Male – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Varlan Šalamov: una voce dalla Kolyma https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/la-voce-di-un-fantasma-della-kolyma/ Wed, 20 Nov 2024 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85321 di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, [...]]]> di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, per altri, per condannare in blocco l’esperienza sovietica nel suo insieme, dalla Rivoluzione di Ottobre almeno fino agli anni successivi alla morte di Stalin, invece che di una delle voci più significative e potenti dell’intera letteratura del ‘900.

Quella prima pubblicazione italiana, ovvero Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti ed edita da Savelli, con una traduzione condotta sul testo russo dallo stesso curatore, avvenne senza il consenso dell’autore, anticipando una pratica editoriale per cui in Occidente le novelle di Šalamov sarebbero state pubblicate in prima battuta senza la conoscenza o il consenso dell’autore che, per questo motivo, mostrò sempre un particolare risentimento, poiché dallo sfruttamento editoriale occidentale della sua opera più importante Šalamov non avrebbe mai guadagnato un solo rublo. Cosa che, tra le molte altre, lo avrebbe costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita in precarie condizioni economiche, in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili situata a Mosca.

Nato a Vologda nel 1907 e scomparso a Mosca nel 1982, Varlan Šalamov è stato uno scrittore, poeta e giornalista d’età sovietica. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag nel corso dei più di vent’anni che trascorse nel bacino della Kolyma che prende il nome dall’omonimo fiume artico della Russia siberiana nordorientale che sfocia nel Mare della Siberia Orientale), dopo aver percorso 2.129 chilometri.

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde ed inospitali della Siberia, caratterizzata dal permafrost e da un clima estremo, dove si raggiungono temperature minime fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta, motivo per cui il fiume è ghiacciato per la maggior parte dell’anno Negli anni dello stalinismo tale regione costituiva la sede di alcuni dei più importanti e conosciuti campi di lavoro forzato, essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto oro), nei quali, secondo le cifre riportate da diversi storici, dagli anni Trenta fino ai primi Cinquanta morirono circa tre milioni di deportati.

Di questo autentico inferno in terra, già utilizzato dal regime zarista, ma in seguito allargato e reso più efficiente da quello staliniano, esistono numerose testimonianze, a partire dalla Memoria della casa dei morti di Fëdor Dostoevskij1 fino alla dettagliata descrizione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, certamente quest’ultimo tra i più importanti testimoni dell’esperienza concentrazionaria siberiana.

Ma tra l’ultimo e Šalamov intercorrono svariati gradi di diversità, sia sul piano politico che letterario. Infatti il secondo, figlio di un prete ortodosso, dopo tre anni trascorsi nello studio del diritto sovietico presso l’Università Statale di Mosca, fu arrestato il 19 febbraio del 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, nella zona degli Urali, per essersi unito ad un gruppo trotzkista. L’accusa era quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui venivano sollevate critiche all’operato di Stalin, oltre a quella di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con lo slogan Abbasso Stalin!2. E precipitando così in un sistema carcerario spietato tanto con i condannati quanto con i loro momentanei aguzzini.

D’estate si lavorava dieci ore al giorno, senza festivi, con una sola turnazione, come dicevano lì: una giornata di riposo ogni dieci giorni. In ottobre le ore diventavano otto, in dicembre sei, in gennaio quattro. In febbraio la curva di rialzava: prima sei, poi otto, e poi di nuovo dieci ore.
“In un giorno la Kolyma estrae tanto di quell’oro che ci si potrebbe sfamare il mondo per ventiquattro ore” scrisse Berzin sulla Pravda nel 1936 per le celebrazioni dei tre anni della sua impresa, quando i primi seicento chilometri della celebre “rotabile” della Kolyma erano già stati costruiti.
Nel 1937, in veste di ordinaria integrazione, alla Kolyma vennero mandati i trockisti, come li chiamavano allora. Tra i quali figuravano molti conoscenti di Berzin. Erano arrivati con delle strane istruzioni: “da utilizzare solo per lavori fisici pesanti”, vietare la corrispondenza, riferire mensilmente sulla loro condotta.
Berzin e Filippov fecero rapporto: quel contingente non era adatto alle condizioni dell’Estremo Nord, glieli avevano mandati senza la documentazione medica necessaria, nei convogli c’erano molti vecchi e malati, il novante per cento dei nuovi detenuti aveva svolto solo lavoro intellettuale, ed era del tuto antieconomico utilizzarli nell’Estremo Nord.
Berzin venne convocato a Mosca con un telegramma e arrestato direttamente sul treno. E ora aspettava la morte dentro una cella3.

Rilasciato nel 1931, dopo che nel 1936 aveva visto la luce il suo primo racconto, Le tre morti del Dottor Austino, fu nuovamente arrestato il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, dove ne 1943 gli venne inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”.

Durante la prigionia lavorò prima nelle miniere d’oro, poi in quelle di carbone. Durante tale periodo Šalamov si ammalò di tifo e più volte fu posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga. A differenza di Solženicyn, però, negli scritti di Šalamov non si avverte mai l’afflato religioso e nazionalistico del primo, mentre invece, anche nei momenti più bui narrati nei suoi racconti della Kolyma, si avverte una certa dose di ironia che spesso riesce a far sorridere il lettore, tipica espressione della letteratura russa, da Puškin a Gogol’ fino ad altri scrittore russi e sovietici del XIX e del XX secolo.

Per riscoprire o scoprire per la prima volta le doti e le capacità di questo grande e perseguitato scrittore, si rivela dunque veramente utile e ricca di spunti la raccolta di testi appena pubblicata dalle edizioni Adelphi, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, che si inserisce nella pubblicazione dei suoi scritti, editi e non in Italia, che la casa editrice del fu Roberto Calasso porta meritoriamente avanti da anni4. Il testo raccoglie scritti prodotti fra gli anni Cinquanta e Settanta ed è apparso per la prima volta nel 2004.

Testi che, oltre che all’esperienza della Kolyma che rimane centrale nella vita e nell’opera di Šalamov, ci riportano anche alla Vologda della sua infanzia, dove si manifestarono precocemente sia l’amore per la poesia che l’insaziabile sete di libri; ma anche alla rigogliosa scena letteraria sovietica degli anni Venti, dove brillavano le stelle di Šklovskij, Majakovskij, Mandel’štam e Bulgakov. Uno straordinario e quasi unico ambiente letterario e artistico messo in moto dalla Rivoluzione, ma presto destinato a scomparire, «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato». Mentre in chiusura ci riporta al tempo della sua riabilitazione ufficiale e dell’amicizia con Pasternak.

Ho molti dubbi, troppi. E’ una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio racconto? […] A chi servirà da esempio? Educherà qualcuno a non cedere al male e a fare il bene? Sarà o non sarà un’affermazione del bene, del bene sempre e comunque, dato che è nel valore etico dell’arte che vedo l’unico suo vero criterio… E poi perché io? Non sono né Amundsen né Peery… La mia esperienza è condivisa da milioni di persone. E non c’è dubbio che fra quei milioni c’è gente con una vista più acuta della mia, con una passione più forte, una memoria migliore e un talento più grande del mio5.

È un interrogativo doloroso quello che Varlan Šalamov si pone nello scritto degli anni Settanta qui riportato. Pagine in cui Šalamov non si limita a mettere a nudo se stesso, ma rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e tutte le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a “relitti umani”. Condizione cui, nel 1946, lo stesso era stao ridotto. Una violenza, quella di ridurre un detenuto allo stremo, per cui esisteva anche un termine gergale russo dochodjaga, “giunto in fondo”. Una condizione cui il detenuto giungeva dopo essere stato picchiato da tutta la scorta. «Diventi un dochodjaga e tocchi il fondo quando ti indebolisci del tutto a causa della mansione troppo gravosa, senza dormire a sufficienza, un lavoro di manovalanza a cinquanta gradi sotto zero» come avrebbe ricordato ancora l’autore russo in altre sue memorie.

La sua vita sarebbe stata salvata da un medico anche lui prigioniero, Andrej Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riuscì a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo, dove iniziò a lavorare stabilmente come infermiere, un po’ come il protagonista di Il primo cerchio di Solženicyn. Questa nuova sistemazione gli consentì di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Esperienza e dubbi che lo accomunano ad un altro celebre sopravvissuto e “salvato”, Primo Levi, e che dimostrano come tutti i parallelismi tra gulag sovietico e lager nazisti siano pienamente giustificati. Anche se Levi, al momento della pubblicazione dei primi racconti di Šalamov in Italia, non seppe riconoscerne la comune volontà di «catturare briciole di verità, per quanto squallide siano» e, nel commentare il capolavoro, non riuscì ad andare oltre una “commozione e simpatia” per le pagine dello scrittore russo. Forse ancora parzialmente abbagliato dal “mito politico” della presunta “unicità” della Shoa e di un male considerato “assoluto” da chi si ostinava e si ostina a negare gli orrori del gulag e della repressione staliniana, ovvero di quel “male” di cui parlava l’autore russo nei suoi racconti.

Šalamov, rilasciato nel 1951, avrebbe continuato a lavorare e scrivere nello stesso ospedale, finché, nel 1952, dopo aver spedito alcune sue poesie a Boris Pasternak, avrebbe avuto modo di tornare a Mosca e di conoscere e frequentare, dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la sua personale riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1956, altri importanti scrittori come Solženicyn e Nadežda Mandel’štam, oltre che lo stesso Pasternak.

Purtroppo il metodo dell’eliminazione dei famigliari e dell’isolamento anche morale dei condannati, tipico dello stalinismo e delle sue crudeli e ferree logiche, avrebbe fatto sì che, al termine della prigionia, l’autore scoprisse che la sua famiglia non esisteva più e che la figlia, ormai adulta, rifiutava di riconoscerlo. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, erano talmente peggiorate da far sì che, ormai invalido, gli fosse assegnata una pensione. Soltanto nel 1978, a Londra, sarebbe stata stampata la prima edizione integrale in russo dei suoi racconti, mentre nel 1987, cinque anni dopo la sua morte, l’opera vide la luce anche in Unione Sovietica.

Ci sarebbero ancora tantissime riflessioni e osservazioni da fare, sia sullo scrittore che sui testi appena pubblicati da Adelphi, ma una cosa che vale la pena qui di sottolineare ancora è la vicinanza “morale” tra il testimone della Kolyma e un altro grande scrittore russo caduto in disgrazia durante lo stalinismo e il periodo successivo spacciato per “destalinizzazione”: Vasilij Semënovič Grossman6.

Accomunati entrambi dalle medesima volontà di rintracciare le radici del Bene e del Male in una umanità segnata dall’esperienza dei due più oscuri abissi del ‘900: i lager nazisti e il gulag sovietico. Così, chi qui scrive preferisce lasciare ai lettori la scoperta e l’interpretazione di un libro di cui raccomanda l’imprescindibile lettura, non soltanto per il suo valore letterario, ma anche ai fini della comprensione dei drammi e delle tragedie del XX secolo e della svolta controrivoluzionaria messa in atto dal regime sovietico a partire dalla fine degli anni Venti.


  1. In proposito si veda qui  

  2. Si veda: P. Broué, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, A.C. Editoriale Coop, Milano 2026.  

  3. V. Šalamov, Berzin. Schema di romanzo saggio, p. 327 ora in V. Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 317-329.  

  4. Si vedano, per l’appunto: I racconti della Kolyma [ed. parziale], traduzione di Marco Binni, Collana Biblioteca n.298, Adelphi, Milano, 1995, e successivamente Collana gli Adelphi n.153, Adelphi, Milano, 1999; La quarta Vologda, a cura di Anna Raffetto, Collana Biblioteca n.412, Adelphi, Milano, 2001 e Višera. Antiromanzo, trad. di Claudia Zonghetti, Collana Biblioteca n.560, Adelphi, Milano, 2010,  

  5. V. Šalamov, La Kolyma, p. 163 ora in V. Šalamov, op. cit. pp. 163-305.  

  6. Le cui opere principali sono tutte disponibili nel catalogo Adelphi (tra parentesi l’anno della prima pubblicazione degli stessi nel catalogo della casa editrice milanese). I romanzi: Vita e destino (2008), Tutto scorre (1987), Stalingrado (2022), Il popolo è immortale (2024). Le raccolte di articoli, saggi e racconti: Ucraina senza ebrei (2023), Uno scrittore in guerra (2015), Il bene sia con voi! (2011), La cagnetta (2013) L’inferno di Treblinka (2010).  

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Un mondo ridotto all’osso https://www.carmillaonline.com/2023/08/03/un-mondo-ridotto-allosso/ Thu, 03 Aug 2023 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78235 di Sandro Moiso

Peter Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 263, 19 euro

Una giovanissima prostituta che sa e ricorda troppo, un sindaco laido e corrotto, un ex-mercenario della Blackwater (qui Blackwelder) spietato ed efficiente, un commerciante di carne umana e di giovanissime ragazze, un vecchio solitario dal passato oscuro e violento e l’ombra, ormai onnipresente in ogni narrazione della società americana, dei narcos sono alla base del southern noir di Peter Farris appena dato alle stampe da NN Editore.

Gli si aggiunga una natura rigogliosa e a [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 263, 19 euro

Una giovanissima prostituta che sa e ricorda troppo, un sindaco laido e corrotto, un ex-mercenario della Blackwater (qui Blackwelder) spietato ed efficiente, un commerciante di carne umana e di giovanissime ragazze, un vecchio solitario dal passato oscuro e violento e l’ombra, ormai onnipresente in ogni narrazione della società americana, dei narcos sono alla base del southern noir di Peter Farris appena dato alle stampe da NN Editore.

Gli si aggiunga una natura rigogliosa e a tratti impenetrabile, una miseria diffusa che contrasta con il potere e la ricchezza di chi sta in cima alla catena alimentare sociale, un capitalismo finanziario che, negli ultimi decenni, ha trovato nell’affare delle droghe un valido strumento per contenere e rinviare gli effetti di ciò che l’analisi economica marxiana individua come “caduta tendenziale del saggio di profitto” e si avrà, a grandi linee, la dimensione narrativa dell’ultimo romanzo di un autore che, nato nel 1979, è già stato acclamato come nuovo talento del genere noir sia in patria che all’estero. Con il romanzo presentato in Italia e pubblicato in Francia nel 2022, infatti, ha vinto il Prix 813 ed è stato finalista al Grand Prix de Litérature Policière e la Prix SNCF du Polar. Oltre a questi riconoscimenti “The Devil Himself” (titolo originale) è stato proclamato miglior romanzo straniero al Beaune International Film festival.

