manga – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fammi volare capitano https://www.carmillaonline.com/2021/02/27/fammi-volare-capitano/ Fri, 26 Feb 2021 23:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65139 di Luca Cangianti

Fabio Pennacchi, Fammi volare capitano. Viaggio nell’universo di Harlock e Matsumoto Leiji, CR, 2020, pp. 96, € 13,00.

Ricordo un corteo dei centri sociali a Roma. Probabilmente era il 1994. Di tratto parte un canto che ogni manifestante conosce: “Fammi provare capitano un’avventura dove io son l’eroe che combatte accanto a te. Fammi volare capitano senza una meta, tra i pianeti sconosciuti per rubare a chi ha di più.” Ricordo centinaia di pugni che si alzano in cielo, mentre i cordoni si stringono e gli sguardi si riempiono di speranza [...]]]> di Luca Cangianti

Fabio Pennacchi, Fammi volare capitano. Viaggio nell’universo di Harlock e Matsumoto Leiji, CR, 2020, pp. 96, € 13,00.

Ricordo un corteo dei centri sociali a Roma. Probabilmente era il 1994. Di tratto parte un canto che ogni manifestante conosce: “Fammi provare capitano un’avventura dove io son l’eroe che combatte accanto a te. Fammi volare capitano senza una meta, tra i pianeti sconosciuti per rubare a chi ha di più.” Ricordo centinaia di pugni che si alzano in cielo, mentre i cordoni si stringono e gli sguardi si riempiono di speranza per un mondo migliore.
Molti di quei giovani quindici anni prima avevano seguito su Rai 2 le puntate di un cartone animato giapponese: Capitan Harlock. Scrivendo dei movimenti rivoluzionari che evocano eroi del passato, Karl Marx affermava che questa sorta di “resurrezione dei morti” servisse “a magnificare le nuove lotte non a parodiare le antiche; a esaltare nella fantasia i compiti che si ponevano, non a sfuggire alla loro realizzazione; a ritrovare lo spirito della rivoluzione, non a rimetterne in circolazione il fantasma.”1 Per quella generazione di lottatori e lottatrici sociali dei primi anni novanta potrebbe esser avvenuto qualcosa di simile, soltanto che gli eroi di riferimento non vennero reperiti nel passato, ma direttamente nel regno del fantastico.

Leggendo Fammi volare capitano di Fabio Pennacchi possiamo capire le ragioni di questo processo. Il libro è un’agile e godibile guida alle avventure di Capitan Harlock (manga e anime) e all’opera del suo creatore Matsumoto Leiji. Nel 2977 la Terra è governata da un primo ministro interessato solo al golf, la natura è stata devastata e le macchine hanno sostituito gli umani. Questi vegetano in uno stato di felicità artificiale sotto l’influsso di onde elettromagnetiche che inibiscono ogni dissenso. La caduta di una enorme sfera nera proveniente dallo spazio annuncia l’aggressione aliena dell’Impero Mazone guidato dalla crudele regina Raflesia. Capitan Harlock, bandito dalla Terra per non essersi sottomesso a un sistema che disprezza, è l’eroe anarchico che “combatte per i propri ideali nonostante la sua comunità di appartenenza non li condivida più”. Il ciuffo di capelli che copre parte del suo volto simbolizza la natura ombrosa, solitaria e riflessiva di un eroe segnato da un passato doloroso e dall’estetica del viaggio infinito. Pennacchi dice che questi tratti avvicinano Harlock a una figura della tradizione giapponese: il rōnin, cioè il samurai senza padrone. Ecco perché questo personaggio parla così intimamente al cuore di chi è uscito dall’infanzia troppo tardi per partecipare alle lotte degli anni settanta. In fondo si tratta di una generazione consapevole di essersi persa qualcosa d’importante2, ma che oltre la sconfitta ha continuato a combattere malinconica e caparbia sui vascelli pirata del conflitto sociale.


  1. K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, 1997, p. 50. 

  2. Cfr. qui

]]>
Il graphic novel tra Maus, Jimmy Corrigan, Sandman e Zerocalcare https://www.carmillaonline.com/2017/10/18/graphic-novel-maus-jimmy-corrigan-sandman-zerocalcare/ Tue, 17 Oct 2017 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39863 di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre [...]]]> di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre a muoversi in ambiti creativi e forme estetiche assai differenti, esso può riutilizzare format discorsivi quali la biografia, l’autobiografia, l’indagine giornalistica e il reportage storico-cronachistico, il cosiddetto graphic-journalism» (p. 8).

Nel saggio di Calabrese e Zagaglia vengono passati in rassegna gli elementi semiotici che distinguono il graphic novel tanto dalle immagini fisse che dalle narrazioni verbali, visto che questo particolare linguaggio verbovisivo si presenta come un sistema semiotico caratterizzato dalla multimodalità (parole/immagini) e dalla simultaneità (con il tempo codificato secondo un “sistema spazio-topico”). Dal momento che su questa parte del volume ci siamo soffermati in un intervento pubblicato recentemente dalla rivista «Il Pickwick» [qua], dedichiamo questo scritto alla parte del saggio di Calabrese e Zagaglia che ripercorre, sin dalla nascita, alcune tappe importanti della storia della narrazione grafica con particolare attenzione ad alcuni rilevanti case study.

Il termine graphic novel viene introdotto sia per indicare una modalità testuale diversa rispetto a quella del fumetto che per presentare il prodotto come forma letteraria complessa indirizzata ad un lettore tendenzialmente adulto. I confini delineati da questa etichetta restano decisamente incerti: si tratta di un libro figurativo che racconta una storia lunga o diverse storie brevi, che ricorre ad una modalità seriale o autoconclusa, che generalmente rispetta le convenzioni tipiche del fumetto o veicola istanze autobiografiche, storiche, giornalistiche ecc. Secondo alcuni studiosi il termine viene coniato da Richard Kyle attorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento per divenire d’uso alla fine del decennio successivo, ma è a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta che il termine ha iniziato ad indicare una tipologia testuale precisa e non più esperimenti editoriali frammentati ed estemporanei.

