto consapevole. Vabbeh, non sto a menare più il torrone: cercatevi L’estetica del metallaro di Luca Signorelli e capirete meglio quanto vo dicendo confusamente. Alla fine piccolo film gradevole. (Netflix, 30/5/22)

1958 – Reservation Dogs di Taika Waititi e Sterlin Harjo, USA 2021
Quattro ragazzini di origine indiana in una riserva dell’Oklahoma. Pomeriggi indolenti, ricerca di un senso esistenziale e la decisione di dare una svolta alla propria vita fuggendo in California. Serie assolutamente originale, con cast e crew totalmente composti da nativi, conquista per lo stile scanzonato ma anche linguisticamente innovativo e dopo 5 minuti adori questi adorabili misfits delle pianure e ti sembrano gli unici americani per cui tenere in questo momento. Sotto traccia ma evidente c’è un orgoglio e una rivendicazione nei confronti dell’uomo bianco e del sistema capitalistico che ha fottuto tutto, il rapporto con la natura, con l’alimentazione, con la società, un modo discreto e intelligente per porre una critica alla realtà esistente, ma senza piagnistei o slogan a buon mercato. È tutto, ai miei occhi ingenui, molto… indiano. Sì, perché poi c’è sicuramente del razzismo mio inconscio nel liricizzare tutto, nel considerarli tutti belli e buoni perché vittime. Però, fuck yeah, che delicatezza, che leggerezza, che saggezza. Ogni tanto una sorpresa, finalmente. Bravi tutti, a partire da Taika Waititi – produttore – che evita sempre il predicatorio e il sentiero già battuto e sa mettere a frutto le possibilità che cerca e trova. Caruccio! (Disney+, giugno 2022)

1960 – Lightyear – La vera storia di Buzz di Angus MacLane, USA 2022
Da grande appassionato della saga di Toy Story arrivata ad apparente conclusione col magnifico quarto capitolo, avevo qualche dubbio su questo Lightyear, visto anche il tenore qualitativo calante delle ultime uscite della Pixar. Poi il caldo e la temperatura rilevata in casa (29°) mi hanno convinto che fosse il caso di andare al cinema a prendermi un bell’accidente sotto un getto di aria condizionata gelida. Dunque: Lightyear è una derivazione curiosa, sarebbe il film che nel 1995 avrebbe convinto Andy a farsi regalare il giocattolo dell’esploratore spaziale che sarebbe diventato rivale del cowboy Woody nel primo Toy Story. Con questa premessa siamo su tutt’altro piano, insomma, cosa che giustifica anche l’adozione di un diverso segno grafico (peraltro clamoroso dal punto di vista tecnico, fotograficamente e scenograficamente). Ma in sala nessun genitore sembra sapere di questa deviazione narrativa e in effetti la distanza dalla grazia e dall’accessibilità dei vari Toy Story è siderale. Dopo una prima parte claudicante il film mette il turbo e accumula azione su azione, risultando alla fine anche passabile, proprio perché accumula e distrae. Ma non c’è mai magia, incantamento, poesia: la morale molto blanda è che l’unione faccia la forza, che l’individualismo non paghi e che è possibile anche sbagliarsi perché dagli errori si impara. Nessuno mette in dubbio la bontà dei messaggi ma manca un’epica che dia forza a queste semplici asserzioni. E anche una partecipazione: qui il massimo del coinvolgimento è riconoscere qualche citazione o vedere la riproposizione dell’immaginario degli anni Ottanta (soprattutto Guerre stellari). Una SF non troppo high tech, un po’ cicciotta e rugginosa che si trovava – per esempio – anche in tanto fumetto argentino (Juan Gimenez è il primo che mi viene in mente). Perlomeno questo ricordo io. La sala è zeppa di bambini che durante la proiezione sono stati spaventati o annoiati da un film che sostanzialmente è un’avventura fantascientifica che alterna momenti di tensione e altri più leggeri (affidati per lo più a un gatto robot) ma che non si direbbe un film per l’infanzia in senso stretto. I vari Toy Story avevano la grande ricchezza di poter essere affrontati a diversi livelli (seppure la tensione sia sempre stato un elemento presente), qui il mish mash non è riuscito, con i sapori che non si amalgamano e alla fine Lightyear è al massimo un divertissement per gli adulti e qualcosa di troppo complicato per i piccini, all’insegna generale di un po’ di noia. Trama: l’esplorazione di un pianeta alieno inospitale costringe alla fuga Buzz Lightyear e altri due Space Ranger ma a causa di un suo errore di manovra lui e tantissimi compagni in ibernazione e poi scongelati diventano naufraghi spaziali. Il protagonista prova invano con voli a velocità relativistica a cercare il modo di scappare ma ad ogni volo da 4 minuti passano 4 anni sul pianeta. Per cui Buzz non invecchia ma quelli intorno a lui sì, visto che s’incaponisce a provare e riprovare. Questa prima parte è abbastanza amorfa, vorrebbe sintetizzare poeticamente gli anni che passano e invece risulta molto fredda. Il film acquisisce un po’ di ritmo quando Buzz trova un modo per risolvere i problemi di una comunità che in realtà s’è adattata e s’è fatta una vita e da lì scaturiscono nuove avventure, dubbi, scoperte e nemici. Si arriva all’ora e mezza canonica, ti passa, ma rimane l’insoddisfazione per un prodotto senza vera necessità se non vendere pupazzi e astronavi. Alcuni hanno criticato il cencellismo politicamente corretto che vede personaggi di diverse etnie e (pensa!) addirittura un castissimo bacio omosessuale. Il fatto che si notino con fastidio queste scelte dimostra quanto sia ancora dura digerire che non sempre i protagonisti siano uomini bianchi etero e che non si arrivi a capire che, cinicamente, non solo sta cambiando la testa della gente ma anche dei consumatori. Tirando le somme, meglio così, finché certe scelte non vanno a inficiare la qualità del film. Che ripeto, è un MEH senza entusiasmo, ma non per questi motivi. (Cinema Anteo CityLife, Milano, 18/6/22)