Anche se, talvolta, tali premi e riconoscimenti sono “spinti” dai giochi e accordi tra case editrici, c’è da dire che l’opera “al nero” di Farris non delude mai in alcun momento le aspettative del lettore, trasmettendogli l’immagine di una città del Sud di cui “Sua Eccellenza il Sindaco” sa che:

era un luogo spezzato, e i guadagni illeciti non finivano mai. Il deficit di bilancio era enorme, il sistema fognario sull’orlo del collasso. La disoccupazione era alle stelle, la rete dei trasporti in rovina, la criminalità in aumento e la contea in guerra. In più c’erano gli attriti tra l’amministrazione statale quella della città, un miliardo e più di dollari di mancati finanziamenti per i fondi pensionistici. Accuse di concussione, per cui il suo capo dell’ufficio approvvigionamento aveva appena patteggiato. La polizia locale aveva sparato ad una donna di novant’anni durante un blitz antidroga nella casa sbagliata. Perfino il tempo faceva schifo.
Ma il suo compito era trasformare il caos in speranza. Mettere una faccia contenta su quella che sapeva essere l’insidioso inizio di un collasso totale.
Sirene. Fumo. Fame. Spari. Il mondo ridotto all’osso1.

Come sempre accade, però, in questi casi il lettore si rende rapidamente conto che tale condizione raffigura non soltanto l’immaginaria contea di Trickum in Georgia ma, come quella altrettanto immaginaria di Yoknapatawpha in cui William Faulkner ambientò la maggior parte dei suoi romanzi e racconti, un po’ tutta quell’America povera, bianca, corrotta fino in fondo all’anima nella quale è difficile salvarsi. Se non attraverso autentici bagni di sangue e in cui, alla fine, nessuno è veramente buono, a meno che non si accontenti di recitare soltanto la parte della vittima sacrificale.

La citazione biblica serve a giustificare la vendetta o la semplice furia; la legge copre il marciume e se ne fa complice; i contadini sono orgogliosi delle loro misere proprietà e di un lavoro che richiede investimenti maggiori dei rendimenti che se ne potranno trarre ma, allo stesso tempo, non vedono l’ora di liberarsene per un po’ di quattrini, mentre il progresso si rivela non essere altro che la marcia verso la catastrofe sociale, economica e morale.

Oltre all’ombra di un Faulkner in chiave minore, aleggiano sulle vicende narrate anche quelle del cinema di Clint Eastwood e Don Siegel, della scrittura di Daniel Woodrell e Cormac Mc Carthy e dell’etica di John Dutton, il protagonista della serie televisiva Yellowstone, interpretato da Kevin Costner: Se volete il progresso non votate per me (Stagione 4). Tutte rappresentate e riassunte nella figura di Leonard Moye, il vecchio, spietato e solitario “diavolo” che, solo, può contrapporsi al Male, al Vizio e all’Ingiustizia. Dopo aver sfatto la propria vita e quelle di coloro che gli stavano più vicini.

Ma, come sottolinea la traduttrice del romanzo, nel noir di Peter Farris sono il paesaggio e/o la natura a costituire «la figura più dettagliata, quella dalla personalità più forte e invadente. Nulla, in questo romanzo è determinante quanto la terra, che non solo è oggetto delle mire criminali dei villain ma è complice dei protagonisti in molti modi: nasconde, inghiotte, divora, magari sotto forma di un alligatore che arriva a far giustizia»2.

Un paesaggio crudele e assurdo in cui anche la tecnologia sembra avere poca cittadinanza poiché, come afferma ancora Valentina Daniele, «la modernità non svolge alcun ruolo in questa storia». Se non forse, e indirettamente, mettendo a confronto il vecchio modo di produzione artigianale e illegale di alcolici e whiskey delle distillerie clandestine nelle grotte naturali della regione del Piedmont con quello più moderno, ma comunque altrettanto sotterraneo e illegale, delle raffinerie di cocaina messe in piedi dall’industria delle droghe.


  1. P. Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 52-53  

  2. V. Daniele, Nota della traduttrice in P. Farris, op.cit., p. 261  

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Il trionfo della “società dello spettacolo” e le sue conseguenze https://www.carmillaonline.com/2023/07/24/il-trionfo-della-societa-dello-spettacolo-e-le-sue-conseguenze/ Mon, 24 Jul 2023 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78200 di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, sembrerebbe sfiorare la psicosi. Prova ne sia un’affermazione come quella contenuta in un numero di luglio del «Venerdì» di Repubblica: “Il berlusconismo è stata la disgrazia più grande”, attribuita a Sabina Guzzanti.

Già, la disgrazia più grande. Così mentre il grande pubblico dello spettacolo mediatico, politico e “culturale”, non ha ancora finito di assorbire il fatto che la Shoa abbia costituito il “male più grande”, ecco che già gli viene propinato un altro villain definitivo, dopo Hitler, Mussolini o chi altro diavolo si voglia. E mentre l’audience viene tenuta in uno stato di costante allerta da una classifica di “disgrazie” che non sembra mai finire, dal Vajont al Covid o alla guerra in Ucraina, un nuovo (?) “urlo di dolore” e moto “di denuncia” inizia a diffondersi per l’aere mediatico. Un’eterna corsa al vaccino definitivo contro i mali causati dalla Destra a livello politico e sociale che, però, non intacca mai la sostanza di una società (quella italiana ma non solo) e di un modo di produzione di cui la stessa Sinistra “criticante” fa parte, condividendone spesso valori e principi, fin da prima della caduta definitiva del fascismo storico.

Hanno fatto dunque benissimo le Edizioni Mimesis a riproporre nella collana “Volti” un testo del filosofo e scrittore italiano Mario Perniola (1941-2018), già precedentemente edito nel 2011: Berlusconi o il ’68 realizzato. Come si afferma nella Nota redazionale che precede l’attuale riedizione:

Il grande filosofo italiano che è stato Mario Perniola ci ha regalato uno stile di pensiero in cui ridere e comprendere vanno a braccetto, in nome di un umano e lucido disincanto del presente. Quando uscì Berlusconi o il ’68 realizzato, imperversavano gli scandali delle “cene eleganti” e vacillava la credibilità internazionale del Paese Italia. […] Allora risultarono quanto mai puntuali queste valutazioni di Perniola sul significato storico delle trasformazioni personificate da Berlusconi nella politica, nella cultura, nei costumi e nella vita sociale del Paese. Ma anche oggi, soprattutto oggi, al termine della parabola biografica dell’uomo di Arcore, l’analisi della rivoluzione spettrale, qui proposta, risulta essere uno dei migliori discorsi di commiato che si possano fare1.

Discorso in cui occorre sottolineare, così come fa Perniola e non soltanto per gusto provocatorio, il ricongiungersi, in maniera sicuramente distorta, nel programma di Berlusconi della gran parte degli obiettivi che caratterizzarono la grande ondata del Sessantotto. Dalla fine del lavoro alla distruzione dell’università e al vitalismo giovanilistico fino al trionfo della comunicazione massmediatica. Una sorta di rinnovato “spirito del capitalismo” cui avrebbero fatto riferimento in seguito Luc Boltanski e Eve Chiapello, annotando: la sua vocazione alla mercificazione del desiderio, soprattutto quello di liberazione, e di conseguenza al suo recupero e inquadramento2.

In attesa dunque di valutazioni storiche e politiche degne di questo nome, che non si basino soltanto su frasi ad effetto e battute salaci che si accontentano soltanto di rovesciare lo stile berlusconiano, in realtà senza negarlo nei fatti ma bensì propagandolo3 ad oltranza, val la pena di riprendere la lettura delle pagine del breve testo di Perniola.

Qui chi scrive si limita a riproporre l’interpretazione di alcuni temi, tra i tanti possibili, che ricollegano la “mancata rivoluzione” del ’68 alle sue conseguenze nei decenni successivi durante i quali, come sempre accade in questi casi, la Rivoluzione fallita si è trasformata in arma della Controrivoluzione e uno dei suoi testi più conosciuti e importanti4 si è tramutato nel possibile manuale d’uso per una concezione spregiudicata, ma tutt’altro che rivoluzionaria, della politica e della comunicazione5. Comparso infatti nel 1967, il testo di Debord affermava che: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra persone mediato da immagini». Anticipando di decenni il modo in cui Silvio Berlusconi con Mediaset e Mark Zuckerberg con Facebook e Instagram, per non parlare di tanti altri social media, avrebbero poi portato alle estreme conseguenze i meccanismi dell’alienazione individuale e sociale.

Sul lavoro e il suo rifiuto

Sebbene Berlusconi sia stato lungo tutta la sua vita un lavoratore instancabile, egli ha consentito alla maggior parte dei giovani di realizzare la famosa ingiunzione di Guy Debord (1931-1994) Ne travaillez jamais! (Non lavorate mai!). L’ironia sta nel fatto che ora i giovani vogliono lavorare, anche a condizioni indecenti e vergognose, incredibilmente più alienanti e squalificate di quelle che erano loro offerte negli anni Sessanta e Settanta: allora una vita piccolo-borghese era più o meno garantita a tutti, oggi essa è un sogno irraggiungibile per quanti non hanno alle spalle una famiglia che li aiuti. È come se Berlusconi avesse monopolizzato nella sua persona tutto il lavoro, e lasciato agli altri solo il gioco6.

Sulla cultura e gli intellettuali

Di tutto il culturame (attenzione, questa parola è detta in camera caritatis, cioè non pubblicamente) ce ne freghiamo: però dobbiamo dire che siamo a favore della cultura, della ricerca, dell’innovazione, dell’inglese, di internet, dell’impresa e di quanto ancora suoni alla moda, anche se di tutte queste cose non ce ne importa un fico, perché a farle sul serio, sono troppo care e complicate e lasciano uno spazio troppo ristretto per la corruzione. Le facciano gli americani, che legandole strettamente all’economia aziendale riescono a guadagnarci un sacco di soldi oppure i paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) che essendo in ascesa e avendo tassi di sviluppo notevoli hanno bisogno di creare una borghesia relativamente istruita! […] Mi raccomando poi di non cadere nella trappola di sostenere sul serio i cosiddetti “intellettuali di destra”, perché questi sono molto più pretenziosi di quelli di sinistra, i quali un po’ per partito preso pauperistico, un po’ per demagogia si autodefiniscono “operai della conoscenza” e quindi non hanno più tante ambizioni: basta che fate far loro qualche comparsata gratuita in televisione e pensano subito di essere dei divi e di spezzare il cuore di qualche ragazza, come se le nostre ragazze di oggi avessero un cuore! Se poi sono veramente accro (segnatevi questa parola francese perché nessuno la capisce e quindi fa un certo effetto), voglio dire sono proprio accaniti, come quel tale Saviano o Saviani che dir si voglia, basta che lo inseriate in uno show ricreativo di puro intrattenimento per neutralizzarlo completamente. Lui vuol fare il tragico, ma se lo mettete insieme ai comici, chi si accorgerà della differenza? E poi in Italia la tragedia non ha mai avuto fortuna: sì certo, c’è stato qualche piemontese tragico come Alfieri e Pareyson, ma chi li legge? Servono per fare delle tesi di laurea. Quindi nessuna fatwā contro i Saviani, tanto meno attentati o cose che fanno casino: non dimenticate che spacciandoci per liberisti (mentre è ovvio che siamo monopolisti) dobbiamo anche mostrare di essere liberali e magnanimi. Mica siamo come i russi o i cinesi, che perseguitano i dissidenti! Tanto alla fine quello che dicono o scrivono non ha alcuna effettualità politica e il popolo bue lo si conquista nella campagna elettorale abbassando o eliminando qualche tassa od odioso balzello7.

Sulla dignità

Una parola che ricorre sempre più frequentemente nei discorsi etico-politici è dignità. Questa è diventata uno dei termini chiave della bioetica, nonché il motto in cui si sono riconosciute le rivolte politiche che hanno scosso molti stati arabi, provocando talora la caduta dei governi. In Italia coloro che si sono detti indignati dalla condotta di… sconi (questa volta mi viene in mente solo la parte finale del nome di questa persona), non si contano. Gli studenti che hanno occupato le piazze di alcune città spagnole si sono definiti los indignados. È nato così un Global Indignant Movement che si è manifestato in molti Paesi. La parola dignità ha eclissato altri termini più tecnici del linguaggio politico, come comunità e diritti dell’uomo. In effetti, la prima è caduta nel ridicolo da quando si è cominciato a parlare di una “comunità internazionale” […]. Quanto ai “diritti umani” che costituiscono uno dei cardini della civiltà occidentale, l’uso fazioso e opportunistico che se ne è fatto, li ha svuotati di credibilità […] Ora la domanda cruciale è: possiamo permetterci di essere indignati, se non abbiamo nessuna delle quattro virtù fondamentali (saggezza, temperanza, coraggio e giustizia)? Possiamo indignarci se noi stessi non abbiamo dignità? Se non siamo minimamente coerenti con noi stessi ma immersi nel mondo della comunicazione, nel quale tutto si capovolge in tutto? I caratteri fondamentali della comunicazione sono descritti benissimo dagli Stoici sotto il termine di stoltezza. Lo stolto non è uno sciocco, uno stupido, un ottuso ma l’essere umano che, in preda a un continuo turbamento, cambia opinione da un momento all’altro; incapace di stare fermo, corre a precipizio con impeto irrefrenabile verso il primo obiettivo che incontra e si pente con facilità di tutto ciò che ha fatto; incapace di ascolto, parla e agisce in modo inconcludente; inetto a elaborare valutazioni stabili e a compiere scelte irreversibili, salta ora qua ora là, pretendendo di avere e di prendere tutto. La stoltezza non nasce da una mancanza, ma da una deviazione, da una distorsione, da un pervertimento della facoltà razionale. Per essere indignati, bisogna almeno avere coraggio, cioè pazienza, perseveranza, magnanimità e magnificenza (Tommaso d’Aquino dixit). Noi italiani (e forse noi occidentali), siamo troppo deboli per permetterci di essere indignati8.


  1. Nota redazionale a M. Perniola. Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 7-8  

  2. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014  

  3. Si veda quanto già scritto qui  

  4. Guy Debord, La società dello spettacolo, SugarCo Edizioni, Milano 1990.  

  5. Si veda: Gianfranco Marelli, L’amara vittoria del situazionismo. Storia critica dell’Internazionale Situazionista 1957-1972, Mimesis Edizioni, 2017.  