Inevitabilmente occorre partire dal fumetto, che secondo diversi studiosi prende vita negli anni Trenta dell’Ottocento e si sviluppa con la pubblicazione delle vignette nelle edizioni domenicali dei quotidiani americani. È soltanto a partire dagli anni Trenta del Novecento che i comic books permettono ai fumetti di essere commercializzati e distribuiti al di fuori dei quotidiani, prima per pubblicizzare altri prodotti, poi in maniera del tutto autonoma con protagonisti eroi e supereroi. «Con i supereroi degli anni Trenta e Quaranta, in inquietante simultaneità con l’imporsi delle dittature in alcuni paesi occidentali, il fumetto conosce grande fortuna e si espande sia come numero di lettori, sia per elaborazione di sottogeneri narrativi, sino a divenire un simbolo della nascente potenza culturale degli Stati Uniti» (p. 13).

Con gli anni Cinquanta e l’inizio della Guerra Fredda i supereroi risultano inadatti a “risolvere” la mutata situazione ed il clima politico-culturale nordamericano tende ad indicare nel fumetto uno strumento di corruzione morale, oltre che di scarso rilievo culturale. Nel 1954 in America entra in vigore il Comix Code, un vero e proprio codice di censura che proibisce, tra le altre cose, la rappresentazione della violenza e del sesso, la presenza di alcolici e tabacco e, soprattutto, vieta di criticare o irridere le autorità. Ad essere preso di mira, sottolineano Calabrese e Zagaglia, è specialmente il codice iconico, per la sua immediatezza ed a fare le spese di questa regolamentazione sono soprattutto le narrazioni gialle o horror anche se, nonostante le censure, negli anni Cinquanta non mancano produzioni interessanti, come nel caso della rivista satirico-demenziale “Mad” creata nel 1952 dal fumettista Harvey Kurtzman o di Master Race di Bernie Krigstein che nel 1955 affronta il tema dei campi di sterminio.

Nei primi anni Sessanta rinascono i fumetti di supereroi uscendo dal mero ambito adolescenziale e venendo a contatto con il mondo della pop art. Con il 1968 nasce anche il fumetto underground ed autori come Robert Crumb, Eric Stanton e Gilbert Shelton non mancano di realizzare opere satiriche, sessualmente più audaci, con riferimenti autobiografici e con una smaccata presenza di critica politica. Tali trasformazioni contribuiscono all’avvicinano del fumetto alla narrativa romanzesca.

Anche in Europa si danno importanti novità: sul finire degli anni Sessanta escono in Italia opere come Una ballata del mare salato (1967) di Hugo Pratt e Poema a fumetti (1969) di Dino Buzzati, mentre in Francia e in Belgio si pubblicano riviste destinate a restare nella storia come “Pilote” (dal 1959) e “Á Suivre” (dal 1978). Se l’ondata innovativa degli anni Sessanta tende a perdere slancio verso l’inzio degli anni Ottanta, insieme all’assopirsi delle spinte controculturali nel clima genereale del rappel à l’ordre, occorre evidenziare che si aprono comunque nuove strade soprattutto grazie a pratiche di autoproduzione.

È in questo periodo che le nuove narrazioni visive iniziano ad essere indicate come illustrated novel, graphic album, comic novel e graphic novel. Tra i primi autori del nuovo genere debbono essere ricordati illustratori inglesi come Alan Moore, Neil Gaiman, Warren Ellis e Grant Morrison. I due studiosi sottolineano anche l’importanza della rivista “Raw”, fondata nel 1980 da Art Spiegelman e Françoise Mouly, che nel corso di un decennio lancia in ambito statunitense autori come Charles Burns, Robert Crumb e Chris Ware. Nel corso degli anni Novanta il graphic novel definisce meglio alcune sue caratteristiche che lo differenziano sempre più dal fumetto tradizionale, e conquista un suo spazio editoriale e distributivo.

Calabrese e Zagaglia sottolineano come tale tipo di grafica narrativa abbia uno sviluppo internazionale che tocca, oltre gli Stati Uniti, anche il Sudamerica, l’Europa e l’Estremo Oriente. In Giappone, ad esempio, soprattutto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, Osamu Tezuka realizza un vero e proprio “cinema di carta” che conduce allo story manga, un racconto a fumetti autoconcluso rivolto ad un pubblico di bambini ed adolescenti.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta, in Giappone, un gruppo di nuovi autori inizia a proporre akahon ispirati all’hard boiled e rivolti ad un pubblico adulto che aprono le porte al movimento gegicka, diffuso da riviste come «Kage» e «Machi», che abbandona le semplificazioni e le deformazioni dei manga in favore di uno stile molto più realistico. Se in un primo momento il gegika ha successo tra i giovani lavoratori delle grandi aree industriali scarsamente acculturati, successivamente, a partire dagli anni Sessanta, alcune produzioni gegika si prestano a dare voce alle proteste ed alla critica sociale di studenti, intellettuali ed attivisti politici.

Attorno alla metà degli anni Ottanta il mondo dei fumetti vede l’uscita di alcune opere che ne cambiano la fisionomia. Se per quanto riguarda l’universo dei supereroi la svolta può essere individuata nell’uscita di Watchman (1986-87) di Alan Moore e Dave Gibbson e Batman. Il ritorno del cavaliere oscuro (1986) di Frank Miller, è con Maus (1986) di Art Spiegelman che si assiste alla canonizzazione del genere graphic novel ed alla sua ascesa nell’ambito della cultura letteraria, tanto che nel 1992 l’opera di Spiegelman riceve una menzione speciale da parte del Comitato del Premio Pulitzer.

Maus, comparso la prima volta nel 1972 come short story in un’antologia, poi pubblicato in maniera frammentata da «Raw», viene poi pubblicato in due volumi distribuiti da Pantheon. Il lavoro di Spiegelman è incentrato attorno alla questione della Shoah e presenta due storie che si intrecciano: in una Vladek Spiegelman racconta al figlio, Art Spiegelman stesso, la sua esperienza dell’Olocausto in Polonia, mentre nell’altra storia si narra del rapporto problematico tra i due.

Il primo volume, Mio padre sanguina storia (A Survivor’s Tale. My Father Bleeds History) narra le vicende dei genitori di Art fino alla loro deportazione ad Auschwitz ed introduce i problemi tra padre e figlio. Il secondo volume, intitolato E qui sono cominciati i miei guai (And Here My Troubles Began) narra invece la vita dei genitori di Art all’interno del campo di sterminio e i loro tentativi, una volta sopravvissuti, di ricostruirsi una vita prima in Svezia, poi in America, fino ad un brusco ritorno al presente narrativo.