1961 – Occhiali neri di Dario Argento, Italia/Francia 2022
Flop micidiale, maltrattato dalla critica e irriso da molti appassionati del genere, l’ho visto pregustando un fetecchione di cui sghignazzare e invece, beh beh beh. Oddio: ci sono attori con l’espressività di un cactus, serviti pure male da un copione che sembra scritto per luoghi comuni e frasi fatte; il plot poi è di una semplicità quasi commovente. Dopo Nonhosonno del 2001 io Argento lo avevo evitato con cura ma se potete sorvolare su un finale realmente cagnesco e sulle cose di cui a lui non è mai fregato nulla (per esempio proprio la recitazione) e invece vi piace quel suo cinema quasi infantile negli snodi e sviluppi, se apprezzate ancora la fotografia vivida col grandangolo sparato, i primissimi piani frontali, la natura ostile, la città metafisica e vuota e la musica che aggiorna il modello dei Goblin con iniezioni di elettronica, beh, allora questo Occhiali neri non è proprio proprio malaccio. Oddio: è un film fuori dal tempo, sì, non ci piove, ma fare gli indignati ora quando Argento già perdeva colpi dalla fine degli anni Ottanta mi sembra ingeneroso. Io qui vedo la zampata del vecchio leone, debole, scomposta, ma non posso che volergli bene, anche e soprattutto se per dare un brivido in più mette una fumettistica Tigre di Martini in un ruscello nel bosco vicino a Formello (nella fattispecie dei serpenti!). (A chi sa cosa sia una Tigre di Martini offro una birra). La protagonista principale, Ilenia Pastorelli, mi è sembrata pure brava e nel cast c’è anche la mia vecchia conoscenza Asia Argento (vedi alla recensione 582 qui). Insomma, dài: per me è un 6 stiracchiato ma lo do con affetto. (Prime, 25/6/22)

1962 – Midsommar – Il villaggio dei dannati di Ari Aster, USA/Svezia 2019
La protagonista Dani è reduce dalla morte dei genitori e della sorella suicida e il suo ragazzo, Christian – spalleggiato dai suo amici studenti di antropologia – la evita. Un viaggio tutti assieme in Svezia per assistere a una cerimonia folkloristica pagana sembra il modo per ricomporre i cocci della relazione, per trovare una semplicità, una purezza, per pulirsi dalle tossine della società urbana occidentale. Appena inizia il soggiorno in un bucolico villaggio svedese fuori dal tempo, ho pensato: ma è The Wicker Man (vedi rece 460, qui)! E questa consapevolezza mi ha tolto un po’ del divertimento. L’aggiornamento è elaborato (mascolinità tossica, presunzione nordamericana, cristianesimo prepotente e ipocrita) e servito in una veste registica sontuosa, con scenografie e fotografia clamorose. Bravi anche gli attori ad assecondare un clima paradossalmente sereno e allucinato e sempre più allarmante. Il film è lunghetto ma devo dire che regge bene, non riesci a mollarlo: la costruzione alterna scene più elaborate ad altre veloci e la corsa verso l’epilogo è inesorabile e non puoi che condividere il sorrisetto soddisfatto con cui si conclude la vicenda. Alla fine sono contentone e ho pure fatto un mezzo pensiero a darmi a un orgiastico ritorno neopagano in mezzo a bionde svedesotte, l’estate prossima. Forse non trovo Midsommar così magnifico come avevo letto, nel senso che è quasi lezioso nella magnificenza della messa in scena, però, ecco, senti lo stacco con un film come Occhiali neri, lo ammetto. (Prime, 26/6/22)