  6. Non lavorate mai! in M. Perniola, op. cit., p. 21  

  7. Gli intellettuali da nona categoria puzzolente a spina dorsale della nazione in M. Perniola, op. cit., pp. 64-67  

  8. Possiamo essere indignati? In M. Perniola, op. cit., pp. 95-99  

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Elogio dell’eccesso /3: Cormac McCarthy e il rosso della sera dell’Occidente https://www.carmillaonline.com/2023/07/20/elogio-delleccesso-3-cormac-mccarthy-il-rosso-della-sera-delloccidente/ Thu, 20 Jul 2023 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78090 di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La [...]]]> di Sandro Moiso

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (“La strada” – Cormac McCarthy)

Il 20 luglio di quest’anno Cormac McCarthy avrebbe dovuto compiere 90 anni.
Per uno di quegli insondabili moti degli orologi biologici individuali così non è stato e lo scrittore americano se n’è andato il 13 giugno, nella sua casa nei pressi di Santa Fe, nel Nuovo Messico. Tornando a quel mistero, di cui la morte individuale è la massima espressione e manifestazione, di cui parlava nell’ultima riga di uno dei suoi romanzi più conosciuti.

Se la letteratura americana migliore è impregnata del mistero della morte, in tutte le sue possibili forme, Cormac McCarthy ne è stato forse il cantore più coerente e inflessibile.
Morte per violenza, soprattutto, ma anche morte come fine di tutto: di una vita, di un ciclo, di un mondo, talvolta, come in Non è un paese per vecchi, del senso e di qualsiasi tentativo di dare un significato alle azioni degli uomini.

In un mondo che, invece, ha cercato di allontanare da sé la morte, pur producendola in maniera esagerata, continua e con qualsiasi mezzo, trasformandola narrativamente in un accidente, magari irrimediabile, ma pur sempre tale. Un intoppo nel percorso di vite destinate all’eternità non solo spirituale ma anche fisica e alla realizzazione di sé attraverso il consumo e la produzione di ricchezza (quest’ultima decisamente meno egualitaria della morte che, almeno e nonostante gli sforzi di conservazione criogenica della carcassa individuale, in attesa di un futuro migliore, arriva sempre e comunque per tutti).

Come scriveva già il sottoscritto, qualche anno fa, l’ossessione ricorrente nella maggior parte della migliore letteratura americana certo è

quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna.
Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra costante.
Eppure quanta profondità, quanto nichilismo, quanta disperata solitudine, quanta assenza di qualsiasi forma di salvezza contengono quelle pagine. Dai racconti western di Bret Harte a Mark Twain e da Howard P.Lovecraft a Larry McMurtry, solo per citarne alcuni e di epoche diverse.
L’umorismo della frontiera nascondeva quasi sempre la solitudine dell’uomo sulle Grandi Pianure e, per default, la sua eterna solitudine davanti all’universo e alla morte. Mentre l’orrore cosmico non costituiva altro che il suo logico corollario.
Morte mai consolatoria, come il cattolicesimo, inavvertitamente, ha invece spesso suggerito anche ai romantici più agguerriti della letteratura italiana. Male privo di salvezza che, nella migliore tradizione luterana, non poteva e non potrà mai trovare consolazione in alcunché.
Vite e vicende senza speranza, senza significato, senza via d’uscita o possibilità di redenzione. Da Jim Thompson a David Goodis, dal Charles Bukowski di Pulp alla grandissima, eppur cattolicissima, Flannery O’Connor di Un brav’uomo è difficile da trovare1.

McCarthy ha sempre suonato il controcanto del fasullo vitalismo americano e per fare ciò ha smontato ogni mito, a partire da quello della Frontiera e se Morte e Male costituiscono i due caratteri dominanti della grande letteratura d’oltre oceano, allora Cormac McCarthy ne rappresentato la summa. Non solo epocale o generazionale ma, forse, definitiva, tracciando, romanzo dopo romanzo, la storia della morte americana.

Morte e non Storia, soprattutto degli ultimi due secoli. Quelli di solito più celebrati dalla cinematografia di Hollywood e dalla letteratura mainstream. Quelli che hanno visto liberarsi al massimo le forze produttive degli Stati Uniti e, contemporaneamente, anche la loro più violenta forza distruttrice e la più determinata volontà di dominio e rapina. La morte e il male appunto.

Che in Cormac McCarthy sono tutt’altro che metafisici. Sono ben radicati negli individui e nei loro talvolta diabolici oppure talvolta stupidi o, ancora, talvolta soltanto raffazzonati progetti. Vendicarsi, arricchirsi, levarsi al di sopra degli altri uomini oppure semplicemente cercare di sopravvivere o di “essere giusti”: tutto porta alla morte e con sé, inevitabilmente, il male e il dolore.

Da coloro che cercano di usare a proprio vantaggio lo spietato killer di Non è un paese per vecchi, fino allo sceriffo che rinuncia ad inseguirlo, perché sarebbe soltanto inutile, pericoloso e fallimentare, al killer stesso che sopravvive solo in attesa di portare ancora morte e dolore. Al padre che cerca di proteggere il figlio dai pericoli di un mondo già morto nel romanzo La strada; da Meridiano di sangue, ambientato alla metà dell’ottocento, in poi tutto traccia soltanto il declino, privo di qualsiasi ascesa precedente, del sogno americano. Che, in sostanza, finisce per rivelarsi soltanto per quello che è: un lungo incubo e nient’altro.

Come afferma Malkina, la dark lady di origine argentina che si staglia al centro della vicenda di The counselor (Il procuratore, Einaudi 2013), mentre confessa provocatoriamente i propri impulsi sessuali irrefrenabili ad un parroco vile e spaurito, esaltando la grazia e la bellezza e la ferocia dei grandi felini.

Vedere la selvaggina ammazzata con eleganza mi tocca profondamente […] Una cosa del genere è sempre sessuale. Ma la grazia . La libertà. Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessuna altra parte. Credo che a definirlo non sia tanto quello che è diventato quanto tutto quello che è riuscito a non essere. Non puoi assolutamente distinguere quello che è da quello che fa. E quello che fa è uccidere. Noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Inadatti e impreparati. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Che ci hanno portati qui. La nostra debolezza di cuore rischia di chiuderci gli occhi su tutto questo, ma facendo ciò fa il nostro destino. Forse non sarai d’accordo. Non so. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione2.

D’altra parte la stessa Malkina è in qualche modo prodotto e conseguenza di una narrazione letteraria e politica che nasconde la menzogna e la violenza che sono servite a mantenere inalterato il volto perbenista di una società che dopo aver artificialmente rimosso il Ricordati che devi morire della tradizione latina, muore giorno dopo giorno nel dolore di cui, troppo spesso, è essa stessa causa e di cui non vuole sentir nemmeno parlare e in cui la morte e il male sono portati alle estreme conseguenze, mentre solo chi ha già molto sofferto può tentare di sopravvivere. «Non li ho mai conosciuti i miei genitori. Li hanno buttati giù da un elicottero nell’Oceano Atlantico quando avevo tre anni»3.

Scorrendo tutte le pagine dell’opera di McCarthy, per certi versi unico vero erede del lato più tragico e provocatorio di William Faulkner, non è difficile capire perché, proprio un attimo prima del raggiungimento del successo con il romanzo All the Pretty Horses (1992 – Cavalli selvaggi, Guida 1993 – Einaudi 1996) che vinse il National Book Award nel 1992, tutte le sue opere precedenti (fino ad allora cinque) fossero uscite dal catalogo della Random House nonostante il successo di critica, non accompagnato però da un adeguato risultato nelle vendite e presso il pubblico. Compreso quello che sarebbe stato poi considerato uno dei suoi capolavori, se non proprio il capolavoro, Blood Meridian, del 1985 (Meridiano di sangue, Einaudi 1996).

L’autore americano aveva iniziato la sua carriera nel 1965, all’età di 32 anni. Era un dropout dell’Università del Tennessee, privo di agente letterario, quando aveva sottoposto il dattiloscritto del suo primo romanzo proprio alla Random House. Manoscritto che per puro caso finì sulla scrivania di Albert Erskine, colui che aveva fatto pubblicare Ralph Ellison, Robert Penn Warren e lo scrittore che sembra aver maggiormente ispirato McCarthy: William Faulkner. Erskine apprezzò il “manoscritto” e così la Random House pubblicò il primo romanzo, The Orchard Keeper (Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002), un debutto ruvido, strano e decisamente non commerciale, che però già conteneva alcuni dei temi tipici di tutte le sue opere successive.

Se ne sono andati tutti, ormai. Scappati, banditi nella morte o nell’esilio, perduti, rovinati. Sole e vento percorrono ancora quella terra, per bruciare e scuotere gli alberi, l’erba. Di quella gente non rimane alcuna incarnazione, alcun discendente, alcuna traccia. Sulle labbra della stirpe estranea che ora risiede in quei luoghi, i loro nomi sono mito, leggenda, polvere4.

Eccone qui il primo esempio: il Mito della Frontiera e dei suoi uomini liberi e indipendenti, indifferenti alle leggi del progresso e abitatori di una terra selvaggia non è altro che polvere ancor più che polverosa leggenda. Come si afferma nel risvolto di copertina della prima edizione italiana, le vicende «hanno come sfondo un paesaggio arcaico, descritto con una prosa dalle cadenze bibliche che rimanda alla tradizione faulkneriana. I personaggi di McCarthy convivono con una natura che non ha nulla di idilliaco, ma è capricciosa e ostile proprio come i suoi abitanti.»

Un altro dei temi di McCarthy è infatti proprio la Natura, indifferente al destino degli uomini e alle loro storie e la cui sacralità è definita non dall’idillio, ma dalla sua crudeltà e impenetrabilità. Non a caso gli sfondi più spesso descritti dall’autore non sono quelli di colline e paesaggi ameni, ma piuttosto quelli di deserti soleggiati e ricchi di tempeste di polvere, di rocce granitiche e di pianure riarse dal sole. Per precipitare poi, in uno degli ultimi e più noti romanzi, The Road (2006 – La strada, Einaudi 2007) in uno scenario di ceneri e alberi bruciati. In cui la specie muore insieme al mondo che ha finto di poter dominare, soltanto per distruggerlo.

Erskine smosse mari e monti per promuovere il libro, sollecitando autori come Truman Capote, James Michener e Saul Bellow affinché lo leggessero, ma nonostante questi sforzo promozionale il romanzo vendette poco. Così come il successivo del 1968, Outer Dark (Il buio fuori, Einaudi 1997).

Una storia scandalosa e crudele in cui un giovane insegue la sorella, da cui ha avuto un figlio che lui ha cercato di uccidere subito dopo la nascita, attraverso gli stati del Sud degli Stati Uniti all’inizio del ‘900. Una storia di incesto e povertà cui si sovrappone la violenza di un mondo spietato e, come sempre, tinto di rosso cremisi. Con un epilogo di inimmaginabile crudeltà, come se l’entità che sembrerebbe presiedere nella più totale indifferenza le vicende umane avesse finalmente deciso di svelare il proprio ghigno grondante sangue.

Quando la Random House chiese a McCarthy se avesse qualcuno a cui inviare il suo terzo romanzo, Child of God (1973 – Figlio di Dio, Einaudi 2000) la storia di un assassino seriale e necrofilo che terrorizza una contea del Tennessee, l’autore, con una lettera, rispose: «Ed McMahon del Tonight Show, è un conoscente. Siamo stati a pescare insieme a Bimini la primavera scorsa e poi a bere al Cat Cay (fino a quando è caduto dal molo e hanno dovuto portarlo in aereo a Lauderdale per ricorrere alle cure ospedaliere). Provate a fargli giungere una copia del mio libro. Dovrebbe leggerlo (non come beve, certamente, ma più o meno)5

Quel romanzo, ancora una volta, raccontava il trionfo assoluto del Male, incarnato nella figura di Lester Ballard, uno dei tanti white trash che popolano le catapecchie del Sud rurale, le campagne ferme nel tempo in cui la Storia è scandita dai linciaggi e dalle pubbliche impiccagioni, dove la promiscuità e l’incesto costituiscono la regola, dove la miseria e l’abiezione sommergono qualsiasi forma di società strutturata secondo i canoni della modernità. Un mondo destinato a produrre mostri e su cui sembra campeggiare, come in ogni altro romanzo di McCarthy, l’avviso: No politically correct, please.

Se la casa editrice contattò o meno McMahon non è dato sapere, però anche quel romanzo vendette poco o nulla. Così come il quarto Suttree, pubblicato nel 1979 (Suttree, Einaudi 2009). Romanzo che il critico Stanley Booth definì come il «libro più esilarante di McCarthy, ma anche il più insopportabilmente triste.» Popolato da una schiera di ladri, derelitti, miscredenti, paria, poltroni, furfanti, spilorci, balordi, assassini, giocatori, ruffiani, troie, sgualdrine, briganti, bevitori, ubriaconi, trincatori e quadrincatori, zotici, donnaioli, vagabondi, libertini e debosciati vari.
E’ il mondo di Knoxville, Tennessee, nel 1951 ed è quello in cui vive e sopravvive Cornelius “Buddy” Suttree, il pescatore protagonista delle vicende narrate. L’altra faccia dell’America perbenista narrata dall’immaginario dell’American way of life dunque.

In quell’occasione l’autore aveva ottenuto il riconoscimento di autorevoli premi letterari e borse di studio finanziate dall’American Academy of Arts and Letters, dalla Fondazione Guggenheim e dalla Fondazione Rockfeller, mentre nel 1981 ne ottenne anche una dalla MacArthur che, come avrebbe scritto ad un amico, rappresentava una piccola “manna” che gli avrebbe permesso «di rimanere nel “business” ancora per un po’.»

Nel 1976 si era trasferito a El Paso dove si sarebbe in seguito documentato e avrebbe iniziato a scrivere il suo quinto romanzo, Blood Meridian. Un libro violentissimo, l’unico in cui compaiano i nativi americani colti nel momento in cui guerreggiano selvaggiamente contro i bianchi che invadono i loro territori sempre più in profondità e mentre un branco di mercenari, comandati da uno dei personaggi più infernali usciti dalla mente di McCarthy, il giudice, scorrazza sulle pianure del Texas e del Sud-ovest, uccidendo e scalpando i membri delle tribù distribuite a cavallo del confine tra Stati Uniti e Messico.