Secondo Calabrese e Zagaglia la «prima ragione della notorietà di Maus è la complessità del suo impianto narratologico, in grado di mixare simultaneamente più livelli diegetici, moltiplicando il potenziale semantico ed espressivo di ciascuno di essi» (p. 19). In Maus la narrazione comprende due diversi piani temporali e ricorre a due narratori: «gli eventi della Seconda guerra mondiale in Polonia vissuti dal padre si dipanano fianco a fianco, a riquadri alternati, con quelli del 1980 vissuti dal figlio a New York, e la narrazione si sposta in avanti e indietro, con improvvise analessi e prolessi tra la storia intradiegetica della sopravvivenza di Vladek alla persecuzione nazista e i suoi racconti extradiegetici al figlio Art, metanarratore che sutura le due storie e crea Maus. Così il lettore entra in un labirinto degno di un racconto di Borges: Vladek è un narratore verbale intradiegetico, Art agisce sia come narratore extradiegetico del plot all’altezza cronologica del 1980, sia come narratore visivo che assume le narrazioni extra- e intradiegetiche in un blend di potente fascino» (pp. 30-31).

Gli studiosi sottolineano come la narrazione in Maus risulti decisamente complessa ed aperta ad interpretazioni differenti, sulla falsariga dei romanzi modernisti e postmodernisti. «Il metanarratore Art opera su diversi livelli […] e questo raffinato cocktail dei suggerimenti di un narratore onnisciente con le conoscenze del tutto limitate e anguste del personaggio (controfigura del lettore reale) influisce sulla nostra capacità di orientamento […] Questa multimodalità permette ancora una volta la giustapposizione della rappresentazione oggettiva e soggettiva, dell’eterodiegesi e dell’omodiegesi, del passato e del presente, del discorso tra i personaggi e del discorso “interiore” di un personaggio» (p. 31). Inoltre, il confine tra il livello narrativo di Vladek che riguarda la storia della Shoah ed il livello narrativo post-testimoniale di Art, riferito al problema della memoria storica, è offuscato da metalessi visive in cui si miscelano passato e presente.

Visto che il padre di Art racconta un frammento reale della storia della Shoah, Maus potrebbe essere pensato come visual life-narrative, storia orale-grafica; non a caso il primo volume è stato premiato come “biografia”. «In realtà, Maus è domiciliato in uno spazio intergenerico e intersemiotico e la sua stessa ricchezza espressiva dipende radicalmente da questa ontologica, immanente interstizialità: la voce di Vladek domina il testo e, come in ogni storia orale del folklore, solo attraverso la storia personale di Vladek il lettore può comprendere gli eventi storici descritti. L’universale è nel particolare, tanto quanto l’autobiografia si dissolve in una biografia» (p. 32).

Circa il ricorso semiotico agli animali presente in Maus, gli studiosi sottolineano come questo non abbia soltanto lo scopo di teriomorfizzare una società cinica e corrotta ma anche, in modo opposto, di «antropomorfizzare una violenza senza volto e senza ragionevolezza» (p. 34). Se la presenza di uomini teriomorfizzati palesa che ogni rappresentazione visiva è una finzione, ciò, suggeriscono Calabrese e Zagaglia, frantuma «il dogma formale del realismo operando, con gli strumenti semplici di un graphic novel, la complessiva “desantificazione dell’Olocausto” […] Le metafore animali funzionano proprio in virtù delle loro profonde incongruenze, dove i conti semantici sembrano non tornare mai: il lettore tende a dare un’interpretazione generalista di topi come persone, piuttosto che degli ebrei come topi, e ciò accade in quanto uno dei segni distintivi della tradizione animale nei fumetti sembra essere la “curiosa indifferenza verso la natura animale dei personaggi”» (p. 35). Nei fumetti meno dettagliata è la raffigurazione di un personaggio, più ci si apre all’universalità ed all’identificazione empatica dei lettori; la semplicità dei disegni in Maus contribuisce dunque alla “universalizzazione” dei topi.

Con la pubblicazione di Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla terra (Jimmy Corrigan, the Smatest Kid on Earth), uscito prima come serial fiction (1993-2000), poi nella versione one-shot (2000), Franklin Christenson Ware, più noto come Chris Ware, si rivolge direttamente ad un pubblico che egli stesso definisce nell’introduzione al volume del 2000, dotato di sufficienti «mezzi per intrattenere un dialogo semantico soddisfacente con il teatro pittografico ivi offerto» (Ware, p. 3, trad. it.).

Il racconto grafico di Ware si presenta indubbiamente di lettura complessa, con un tipo di impaginazione degerarchizzata e labirintica, strutturato secondo un «double plot a sviluppo elicoidale ove si rincorrono due storie ambientate in epoche diverse» (p. 60). La prima storia, ambientata negli anni Ottanta del Novecento, racconta del solitario trentaseienne Jimmi Corrigan che si trova inaspettatamente a dover incontrare il padre mai conosciuto prima, la seconda, ambientata a fine Ottocento, narra invece del rapporto tra il nonno ed il bisnonno di Jimmi. In entrambi i casi si tratta di storie che affrontano il difficile rapporto padre-figlio, «con i padri [che] giocano sempre un ruolo negativo [mentre] i figli incassano passivamente i colpi inferti dal contesto sociale e al tempo stesso vi si mostrano resilienti» (p. 62).

L’impaginazione proposta da Ware risulta decisamente innovativa; la forte regolarità geometrica, infranta dall’introduzione di microvarianti, conferisce alla pagina un aspetto che Calabrese e Zagaglia definiscono «quasi carcerario, claustrale almeno quanto la vita del protagonista […] La direzione abituale di lettura […] è smentita, o almeno sottoposta a forti turbolenze, poiché ciascuna planche si presenta come una combinazione di blocchi quadrangolari, dove l’immagine di grandi dimensioni costituisce un blocco unitario, mentre un mosaico di quattro, sei, otto, dodici piccoli panels ne costituisce un altro» (p. 63). Altra caratteristica importante segnalata dagli studiosi è l’uso della simmetria che viene utilizzata da Ware per enfatizzare le «opposizioni binarie che strutturano l’evoluzione spazio-temporale della storia, come ad esempio interno/esterno, passato/presente, giorno/notte» (p. 63).