1964 – Most Beautiful Island di Ana Asensio, 2017
Film indipendente firmato dall’attrice protagonista, una sorta di horror realistico perché la realtà per una immigrata senza documenti negli Stati Uniti è terrore puro, sempre. Certo, io poi sono uno spettatore plagiato in partenza: mi ha sempre messo angoscia vedere la vita di tutti i giorni per le strade di New York, sia nei film sia quando ci sono passato tra 2001 e 2019, come se immaginassi già che quella immensa fornace risparmierà qualcuno che fungerà da trabocchetto per la trappola del Grande Sogno Americano in cui cadranno e bruceranno, prima o poi, tutti gli altri. Luciana è nella Grande Mela, a Manhattan, nell’“isola più bella”, per qualche casino combinato a Barcellona, dove non vuole tornare. Non ha un dollaro bucato e non sa come fare per tirare avanti. Accetta un lavoro propostole da una immigrata russa con cui ha fatto volantinaggio per strada: 2000 dollari e nessuna domanda. Si trova così invischiata in un gioco pericolosissimo per lo spasso di una manica di ricchi stronzi che scommettono sulle vite di alcune belle ragazze. E se prima l’orrore era quello della nuda esistenza combattendo la povertà in una società che nella povertà vede uno stigma e una colpa, adesso l’orrore è reale e ci si gioca la vita in pochi minuti sollazzando gente annoiata. Il film inquieta e poi fa venire il classico spaghetto con una scena nel prefinale da angoscia autentica, con te che ti contorci sul divano, ti tormenti le mani e provi a distogliere lo sguardo da quell’insostenibile televisore. Beh, ottimo, purtroppo. Cinematografia secca, veloce, essenziale per un film ben accolto ovunque e in effetti di valore alto: tiene sulla corda senza annacquare il proprio messaggio politico. Niente niente male. (1/7/22)

1966 – 2022: I sopravvissuti di Richard Fleischer, USA 1973
Soylent Green, rivisto in originale, è un solido film di fantascienza apocalittica del 1973 che data al 2022 il collasso della terra e del sistema. Direi che 50 anni dopo il genere da fantascientifico è diventato realistico e la situazione che si prospetta in pellicola s’è praticamente realizzata: nel film fa un caldo fottuto (30°, vabbeh: MAGARI!), i ricchi sono ricchissimi e godono ancora di carne, acqua e verdure fresche e gli altri poveracci sopravvivono per strada (vedi Los Angeles e San Francisco come son ridotte adesso, per dire) e si cibano di alimentari confezionati artificiali o sintetizzati. La trama vede il poliziotto Thorn (l’aitante Charlton Heston che sembra un Francesco Totti spigoloso) indagare sulla morte di tal Simonson, uno dei dirigenti della Soylent, l’azienda monopolista che produce cibo ridotto in gallette e liquidi. Thorn capisce che il suo assassinio è stato commissionato per eliminare un testimone scomodo di quanto stia accadendo e la sua investigazione va di pari passo all’uccisione di altri che sanno troppo. Il film è intrigante, clamorosamente azzeccato e tutto sommato tiene bene quanto ad azione e belle sequenze. Vale più per le cose che dice, però, che per la cinematografia in sé e, anche se mi ha mandato a letto con una certa inquietudine, ha meritato il mio tempo. All’epoca godette di alterna fortuna critica ma – thanks to Wikipedia – è da notare il giudizio sprezzante della recensora che si alternava con Pauline Kael sulle pagine del New Yorker, Penelope Gilliatt, che reagì scrivendo che in quella situazione ci sarebbe stata una reazione popolare e sarebbe bastato andare a votare per evitare il collasso della società. Vivesse oggi questa tizia prenderebbe la cittadinanza italiana solo per votare Italia Viva, viste le tante castronerie scritte in una sola recensione. E vabbeh. Film profetico, ad ogni modo, e allarmante. Ma vedrete che se votate come diceva la Gilliatt si risolve tutto, eh! (2/7/22)

1970 – La mala di Chiara Battistini e Paolo Bernardelli, Italia 2022
Molto molto riuscito. Il racconto degli anni Settanta a Milano, con la città fulcro prima della mala delle rapine e delle bische, poi dei sequestri e infine della grande malavita organizzata e delle mafie. Il ritratto è ricco, con belle testimonianze e interventi sia dei protagonisti – guardie e ladri – sia di magistrati, amici, giornalisti e avvocati. Il montaggio è ben gestito, con gran ritmo, musiche scelte con gusto e grafiche azzeccate. Si è travolti da tante informazioni, forse fin troppe, ma viene fuori il sentimento di un’epoca, di un altro mondo, e vengono meno anche certi racconti un po’ idealizzati di una mala romantica: questi erano delinquenti veri e assassini, magari con un loro codice d’onore e sicuramente un’umanità che viene fuori dalle interviste molto intense, ma di fronte alla riga di ammazzamenti raccontati, vendette incrociate e regolamenti di conti, per dire, ecco che il bel René – Vallanzasca, protagonista assoluto – sembra meno simpatico e guascone di quanto ci avesse raccontato Carlo Bonini ne Il fiore del male. Ad ogni modo: serie documentaria monumentale, bravissimi gli autori Battistini e Bernardelli, complimenti. (Luglio 2022, Sky)

(Fine – 86)

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