E’ la storia di un ragazzo che a quattordici anni lascia la casa paterna nel Tennessee e si dirige avventurosamente, disperatamente, coraggiosamente e incoscientemente verso l’Ovest, verso il West. Ma il lettore non si aspetti un romanzo di formazione. L’America, come avverrà poi nel terzo e ultimo romanzo della trilogia della Frontiera, Cities of the Plain (1998 – Città della pianura, Einaudi 1999), non cresce o educa i suoi figli: li divora. In Vietnam come in tante altre inutili guerre ai confini del suo impero, negli slums delle metropoli come sulle pianure secche e aride del West. Tom Sawyer in un romanzo di McCarthy non avrebbe mai avuto il tempo di diventare saggio o adulto, avrebbe avuto soltanto il tempo di morire. Possibilmente in maniera ingiusta e violenta.

E anche i nativi non sono da cartolina. Non sono soltanto pacifici rappresentanti di un mondo in estinzione davanti all’avanzata dell’uomo bianco. Non espongono la bandiera a stelle e strisce come avviene in Soldato blu6 nel tentativo di non essere massacrati. Combattono, aggrediscono, uccidono, scalpano e stuprano (anche le “giacche blu”), riservando ai bianchi ciò che questi ultimi hanno perpetrato su di loro. Non per nulla Blood Meridian è stato definito, dal critico statunitense Harold Bloom, come «il western definitivo».

La brigata intanto si era fermata e vennero sparati i primi colpi e il fumo grigio dei fucili ondeggiò tra la polvere mentre i lancieri rompevano le file. Il ragazzo sentì il cavallo crollare sotto di sé con un lungo sospiro compresso. Aveva già fatto fuoco col suo fucile e adesso si sedette a terra e armeggiò con la giberna.[…] Dappertutto c’erano cavalli a terra e uomini carponi, e ne vide uno intento a caricare il fucile col sangue che gli colava dalle orecchie, e vide uomini col revolver smontato che cercavano di infilare al posto giusto il tamburo di riserva carico di pallottole, e vide uomini i ginocchio che si piegavano di lato ad abbracciare la propria ombra sul terreno, e vide uomini infilzati dalle lance e afferrati per i capelli e scalpati in piedi, e vide i cavalli da combattimento calpestare i caduti e un piccolo pony dal muso bianco con un occhio chiuso emerse dal buio e cercò di morderlo come un cane e poi scomparve7.

E’ sempre una scrittura visionaria quella dell’autore statunitense, in questo senso biblica per la forza delle immagini che sembrano andare in sovrimpressione, soprattutto nella mente di chi legge. Ma nonostante ciò, o forse proprio in virtù di tutto questo, anche il quinto romanzo vendette poco, o nulla. Così a partire dalla seconda metà degli anni ’80 le prospettive di carriera dello scrittore si annunciavano ormai come tetre e desolate.

Nel 1987 Erskine lasciò il suo posto alla Random House per andare in pensione e McCarthy, nel 1989, ebbe modo di scrivere ad un amico: «Sono stato uno scrittore professionale per 28 anni e non ho mai ricevuto un assegno per i diritti d’autore. Penso sia davvero un record.» Ciò significava, al di là dei riconoscimenti ricevuti e della successiva fortuna editoriale, che lo stesso avrebbe dovuto cambiare il modo di presentare i suoi libri agli editori. Soprattutto dopo il ritiro di Erskine.

E così fu. In un contesto in cui le grandi corporation, proprio a partire dagli anni Ottanta, avevano iniziato ad assorbire un grande numero di case editrici, grandi, medie e piccole, che erano state messe in ginocchio dall’aumento dei prezzi determinato dall’inflazione degli anni settanta che a parità di salari aveva fatto sì che il costo dei libri aumentasse e i lettori diminuissero. Da lì in avanti alla direzione delle case editrici più grandi furono messi uomini che non venivano dalla “letteratura” (come agenti o editori), ma dal marketing,

Nel frattempo McCarthy aveva scritto a Lynn Nesbit (che rappresentava, tra i tanti altri, autori come Joan Didion, Toni Morrison e Tom Wolfe) in cerca di un agente. Per farlo, le aveva scritto le seguenti parole: «Non ho mai avuto un agente prima d’ora, ma penso che sia giunto il momento di averlo e così, se è interessata a parlarmi, può chiamarmi prima di mezzogiorno, ora delle Montagne Rocciose (Rocky Mountain time).»

La Nesbit passò la lettera ad una sua protetta, Amanda “Binky” Urban, che aveva letto Suttree e lo aveva trovato stupefacente. Così Amanda Urban prese in carico lo scrittore e progettò il suo passaggio dalla Random House alla Knopf, dove un nuovo direttore editoriale, Sonny Metha, aveva bisogno di un buon colpo iniziale. Quando la Urban gli propose McCarthy, stimato borsista della MacArthur che però non aveva ancora venduto, con un francesismo, un cazzo, Metha rispose: «Già lo amo».

La stessa Urban, in seguito, avrebbe affermato: «Non potevo credere di stare per prendere in mano il telefono e chiamare un autore che fino ad allora aveva venduto al massimo 2500 copie». Ma in quel frangente si aprirono le porte del successo per Mc Carthy, con il romanzo Cavalli selvaggi, che non è certo tra i suoi migliori, ma da cui fu tratta una versione cinematografica, anch’essa risibile rispetto a quelle tratte da La strada e Non è un paese per vecchi, interpretata da un giovane Matt Damon.

Romanzo che apriva però quella trilogia della frontiera cui si è già accennato e di cui il secondo, The crossing (1994 – Oltre il confine, Einaudi 1995), costituisce forse la summa della visione tragica e nichilista della vita contenuta in tutta la sua opera. Ancora una volta la storia di un giovane, Billy Parham, che lascia la casa di famiglia per addentrarsi, alle soglie del secondo conflitto mondiale, “oltre il confine” nel Messico. Tra deserti, montagne, cavalli, fantasmi di uomini e rivoluzioni, fotografie sbiadite e zingari alla ricerca dei proprietari delle stesse perché si riconoscano prima di svanire anche loro nel tempo o più semplicemente nel nulla.

A farla da padrone è ancora una volta il paesaggio metafisico, ma concretissimo, che assume il ruolo di testimone muto e spietato che vedrà due fratelli cercarsi, perdersi, trovarsi e perdersi ancora su un confine, quello del Sud-ovest, che più che una linea divisoria tra gli stati sembra tracciare quella tra tra il mondo reale e quello narrato, tra la Vita e la Morte, l’Essere e il Nulla.

Dovevano ancora venire altri romanzi, tutti di successo soprattutto negli Stati Uniti, ma già in un’intervista dl 1992, rilasciata al settimanale tedesco «Der Spiegel», McCarthy avrebbe dichiarato: «Le classifiche dei bestseller non hanno nulla a che fare con la letteratura. Ha mai guardato i titoli che sono in classifica? Pensa che sia lusinghiero essere in quella compagnia?». E poi, a proposito dell’America: «Più di ogni altro paese sulla terra, l’America è una provvisorietà. Un’invenzione senza storia». In quell’occasione l’intervistatore ebbe modo di osservare come l’autore, che abitava ancora a El Paso «dove la città dei morti sembra provvisoria come la città dei vivi:

E’ affascinato dalla prospettiva in cui l’astrofisica colloca la storia umana, l’insensato arrancare dell’umanità e la sua sofferenza. Ci sono molti elementi che suggeriscono, dice, che l’esperimento umano sarà presto finito. E stranamente, come i predicatori dei suoi romanzi, Cormac McCarthy è un moralista. Meno fanatico, più rassegnato. Quando parla di sventura, non parla di catastrofi ecologiche o economiche, ma della morte interiore dell’uomo, della morte del significato. «Come si può vivere senza morale?», dice ad un certo punto.[…] Ha sottotitolato il suo romanzo Meridiano di sangue il “rosso della sera dell’Occidente”, un libro che, come i dipinti di Hieronymus Bosch, fornisce metafore per la caduta dell’umanità8.

Certo un moralista, come lo sono stati Leopardi o Céline, eccessivi perché perfettamente consci della condizione umana e delle menzogne di un secol superbo e sciocco. Consci che l’ingiustizia, la violenza, il dolore fanno parte di tale condizione e che non saranno le fregnacce liberali, new age, politically correct e della cancel culture (tutte varianti di un unico perbenismo già morto e sepolto) a modificarla. Anzi tali fregnacce son proprio ciò che è necessario continuare a diffonder per nascondere la realtà. Non a caso uno (Céline) è stato demonizzato, l’altro (Leopardi) sminuito a pessimista gobbo e quasi cieco e Mc Carthy spesso inquadrato in un canone americano di difesa di valori che non ha mai sicuramente apprezzato.

Proprio per questi motivi, in tempi di guerra e di crisi autentica dell’Occidente e dei suoi “valori fondativi”, è consigliabile che il lettore non si adagi sulle false sicurezze e le false speranze, distribuite a piene mani sia da destra che da sinistra, e faccia piuttosto un salto di paradigma iniziando subito a sprofondarsi nella lettura dell’opera di McCarthy. Possibilmente integrale.


  1. qui  

  2. C. McCarthy, The counselorIl Procuratore, Einaudi 2013, pp. 114 – 115  

  3. op. cit., pag. 51  

  4. C. McCarthy, Il guardiano del frutteto, Einaudi 2002  

  5. Fonte: Dan Sinykin, A career that couldn’t happen now, The New York Times International Edition, 21 giugno 2023  

  6. Soldier Blue è un film statunitense del 1970, diretto da Ralph Nelson e liberamente ispirato al romanzo storico di Theodore V. Olsen, Arrow in the Sun, anch’esso liberamente ispirato ai reali eventi del massacro di Sand Creek del 1864.  

  7. C. McCarthy, Meridiano di sangue, Einaudi 1996, pp. 56-57  

  8. «Der Spiegel», 30 agosto 1992  

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Simenon: la maschera e il vuoto https://www.carmillaonline.com/2023/03/08/la-maschera-del-vuoto/ Wed, 08 Mar 2023 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76239 di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare per generi e sottogeneri, è stato ricordato e/o celebrato soltanto per i 75 romanzi e i 28 racconti (scritti e pubblicati tra il 1931 e il 1972) che vedono come protagonista il celebre commissario Jules Maigret.

In realtà Simenon, autore tra i più prolifici, ha scritto, spesso utilizzando numerosi e svariati pseudonimi per poter pubblicare in contemporanea presso differenti editori, centinaia di romanzi e racconti che fuoriescono dal ciclo del commissario francese. Romanzi che spaziano tra storie d’ambiente piccolo borghese, se non proletario, e altre ambientate tra la ricca borghesia, sia della ville lumière che della provincia profonda della Francia del XX secolo. Con qualche deviazione spaziale verso il Belgio, in cui Simenon era nato, e altre parti del mondo.

Storie che, come vedremo anche a proposito del romanzo qui recensito, sono ascrivibili nella maggioranza dei casi al noir più classico, senza per forza con ciò voler definire un genere specifico di appartenenza. Piuttosto l’uso del termine serve, in questo caso, a delineare un ambiente psicologico e morale, prima ancora che sociale.

Tanto si è dibattuto nel corso degli ultimi decenni sulla sostituzione del romanzo realistico e sociale avvenuta per mezzo dei romanzi noir, ma anche se ciò è sicuramente vero, è vero altrettanto che non per questo i romanzi dall’anima nera debbano per forza descrivere ambienti sociali degradati economicamente (le periferie delle metropoli o la Marsiglia di Jean-Claude Izzo ad esempio) o le perverse trame del potere politico ed economico (come avviene nei romanzi di Dominique Manotti o Massimo Carlotto) oppure, ancora, gli ambienti e gli affari della “mala” (descritti puntualmente da André Héléna, Léo Malet o Auguste Le Breton).

Simenon ci guida a comprendere che il male del noir pur essendo, come del resto tutto, un prodotto sociale, può annidarsi ovunque. Come capita in questo romanzo, pubblicato originariamente nel 1960, che narra le vicende e l’inverno dello scontento di Jean Chabot: ginecologo di fama, comproprietario di una clinica per puerpere benestanti e responsabile della Maternità di Port-Royal, un appartamento di dodici stanze al Bois de Boulogne, una moglie, tre figli e una segretaria-amante, Viviane, che si è assunta il compito di «evitargli ogni minima seccatura».

Eppure, eppure…
Lo scontento e l’amarezza sono filtrati nella sua vita. Un goccio alla volta oppure per vaste crepe che sono andate aprendosi sempre più nel suo animo, soprattutto dopo l’aver appreso della morte per suicidio di una giovanissima inserviente della clinica, “l’orsacchiotto” del titolo, di cui lui aveva approfittato sessualmente diverse volte durante i lunghi turni di notte nella stessa, tra l’urgenza di un parto e quello successivo.

Ma non è un rimestamento morale legato al senso di colpa quello che accompagnerà il protagonista fino alle ultime, drammatiche pagine delle vicende narrate. No, sarebbe troppo semplice, soprattutto per un autore come Simenon, attento osservatore dei vizi privati e pubblici, altrui e propri.
Al massimo la scomparsa della giovane affogatasi nella Senna, dopo aver saputo di essere incinta e dopo esser stata cacciata dalla stessa clinica rimanendo senza lavoro, può costituire per Chabot una lieve riverniciatura di moralità e un blando senso di colpa destinati a mascherare il ben più profondo malessere che si annida nell’animo di un uomo che pur si è autenticamente fatto da sé.

E non costituisce un vero problema nemmeno l’enigmatica figura di un giovane, probabilmente coetaneo, fratello o amante, della giovane suicida, che perseguita il professore lasciando sul parabrezza della sua automobile dei biglietti sgrammaticati su cui sono scritte, solo e sempre, tre parole: «Io ti uciderò».
No, la vendetta dal basso non può preoccupare e non può spaventare un uomo che si sente morto da tempo. In cui anche i rapporti sessuali sono vissuti come compulsivi, destinati soltanto a riempire un vuoto esistenziale incolmabile.

Aveva preso dei farmaci. Li aveva provati tutti. Aveva persino cercato di distrarsi facendo sesso in modo compulsivo, e per un certo periodo non aveva fatto che andare a donne, approfittando di infermiere compiacenti, e due o tre volte di pazienti che si offrivano, il che gli aveva complicato l’esistenza. Questo era durato fino a Viviane e ogni tanto, se andava in crisi, ci ricascava1.