Particolarmente interessante risulta l’approfondimento che Calabrese e Zagaglia dedicano al rapporto di Ware con i supereroi della sua infanzia. Secondo i due autori è possibile cogliere un parallelismo parodico tra la figura del supereroe e quella del padre assente; per certi versi Ware ha bisogno di eliminare una volte per tutte la figura del supereroe, propria dei fumetti, per poter dar vita al graphic novel. Si tratterebbe di una rottura necessaria con il mondo dell’infanzia (con i fumetti e con la figura del padre, pur se padre-assente) al fine di poter divenire adulti (dunque, artisticamente, poter entrare nel mondo del graphic novel). Ware, nella sua narrazione grafica, mette in scena il suicidio di un supereroe nell’indifferenza generale con tanto di titolone sul giornale. «Periodizzando i supereroi, il graphic novel diventa […] lo specchio critico del contesto storico-sociale» (p. 66). A questo punto gli studiosi individuano nel kidult il particolare tipo di lettore capace di specchiarsi in tale «labirintica parodia” del fumetto più mainstream» (p. 66).

In effetti, stando alle indagini effettuate in diversi paesi europei, mente il lettore-tipo di romanzi è soprattutto di genere femminile e di età compresa tra i trenta ed i cinquantaquattro anni, quello di graphic novel è invece in maggioranza di genere maschile e di età compresa tra i quattordici ed i ventiquattro anni. Si tratta dunque un soggetto «in fase di formazione permanente, che alimenta la propria Bildung attraverso porzioni massicce di visual storytelling. Proprio come la ricezione del romanzo settecentesco rifletteva le ansie del ceto medio, i graphic novel rivelano oggi i bisogni dei kidults e le loro ansie predittive circa un futuro sempre più impredicabile, irretito solamente da progetti a tempo determinato: narrazioni adatte ai tempi labili e a spazi empatici, fatte per rappresentare individualità uniche, ciò che spiega l’ambientazione realistica degli intrecci, l’attualità dei temi e la loro rilevanza storica […] Le peripezie vissute dai protagonisti diventano agli occhi dei kidults una parabola, un momento di passaggio da cui si esce trasformati, dove il fatto eccezionale di cui l’intreccio parla diventerà il momento in cui prende corpo una nuova identità” (p. 93). Non è un caso, fanno notare i due studiosi, che l’eroe del graphic novel non si trovi mai alla fine della storia nella medesima condizione esistenziale del punto di partenza.

Eliminati dalle storie i supereroi tradizionali, i protagonisti di graphic novel come Jimmy Corrigan errano alla ricerca di una collocazione all’interno di un mondo instabile e precario «in cui lo stato di crisi sembra essere il centro propulsivo dell’esistenza» (p. 67). È dunque con tale retorica del fallimento che il graphic novel, secondo Calabrese e Zagaglia, ha surclassato, almeno dal punto di vista qualitativo, il fumetto e, soprattutto, pare essersi conquistato un futuro tutto da scrivere e disegnare.

The Sandman (1988-96) di Neil Gaiman è da molti considerato una pietra miliare nella costituzione del graphic novel; si tratta di una delle pubblicazioni degli anni Novanta del Novecento che maggiormente ha contribuito a trasformare il formato della pubblicazione e l’estetica della narrazione grafica allontanandola dal fumetto tradizionale.

Ad essere ripreso in questo caso è proprio un supereroe, seppur minore, degli anni Quaranta del Novecento, dotato della facoltà di entrare nei sogni degli individui per poi proteggere i bambini dagli incubi. Gaiman trasforma il personaggio totalmente; il suo «Sandman viola le regole relativamente a ciò che rende un personaggio popolare nel settore dei fumetti dominato dai supereroi. Invece di criminali da combattere e vite da salvare, la preoccupazione del protagonista è quella di mantenere “The Dreaming”, ossia l’infinito orizzonte psichico in costante cambiamento che visitiamo ogni notte durante il sonno […] Tutto ruota intorno alla lenta trasformazione psicologica del protagonista: Sandman è la personificazione dei sogni e delle storie, un essere metafisico che ha pieno governo sulla vita dell’umanità. Egli è originariamente presente come un essere immortale: lui e i suoi fratelli creature divine immortali che si chiamano Destino, Morte, Distruzione, Desiderio, Disperazione e Delirio – sono i sette Eterni che incarnano e regolano l’esistenza umana» (p. 85).

In Sandman si rintracciano due livelli narrativi: uno è riconducibile alle diverse storie indipendenti derivate dalle pubblicazioni mensili, e l’altro sembra ricombinare le diverse storie in un unico grande affresco del personaggio. Si tratta comunque di una narrazione non lineare che salta avanti e indietro nel tempo a velocità diverse. «Tematicamente, Sandman si focalizza sull’idea di cambiamento e dell’inevitabile necessità di adattarsi alle trasformazioni dai contesti storico-ambientali, tanto che le arcature narrative della prima serie muovono da un Sandman riluttante alla metamorfosi e bisognoso di apprendere l’arte dell’adattamento; passo dopo passo si trova di fronte a esperienze che sconvolgono le sue certezze e lo conducono a rompere le sue abitudini, sino a mettere in discussione le proprie decisioni passate e le proprie credenze» (pp. 86-87).

Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi tempi nell’ambito della narrazione grafica è sicuramente quello di Zerocalcare (Michele Rech), autore che, formatosi nell’ambito dell’autoproduzione grafica, nell’ambiente dei centri sociali romani, nel 2012 pubblica prima l’albo La profezia dell’armadillo, poi il graphic novel Un polpo alla gola, ottenendo, in entrambi i casi, un notevole successo.

«Zerocalcare può essere definito il primo fenomeno di una cultura giovanile italiana degli anni Dieci del nuovo millennio, capace di raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo ricorrendo ad un linguaggio inventato, uno slang giovanile romanesco postdialettale, che ricorda la lingua meticcia anglo-polacca di Vladek in Maus. Manifesto di una cultura pop che sa rappresentare un’ampia fascia di lettori e lettrici, l’abilità di Zerocalcare è quella di fotografare la condizione giovanile in cui i lettori si immedesimano totalmente: nelle storie di Zerocalcare è rappresentata la quotidianità di un trentenne contemporaneo, disoccupato, nevrotico e cinico, che viene messo alla prova e fallisce regolarmente affidandosi però a una coscienza ironica» (p. 132). Il protagonista di questi graphic novel è lo stesso Zerocalcare che si presenta, sostengono i due studiosi, come una sorta di hikikimori nostrano ed il punto di forza dell’autore sarebbe da ricercarsi soprattutto nel forte rapporto con i lettori.