Vi è indubbiamente molto dell’autore, come per ogni scrittore che meriti davvero questo appellativo, nella figura di Chabot e, forse, proprio per questo Simenon riesce a portarci al cuore di ogni scontento, di ogni male, alla causa ultima di ogni azione registrata in un noir. Il vuoto dell’alienazione che scorre sul fondo della psiche, in maniera conscia o non conscia non importa ai fini dell’analisi ultima, di ogni individuo, maschio o femmina che sia. Insomma, parafrasando insieme Hannah Arendt e Raoul Vaneigem, “la quotidianità e la banalità del male”.

Alienazione che è sicuramente sociale e che è più profonda di qualsiasi semplice causa economica o politica. Nelle pagine dell’autore belga, così come in tutto questo romanzo, la separazione dell’individuo da se stesso e dalla sua vita, o da quella che egli riterrebbe dover esser tale, è totale.
Ed è totale proprio perché il protagonista, ma insieme a lui qualsiasi altro membro, grande o piccolo, del milieu cui appartiene, tutto sommato non sa con sicurezza cosa sia la sua “vera” vita e, soprattutto, cosa davvero vorrebbe al posto di ciò che già ha, o non ha.

Chabot stava dunque fingendo? Il proprio viso lo affascinava. Continuando a guardarsi, levò il bicchiere e lo vuotò d’un fiato, con una smorfia sulle labbra.
Poi, tanto per vedere, per rendersi conto, lentamente tirò fuori di tasca la pistola, più lentamente ancora ne portò la canna alla tempia, l’appoggiò come si appoggia la lingua su un dente che duole.
Evitò di toccare il grilletto. Non aveva intenzione di sparare. Voleva solo fare una prova e, adesso che aveva fatto il gesto, credeva di sapere. Meglio non continuare, non indugiare lì nello studio; l’immagine successiva era il «dopo», con il suo corpo sul pavimento.
Rimise l’arma in tasca, la bottiglia nell’armadio e andò a prendere cappello e cappotto nel guardaroba. In boulevard de Courcelles non si cenava prima delle nove. Per il caffè, non occorreva arrivare prima delle dieci2.

Come teorizzava Anton Čechov a proposito del teatro, se un’arma compare nel corso delle vicende prima o poi sparerà e starà soltanto al lettore scoprire dove, quando e contro chi o cosa.
E’ «l’uomo nudo» quello di cui ci parla Simenon nei suoi romanzi. Nudo davanti a se stesso, prima di tutto, poiché, pirandellianamente, tutto sommato la società gli fornisce un’abbondanza di maschere dietro cui nascondere l’alienazione che lo pervade completamente.

Funziona la scrittura di Simenon, sia sul piano narrativo, secca e spogliata di qualsiasi banalità o parola non necessaria, ma soprattutto come “guida” al noir, di cui rivela implacabilmente come il male, che può nascondersi in ognuno e in ogni vicenda umana, non ha bisogno di complicate trame e complotti per esplodere e manifestarsi. E neppure ha bisogno di esser compreso attraverso descrizioni minuziose di ambienti degradati che finiscono col giustificarne le azioni e le esplosioni.

No, per Simenon basta la vita di ogni giorno.
E questa è la sua lezione più importante, dai romanzi di Maigret a tutti gli altri.
Compreso, naturalmente, quest’ultimo.


  1. G. Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, p. 83  

  2. G. Simenon, op. cit., p. 85  

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Ricordi di guerre passate (e future) https://www.carmillaonline.com/2023/02/16/souvenir-di-guerre-passate-e-future/ Thu, 16 Feb 2023 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76018 di Sandro Moiso

Edgar Morin, Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 106, euro 12,00

Alla veneranda età di 101 anni, Edgar Morin ci regala un agile e allo stesso profondo libello sul tema della guerra, mettendo in guardia i lettori dall’assumere troppo facilmente posizioni favorevoli a questo o quel fronteI. Posizione non determinata dall’opportunismo ma, piuttosto, dall’esperienza di una lunga vita che svolgendosi lungo quasi tutto l’arco del XX secolo e in questo primo ventennio del XXI gli ha permesso di valutare con quanta [...]]]> di Sandro Moiso

Edgar Morin, Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 106, euro 12,00

Alla veneranda età di 101 anni, Edgar Morin ci regala un agile e allo stesso profondo libello sul tema della guerra, mettendo in guardia i lettori dall’assumere troppo facilmente posizioni favorevoli a questo o quel fronteI. Posizione non determinata dall’opportunismo ma, piuttosto, dall’esperienza di una lunga vita che svolgendosi lungo quasi tutto l’arco del XX secolo e in questo primo ventennio del XXI gli ha permesso di valutare con quanta fretta e superficialità siano state troppe volte avvallate e nascoste le violenze inumane dei belligeranti, accettando spiegazioni legate alla superiorità morale, razziale o politica delle varie parti in causa.

E’ un testo che vuol indurre il lettore a comprendere come la guerra, da chiunque sia condotta e qualunque sia la causa o il fattore scatenante finisca col trasformarsi sempre, o quasi, in una serie di crimini contro l’umanità che non dipendono soltanto da caratteristiche specifiche (culturali, politiche, religiose o altre) delle forze in campo, ma proprio dall’uso della violenza. Soprattutto là dove questa, lasciata libera di esprimersi al suo massimo grado, si auto-giustifica attraverso un discorso valoriale che spesso funge da spiegazione ex-post della barbarie messa in campo e delle atrocità commesse.

Così l’autore, definito da Mauro Ceruti nella Prefazione al testo come «uno dei pensatori più importanti del nostro tempo, un’autorità intellettuale e morale riconosciuta in tutto il mondo», nel suo excursus che, come afferma il sottotitolo, va dalla Seconda guerra mondiale alla carneficina attuale, non tralasciando affatto la guerra d’Algeria, quelle balcaniche degli anni ?90 del secolo appena trascorso, le infinite diatribe e i crudeli conflitti mediorientali, non si risparmia nel cercare e citare esempi, contraddizioni ed episodi o personalità che posano dimostrare come anche le cause spacciate per buone possano aver causato distruzioni, massacri e sofferenze (sia per i civili che per i militari) che costituiscono giganteschi scheletri nascosti negli armadi della memoria dei vincitori e che in quanto tali intendono passare alla Storia come i rappresentanti e i difensori della “giusta causa”, qualunque essa sia.

Morin afferma che i bombardamenti attuali sul fronte ucraina han fatto riemergere in lui «la coscienza della barbarie dei bombardamenti compiuti in nome della civiltà contro la barbarie nazista» nel corso della seconda carneficina mondiale.

Il primo bombardamento aereo in Europa per terrorizzare le popolazioni civili fu quello della Luftwaffe che annientò Rotterdam nel maggio del 1940.Fu seguito dai bombardamenti a tappeto di Londra durante l’estate del 1940 […] Poi ci furono i bombardamenti alleati sulle città tedesche.
Mentre ero assegnato allo Stato maggiore della prima armata comandata da de Lattre de Tassigny, mi recai a Pforzheim e provai un orrore che rapidamente trattenni, dicendomi: “E’ la guerra”.
Effettivamente, nel febbraio del 1945, tre mesi prima della capitolazione di una Germania già vinta, la cittadina di Pforzheim fu totalmente distrutta da un raid di 367 bombardieri della Royal Air Force. L’83 per cento degli edifici fu distrutto, 17.000 civili, cioè un terzo della sua popolazione, furono uccisi; ci furono altrettanti feriti.
Ho visto Karlsruhe e Mannheim, completamente devastate dai bombardamenti americani, poi Amburgo ugualmente distrutta, e infine Berlino, che attraversai da una parte all’altra nel giugno del 1945 fra le rovine accumulate dai bombardamenti a tappeto americani e i colpi massicci dell’artiglieria sovietica.
Poi appresi che, il 13 e il 14 febbraio di quello stesso anno, 1300 bombardieri inglesi e americani avevano annientato la città d’arte demilitarizzata di Dresda, riversando 2430 tonnellate di bombe incendiarie e facendo, secondo una valutazione della Croce Rossa, più di 300.000 morti.
Tutto ciò mi impressionava fortemente, ma l’orrore del nazismo e dei suoi abomini nei paesi europei, e soprattutto nell’URSS, occultava a noi resistenti e antinazisti l’orrore dei bombardamenti per terrorizzare le popolazioni civili, che distruggevano città intere, colpendo donne, bambini. anziani più che i combattenti. Aggiungiamo che in occasione dello sbarco alleato in Normandia, il 60 per cento dei morti civili normanni fu dovuto ai bombardamenti liberatori1.

La “buona causa” spesso nasconda e giustifica l’orrore e le sofferenze causate al nemico, anche quando questo tale non è nella sostanza. Ma anche là dove il nemico si manifesta in quanto tale l’abuo della violenza e della forza non può portare certamente a nulla di buono. Qualunque sia la narrazione che se ne fa, Qualunque sia la motivazione che la sostiene.
A questo dovremmo pensare quando Putin parla di denazificare l’Ucraima oppure sentiamo dire a Zelensky che l’Ucraina insieme ai suoi alleati “sconfiggerà il Male e cambierà il mondo” durante il suo viaggio a Londra. Tra l’altro ci sarebbe anche da chiedersi in che senso sarà cambiato il mondo, soprattutto ricordando altri episodi del secolo passato ricordati da Morin nel suo testo.

Se il nazismo fu giustamente giudicato e condannato nel processo di Norimberga, questo occultava ipso facto i crimini dello stalinismo, e ciò tanto più perché uno dei procuratoti di quel tribunale fu Andrej Vyšinskij, già procuratore dei processi di Mosca del 1935-1937, che condannò non solo a morte, ma anche all’abiezione le vittime innocenti delle sue false accuse di tradimento e di spionaggio. […] E così come occultammo la barbarie dei bombardamenti americani, occultammo quella dello stalinismo: l’orrore dei campi hitleriani che scoprimmo sul posto ci impedì di vedere o ci fece ignorare l’orrore del Gulag sovietico2

E’ una testimonianza sofferta quella del pensatore francese che, nel corso del centinaio di pagine che la riassumono, si preoccupa soprattutto di far riflettere sulla guerra in tutte le sue forme e attraverso tutte le bugie che la mascherano e la giustificano. Un tentativo di suggerire motivazioni per la ricerca della pace attraverso il rifiuto di qualsiasi facile formula propagandistica. Ovvero di tutte quelle false verità, del genere più svariato e dalle infinite motivazioni, che oggi lastricano ancora la strada per l’inferno.

Così come sembravano già promettere le parole di Jens Stoltenberg, Segretario Generale della Nato, pronunciate nei primi giorni di febbraio a Washington, dove si trovava per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e per un vertice al Pentagono con il Segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, definendo rigidamente i fronti di appartenenza secondo la manichea divisione tra Bene e Male.

“Dobbiamo essere preparati per un lungo periodo e restare con l’Ucraina per tutto il tempo necessario. Se il presidente Putin vincesse in Ucraina, sarebbe una tragedia per gli ucraini, ma anche una situazione pericolosa per tutti, perché manderebbe il messaggio ai leader autoritari, non solo al presidente Putin, ma anche in Asia e in altri luoghi, che quando usano la forza militare possono raggiungere i loro obiettivi. E questo renderebbe il mondo più pericoloso e più vulnerabile”.


  1. E. Morin, Di guerra in guerra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 17-19.  

  2. E. Morin, cit., pp.22-23.  

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Un enigma letterario: la trilogia di Gormenghast https://www.carmillaonline.com/2023/01/17/un-enigma-letterario-prime-riflessioni-sul-tito-di-gormenghast-di-mervyn-peake/ Tue, 17 Jan 2023 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75520 di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].» «Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto. […] [...]]]> di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].»
«Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto.
[…] «E ora fammi vedere mio figlio» disse il Conte, lentamente.
«Mio figlio Tito. È vero che è brutto?» (Tito di Gormenghast – Mervyn Peake)

E’ un paesaggio a dir poco desolato quello che circonda il castello dei Conti de’ Lamenti, dominato dall’aspro e altissimo monte Gormenghast e costituito da lande in cui dominano la polvere e la pietra oppure terreni paludosi sconfinati e in cui la vegetazione è costituita da cactus, foreste di rovi impenetrabili e boschi di alberi ritorti e minacciosi. Lo stesso castello millenario che prende il nome dal monte soprastante sembra costituire, con la sua struttura labirintica e tentacolare definita da secoli di bizzarrie architettoniche volute da settantasei generazioni della stessa famiglia nobiliare, una diretta emanazione e continuazione delle rocce e delle cavità che caratterizzano la montagna.

Gli abitanti del gigantesco maniero sono tutti grotteschi nelle movenze e nell’aspetto, sia che si tratti dei rappresentanti della aristocratica famiglia che dei servitori. Storpi, magrissimi, gobbi, grassi oltre ogni dire, deformi oppure dotati di nasi lunghissimi e volti equini. Portatori, tutti, delle stimmate del proprio egoismo incise nelle posture assunte e nel fisico. Il conte Sepulcrio e la gigantesca contessa Gertrude, la figlia pre-adolescente Fucsia e le zie gemelle, sorelle del conte, Clarice e Cora; la piagnucolosa balia settuagenaria Mamma Stoppa, il segaligno e torto (nel corpo e nell’animo) maggiordomo Lisca, il grasso sadico e perverso capo-cuoco Sugna, il dottor Floristrazio e la sorella Irma, insieme all’autentica anima nera rappresentata dal giovane Ferraguzzo, ragazzo di cucina che grazie alla sua mente perspicace e freddamente calcolatrice scala le più infide e infime trame delle gerarchie di un mondo che non vuole conoscere e riconoscere altro da sé. Tutti intenti a danzare un mostruoso e sgraziato minuetto ritmato da regole e leggi, riti e doveri improbabili che soltanto il vecchissimo Agrimonio, maestro di cerimonie, e successivamente il figlio Barbacane, zoppo e perennemente in guerra con tutti coloro che lo circondano, conoscono e dettano quotidianamente. Al Conte e a tutta la servitù.

Ma anche gli abitanti del piccolo e malsano borgo che si è sviluppato vicino alle pareti e alle rocce del castello non sono da meno. L’unica loro attività sembra essere quella di intagliatori di sculture di legno, attività artigianale riservata esclusivamente agli individui di sesso maschile che viene valutata annualmente dal Conte stesso e premiata con l’esposizione delle opere migliori in una galleria dimenticata del castello, e mai visitata da nessuno, custodita dal sonnolento e indolente Stoccafisso. Uomini e donne del borgo conservano però una certa grazia e bellezza fino al compimento del diciannovesimo anno di età, momento in cui la pelle incartapecorisce e la bruttezza della vecchiaia prende il posto dell’aura della giovinezza.

Tra gli stessi non vi è nessuna forma di comunitarismo, se non quello rappresentato dalla dipendenza dal castello e dai suoi nobili proprietari. Anzi la rivalità, sul piano artistico e personale può raggiungere livelli di odio e violenza abissali. Come dimostra la vicenda di Keda la, momentaneamente, bella e giovane vedova del più famoso, e vecchio, scultore del borgo senza nome, divisa tra l’amore per due giovani e abili intagliatori rivali, Rantel e Braigon. Un triangolo amoroso destinato ad una drammatica e sanguinosa conclusione. Anche se una bimba, partorita in seguito da Keda, ne rappresenterà il frutto dopo la tragica scomparsa dell’ormai invecchiata madre.

Nella Presentazione anteposta all’attuale edizione italiana della trilogia, Anthony Burgess1 avverte i lettori che «sarebbe pericoloso scandagliare troppo a fondo in Titus Groan (Tito di Gormenghast nella traduzione italiana – NdR) alla ricerca dell’allegoria. Esso rimane sostanzialmente il frutto di una fantasia chiusa in se stessa dove l’evocazione di un mondo parallelo al nostro è condotta con uno spessore di dettagli quasi paranoico»2.
Eppure, eppure…

Forte rimane la tentazione di interpretare il gotico sogno di uno scrittore, Mervyn Peake (1911- 1968)3, tormentato per gran parte della vita da depressioni e crisi che lo avrebbero progressivamente portato all’irreversibile malattia mentale e alla morte, in chiave simbolica e allegorica, anche perché la monumentale trilogia del “mondo” di Gormeghast e il suo giovane principe Tito, può davvero essere considerata come uno degli enigmi della letteratura fantastica del Novecento. Il cui motivo del contendere non è offerto soltanto dalle numerose e svariate interpretazioni che è possibile dare di un testo che considerare labirintico è ancora troppo poco e la cui scrittura dipinge sotto gli occhi del lettore strati su strati di situazioni rinviabili ad infiniti tòpoi, personaggi e situazioni della letteratura gotica, grottesca o orrorifica.

L’impressione che se ne ricava a prima vista è di una scrittura ‘gotica’, ma il termine è inadeguato. Leggendo Titus Groan abbiamo l’impressione di imbatterci, a ogni piè sospinto, in indizi che potrebbero portarci a intravvedere la luce di un genere letterario, ma ogni volta finiamo col dover riconoscere che la pista è falsa. Prendiamo i nomi dei personaggi: tutti starebbero benissimo in un romanzo di Dickens o in un racconto umoristico per bambini. Nomi comici, dunque, ma di una comicità che rifiuta sia la facile risata sia la levità del fantastico: la massiccia corposità architettonica tiene tutto ben ancorato a terra e, a dispetto dei nomi, il lettore dovrà prendere i personaggi molto sul serio4.

E la stessa difficile collocazione dell’opera (Fantasy? Gotica? Diario indiretto di una “lucida” e progressiva follia? Espressione del malessere di un secolo, il Novecento, che già Kafka aveva anticipato?) a costituire una parte dell’enigma. Difficoltà data sia dalla sua struttura che dal progressivo peggioramento delle condizioni della salute mentale del suo autore sia, ancora, dal suo inserimento in un catalogo, quello di Adelphi, voluta da Roberto Calasso, un intellettuale magmatico e controverso, che nel corso di un cinquantennio ha fatto conoscere ai lettori italiani titoli e autori, spesso osteggiati da altri editori oppure dalle consorterie politico-culturali cattoliche e tardo zdanoviste o, ancora, fasciste.

Autori che spesso praticavano una letteratura di carattere fantastico, passando per il noir, la fantascienza di Theodor Sturgeon, la letteratura americana del Sud immaginato e descritto da William Faulkner, le opere di Antonin Artaud e Nietzche, la Mitteleuropa di Joseph Roth e Karl Kraus, le grandi mitologie e religioni, il nichilismo e i testi iniziatici (o supposti tali). Un direttore e un indirizzo editoriale che è stato sempre poco amato, se non apertamente osteggiato, sia dalle correnti estreme della Destra politica e cattolica che dalla Sinistra osservante dell’ortodossia più dogmatica e d’antan.
Lasciamo, però, ancora una volta che a parlare sia Anthony Burgess:

Titus Groan, primo volume di una trilogia, apparve nel 19465. L’autore aveva trentacinque anni. Le reazioni dei critici furono assai favorevoli, in alcuni casi addirittura entusiastiche. Le avventura del protagonista e l’elaborazione del suo mondo proseguirono in Gormenghast (1950)6 e in Titus Alone (1959)7 i quali però, benché ammirevoli, non erano destinati ad avere la stessa risonanza del primo romanzo: il 1946, anno dell’austerità, era quanto mai ben disposto verso i banchetti a base di fantastico. Ma il successo di critica non significò un vasto successo di pubblico. Titus Groan fu idolatrato, ma solo da pochi fedeli. Il nome di Peake viene citato di rado nelle storie del romanzo contemporaneo.
[…] Peake si è attirato lodi, ma anche sospetti. Le sue opere in prosa non sono di facile classificazione, possiedono la stessa individualità degli scritti di, poniamo, un Peacock o un Lovecraft8.

Sospesi tra le atmosfere delle opere di Franz Kafka (dalla Metamorfosi a Il processo oppure Il castello) e, a tratti del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Ionesco, dando vita ad un universo in cui non esistono il Bene e il Male e nemmeno un Dio, ma in cui a valere sono soltanto i riti, le tradizioni e le regole che si tramandano di generazione in generazione, divenendo sempre più assurde e incomprensibili ma pur sempre irrinunciabili per i detentori del Potere e il suo mantenimento, i tre romanzi di Mervyn Peake potrebbero costituire per chi, come il sottoscritto, non ha mai particolarmente amato l’opera di Tolkien, una valida alternativa al Signore degli Anelli, altra monumentale trilogia della letteratura fantasy e fantastica.

A far da contraltare all’opera di J. R. R. Tolkien può contribuire il fatto che in quella di Peake l’eroe è quasi del tutto assente o, perlomeno, al termine del primo romanzo non ha ancora compiuto il secondo anno di età, costituendo per le quattrocentosessanta pagine che lo compongono più un oggetto della storia narrata che il soggetto. Ancor di più, però, a fare del Gormenghast un’alternativa al Lord of the Rings contribuisce il fatto che mentre nel secondo gli eroi devono riportare o ricostruire l’ordine sconvolto dal ritorno di Sauron e del Male che rappresenta, nel primo è proprio l’invadenza e il predominio dell’ordine dato a costituire la causa del disagio e dello scontro tra i diversi interpreti del dramma.

Il mondo di Gormenghast, a differenza della Terra di mezzo, non è un luogo pacifico dove gli appartenenti alle varie razze umane o diversamente umane (elfi, nani, hobbit, uomini) potrebbero, soltanto con un po’di buona volontà, collaborare pacificamente e condurre tranquillamente le loro bonarie (hobbit), scorbutiche (nani) e illuminate (elfi) esistenze a fianco degli uomini se non fosse per il ritorno di un Male antico e odioso, destinato a riportare il buio là dove dovrebbe risplendere soltanto la luce.

No, quello disegnato da Peake è un mondo di conflitti, più o meno malcelati, dove solo la tradizione, le leggi e i riti più antichi possono impedire la “naturale” dissoluzione di un ordine che costituisce non soltanto “una certa qual massiccia corposità architettonica”, ma anche l’intero orizzonte in cui tutti i personaggi si muovono, senza alcun riguardo o curiosità per ciò che potrebbe estendersi oltre i suoi confini.

Non vi è divisione tra Bene e Male nel Titus Groan, non vi è religione o magia se non quella della celebrazione dei riti fini a se stessi. Non c’è sacralità né, tanto meno, un’autorità morale o spirituale superiore, cui far riferimento. Non ci sono neppure una vera scienza o un vero raziocinio, esiste soltanto la Legge, che non è possibile interpretare, ma soltanto seguire. Tanto che la vecchia biblioteca, dove il conte Sepulcrio passa la maggior parte del suo tempo, prima del suo incendio e della sua distruzione, è composta per la maggior parte da testi scritti dagli antenati dello stesso.

Un tempo fermo, apparentemente immobile, che solo Tito potrà forse, un giorno, scuotere o abbandonare. Ma questo al termine del primo romanzo del ciclo non è ancor dato sapere. L’ordine e la pace, in tale contesto, non costituiscono una conquista, ma un”obbligo” noioso e mortifero. Siamo ad anni luce di distanza dall’epica tolkeniana. In un mondo in cui il sole sorge ad est e tramonta a ovest, esiste il petrolio e insieme ad esso molti altri oggetti del viver quotidiano inglese tra XIX e XX secolo.

Il dubbio che sorge, nel lettore, è costituito dal fatto che, al di là di quanto affermato da Burgess nella Presentazione, quella dipinta da Peake sia un’allegoria della società inglese successiva al secondo conflitto mondiale: un ordine che ha perso pezzi importanti del proprio impero, ma che vuole mantenersi immutabile con suoi riti e le sue tradizioni. Come anche i recenti funerali della regina Elisabetta II e la saga infinita della famiglia reale (Carlo ora Carlo III, Diana, Camilla, Harry, Meghan, William e consorte) sembrano ancora confermare (grazie anche alle serie televisive prodotte da Netflix).

Se sia davvero così non è dato sapere con certezza, ma certo la carica nichilista ed eversiva contenuta non soltanto nelle pieghe del romanzo fa sì che lo stesso finisca coll’acquisire un significato devastante nei confronti dei sistemi di potere, anche per l’attuale vigente in un Occidente che non vuole riconoscere ordine altro dal proprio, che lo pone in uno spazio ben diverso e provocatorio rispetto a quello che, anche a sinistra, si è voluto definire per l’opera di Tolkien nel suo insieme. Tanto che anche lo stesso Burgess è costretto ad ammettere che nelle pagine del romanzo:

Dappertutto, anche nei voli più romanticamente fantastici, si sente questa fredda padronanza dell’intelligenza che tiene in vita, come un generatore, il mondo immaginario e ne esclude quello reale. Ma è poi vero che il mondo reale ne sia escluso?
Prima di dare una risposta, occorre ritornare all’anno della pubblicazione di Titus Groan, il primo dopo una guerra lunga e orribile. Il connubio tra lo scheletro di Agrimonio e il teschio di vitello, la zampa del gatto che strappa dalla guancia di Ferraguzzo, sotto l’occhio destro, un «brandello scarlatto», il duello tra Lisca e Sugna nella Sala dei Ragni, non sono i particolari gratuiti di un romanzo gotico quanto piuttosto i riverberi di un’epoca di orrori. Il rogo che distrugge secoli di tradizione e la follia di un conte privato per sempre del sostegno di un rituale sembrano simboleggiare la fine di un ordine di secoli, ma questa volta autentico, storico9.

Allora, soltanto per giungere a una prima conclusione, il vero enigma del Gormenghast sta forse proprio nel chiedersi perché tanta cultura pretesa alternativa o di sinistra abbia speso tanto tempo nel contendere alla destra un ciclo sostanzialmente tradizionale come quello del Signore degli Anelli e abbia tralasciato di prestare attenzione a un ben più feroce e sovversivo esempio di critica dell’ordine esistente come quello rappresentato dal ciclo comunque epico di Peake. Forse perché la tradizione manichea che accomuna certa destra e certa sinistra, con la rigida divisone tra Bene e Male, è destinata ad essere l’ultima a morire? Speriamo, sinceramente, di no.


  1. Anthony Burgess, pseudonimo di John Burgess Wilson (Manchester, 1917 – Londra, 1993), è stato scrittore, critico letterario, poeta, drammaturgo, sceneggiatore, giornalista, saggista e traduttore. E’ considerato uno dei più importanti autori inglesi del secondo dopoguerra e tra le sue opere più significative vanno annoverate: Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1962), Notizie dalla fine del mondo o La fine della storia (The End of the World News: An Entertainment, 1982) e la Trilogia malese (Malaysian trilogy, 1958-1960). Nei suoi romanzi uno dei temi centrali è costituito dall’uomo schiacciato dalla violenza, vittima di condizionamenti ideologici e oppresso dagli apparati dello Stato. Nella Trilogia malese ha descritto il crepuscolo nel quale si è chiusa la dominazione inglese nelle colonie dell’Estremo Oriente.  

  2. A. Burgess, Presentazione in M. Peake, Gormenghast. La Trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, p. 13  

  3. Mervyn Peake fu, oltre che scrittore, poeta, pittore e affermato illustratore di libri per l’infanzia e non soltanto, come dimostra la tavola qui accanto in cui sono raffigurati alcuni personaggi del suo romanzo: Ferraguzzo, Fucsia, Signa e Lisca  

  4. A, Burgess, op. cit., pp. 10-11  

  5. In Italia per la prima volta nel 1981 per Adelphi e con il titolo già precedentemente citato: Tito di Gormenghast  

  6. In Italia: Gormenghast, Adelphi 2005  

  7. In Italia: Via da Gormenghast, Adelphi 2009  

  8. A. Burgess, op. cit., p. 10  

  9. Ibidem, p. 13  

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Estetiche inquiete. Il nero, il punk, il teschio… Processi di estetizzazione del malessere https://www.carmillaonline.com/2020/08/19/estetiche-inquiete-il-nero-il-punk-il-teschio-processi-di-estetizzazione-del-malessere/ Wed, 19 Aug 2020 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61486 di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico [...]]]> di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico si sarebbe nutrito il mondo della moda e del lusso per decadi a venire senza quasi dover muovere un dito per rinnovarsi.» Claudia Attimonelli

Teschi, vampiri, zombie, junkie ed estetica black da tempo sono parte integrante dell’iconografia occidentale. Visto che le scene urbane e mediatiche contemporanee celebrano l’immaginario dell’anomia e del disagio, viene da domandarsi perché male e malessere hanno proliferato nel corso dei secoli al punto da essere oggi percepiti come del tutto ordinari aspetti del quotidiano.