Kobane Calling si proietta al vertice delle classifiche dei libri di fiction più venduti «anche se paradossalmente ciò avviene con un testo di graphic journalism declinato in prima persona e a focalizzazione interna, per cui la realtà di Kobane è restituita attraverso gli occhi, le nevrosi, i dubbi e le difficoltà oggettive del protagonista-autore. Per questo, il graphic reportage alterna vignette dal realismo quasi documentario a passaggi “cartoonati” per rendere al meglio l’iperrealismo della situazione» (pp. 132-133).

]]>
I mondi di Miyazaki https://www.carmillaonline.com/2016/02/22/i-mondi-di-miyazaki/ Mon, 22 Feb 2016 22:30:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28483 di Gioacchino Toni

cover miyazakiMatteo Boscarol (a cura di), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 12,00

Il saggio, curato da Matteo Boscarol, passa in rassegna la produzione del grande animatore, mangaka e regista Miyazaki Hayao. Non mancano pubblicazioni in lingua italiana sull’opera di Miyazaki ma l’intenzione del saggio appena dato alle stampe è quella di affrontare le opere del giapponese da un punto di vista filosofico e/o religioso al fine di individuare e creare connessioni e scoprire linee di pensiero non ancora, [...]]]> di Gioacchino Toni

cover miyazakiMatteo Boscarol (a cura di), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 12,00

Il saggio, curato da Matteo Boscarol, passa in rassegna la produzione del grande animatore, mangaka e regista Miyazaki Hayao. Non mancano pubblicazioni in lingua italiana sull’opera di Miyazaki ma l’intenzione del saggio appena dato alle stampe è quella di affrontare le opere del giapponese da un punto di vista filosofico e/o religioso al fine di individuare e creare connessioni e scoprire linee di pensiero non ancora, o non del tutto, esplorate dagli studi in lingua italiana. Il volume, che raccoglie scritti di Alberto Brodesco, Marcello Ghilardi, Andrea Fontana, Marco Casolino, Luigi Abiusi, Roberto Terrosi e Massimo Soumaré, affronta questioni che vanno dall’ucronia al pacifismo in Miyazaki, dalle presenze divine alle questioni filosofiche presenti nei suoi lavori come mangaka, da riflessioni sulla tecnica al rapporto tra natura e scienza.

Lo scritto di Alberto Brodesco (“La melanconia dell’ingegnere. Il sogno tecnoscientifico di Si alza il vento”) analizza l’ultimo lungometraggio del regista giapponese, ispirato a due diverse opere: il racconto autobiografico dell’ingegnere Horikoshi Jirō, progettista del celebre aereo Zero impiegato nel corso della Seconda guerra mondiale, ed il romanzo Kaze Tachinu (The Wind Has Risen, 1938) di Hori Tatsuo, che narra le vicissitudini di una donna malata di tubercolosi.
Brodesco evidenzia l’importanza della comparsa in sogno al protagonista dell’ingegnere aeronautico italiano Giovanni Battista Caproni; comparsa che evidenzia una delle questioni centrali del film, ossia se i desideri meritino di essere conseguiti a prescindere dagli effetti che essi potranno generare sul resto del mondo. In questo caso la domanda che attraversa l’opera riguarda la legittimità dei sogni aeronautici “puri”, estetici, in rapporto ad una realtà che finirà per sfruttarli a fini bellici. Lo studioso evidenzia anche come il sogno che accomuna il protagonista giapponese e la figura di Caproni coincida con il sogno delle rispettive nazioni che, percependosi arretrate, vedono nell’innovazione tecnologica uno strumento di riscatto collettivo.
Le figure dei due scienziati messe in scena di Miyazaki rimandano a quel tipo di scienziato che lo studioso Roslynn D. Haynes definisce “lo stupido virtuoso”, ossia quell’uomo di scienza che vive fuori dalla realtà senza avere coscienza delle implicazioni sociali del suo operare scientifico, ed i due ingegneri possono essere ricondotti a tale categoria proprio «perché si interrogano sì sull’utilizzo dei loro aeroplani, sulle conseguenze dei loro progetti, ma risolvono la questione rifugiandosi nell’ambito dell’estetica: l’importante è fornire al mondo degli oggetti che lo rendano più bello» (p. 18).

LE VENT SE LEVE un film de Hayao Miyazaki au cinéma le 22 Janvier 2014All’uscita del film il regista è stato accusato di dare scarsa importanza all’utilizzo militare dell’aereo, rifugiandosi quasi esclusivamente in una lettura estetica della tecnologia, inoltre, a Miyazaki è stato rimproverato di non fare riferimento al ricorso agli operai cinesi e coreani schiavizzati nella costruzione dell’aereo e di insistere sulle tragedie subite dal Giappone piuttosto che su quelle da esso provocate. Altra critica mossagli riguarda le figure femminili che, mentre in opere precedenti apparivano dotate di una certa indipendenza e di protagonismo, in questo ultimo lavoro sembrano rivestire ruoli esclusivamente sacrificali. A fronte di tutte queste obiezioni Brodesco invita ad analizzare meglio il film ed a passare in rassegna la produzione precedente di Miyazaki, ove viene esplicitato il suo anti-militarismo.
Miyazaki oscilla più volte nel corso degli anni tra un’impostazione tecnofila, volta ad elogiare la modernità ed il progresso, ed un ambientalismo che, invece, presenta un conto salato allo sviluppo sconsiderato che si è dato nel corso del tempo. Venendo invece all’ultima opera, lo studioso sottolinea come questa non si limiti a narrare la biografia di un progettista di aerei militari, ma racconti anche le vicende di una malattia e l’aver voluto intrecciare due storie così diverse si deve, secondo l’analisi proposta, al fatto che «la storia di tubercolosi serve a Miyazaki per ricondurre la biografia dell’ingegner Horikoshi all’interno della cornice timica tracciata dal concetto di melancolia» (p. 21). Quest’ultima non ha a che fare soltanto con la coppia alle prese con la malattia ma anche con il racconto del percorso professionale del progettista dello Zero; «Lo studio che guida il suo progetto di macchina volante lo lascia esposto a questo vento serotino. Il carattere della melancolia non ha infatti a che fare solo con la sfera patemica ed estetica del romanticismo, ma anche con la ricerca di perfezione. […] L’utilizzo del tema della melancolia non vuole quindi solo o semplicemente portarci a ragionare sul topos della solitudine del genio isolato (artistico o scientifico cambia poco), ovvero sui tratti della personalità creatrice, ma ci aiuta a interpretare, nel quadro del rapporto tra “macchina” e “modernità”, anche la relazione tra Horikoshi e il suo tempo, tra coscienza individuale e Zeitgeist, tra tecnoscienza e ideologia» (pp. 21-22). Tutto ciò, secondo Brodesco, risulta in linea con le riflessioni sviluppate dallo studioso Pierangelo Schiera (Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’Occidente moderno, 1999): «È il dilemma della scienza moderna che s’incarna nella moderna melancolia, impregnando di sé interamente l’attitudine al progetto, vera e propria “ideologia” della modernità» (p. 22).
Nel saggio viene, inoltre, individuata ne La montagna incantata di Thomas Mann un’altra fonte di ispirazione per il film; in entrambi i casi si ritrova il sanatorio e l’ambientazione tra le due guerre, il nome del dissidente tedesco Castorp coincide con quello del protagonista del romanzo ed, inoltre, anche nell’opera di Mann si ritrova la figura di un mentore italiano, l’umanista Lodovico Settembrini, che non manca di citare con ammirazione Prometeo, «prototipo di umanista, uomo coraggioso, martire della religione della scoperta» (p. 24).

Anche nell’intervento di Marcello Ghilardi (“Tempo, tecnica, esistenza nell’ultimo Miyazaki”) si parte dall’ultima opera del regista sottolineando come la dimensione del sogno abbia un ruolo centrale nel film; il protagonista però non sogna per fuggire dalla realtà ma per integrarla realizzando qualcosa in grado di incidere su di essa. La figura di Caproni che compare in sogno a Jirō svolge la funzione del Maestro che indica la strada al giovane allievo, è la figura dell’Altro, «il correlato oggettivo di un percorso interiore che è un cammino verso di sé proprio perché è anche un cammino verso l’Altro, attraverso l’Altro; il sé più intimo si dà sempre nella relazione con l’alterità e nella pluralità degli incontri» (p. 28). Buona parte della produzione del giapponese è attraversata dalla contraddittorietà della tecnica, dai rapporti tra i suoi esiti positivi e quelli negativi, tra emancipazione umana e distruzione planetaria.
Jirō sfrutta un difetto fisico che non gli consente di volare (la miopia) nell’occasione che gli consente di trovare una nuova strada. «La parabola esistenziale e la vocazione di Jirō coincidono con il tentativo di custodire il proprio desiderio, espresso nei sogni, e di proteggerlo dal tumulto delle epoche, dai disastri della guerra, dagli accadimenti storici che travolgono le singole vite. È proprio in questo tentativo estremo, che sembra votato allo scacco, che Jirō trova un valido alleato nella figura quasi leggendaria di Caproni, immagine del Sé con cui Jirō riesce a entrare in contatto e con cui dialoga per poter accedere a se stesso» (pp. 28-29).
Altra questione chiave che compare nel film riguarda il rapporto tra infanzia ed età adulta; ponendosi a livello delle nuvole anche l’adulto riesce a ritrovare la semplicità e la profondità dello sguardo infantile coniugata però alla consapevolezza della maturità.

kaze-tachinu-2Anche in questo intervento viene sottolineato come il rapporto con la tecnica sia contraddittorio nel film; si alterna la consapevolezza che quelle realizzate saranno macchine di morte ma al tempo stesso viene ribadito che la filosofia che muove gli inventori intende gli aerei come sogni e non come macchine da guerra e mezzi di profitto commerciale; il progettista intende dare forma ai sogni così come chi disegna conferisce corpo all’immaginazione. Verrebbe allora da domandarsi, continua lo studioso, se la «visione interiore di Jirō coincide con la vocazione di chi ha dedicato la vita ad animare figure disegnate, intessendole di suoni e parole. In quella voce risuona anche un’urgenza, una necessità interiore da cui dipende tutto il senso dell’esistere, di ciò che in esso reclama attenzione» (p. 31).
È interessate constatare, continua Ghilardi, che tanto Jirō quanto la giovane Nahoko sono tratteggiati da Miyazaki al fine di esprimere «la dedizione sincera a un ideale, la purezza dell’intenzione. Quando tutto sembra crollare e non si trova nulla a cui appoggiarsi, nessuna stampella a cui aggrapparsi, è la capacità di mantenere intatta la propria purezza interiore a custodire una radura luminosa da cui ripartire, un fondo di energia e di sicurezza da cui attingere nuova linfa» (p. 32). Il saggio indugia anche sulle trasformazioni produttive, politiche e sociali che attraversano il Giappone nel corso del Novecento in parte determinate dall’influenza esercitata dalla cultura occidentale soprattutto scientifica e tecnologia. «L’illusione che al progresso tecnico corrisponda un cammino razionale in grado di far aderire tutti gli esseri umani a una capacità di coesistenza nella società inibisce spesso la lucidità essenziale per comprendere la necessità di un’educazione in senso lato politica, per fare i conti con l’ambiguità della tecnica stessa, con i movimenti e le sterzate che imprime alla Storia» (pp. 33-34).
«Può essere che al Giappone in cui vivono, sognano, desiderano Jirō e Nahoko mancasse in quegli anni un pensiero in grado di pensare la tecnica e di pensare la Storia […] La risposta indiretta di Jirō e Nahoko al militarismo e allo scientismo tecnocratico degli anni Trenta passa attraverso l’adesione matura al proprio progetto esistenziale. Si traduce nel tentativo di proteggere anche nel mezzo della frenesia pre-bellica alcune forme di vita, di abnegazione e di impegno sincero, con valori diversi da quelli nazionalistici per cui vivere – senza per questo rinunciare a farsi interpreti della realtà di quell’epoca, senza cioè ritrarsi in una sorta di cieco isolamento» (p. 34). Il difficile e contraddittorio tentativo di far convivere progresso e tradizione, umano e tecnologico, lo si ritrova in diverse opere di animazione nipponiche a partire dalla seconda metà del ‘900.
Nella cultura giapponese è stata sviluppata una sensibilità particolare indirizzata all’effimero, all’apparire e sparire di tutte le cose. Secondo Ghilardi, Jirō e Nahoko testimoniano il desiderio di vivere il presente pur senza identificarsi pienamente con esso. Non intendono resistere al tempo in cui vivono ma resistere nel tempo, imparando nella quotidianità a esistere nel presente, ad accogliere ciò che viene, a essere in comunione con ciò che accade.