Attraverso gli studi visuali, la mediologia e la sociosemiotica, Claudia Attimonelli, nel suo Estetica del malessere (2020), uscito per la collana Anomalie Urbane, recentemente inaugurata da DeriveApprodi, indaga l’iconografia di tale fenomeno nel solco della schiavitù dei neri (tragica origine), passando in rassegna una serie di produzioni visuali, musicali, vestimentarie e artistiche coinvolte in questo processo di “estetizzazione del malessere” che integra il male nel quotidiano rendendolo innocuo e banale.

In tale scenario nero – segnato da teschi, macchie, sudiciume, malessere, disagio, anomia e morte –, il male, da pericolosamente banale (H. Arendt), per mezzo di un processo di estetizzazione «attraverso subdoli e lusinghieri travestimenti, continua il suo incedere tardo novecentesco, a tratti indolente, altrimenti risoluto, che con determinazione lo fa capillarmente accomodare tra le pieghe confortevoli del malessere comune del nuovo Millennio». (p. 84)

Nei contesti urbani il disagio è da tempo al centro di forme vestimentarie e cosmetiche derivate dall’intrecciarsi di “sprezzatura del lusso” ed elementi “dell’underground”. L’estetica mainstream ha ampiamente saccheggiato la vita disagiata di strada (dalle culture giovanili metropolitane agli homeless), dando luogo a linguaggi che, pur mantenendo traccia del malessere esistenziale, incarnano forme di coolness o di chic. Il mondo della moda ha attinto a piene mani dall’abbigliamento dei clochard – capi oversize, lacerati, macchiati, indossati stratificati uno sull’altro –, dalle fogge militari già détournate dagli street stile, dal nomadismo urbano giovanile e pendolare: ecco allora i vari “clochard couture”, “military chic” e “treveller style”, in un “contagio delle lontananze” in cui si intrecciano esteticamente hipster e pariah.

Il processo di estetizzazione di anomia e margini, oltre che la moda ha investito l’ambito mediale in un imperversare di estetiche postapocalittiche, paesaggi corrotti e scenari estremi: basti pensare al dilagante fenomeno zombie che, soprattutto a partire dal nuovo Millennio, si inserisce all’interno di una più vasta ascesa di un immaginario survivalista. Secondo Attimonelli il ricorso a

stilemi capaci di esaltare i tratti più vistosamente molli e decadenti quali l’usura dell’abito e le macchie, i buchi, i tagli negli indumenti, i bordi dell’abito che terminano in liminari contorni cenciosi, non vanno intesi come un nuovo decadentismo, né tanto meno come tracce che rinviano all’appartenenza a comunità marginali o vicine al piccolo crimine, bensì, in quanto manifestazioni di un afflato mondano esse incarnano la tragicità del quotidiano détournata in una sorta di disagio agiato. (p. 92)

La studiosa si sofferma anche sull’insistenza con cui viene fatto ricorso nella contemporaneità alla rappresentazione del cuore e del teschio. L’immagine del Sacro Cuore di Gesù – abitualmente posto al centro di una raggiera dorata con tanto di croce, corona alla sommità e intrecci di spine – viene introdotta in epoca barocca ma una volta disgiunta dalla tradizionale collocazione al centro del petto di Cristo, il Sacro Cuore diviene un feticcio a sé.

Dal punto di vista semiologico il trasferimento segnico-simbolico che ha visto il cuore nel corso dei secoli, da organo del corpo umano divenire rappresentazione di un sentimento potente quale l’amore (sia divino che terreno), ha avuto luogo a partire da un “residuo segnico non tradotto” […] un sovrappiù di significato, una sorta di pleonasma semiosico, […] un’eccedenza extra-anatomica, qualcosa che supera il mero organo vitale per espandersi placidamente insieme alla stessa estetica barocca. Ivi, infatti, troviamo un trionfo della significanza (la passione) sul significato (la vita viva) veicolato dal significante (il muscolo cardiaco). Una tale ridondanza semiosica si esprime attraverso la forma semplice e universalmente riconosciuta del cuore, laddove il colore rosso vivo e la collocazione al centro del petto coincidono con l’umanità e, per estensione, anche con i sentimenti connessi con la Vita. Seguendo questo filo rosso ritroviamo la rappresentazione cardiaca nella postmodernità. È il cuore fiammeggiante che gronda sangue, dai riflessi cromati e potenzialmente ammalato di carcinoma quello che oggi abita nelle ampollose ed enfatiche complex emoticon della rete e non più il simbolo scarno degli anni Ottanta né quello noto nelle scritte minimali delle t-shirt I love NY. Non è raro, infatti, rinvenire su schiene, braccia, nuca e polpacci, colorati tatuaggi che riportano il cuore trafitto dalla cui ferita sgorgano gocce lacrimose di sangue; talvolta il taglio della ferita cristiano – una breve linea rossa – diviene un occhio allorché alla misericordia del cuore palpitante di Cristo si associa l’illuminazione del Buddha. (p. 97)

Passando dalle danze macabre medievali, alle orrorifiche immagini barocche e alla sua versione più stilizzata novecentesca, il teschio è giunto sino ai nostri giorni e proprio grazie a questa sua evoluzione minimale, con il suo immaginario mortifero, è stato assorbito dall’industria della moda.

Il quotidiano si è connotato sempre di più di uno spettro immaginifico potente. Il subdolo addomesticamento del memento mori di hamletiana memoria si è insediato viralmente con la sua espressione di vacuità postumana e con la sua macabra onnipresenza ovunque, dalle t-shirt alle custodie per smartphone, soppiantando l’emanazione del terrore maligno che non riusciva più a esprimere la propria vocazione intimidatoria. […] Per la post-umanità del nuovo Millennio l’ordinario è l’anomico che può distinguersi, resistere. Dopo una pandemia che ha allontanato ogni essere umano dall’altro, mentre una marea di corpi si riversa in strada e lancia nelle acque torbide dei fiumi le statue del colonialismo americano, si avverte l’approssimarsi di un futuro che non deve costruirsi sul valore della sola cultura bianca occidentale: black lives matter. Il punk, il dandy, l’afrodark, sono le estetiche radicali del disagio ad alta implicazione segnica e sociale per quanto riguarda il genere, le relazioni interrazziali, i diritti. (pp. 104 e 112)

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Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze https://www.carmillaonline.com/2017/12/29/42201/ Thu, 28 Dec 2017 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42201 di Gioacchino Toni

Dopo essersi occupato – Clinica della TV (2015) [su Carmilla] – delle logiche e delle estetiche televisive che allontanano dalla comprensione della realtà, Carmine Castoro torna sul luogo dei delitti con il suo nuovo lavoro: Il sangue e lo schermo. Spettacolo dei delitti e del terrore Da Barbara D’Urso all’ISIS (Mimesis, 2017). In questo caso Castoro si preoccupa di «mettere in evidenza quel cuore malato dei media mainstream di oggi che di fantasmizzazione (assenza di storia), finzionalizzazione (assenza di realtà) e frammentazione (assenza di unità) hanno fatto i volani di una forma-flusso che fa [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo essersi occupato – Clinica della TV (2015) [su Carmilla] – delle logiche e delle estetiche televisive che allontanano dalla comprensione della realtà, Carmine Castoro torna sul luogo dei delitti con il suo nuovo lavoro: Il sangue e lo schermo. Spettacolo dei delitti e del terrore Da Barbara D’Urso all’ISIS (Mimesis, 2017). In questo caso Castoro si preoccupa di «mettere in evidenza quel cuore malato dei media mainstream di oggi che di fantasmizzazione (assenza di storia), finzionalizzazione (assenza di realtà) e frammentazione (assenza di unità) hanno fatto i volani di una forma-flusso che fa girare vorticosamente due ratio superiori: la fossilizzazione e la futilizzazione dell’essere umano nel suo tragico apparire, l’era glaciale di un eterno presente e l’irrilevanza di ogni sua manifestazione» (p. 17).

Fiumi di parole di esperti a proposito di disastri ambientali o stragi terroristiche, colate di bile anti-immigrati da parte di populisti a caccia di facile consenso, improvvisi allarmi medici che strizzano l’occhio alle multinazionali farmaceutiche, criminologi che con incredibile sicumera pontificano in ogni tipo di trasmissione, programmi d’informazione che insistono con loop di esecuzioni, liti finite nel sangue, cadaveri di cui pateticamente si maschera il volto al pari delle targhe automobilistiche dei vip… Gli schermi televisivi e del web grondano di Male in tutte le sue sfumature. Si tratta di un Male mediatizzato «astorico, vitreo, untuoso, travisato da una precisa congettura: che sia sbarazzabile e barattabile in quanto lembo lercio e putrefatto della nostra vita. Ed è così che circola come moneta sonante nel Sistema, rendendoci rispetto a esso […] solo dei “devianti” o degli “ovvianti”: gente pericolosa, o corpi fiaccati da tempi troppo veloci che però devono aggiustarsi come “si” vuole che “si” sia» (p. 18).

Di certo la paura è diventata una merce, e «anche per la paura, soprattutto per la paura e la malvagità, siamo dentro quella che Lipovetsky [Una felicità paradossale, Raffaello Cortina, 2007] ha battezzato come la fase III del capitalismo. Se la I era caratterizzata dall’inizio della produzione di massa, da oggetti di lusso ancora a preponderanza borghese, con la seconda si entra nella società dell’abbondanza, del desiderio, quella che consolida le marche e il packaging ma su vasta scala e per tutti, dove inizia a prevalere il funny, l’offerta seduttiva e tattile, giovanile, divertente, la logica-moda, gli oggetti-faro, l’ostentazione, la distinzione [Mentre] è nella III che si installa l’Homo Consumericus, intrappolato in una “economia di varietà e di reattività” dove la rimessa e l’assortimento delle merci è massimo, il retail è una garanzia, ma dove lo spirito del consumo attracca e mette tende in ogni ripostiglio, in ogni rimasuglio della vita, diventandone la concimazione, e dove si vagliano molto i tempi, la comunicazione, la soggettività, il conatus verso un certo prodotto, e il maremagno dell’esperienza è oggetto di sempre nuove passioni, tonificazioni, modellistiche, rivelazioni e rilevazioni. “Tutto accade come se, da ora in poi, il consumo funzionasse come un impero, senza tempi morti e senza confini”. La vita, de-simbolizzata, de-socializzata nei suoi legami comunitari forti, de-conflittualizzata si trasferisce armi e bagagli nelle sue effervescenze mediatiche, nel personalismo del mordi e fuggi, dell’usa e getta, nelle accelerazioni frenetiche di ciò che va comprato e sentito intimamente, nelle taglie su misura che di ogni bene e servizio – e stato dell’anima – la Grande Sartoria del Tele-Capitalismo sforbicia, abbozza, delinea» (pp. 12-13).

In tale terza fase del capitalismo, continua Castoro, la cultura si presenta come vero e proprio investimento finanziario obbligato a essere redditizio ed è in tale contesto che «la paura diventa un aggregatore di effetti, un pacemaker, uno dei tanti pneumotoraci che ci aiutano a inspirare, che ci fanno sentire vivi, e che fanno nelle nostre coscienze un baccano tintinnante di quattrini [e il] Male diventa, allora, un circuito parallelo, di modalità, di temporalità, di condizioni d’uso rispetto alla realtà: due linee che procedono all’infinito e che non si incontrano mai. Per questo diventa zimbello, suspense, aspettativa: meglio godersi il fotoromanzo a puntate del furfante di turno o del Man in Black che difende qualche loggia filo-governativa che pensare a sradicarne le fonti di alimentazione e diffusione. Il Male, dunque, soffice pagliericcio su cui si appoggia il Potere, sconfessato finanche dal nostro destino, si riduce a pulsantiera di opzioni pulp» (pp. 13-14).

Nulla deve rovinare al felicità di consumo del cittadino-telespettatore, pertanto è la miseria stessa a essere trasformata in intrattenimento. Se la prima polarità è indicata dallo studioso in Barbara D’Urso – «Mater Lacrimarum italiana per antonomasia, rappresentante più in vista e più costante nei suoi effetti tragicomici di quella “tv del dolore” che ha veramente subornato la nostra cognizione dei drammi umani negli ultimi anni» -, la seconda polarità indicata da Castoro è quella dell’ISIS. Tanto la star della tv del dolore, quanto la compagine fondamentalista dispensatrice di terrore, «sono, nei fatti, l’idea corrente di bene e di male che ci facciamo […] I padroni della videocrazia imperante rincorrono, con una banale iconografia della paura, attentati e calamità che non sanno illustrare – figurarsi prevenire – con un’adeguata informazione civica e poliedrica, e le cui manifestazioni più tremende preferiscono spalmare sul nulla di ore e ore di dirette costellate da racconti-routine, imbarazzanti opinionisti, imbarazzati inviati, cifre e probabilismi, videuzzi di reporter amatoriali trasmessi a go-go come se nella loro oscena ipervisibilità potessimo attingere le ragioni di una violenza che, invece, ancora sfuggono a molti. Si ripetono le solite etichette: tragedia immane, inferno, apocalisse, scenario inquietante, atmosfera irreale, “una triste pagina di storia che rimarrà nella nostra memoria”, immagini che si soffermano su barelle, feretri, gente disperata, familiari impotenti, soccorritori che si sentono male, senza che un bandolo arrivi mai a dipanare una matassa che resta ingarbugliata e autoreferente, dentro un’attesa che risulta ansiogena e stordente» (pp. 18-20).

Nei media mainstream contemporanei prevale una temporalità limitata all’istantaneo o votata al flusso inarrestabile, frammenti privi di storia o scorrimento magnetico ipnotizzante, choc verbali e/o visivi o colata priva di contenuti interessanti. Ciò che manca, sostiene Castoro, è «la temporalità “media”, quella dell’osservazione partecipata, della raffinazione delle emozioni, delle analisi complesse, dei punti di sintesi, delle letture allargate governate dalla serietà e dalla reale competenza di chi parla, e non dei soliti “vip” narcisi e mistificatori a microfono sempre aperto». Ma, soprattutto, continua lo studioso, «manca l’elemento “di fuga”, quello che dopo la comprensione ci spinga a una trasformazione democratica dell’esistente e a un upgrade etico e deontologico di tutti, in tutti i campi della vita pubblica e privata. Vorrei ignorare come funziona la gru che solleva le lamine d’acciaio accartocciato o il macchinario che le trincia – a Corato o in qualsiasi altro deragliamento – e sapere prima, molto prima, delle pastoie che arretrano verso frontiere medievali intere fette del nostro paese o del pianeta in cui ho avuto la sorte di nascere» (p. 21).