In apertura del suo intervento, Andrea Fontana (“Il pacifismo utopico di Miyazaki”) tratteggia brevemente la storia recente del Giappone evidenziando come, a partire dal suo aprirsi al mondo esterno di metà Ottocento, si sia determinata una compattezza interna votata al nazionalismo ed a un’ideologia della sottomissione. Le tragedie di Hiroshima e Nagasaki sono restate impresse fisicamente e psicologicamente nella coscienza collettiva del Giappone, tanto da modificarne profondamente l’immaginario ed il pacifismo che si sviluppa a livello diffuso nel dopoguerra, culminante nei movimenti del ’68, si radica fortemente nell’immaginario collettivo nipponico divenendo un elemento portante delle produzioni di carattere poetico ed artistico.
In epoca recente il Giappone è venuto meno ai dettami pacifisti scritti sulla carta costituzionale ed il paese si è trovato a supportare gli interventi in Afghanistan ed Iraq, soprattutto, sottolinea l’autore, per far fronte all’ascesa economica e politica della Cina ed in risposta alle minacce provenienti dalla Corea del Nord e dalla Russia.
In Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978, 26 episodi), serie ispirata a The Incredible Tide (1970) di Alexader Key, emergono i nuclei tematici che saranno poi ricorrenti nelle opere del regista: l’ambientalismo, l’antimilitarismo, il volo, l’amore portatore di serenità… La serie riflette sulle tragedie della Seconda guerra mondiale e ciò che viene raccontato in forma fantascientifica è il dopoguerra del Giappone in cui Conan e Lana si trovano a dover ricostruire il mondo.
Nell’ultimo lungometraggio realizzato dal giapponese si incrociano elementi onirici, ove tutto risulta possibile, con elementi di realtà, di una realtà che è anche dolore e tristezza. Il sogno consente al protagonista di superare i limiti ma questo sogno, nella realtà, finisce per essere strumentalizzato per fini militari. «Da Conan il ragazzo del futuro a Si alza il vento le convinzioni di Miyazaki sono rimaste le stesse: la pace deve necessariamente trionfare su tutto, poiché da essa dipende l’equilibrio del mondo. Ma da un’opera all’altra sono mutate le prospettive, l’amarezza e un pizzico di nostalgia hanno preso il sopravvento, divenendo così parti integranti di una visione che da utopica si è fatta leggermente più incrinata nella sua sublime ingenuità» (pp. 46-47). Proprio in un momento storico in cui il Giappone sta abbandonando quel pacifismo maturato dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, sostiene Fontana, occorre valorizzare l’impostazione pacifista di Miyazaki che con le sue opere immaginifiche è riuscito a trasmettere la visione del mondo di chi è stato testimone diretto degli orrori della guerra e non si è sottratto ad un’azione contestataria nei confronti di una società sempre meno propensa a far tesoro della storia e sempre più votata alla distruzione del pianeta. Tutto ciò viene dato a vedere, nei film, attraverso gli occhi innocenti dei bambini, attraverso il potere metaforico del linguaggio poetico che ribadisce la necessità di offrire ai bambini la possibilità di sognare e di essere ingenui.

miyazaki_piuttosto che...L’intervento di Marco Casolino (“Scienza, tecnologia e natura in Miyazaki”) inizia dall’analisi della serie televisiva Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978), ove gli scienziati vengono presentati come individui ingenui che, pur tentando di porre rimedio ai disastri compiuti precedentemente, non si accorgono dei soprusi su cui si regge la loro società fortemente gerarchica e divisa in caste. Come in altre opere di Miyazaki, il lungometraggio si interroga circa la possibilità o meno di concepire una ricerca pura senza interrogarsi sulle sue conseguenze reali.
La visione pessimista che emerge in diverse opere di Miyazaki, non riguarda tanto la tecnologia, quanto piuttosto l’incapacità dell’essere umano di gestire quei mutamenti sociali e culturali portati dal progresso.
Anche nello scritto di Casolino torna la riflessione sull’aeronautica così cara al regista nipponico. Nel film Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992), ambientato in Italia nel 1929, il protagonista, segnato dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale, non intende rendersi complice del fascismo e lo dichiara esplicitamente: “Meglio maiale che fascista”. Tale affermazione, scrive lo studioso, «riassume non solo la posizione politica del Porco (e di Miyazaki), ma soprattutto ne ribadisce l’allontanamento dal mondo umano» (p. 62). Lo scritto si sofferma sulle diverse risposte che nel film Si alza il vento i progettisti Giovanni Caproni (1886–1957), Hugo Junkers (1859-1935) e Horikoshi Jirō (1903-1982), danno al dilemma se e come ci sia la possibilità di opporsi all’uso bellico degli amati aerei progettati.
Secondo lo studioso, nei film di Miyazaki, non è la tecnologia in sé a corrompere l’essere umano, ma questa contribuisce a mettere in luce la natura peggiore dell’uomo. Analogamente, in altre opere, come Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004), la magia può provocare un pericoloso allontanamento dal mondo umano; da questo punto di vista tecnologia ed arti magiche hanno il medesimo ruolo.

Luigi Abiusi (“Geografie e gradi dell’ucronia-Miyazaki”) contestualizza la natura postmoderna delle opere di Miyazaki facendo riferimento a quel radicamento della televisione negli anni ’70 caratterizzata da un «proliferare simultaneo di mondi e personaggi che, da una serie all’altra […] si ripetevano, tra fauve e favola, sotto forma di varianti, si contraddicevano, sublimavano nella totale falsità del testo d’animazione, variopinto, stereotipato iperuranio di sagome volanti» (p. 71).
Abiusi, mantenendo sullo sfondo il confronto con le tesi proposte da Fredric Jameson, soprattutto nel suo celebre (Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, 1989), propone una riflessione su quella che definisce «offerta tardo capitalista di visioni» (p. 71) tipica di quel momento storico e, dopo essersi soffermato su alcune produzioni di animazione realizzate a cavallo tra anni ’70 ed ’80, focalizza il suo studio sulle ucronie presenti nelle opere di Miyazaki, .