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Isis: il gran ballo in maschera della modernità globale https://www.carmillaonline.com/2017/07/11/isis-gran-ballo-maschera-della-modernita-globale/ Mon, 10 Jul 2017 22:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39287 di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del moderno, o piuttosto è il segnale di una insospettabile capacità di adattamento, alla modernità stessa? Certo bisognerebbe perimetrare due concetti inafferrabili e mutevoli: l’Islam (che come categoria astratta e meta-storica non esiste) e la Modernità (che è un cantiere concettuale sempre aperto e in perenne evoluzione). Ma l’argomento è affascinante e vale la pena entrarci, in una modalità che allarghi il discorso specialistico solitamente riservato agli storici, agli islamologi, agli antropologi.

Di solito, quando si parla dello Jhiadismo globale e del suo rapporto con la modernità, ci si sofferma sulla dimensione, morbosa ed efficacissima, della padronanza tecnologica dei media, che questa forza manifesta. Ci sorprende vedere tagliagole barbuti, fautori di arcaismi secolari, maneggiare la infosfera con tale efficacia hollywoodiana. I boia stringono in pugno il coltellaccio, ma in tasca hanno uno smartphone iperconnesso e rappresentano se stessi su riviste on line graficamente raffinate. Questo ci turba: perché associamo la tecnologia alla civiltà (o almeno a quel che supponiamo essa dovrebbe essere). Naturalmente basta volgere lo sguardo pochi decenni indietro, nel cuore della civilissima Europa infettata dal nazismo, per cogliere la medesima ambivalenza: un movimento propugnante valori parimenti arcaici, ma altrettanto disinvolto nel suo rapporto con la Tecnica, nell’epoca del pieno sviluppo della grande industria di massa e del capitalismo monopolistico di Stato. Anzi: in alcuni casi si può dire che più il campo valoriale è regressivo – e ostentatamente arcaico – più il rapporto con la tecnologia pare diventare ossessivo, quasi come se le due dimensioni si legittimassero a vicenda. Questo cortocircuito, rende confusi e circospetti: quello che ci viene raccontato come il nemico estremo, gioca nella nostra stessa metà campo, non è un alieno germinato nei deserti, condivide il nostro background e, quando può, il nostro stesso stile di vita sostanziale – essendo la comune dimensione bio-politica totalmente informata e forgiata da tempi e modi della tecnologia.

Ma il feeling di queste forme di radicalismo con la modernità è ancora più profondo ed evocativo, e va oltre le considerazioni circa l’uso dei media e del web.
L’Isis non è solo l’onda lunga di uno Jhiadismo globale che nasce 40 anni fa negli altipiani afghani con i dollari americani e i petroldollari sauditi. Rappresenta una evoluzione della specie, se così possiamo dire, di quel filone (da qui le rotture sanguinose con Al Qaeda e con i Talebani). L’approccio dell’Isis è inedito, più radicale e catartico, rispetto qualsiasi altra soggettività islamista mai apparsa nell’ultimo secolo: il progetto neo-califfale punta alla costruzione un “Homo Novus” islamico, provando a fare tabula rasa (non solo ideologicamente) di ogni passato, in una prassi di soppressione e cancellazione delle memorie pre-esistenti – comprese quelle islamiche locali. Dai complessi monumentali antichi – sopravvissuti per 1400 anni alle diverse autorità religiose succedutesi nel tempo -, fino alle tombe degli odiatissimi sufi, la furia distruttrice rivela qualcosa che va ben oltre l’iconoclastia. Si tratta di un’azione velleitaria e folle di “ricostruzione da zero” del Soggetto e della sua realtà: una qualche forma di titanica velleità prometeica, in cui un pugno di eletti, rifonda il corso storico e decreta, dal pulpito di una moschea, la nascita di un “musulmano nuovo” – che inevitabilmente richiama il mito dell’”uomo nuovo” che verrebbe partorito dalle macerie fumanti di ogni palingenesi, reale o presunta.

Questo schema, alle orecchie di noi occidentali, non suona propriamente inedito – è qualcosa che ha molto a che vedere con la Modernità (e con la Politica, sua figlia prediletta). Sono discorsi che evocano movenze e attriti che si sono già inverati, soprattutto nel corso del ventesimo secolo, e di cui siamo stati testimoni e protagonisti. L’idea della tabula rasa su cui ri-edificare, con la forza illuminata ( dalla Ragione o dalla Rivelazione, cambia poco) della volontà, un Mondo Nuovo e un Uomo Nuovo che lo abiti, è una suggestione profondamente radicata nella storia europea, nella NOSTRA storia, almeno dall’89 francese in poi. Il Mostro, l’estraneo, ha attinto largamente dal “nostro” armamentario ideologico, rovesciandone il segno e accelerandone, in una furia devastatrice, la fase del kathairo, dell’estirpazione, del fuoco purificatore.

La storia dell’Islam non conosceva questa ansia catartica.
Dopo il primo secolo di folgorante espansione, diventa a suo modo una storia di lentezza, di confini mobili e porosi, di perdite, riconquiste e sovrapposizioni di civiltà e culture che si succedono per secoli. Persino la predicazione profetica impiegò 26 anni a radicarsi. Le culture tradizionali (pre-moderne) avevano consapevolezza del tempo storico, dell’impossibilità di forzarlo.

Già nel corso del primo secolo, entrando in collisione con i residui degli imperi siriani e persiani, il baricentro del mondo islamico si sposta verso Damasco e Baghdad, assorbendone parte delle eredità millenarie. Si definisce il profilo storico di un islam “persiano” e metropolitano, lontano dai deserti e dalle rotte carovaniere della penisola arabica. E, proseguendo, nascerà un Islam mediterraneo, berbero-andaluso, poi afghano-indiano e quindi turco-caucasico.
Questi molti Islam plurali erano il prodotto di un meticciato profondo e di complesse stratificazioni. Il massiccio edificio coranico, apparentemente monolitico era in grado di fare i conti con la storia concreta dei popoli – dalla Spagna alla Cina – senza la pretesa di cancellarla e riscriverla in toto. Non c’erano modelli preconfezionati da importare o adottare: tutto – dalle forme di governo fino alla teologia – risultava essere il prodotto di infiniti processi di aggiustamento, conflitto e convivenza, che definivano assetti di volta in volta nuovi e diversi.

L’idea di un Islam immutato e immobile nei secoli è una scempiaggine moderna, che l’Occidente sbandiera come alibi e falsa coscienza: gli Islam sono sempre stati molti e diversi ed epoca dopo epoca, l’Occidente ha idealtipizzato uno di questi modelli, a seconda delle sue necessità politiche, di lotta, colonizzazione o cooptazione di settori di quel mondo.

La edificazione dello pseudo-Califfato dell’Isis, mostra una insospettabile consapevolezza, da parte dei gruppi dirigenti jhiadisti, delle tematiche della governance contemporanea. Non per niente, pezzi importanti del Bathismo (cioè dell’eredità pan-arabista, laica e modernista) vi hanno aderito con disinvoltura.
Lo stesso richiamo alla categoria di “Stato” che Daesh sbandiera nella sua denominazione, è una suggestione moderna e molto “occidentale”: l’Islam tradizionale, nel corso storico concreto, ha sempre prodotto la dimensione imperiale – che significa multietnicità, pluriconfessionalità, livelli diversi di potere che si equilibrano, tra Emirati, Città-Stato, comunità, confraternite. L’idea moderna di Stato, con un’architettura rigida, definita e non mediabile dei poteri, strumento di formidabile accelerazione dei processi storici, è un concetto estraneo alla tradizione islamica. L’Isis esalta il concetto di edificazione dello Stato proprio perché lo Stato è l’unico strumento possibile di governo della modernità – soprattutto nella sua razionale spietatezza. Tanto per capirci: il genocidio armeno è il biglietto da visita dei “giovani turchi” di Ataturk e uno degli atti di fondazione della moderna Turchia laica (il Sultanato, ostaggio impotente, sarebbe stato soppresso da lì a poco).
Il genocidio organizzato è il marchio di fabbrica dello Stato moderno e delle sue logiche di epurazione ed omogeneizzazione interna.

Questo è anche il filo conduttore della politica dell’autoproclamato Stato Islamico: ricostruire la Umma depurandola di tutti gli elementi spuri (quelli che disconoscono l’autorità califfale), dotare questo corpo finalmente omogeneo di confini ideologici e materiali insormontabili, costituirsi come fondazione di una storia nuova, dove tutto il tempo pregresso è jahillya, età dell’ignoranza da ripudiare.
È per legittimarsi modernamente come Stato, che l’Isis sbandiera le sue efferatezze (quelle che gli altri attori in campo di solito nascondono): il monopolio della violenza è l’unico elemento di “statualità” che possono giocarsi efficacemente davanti ai territori controllati e al mondo – mancando tutti gli altri, soprattutto quelli che possono avere un rapporto con una qualche idea di governo della polis. La legittimazione dell’Autorità politica e statuale, è direttamente proporzionale alla ferocia esibita. Il meccanismo di riconoscimento che vogliono stimolare nei popoli è in fondo semplice: se arrivano davvero a fare “questo” – decapitare, bruciare, squartare – ed hanno il coraggio di diffonderlo, vuol dire che incarnano davvero un Potere legittimo, perché solo un Potere legittimo può essere in grado di padroneggiare il Male e trasformarlo in virtù pubblica e Legge. Perché, altrimenti, i giacobini esibivano le teste mozzate davanti a tutta Europa – se non come fattore di auto-legittimazione, dentro il parto doloroso della modernità? E questo è stato il refrain di molte epopee rivoluzionarie: la nuova legalità ha bisogno della catarsi – ce lo chiede la storia…

La prassi e l’ideologia dell’Isis si mostrano quindi come prodotto ideologico di laboratorio (anche sofisticato) che, pur evocando le sacre radici della Tradizione, trova riscontro più che nella vicenda storica concreta dell’Islam, nelle convulsioni geopolitiche della tarda modernità, nelle sue accelerazioni, nella sue proteiche riconfigurazioni.

Oggi l’Isis viene raffigurato come l’emblema del Male e del Nemico Assoluto. Il nuovo feroce Saladino che legittima l’esistenza di formidabili apparati militari di contrasto, nonché la irreversibile militarizzazione della società e della metropoli.
Come paradossalmente spesso capita nella storia, però, cerchi il Nemico, cerchi l’Altro per eccellenza, il barbaro, il sub-umano, e trovi uno specchio che riflette una tua immagine distorta…

L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.

L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga.

Materialismo mercantile, immersione acritica nella Tecnica, utopie di rifondazione catartica dell’umano: più che una sopravvivenza anacronistica, queste forze sembrano una variante pienamente legittima della contemporaneità.

Del resto, è la la storia recente di questo universo pseudo-jhiadista , a rivelare se stesso. La Salafya – cioè l’insieme di scuole e tendenze che vorrebbero rifarsi esclusivamente ai costumi delle prime tre generazioni di musulmani – è una invenzione moderna, che ostenta tradizionalismi inventati. Rifiuta ed è rifiutata dalle quattro scuole legittime. Nasce e alligna dentro lo scontro geo-politico della fine del ventesimo secolo e per diffondersi ha avuto bisogno di decenni di enormi investimenti economici: masse di ulema-commissari politici, migliaia di moschee edificate ai quattro angoli del pianeta, la collaborazione logistica di molti apparati statali, compreso quello israeliano. I Salafiti “ufficiali” in larga parte rifiutano lo stragismo terrorista, ma molti musulmani dicono di loro che “sono un prodotto occidentale, come la Coca Cola”.

E se la Salafya è il frutto di un grande investimento geo-politico-strategico, stessa cosa vale per il suo fratello maggiore, il wahabismo – la dottrina ufficiale dell’Arabia saudita – che è parimenti il prodotto, moderno, del…. ciclo degli idrocarburi. Senza il petrolio, nessuno oggi conoscerebbe lo sciagurato estremismo di Abd al-Wahab, pazzo predicatore sconfitto e scacciato dalla penisola arabica tra la fine e l’inizio dei secoli diciottesimo e diciannovesimo. È solo la forza del mare di petrolio, su cui i discendenti dei Saud si ritroveranno seduti un secolo dopo, che ha consentito al wahabismo di diventare dottrina di Stato in buona parte delle monarchie del Golfo. E di produrre una sciagurata egemonia in territori e settori di mondo arabo, fino a pochi anni fa alieni a quella cultura. Lo Spirito, la predicazione, l’ortodossia e l’osservanza, c’entrano poco: la materialissima e modernissima forza del dio petrol-dollaro, disegna nel vuoto suggestioni iper tradizionaliste, gestisce fondazioni miliardarie, demolisce le tombe e le antiche vestigia del passato profetico e costruisce super alberghi a 5 stelle che fanno ombra alla Ka’ba. Materialismo, finanza, investimenti, guerre e posizionamenti sullo scacchiere internazionale – altro che sharia.

Insomma, cerchi i barbari alle porte e trovi che siamo tutti immersi nel medesimo imbarbarimento. E che esso riflette pienamente il presente e il futuro verso cui marciamo.

In conclusione, una domanda ritorna costantemente, con buona ragione: ma questo ciclo jhiadista, c’entra o non c’entra con la religione? È tutto politica, è tutto strumentalità, è tutto costruzione artificiale eterodiretta? La fede, sta all’inizio o alla fine, di questa catena di disastri che si squaderna davanti ai nostri occhi?
È difficile dare risposte semplici a problematiche tanto complesse, ma traslare la domanda su un altro piano, a noi più consueto, forse ci aiuta: le Crociate c’entravano o no con la religione?
Certo che c’entravano, sarebbe puerile negarlo. La croce e il mito della difesa dei Luoghi Sacri erano il fattore ideologico di mobilitazione per le masse e l’elemento di nobilitazione dell’impresa, mica una banale sovrastruttura. Però: le Crociate spontanee, quelle sollecitate dal fanatismo (le cosiddette Crociate dei pezzenti) non riuscirono mai neanche ad arrivare a Gerusalemme, vagarono senza mezzi per le contrade europee fino ai territori bizantini, si “limitarono” a saccheggi e pogrom antiebraici e poi furono disperse.
Le vere Crociate le organizzarono Papi, Imperatori, Re e Principi. Gli Stati.
Non qualche fanatico imbecille.

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