Nel suo intervento, Roberto Terrosi (“Il dio della foresta – una lettura di Mononoke hime”), analizza il ruolo del buddismo nella cultura giapponese soffermandosi in particolare sul rapporto tra monaci buddisti e potere che, secondo lo studioso, avrebbe portato il buddismo ad essere visto in Giappone «come una religione del sistema in contrapposizione allo scintoismo, che è visto come religione popolare, anche se tra la fine dell’Ottocento e la fine della Seconda guerra mondiale le parti sono state temporaneamente invertite. Questo fa sì che si possano trovare valutazioni molto difformi tra i giapponesi sul ruolo del buddismo e dello shintō, a seconda anche del periodo storico a cui si fa riferimento» (pp. 86-87). Terrosi sottolinea come recentemente vi sia stata una certa «rivalutazione dello shintō, percepito come religione spontanea della natura, contro le perversioni della civiltà incarnate qui in Giappone dal moralismo ipocrita del buddismo compromesso con il potere. Il buddismo era infatti la religione dei nobili e dei ricchi, di quelli che avevano studiato, anche perché ha un corpus teorico complicatissimo che esige l’accesso allo studio» (p. 87). Tutto ciò, secondo lo studioso, aiuta a comprendere l’immagine negativa che ha il monaco buddista nell’opera Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997) di Miyazaki.
Il saggio, dopo essersi soffermato sulle diverse etnie che hanno dato vita al Giappone, ed aver passando in rassegna il loro rapporto con la natura ed alcune loro divinità, analizza diversi aspetti del film di Miyazaki alla luce di tali tradizioni. Il cervo è considerato in Giappone uno spirito messaggero e nell’opera di Miyazaki compare presentato come dio della foresta, cioè di un ecosistema in equilibrio che rischia, se ferito in profondità, di essere definitivamente compromesso a causa della perdita di quell’equilibrio su cui si basa. Terrosi invita a cogliere come, sul finire del film, l’autore mostri un’evidente contrapposizione: «Da una parte ci fa vedere un’umanità incattivita verso la natura che si rifugia nella tecnica per colmare le sue paure senza accorgersi della distruzione che porta. Dall’altra mostra, quando il bonzo con astuzia riesce ad attentare alla vita del Diocervo, il dio nella sua natura finalmente estrinseca di dio-foresta. Infatti l’anima della foresta che era concentrata e custodita nel corpo del cervo divino ora si libra e si manifesta come creatura a se stante prima di perdersi e svanire del tutto […] Ma fortunatamente questo avvio verso il disfacimento dello spirito della foresta e della sua riduzione a materia inerte viene avventurosamente fermato dal nostro eroe in combutta con la principessa Mononoke. Riusciremo anche noi a salvare il mondo dalla perdita della sua anima?» (pp. 92-93). La grande abilità di Miyazaki, secondo lo studioso, è quella di essere riuscito, attraverso il film, «a realizzare non solo una storia soggettivamente espressiva ma un “mito” universale per l’età della crisi ecologica» (p. 93).

Massimo Soumaré (“Il Principe Cane: elementi della filosofia e della poetica di Miyazaki Hayao in una fiaba tibetana”) affronta la poetica di Miyazaki a partire da Shuna no tabi (1983), manga che, secondo lo studioso, può essere visto come pietra fondante ove sono già presenti elementi da cui attingeranno diverse opere cinematografiche del maestro giapponese. Tale manga, che letteralmente può essere tradotto con “Il viaggio di Shuna”, è tratto da una fiaba popolare tibetana e narra le vicissitudini di un principe di un regno povero costretto ad assumere le fattezze di un cane come punizione per avere sottratto alcuni chicchi di grano al re drago. Come spesso accadrà nelle successive produzioni cinematografiche del giapponese, si tratta della storia di un eroe benefattore leggendario sullo sfondo del rapporto uomo-natura. Soumaré sottolinea come tale storia sia in linea «con le pulsioni animistiche e la credenza tipica dello shintoismo che in ogni essere vivente e oggetto dimorino degli spiriti» (p. 98). Le opere cinematografiche che maggiormente si avvicinano al manga Shuna no tabi, sono Nausicaä nella valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984) e Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997). Dall’analisi delle opere emerge come in entrambi i lungometraggi si palesi «una preferenza non per il racconto scritto, ma per quella tradizione orale che a lungo è stata l’elemento portante della trasmissione del sapere e che è molto più emozionale della semplice scrittura, perché le storie sono narrate con la partecipazione delle sensazioni del parlante» (pp. 102-103). Inoltre, secondo Soumaré, è possibile riscontrare analogie con H.P. Lovecraft e la sua mitologia pervasa da divinità aliene in grado di far perdere il senno agli uomini.
I protagonisti messi in scena da Miyazaki sono spesso adolescenti che si trovano ad attraversare il momento di passaggio verso l’età adulta; «Sono quasi la descrizione di un rito d’iniziazione per divenire esseri umani indipendenti, e Miyazaki non addolcisce per nulla questo processo. Si tratta di un momento lacerante sia fisicamente che spiritualmente per i protagonisti, ma necessario. Un momento con cui ogni uomo e donna ha dovuto confrontarsi nel corso della sua vita, indipendentemente dal risultato ottenuto. In ciò è definita quella differenza con altre storie di mangaka e registi d’animazione dove tutto spesso è più attenuato» (p. 104).
Miyazaki ha spesso criticato l’invadenza nella cultura giapponese di immaginari che mescolano ragazzine con personaggi dal carattere bambinesco che sembrano create appositamente per sostenere il desiderio dell’economia nipponica di mettere a profitto un certo tipo di subcultura fomentando l’acquisto di merci. Mentre nel paese proliferano tematiche, scenari ed immaginari utili al consumismo più sfrenato, tematiche come la solitudine e lo sfruttamento dell’essere umano faticano a trovare spazio nei manga contemporanei che, in molti casi, sembrano del tutto in linea con la deriva reazionaria della politica nazionale.

porco-rosso-Non resta che segnalare come, in chiusura del volume, si trovi una breve, ma interessante, analisi di alcuni cortometraggi di Miyazaki prodotti dallo Studio Ghibli: Il ragno d’acqua Monmon (Mizugumo Monmon, 2006), Il giorno in cui allevai una stella (Hoshi wo katta hi, 2006) ed In cerca di casa (Yadō sagashi, 2006). Terminata la lettura di I mondi di Miyazaki, non resta che riguardarsi l’intera produzione del grande animatore, mangaka e regista giapponese e, se fosse possibile, meglio farlo al cinema, di fronte ad un grande schermo.

]]>